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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione VI
4.
Mercoledì 2 febbraio 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Ventucci Cosimo, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUI MERCATI DEGLI STRUMENTI FINANZIARI

Audizione di esperti del settore:

Ventucci Cosimo, Presidente ... 3 7 11 12 15 17
Fluvi Alberto (PD) ... 13
Italia Roberto, Partner di Cinven ... 3 15
Morri Stefano, Partner dello Studio legale Morri Cornelli e Associati ... 8 11 16

ALLEGATI:
Allegato 1: Documentazione consegnata dal dottor Roberto Italia, partner di Cinven ... 19
Allegato 2: Documentazione consegnata dall'avvocato Stefano Morri, partnerdello Studio legale Morri Cornelli e Associati ... 43
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Futuro e Libertà per l’Italia: FLI; Italia dei Valori: IdV; Iniziativa Responsabile (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): IR; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

[Avanti]
COMMISSIONE VI
FINANZE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 2 febbraio 2011


Pag. 3

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE COSIMO VENTUCCI

La seduta comincia alle 15,20.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di esperti del settore.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui mercati degli strumenti finanziari, l'audizione di esperti del settore.
Sono presenti il dottor Roberto Italia, partner di Cinven, l'avvocato Stefano Morri e il dottor Massimo Gabelli, dello studio legale Morri e associati.
Do la parola al dottor Roberto Italia.

ROBERTO ITALIA, Partner di Cinven. Grazie, signor presidente.
Nel mio intervento affronterò, in particolare, i temi del finanziamento delle imprese e del ruolo del private equity, avendo riguardo anche alle prospettive, vale a dire a ciò che si può fare sul fronte del private equity.
Premesso che Cinven è un investitore istituzionale con un portafoglio di circa trenta aziende e con fondi in gestione per circa 11 miliardi di euro, ricordo che abbiamo realizzato in Italia un investimento, piuttosto importante, nella Avio di Torino, rilevante, dal punto di vista dimensionale, anche per l'economia italiana, dal momento che la società ha circa 5.200 dipendenti e ricavi netti, nel 2009, di circa 1 miliardo e 700 milioni di euro (ha mantenuto una partecipazione nell'azienda anche Finmeccanica).
Ritengo interessante esporre alla Commissione il modo in cui un investitore del mio comparto, che vi descriverò in maniera abbastanza sommaria, guarda alle opportunità e alle sfide del mercato italiano.
Prima, però, è opportuno premettere alcune considerazioni concernenti le prospettive macroeconomiche.
La crescita del Paese è anemica, se non inesistente. Tra le dinamiche macro abbastanza evidenti vi sono la stabilità della popolazione e il crescente peso dei cosiddetti «inattivi». In tutta l'Europa, il peso degli inattivi, vale a dire di coloro che hanno più di 65 anni di età, passerà dal 12 al 30 per cento nel corso dei prossimi dieci anni. L'Italia risente di tale trend in maniera più pesante. Ciò determina un declino dei consumi pro capite, che è di tipo strutturale e congiunturale: strutturale, perché invecchiando si tende a spendere di meno; congiunturale, in quanto legato alla situazione di crisi che l'economia sta attraversando. La componente «C», che nella definizione del prodotto interno lordo identifica i consumi finali, è sicuramente la variabile più importante in un Paese come il nostro.
L'altra variabile chiave per creare prodotto interno lordo è sicuramente l'export. La capacità di export del nostro sistema è sotto pressione, per effetto della vituperata


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globalizzazione, che si traduce nell'arrivo sui mercati di una serie di operatori.
Il fattore che determina, purtroppo, l'attuale congiuntura è costituito dalla carenza di investimenti, che sono fondamentali per innescare le dinamiche di crescita. Sotto il profilo degli investimenti, pubblici e privati, l'Italia presenta un gap che ha caratterizzato l'ultimo decennio della nostra vita economica.
In generale, alla descritta configurazione macroeconomica si collegano una crescente complessità e un consequenziale, crescente rischio operativo sui mercati.
Tuttavia, il quadro non è del tutto negativo, come si può desumere osservando il contenuto della pagina 9 della presentazione che ho consegnato. L'Italia, rispetto ad altre economie, si caratterizza per un consistente e molto significativo stock di risparmio - quello delle nostre famiglie, accumulato nel tempo in virtù di un'elevatissima propensione al risparmio -, unitamente a continuativi e significativi flussi in entrata nel sistema pensionistico contributivo (su questo dato tornerò alla fine della relazione). Il sistema pensionistico italiano, a differenza di tanti altri appartenenti alle economie occidentali, è ben strutturato e ha una base molto solida.
L'altro aspetto vantaggioso dello stato patrimoniale del sistema Italia è che, per fortuna, le nostre famiglie, insieme a un'adeguata propensione al risparmio, hanno anche una forte riluttanza a indebitarsi: il livello dell'indebitamento medio delle famiglie italiane è pari a circa la metà di quello che si riscontra nell'Unione europea, senza considerare i mercati anglosassoni, dove l'indebitamento medio delle famiglie è ancora più elevato rispetto a quello medio europeo.
Una terza variabile positiva è rappresentata da un altissimo tasso di imprenditorialità, con numerosi esempi di successo. Dal 2000 al 2009, la quota mondiale dell'industria manifatturiera italiana è rimasta inalterata. Ciò significa che le aziende italiane hanno risposto positivamente alle spinte della globalizzazione. Purtroppo, anche se la quota di mercato è rimasta inalterata, si è ridotto il numero delle imprese, il che è indice di una certa mortalità.
Infine - questo è l'aspetto più rilevante per l'indagine conoscitiva -, sono molteplici gli esempi di successo nell'interazione degli imprenditori con il mercato dei capitali. Posso citare, a tale proposito, Luxottica, Brembo e Tod's: tre aziende quotate che continuano a macinare successo interagendo con il mercato dei capitali.
Partendo da questi spunti positivi, possiamo sviluppare alcune considerazioni attinenti alle prospettive microeconomiche, che hanno un rilievo maggiore ai fini dell'indagine conoscitiva.
Il sistema dell'impresa italiana è assai frammentato: ci sono 85.000 aziende con più di 20 dipendenti, mentre soltanto 3.500 ne hanno più di 250. Purtroppo - o per fortuna - queste 3.500 aziende sono quelle alle quali dobbiamo guardare per guidare l'economia, perché le altre, più piccole, forniscono beni e servizi al sistema delle aziende più grandi.
Questa frammentazione mal si concilia con un sistema in cui è in atto una transizione verso l'economia dei servizi, a più bassa produttività nella fase iniziale del processo evolutivo.
Peraltro, la crescente concorrenza globale impatta in maniera negativa sulla capacità di prezzo delle nostre aziende, la quale, a sua volta, si ripercuote sulla capacità di profitto e di generazione di cassa.
Purtroppo, siamo in una congiuntura in cui le spese di trasformazione, in particolare per la nostra industria manifatturiera, aumentano. I prezzi delle materie prime crescono, per effetto delle dinamiche in atto nei Paesi emergenti, mentre i costi dell'energia, come sappiamo, sono soggetti a fenomeni esogeni che non sono sotto il nostro controllo (basti pensare che il prezzo del petrolio è sopra i 100 dollari a barile).
Inoltre, è piuttosto scarsa, da almeno una decina d'anni, l'incidenza della spesa in ricerca e sviluppo. Al riguardo, penso sia sufficiente richiamare un articolo pubblicato da Il Sole 24 Ore di oggi, dal titolo


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«Italia bocciata per innovazione», che spiega in maniera chiara quale sia la situazione del nostro Paese.
A questo punto del discorso, non posso esimermi dall'esprimere una considerazione critica - non senza segnalare l'opportunità di incentivare l'investimento istituzionale in private equity - in ordine al modello culturale dell'impresa italiana, che sembra essere non pronto, e talvolta inadeguato, ad affrontare le sfide del mercato.
La propensione a fenomeni evasivi, evidenziatasi soprattutto in passato, ha portato gli imprenditori a tenere un profilo basso nei confronti del mercato e ad avversare la condivisione delle informazioni, che è condicio sine qua non, come sappiamo, per accedere al mercato dei capitali.
Inoltre, la crescita del sistema imprenditoriale italiano è stata inibita dalla marcata preferenza per l'indebitamento, in particolare bancario e a breve.
Da ultimo, una variabile culturale tutt'altro che banale è costituita dalla confusione tra proprietà e gestione.
In tale contesto, è evidente l'esigenza di rafforzare la base patrimoniale del sistema economico, sia perché gli attivi sono stati erosi dalla crisi, sia perché l'accesso al credito - come rilevato poc'anzi, questa è la principale fonte di finanziamento delle imprese - viene messo in crisi dal fenomeno del crowding out (i Governi, necessitando di finanziamento, raccolgono capitali che, altrimenti, potrebbero andare al sistema delle imprese) e dall'impatto delle nuove regole prudenziali elaborate dal Comitato di Basilea (Basilea 3), le quali ridurranno la capacità di finanziamento dell'economia da parte del sistema bancario.
D'altro canto, occorre prendere atto del ruolo limitato svolto nel sistema italiano dagli investitori istituzionali (praticamente, questa figura non esiste). Ce ne rendiamo conto analizzando i dati relativi alla partecipazione all'asfittico mercato dei capitali italiani, nel quale gli investitori istituzionali - che in Europa determinano due terzi dei flussi - hanno un peso inferiore a un quarto.
L'Italia ha bisogno dell'intervento dei capitali degli investitori istituzionali, ma il modello culturale delle nostre imprese non è adatto per rispondere alla sfida globale.
Che fare, dunque? Abbiamo bisogno di più equity, ma di un tipo speciale.
Il private equity è una nicchia molto piccola del settore dei servizi finanziari. Nei Paesi più evoluti, esso rappresenta circa il 2 per cento del prodotto interno lordo, ma in Italia soltanto lo 0,3 per cento, nonostante il nostro Paese faccia parte del G7.
In Italia ci sono circa 130 operatori, di cui soltanto il 25 per cento con fondi di provenienza internazionale (tra i quali Cinven).
All'inizio del 2011, c'è un portafoglio di circa mille aziende e una disponibilità all'investimento di circa 10 miliardi di euro. Ciò significa che il private equity può realizzare, in Italia, operazioni per un valore di circa 50-60 miliardi di euro (cifra tutt'altro che modesta).
L'elemento che caratterizza in maniera specifica il private equity è la prospettiva di medio-lungo termine. Gli operatori di private equity non sono speculatori, ma comprano le aziende e le rivendono dopo un certo periodo di tempo.
Un ulteriore elemento caratterizzante è l'allineamento nel modello di gestione dei capitali. In sostanza, il cliente che mi affida in gestione i suoi soldi sa che sono obbligato a investire anche i miei, poiché otterrò una remunerazione soltanto nella misura in cui guadagnerò dei soldi in suo nome e per suo conto. L'allineamento fa sì che effettivamente ci sia totale trasparenza tra il gestore e chi gli affida in gestione il proprio patrimonio.
La slide 15 è tecnica, ma interessante. I grafici confermano che il private equity è un modello più sostenibile rispetto ad altre modalità di investimento. Infatti, chi aveva comprato un'azione che, nel 2002, aveva avuto una performance eccezionale, comprando la stessa azione quattro anni dopo non aveva alcuna certezza di rendimento:


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poteva benissimo accadere che l'azione avesse un rendimento nettamente inferiore a quello di quattro anni prima. Il private equity, invece, è caratterizzato da una regolarità di performance e da un'attenuazione della volatilità, elementi che permettono a chi investe di avere aspettative di rendimento abbastanza prevedibili.
Non a caso, infatti, i tipici investitori in private equity sono i sistemi pensionistici, i quali hanno la necessità di effettuare investimenti con ritorni prevedibili.
Come si crea valore nel private equity? E perché si osserva una regolarità di performance? Il valore si crea lavorando sulle variabili industriali. Nel nostro caso, i ritorni economici provengono per almeno due terzi dalla crescita del fatturato delle aziende (a pagina 16 della presentazione sono indicate le singole variabili). Non dimentichiamo che abbiamo cominciato il discorso definendo anemica, o quasi inesistente, la crescita dell'economia italiana, nonché asfittici i mercati dei capitali nell'area dell'euro rispetto ai mercati anglosassoni.
Le fasi in cui si articola l'intervento del private equity sono descritte a pagina 17 della presentazione.
Il modello del private equity è estremamente trasparente. L'allineamento tra gli interessi dei clienti e quelli dei gestori, cui i primi affidano i propri capitali, si riflette anche nella vita delle aziende, attraverso una gestione particolarmente attiva a livello di consigli di amministrazione. Quello che in inglese si definisce «day to day» è un'azione di monitoraggio continuo, che possiamo svolgere efficacemente poiché occupiamo posizioni nei consigli di amministrazione delle aziende nelle quali investiamo, assumendoci le responsabilità del caso: non siamo capitali senza volto, ma capitali cui corrisponde una presenza negli organi di gestione delle imprese.
È importante capire che il private equity, come tutte le altre attività finanziarie poste in essere dagli investitori, ha un arco temporale circoscritto: si acquista in una certa data, per rivendere in un'altra. Naturalmente, ciò è noto, sin dall'inizio, a tutti i soggetti che interagiscono con un fondo di private equity.
Ritengo che il private equity, per le dinamiche che lo connotano, possa svolgere, nell'attuale fase congiunturale, una funzione importante. Infatti, esso alimenta l'industria e la creazione di valore aggiunto.
Passando all'esposizione delle possibili opportunità, il discorso può essere sviluppato in relazione alle tre aree di analisi che vengono in considerazione: imprese, capitali e incentivi.
Per quanto riguarda le nostre imprese, è necessario che siano stimolati i processi aggregativi. Come hanno già fatto altre economie - la Francia, ad esempio, sulla scorta del rapporto Pour une nouvelle politique industrielle, commissionato a Jean-Louis Beffa dal Presidente Chirac - bisogna individuare, innanzitutto, i settori chiave e gli indicatori di performance rappresentativi (crescita del fatturato, valore aggiunto che le aziende riescono a generare, ricerca e sviluppo, investimenti, posti di lavoro generati).
In base a tali indicatori, occorre quindi identificare, nell'ambito delle 3.500 aziende di cui ho già detto, alcuni campioni di performance. È necessario, altresì, un sistema di incentivi all'aggregazione (collegata alla performance industriale comparata), senza la quale non si può pensare di essere competitivi a livello globale.
Condicio sine qua non per l'aggregazione è la modifica dell'assetto proprietario, che deve essere accompagnato dal sistema regolatore e dal legislatore. Ovviamente, una volta ottenuta l'aggregazione, è necessario un monitoraggio dinamico della performance industriale.
Per quanto riguarda i capitali, la loro interazione con i mercati è, in Italia, molto laboriosa, a causa delle complessità burocratiche. Si pensi che, per quotare una società sul mercato dei capitali, si impiegano tre mesi, più che in tutti gli altri Paesi europei, mentre i costi sono due o tre volte superiori, a seconda che si faccia


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riferimento, rispettivamente, all'ammissione alla quotazione ovvero alla permanenza sul listino.
La semplificazione del processo di interazione dei capitali con i mercati passa, pertanto, attraverso la riduzione dei tempi e dei costi, l'elaborazione di modelli informativi predefiniti, per evitare che le imprese spendano tempo e risorse nella produzione di informazioni da interpretare, la definizione di modelli di governance aperti, contraddistinti da una scissione tra la proprietà e la gestione, ciascuna con i propri diritti. Inoltre, è assolutamente necessario ridurre le incertezze che caratterizzano il funzionamento della macchina della giustizia, assicurando la risoluzione rapida, e con esiti certi, di alcune controversie commerciali relative ad ambiti predefiniti.
La creazione di sistemi incentivanti rappresenta, probabilmente, il fattore più importante per fare in modo che i capitali utilizzati all'interno del sistema economico riescano a produrre crescita e ricchezza.
Da questo punto di vista, si potrebbe prevedere una fiscalità premiante a favore delle imprese che effettuino operazioni di patrimonializzazione mirate al recupero di competitività.
È auspicabile l'introduzione di incentivi fiscali anche a vantaggio degli investitori, graduandoli in relazione alla durata dell'investimento (a quello più lungo corrisponderà una tassazione più bassa), alla crescita e al miglioramento dei fondamentali dell'azienda partecipata (più l'investitore contribuisce, con i propri capitali, alla crescita e al miglioramento dei fondamentali dell'azienda, minore dovrebbe essere la tassazione), alla creazione di posti di lavoro, in particolare se mirati all'occupazione giovanile.
A quest'ultimo proposito, mi piace evidenziare che l'azienda torinese nella quale abbiamo investito ha stabilizzato a tempo indeterminato i lavoratori assunti con contratti a termine. Immaginavamo che anche altre società si sarebbero orientate nel medesimo senso, ma ciò non sembra essere avvenuto.
La fiscalità premiante può riguardare, altresì, il supporto alle imprese nell'accesso al mercato dei capitali. Si tratta di una forma di incentivazione che può essere tranquillamente ipotizzata nello scenario attuale, ove si tenga conto, da un lato, della ridotta incidenza, sull'ammontare delle entrate, del gettito derivante dall'imposizione sui redditi da capitale e, dall'altro, soprattutto nell'ottica dell'armonizzazione internazionale, del prevedibile incremento, nel tempo, della base imponibile.
Per quanto concerne il collegamento con il sistema pensionistico, esistono vincoli e barriere che ne ostacolano l'investimento nel private equity. Se si analizzano i patrimoni dei fondi pensione sorti nell'ultimo decennio, si noterà come la loro attività di investimento nel settore del private equity sia pressoché nulla. Per incentivarla, occorre adottare, quindi, dei modelli di allocazione del capitale in linea con standard internazionali.
Non si inventa nulla di nuovo: è sufficiente osservare come si comportano i fondi pensione in Canada, dove il sistema pensionistico era al collasso soltanto dodici anni fa. In particolare, il sistema pensionistico canadese, che è il più efficiente e il più efficace per i propri membri, alloca nell'equity e nel private equity circa il 25 per cento dei propri capitali, assicurandosi, in tal modo, rendimenti di tutto rispetto.
Questi ultimi rappresentano una variabile essenziale nell'ottica della tenuta del sistema pensionistico. Non dimentichiamo, infatti, che il numero dei pensionati, in Italia, supererà, tra 25 anni, quello dei lavoratori attivi.
Ringrazio i componenti la Commissione per il tempo che hanno voluto dedicarmi, confermando la mia disponibilità a rispondere a qualunque domanda anche telefonicamente, di persona, o tramite posta elettronica.

PRESIDENTE. Dottor Italia, ho rilevato con soddisfazione l'esistenza di molte analogie tra le considerazioni da lei svolte e quelle che hanno caratterizzato, nei giorni scorsi,


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il dibattito sulle mozioni concernenti iniziative di rilancio dell'economia e di sostegno alle piccole e medie imprese. In particolare, ho notato una corrispondenza tra le sue osservazioni e alcuni impegni di cui alla mozione Vignali n. 1-00550, che io stesso ho avuto occasione di illustrare nella seduta dell'Assemblea di lunedì scorso.
Do ora la parola all'avvocato Stefano Morri, dello studio legale Morri e Associati.

STEFANO MORRI, Partner dello Studio legale Morri Cornelli e Associati. Signor presidente, onorevoli deputati, poiché il mio compito è fornire un'informativa sul regime fiscale applicabile alle imprese che intendano quotarsi e agli investitori che ne sottoscrivono il capitale, il mio intervento sarà suddiviso in tre parti: dedicherò la prima a un'illustrazione sintetica della situazione attuale; nella seconda, affronterò il tema dei limiti derivanti dalla normativa comunitaria in materia di aiuti di Stato; nella terza parte, ipotizzata una soluzione compatibile con la predetta normativa, fornirò alla Commissione alcuni elementi di valutazione, che potranno essere utili ai fini dell'elaborazione di eventuali interventi agevolativi.
Penso che siano a tutti noti gi attuali livelli di pressione fiscale sulle imprese che si quotano e sugli investitori. Comparando la situazione italiana con quella internazionale, la tassazione sulle imprese si colloca in una fascia medio-alta. Può essere considerato buono, invece, il livello di tassazione sugli investitori.
Con specifico riferimento agli investimenti riguardanti le imprese piccole e medie che accedono alla quotazione, una questione di non poco conto è rappresentata dal trattamento delle minusvalenze: paradossalmente, mentre la tassazione delle plusvalenze può essere considerata un happy problem, il problema vero, per un investitore, è quello di ottenere dallo Stato una sorta di scudo, ossia la deducibilità fiscale delle minusvalenze.
Da questo punto di vista, devo dire, innanzitutto, che la legislazione è piuttosto carente. Riservandomi di tornare sul trattamento fiscale delle minusvalenze nel prosieguo, quando illustrerò alcune proposte, mi limito, per ora, a richiamare l'attenzione della Commissione sul fatto che il tema è alquanto negletto, non soltanto se si ha riguardo alla legislazione, ma anche se ci si sofferma, in particolare, sulle riflessioni che i tecnici del settore hanno dedicato alla materia degli incentivi fiscali per la quotazione delle PMI.
Pur essendo indubbio che un piano organico volto a stimolare la creazione di un mercato finanziario evoluto debba contemplare anche l'utilizzo della leva fiscale, occorre sfatare un mito: la leva fiscale non può assurgere a fattore atto a determinare, di per sé, i processi economici. Un simile fenomeno esulerebbe dalla corretta applicazione degli strumenti fiscali agevolativi, integrando una forma di elusione. Insomma, le imprese andrebbero in borsa per non pagare le tasse, e questo non sarebbe, evidentemente, un buon risultato.
La leva fiscale può servire - com'è avvenuto nel Regno Unito, in una certa fase dello sviluppo dell'AIM UK - ad abbassare il livello di problematicità della decisione di quotazione, tenuto alto, invece, sia dai ritardi culturali tipici del contesto italiano, di cui ha parlato il relatore che mi ha preceduto, sia dai costi di quotazione e di permanenza sul listino (particolarmente gravosi nel nostro Paese). La leva fiscale costituisce, dunque, un buon ausilio.
Tuttavia, il problema delle agevolazioni riguarda non soltanto le imprese, ma anche - e direi soprattutto - gli investitori.
Se vogliamo immaginare un pacchetto di aiuti fiscali, che dia consistenza a una sorta di terapia d'urto (ad esempio, è stata sottoposta alla Commissione l'idea di creare un fondo pubblico, capace di catalizzare l'attenzione degli investitori sulle imprese che decidono di quotarsi), dobbiamo confrontarci necessariamente con la legislazione europea, la quale pone numerosi problemi.
Il legislatore italiano è rimasto già scottato, nel decennio precedente, quando ha tentato di agevolare le imprese e gli


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investitori. Mi riferisco, in particolare, alla disciplina recata dall'articolo 11 del decreto-legge n. 269 del 2003, il quale prevedeva, a favore delle società le cui azioni fossero ammesse alla quotazione in un mercato regolamentato di uno Stato membro dell'Unione europea, l'applicazione di un'aliquota dell'imposta sul reddito ridotta al 20 per cento, fino a un ammontare complessivo di trenta milioni di euro, per il periodo d'imposta nel corso del quale era disposta l'ammissione alla quotazione e per i due periodi d'imposta successivi: ciò a condizione che le azioni delle predette società non fossero state precedentemente negoziate in un mercato regolamentato di uno Stato membro dell'Unione Europea e che le società effettuassero, al fine di ottenere l'ammissione alla quotazione, non il semplice collocamento delle azioni sul mercato, attraverso un'offerta pubblica di vendita (OPV), ma un'offerta pubblica di sottoscrizione (OPS) che desse luogo ad un incremento del patrimonio netto non inferiore al 15 per cento del patrimonio netto risultante dal bilancio relativo all'esercizio precedente a quello di inizio dell'offerta, al netto dell'utile di esercizio.
Si trattava di un'operazione congegnata abbastanza bene, che favoriva, indirettamente, l'acquisizione del cosiddetto «capitale per lo sviluppo». Tuttavia, la Commissione europea ritenne incompatibile con la normativa comunitaria concernente gli aiuti di Stato (articolo 87 del Trattato CE, ora articolo 107 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea) la ricordata disciplina di cui al citato articolo 11 del decreto-legge n. 269 del 2003.
Credo che la bocciatura del cosiddetto «premio di quotazione» da parte della Commissione europea abbia disincentivato il legislatore italiano a mettere nuovamente mano alla materia.
Sulla base di tale precedente, è chiaro che l'introduzione di misure agevolative richiede un'analisi molto attenta, finalizzata a individuare i canali attraverso i quali operare senza incorrere nella censura degli organi dell'Unione europea. Ad esempio, credo che sarebbe parimenti bocciato, in sede comunitaria, un intervento che proponesse sic et simpliciter una riduzione dell'aliquota, ovvero la banale deducibilità di certe spese in modo preferenziale.
La disciplina sugli aiuti di Stato contempla deroghe di due tipi: de iure e discrezionali. Non ricorrendo i presupposti per le deroghe de iure, si tratta di verificare quali interventi agevolativi, tra quelli astrattamente ipotizzabili, possano rientrare nell'ambito delle deroghe discrezionali, che si configurano, tra l'altro, quando l'agevolazione è collegata alla realizzazione di un importante progetto europeo.
Al riguardo, mi risulta che il tema del sostegno alle piccole e medie imprese nella realizzazione del loro potenziale di crescita faccia parte da tempo dell'agenda della Commissione europea. In particolare, il documento «Orientamenti comunitari in materia di aiuti di Stato destinati a promuovere gli investimenti in capitale di rischio alle PMI», del 18 agosto 2006, contiene importanti indicazioni, di cui si dovrà tenere conto, a mio avviso, quando si tratterà di definire eventuali misure agevolative.
Innanzitutto, le agevolazioni dovrebbero rivolgersi a società rispondenti ai requisiti previsti dalla normativa comunitaria, secondo la quale sono piccole e medie imprese quelle che occupano meno di 250 persone e il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di euro, oppure il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni di euro. Come rilevava il dottor Italia, si tratta di società che, pur non essendo leader dell'economia italiana, danno comunque vita a una realtà molto vivace, la quale potrebbe trarre dalla borsa i capitali necessari per compiere un passo decisivo verso una dimensione più significativa.
Naturalmente, le agevolazioni fiscali dovrebbero essere collegate, come nel 2003, all'immissione di capitali freschi, per favorire non la quotazione in sé, ma l'apporto nelle società di nuovi mezzi finanziari. Esse dovrebbero riguardare, quindi, le offerte pubbliche di sottoscrizione,


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relative ad azioni di nuova emissione. In caso di concomitanti offerte pubbliche di vendita, queste non dovrebbero superare una soglia minoritaria e, inoltre, non dovrebbero usufruire di agevolazioni. Sarebbe un errore, invece, immaginare di favorire le sole operazioni di quotazione in cui non siano contemplate offerte pubbliche di vendita. Infatti, più aumenta la rigidità della disciplina, più cresce il rischio che le operazioni non siano realizzate.
L'esempio che illustrerò è legato all'entità dell'aumento di capitale: le imprese sono agevolate se e nella misura in cui raccolgono nuovi capitali.
La prima condizione è che le agevolazioni abbiano un respiro ampio: quelle triennali non servono a nulla, in primo luogo perché i tempi della burocrazia sono enormi (per preparare e attuare una quotazione, occorre, in Italia, almeno un anno) e, in secondo luogo, perché il mercato deve rendersi conto che esiste la misura. Bisogna trasmettere l'idea di un programma che si sviluppi in una durata dai cinque ai dieci anni o, meglio ancora, dai sette ai dieci anni (ritengo che cinque anni sia la durata minima). Del resto, all'occorrenza, le norme che concedono le agevolazioni possono essere abrogate.
Occorre dare, comunque, l'idea di qualcosa di stabile, a disposizione di chiunque voglia pianificare una crescita della propria impresa fino alla quotazione. Ciò è molto importante non soltanto per l'imprenditore, ma anche per il fondo di private equity, il quale deve sapere, nel momento in cui fa l'investimento, che la borsa è realmente una way out, non tanto perché così si insegna nelle business school, quanto perché c'è un sistema che cresce, sospinto da agevolazioni fiscali di lunga durata.
Sotto un diverso profilo, un'agevolazione rivolta alle piccole e medie imprese, e legata al capitale di espansione, deve avere una durata sufficientemente ampia anche perché, in caso contrario, potrebbe essere considerata discriminatoria dagli organi comunitari, in quanto diretta a favorire soltanto le imprese in grado di beneficiarne in un determinato momento.
D'altra parte, dal punto di vista della compatibilità con il diritto comunitario degli interventi di cui stiamo discutendo, occorre tenere conto di un altro elemento. Probabilmente, anche a Bruxelles si ha la consapevolezza che non basta più, ad esempio, favorire l'economia verde piuttosto che gli investimenti in certi specifici settori. L'Italia sta subendo uno svantaggio competitivo importante, poiché la sottocapitalizzazione cronica delle nostre piccole imprese è diventata un problema sistemico. Consultando le statistiche, ci accorgiamo, infatti, che c'è uno squilibrio strutturale nel rapporto tra mezzi propri delle imprese e capitale di debito. È immaginabile, dunque, che anche la Commissione europea accetti l'adozione, da parte dell'Italia, di misure di sostegno fiscale volte a correggere l'evidenziata situazione di svantaggio rispetto ai nostri partner europei. Naturalmente, a va sans dire, ogni misura dovrebbe essere preventivamente negoziata.
Ho ritenuto di trattare in maniera più approfondita la questione degli aiuti di Stato - ulteriormente sviluppata nella documentazione predisposta per l'audizione - per non parlare, come si suole dire, di aria fritta: se mi limitassi a descrivere un sistema di fiscalità ideale, che però sarebbe bocciato da Bruxelles, farei sprecare alla Commissione il proprio tempo.
Con il dottor Gabelli, che mi accompagna, abbiamo immaginato un set di agevolazioni con determinate caratteristiche.
Il beneficiario è, in primo luogo, l'impresa che si quota.
L'agevolazione potrebbe essere costituita, in questo caso, dalla sottoposizione del rendimento figurativo del capitale di rischio immesso in sede di quotazione a un'aliquota IRES agevolata. Ad esempio, se nell'IPO l'impresa riesce a raccogliere venti milioni di euro, tale somma, dal punto di vista di chi ha investito, deve avere un certo rendimento. Lavorando nel settore, so che le attese di rendimento sono giustamente elevate, perché l'investimento


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in aziende di piccole dimensioni è estremamente rischioso (si dice che esso è «poco liquido»). Tra l'altro, poiché stiamo parlando di un mercato che non c'è ancora, il rischio di rimanere inchiodati su una posizione è molto forte. Ciò fa sì che l'attesa di rendimento sia molto alta: io la stimo tra il quindici e il venticinque per cento. Supponiamo, quindi, che i venti milioni di euro del nostro esempio debbano avere, idealmente, un rendimento del 20 per cento (corrispondente a quello medio tra il 15 e il 25 per cento), vale a dire 4 milioni di euro l'anno. Ebbene, questo rendimento figurativo dovrebbe essere espunto dal reddito prima delle imposte dell'impresa e tassato con un'aliquota ridotta, che potrebbe essere pari alla metà di quella corrente.
Mi sembra che una misura come quella ipotizzata possa essere accettata anche in sede comunitaria, siccome concessa in maniera non indiscriminata, ma in stretta connessione con l'acquisizione di capitale per lo sviluppo: presumibilmente, i capitali raccolti consentiranno alle imprese di crescere, di creare nuova occupazione, di migliorare la qualità dei loro prodotti e di espandersi anche sui mercati internazionali.

PRESIDENTE. I risultati da lei indicati saranno effettivamente conseguiti, o c'è il rischio che siano perseguiti scopi diversi da quelli sottesi alla concessione delle agevolazioni?

STEFANO MORRI, Partner dello Studio legale Morri Cornelli e Associati. Grazie della domanda, signor presidente.
Sappiamo che mercati come l'AIM Italia o il MAC non hanno funzionato perché non ci sono gli investitori: nessuno è disposto a rischiare sulle piccole e medie imprese. Infatti, soltanto una piccola quota del grande capitale internazionale è destinata a investimenti del tipo qui considerato, che potremmo definire «alternativo». Quando ciò avviene, a fronte dell'accresciuta possibilità di subire perdite, l'investitore cerca un rendimento importante: a un rischio alto, corrisponde un'elevata attesa di rendimento. Mettendomi, dunque, nei panni dell'investitore, riconosco un rendimento figurativo del capitale investito pari al 15-20 per cento, da assoggettare a un'aliquota ridotta.
L'obiezione che si potrebbe sollevare - e che lei ha sollevato, signor presidente - è la seguente: possiamo dare per certo che il capitale raccolto, con le connesse agevolazioni, sia impiegato dalle imprese per svilupparsi, per estendere la propria attività anche all'estero, per creare nuova occupazione, e via discorrendo, o è il caso di stabilire alcuni vincoli?
Ritengo che le imprese debbano essere libere di utilizzare quel rendimento come desiderino, dal momento che saranno comunque giudicate dal mercato. Se puntiamo a creare qualcosa che ancora non esiste, dobbiamo mettere in conto che ci imbatteremo anche nei truffatori e negli incapaci; alla fine, però, resteranno soltanto i validi, i forti, i seri, gli onesti.
È in re ipsa che un aumento di capitale, in un'impresa industriale, sia destinato allo sviluppo. È affare dell'imprenditore, poi, decidere in quali modi dovranno essere impiegate le somme raccolte. Stiamo puntando al grande obiettivo di avere, come succede nel Regno Unito, un certo numero di micro-imprese quotate: averne mille significherebbe cambiare il volto economico dell'Italia; significherebbe avere imprenditori dialoganti con gli investitori e non con le banche (in base a quello strano rapporto che si instaura tra imprenditore e banca); significherebbe dare agli imprenditori la responsabilità di far rendere, anche nel proprio interesse, il denaro che è stato loro affidato dagli investitori. Insomma, realizzeremmo una trasformazione che potrebbe essere paragonata al cambiamento di un ecosistema.
Mi permetto di dire che nutrirei perplessità di fronte a una normativa che riconoscesse l'agevolazione soltanto in cambio di determinate azioni.
Per quanto mi riguarda, do per scontato che un imprenditore non va in borsa se non per far crescere la propria azienda, per collocarsi meglio sul mercato, per migliorare i processi di produzione, per


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dilatare la penetrazione commerciale dei propri prodotti, per creare subsidiary all'estero e, quindi, per far crescere l'occupazione.
Il secondo livello d'intervento concerne gli investitori.
Anche in questo caso si pone un problema di aiuti di Stato. Tuttavia, in un pacchetto complessivo riguardante le imprese e gli investitori, l'accettazione, da parte degli organi comunitari, dell'assoggettamento ad aliquota IRES ridotta di una quota della raccolta, corrispondente a un determinato rendimento figurativo, dovrebbe comportare, per riflesso, l'accettazione anche dell'agevolazione a favore degli investitori. Si tratta, infatti, di due facce della stessa medaglia. In altre parole, sarebbe contraddittorio affermare la compatibilità con la normativa comunitaria del beneficio attribuito all'impresa con riferimento ai capitali raccolti e, nel contempo, negare la compatibilità con la medesima normativa dell'agevolazione da concedere ai soggetti che quei capitali hanno investito.
La prima agevolazione che immagino è legata all'immissione di capitale alla quotazione. Nella fase iniziale, poiché non c'è mercato, gli scambi saranno pochissimi. Inoltre, il rischio che si vada in quotazione con un prezzo di 1 euro e che questo, dopo tre mesi, scenda a 0,50 euro è altissimo. Proprio per questo, lo Stato dovrebbe metterci del suo, riconoscendo un credito d'imposta, una misura di deduzione figurativa: ad esempio, al soggetto che investisse un milione di euro dovrebbe essere riconosciuto un credito d'imposta di 50.000 o 100.000 euro, per invogliarlo all'investimento.
Poi, occorrono misure legate ai rendimenti, quali l'abbattimento della tassazione sui dividendi e - vi prego di notarlo - la possibilità di dedurre senza limiti le minusvalenze. Infatti, siccome i soldi si possono perdere, sarebbe una beffa subire la perdita e non avere diritto a dedurla dal reddito.
Paradossalmente, quindi, più che al regime di tassazione degli utili, riserverei maggiore attenzione alla questione della deduzione delle minusvalenze. Anche la tassazione degli utili è importante, ma l'investitore deve innanzitutto sapere che, se perde il denaro investito, potrà, se non altro, recuperarne una parte sotto forma di deduzione.
Per quanto riguarda il problema della copertura, posso citare il seguente dato: secondo uno studio effettuato da una società di consulenza, l'AIM UK ha contribuito al PIL del Regno Unito, in maniera diretta e indiretta, per 25 miliardi di sterline, agendo, altresì, da volano occupazionale capace di generare 250.000 posti di lavoro. Che si producano simili effetti sull'economia è agevolmente comprensibile, ove si consideri che le aziende capitalizzate, come ho già avuto modo di affermare, hanno la possibilità di svilupparsi e, di conseguenza, oltre a creare occupazione, alimentano il settore terziario (studi legali, società di consulenza e, in generale, tutto il mondo dei servizi che gravita intorno ad esse) e assumono il ruolo di volano della produzione di base imponibile.
Un aspetto da considerare - come suggeriva il collega - è quello della moralizzazione dell'economia, rispetto al quale la borsa può svolgere una funzione positiva. In altri termini, sebbene si siano verificati casi di truffe, anche gravi, l'imprenditore che va in borsa è generalmente molto accorto, poiché l'azienda non è soltanto sua, ma, in parte, anche di altri soggetti, ai quali egli deve rispondere dei risultati.
Ovviamente, l'imprenditore cerca di ottenere, soprattutto nel proprio interesse, il miglior risultato possibile, e ciò porta, ipso facto, all'emersione di una base imponibile che, altrimenti, resterebbe nascosta. Già il recupero di imposte evase o eluse sarebbe sufficiente, di per sé, a compensare quanto eventualmente perso per effetto delle misure che ho descritto.
Mi fermo qui, restando a disposizione dei presenti per eventuali domande.

PRESIDENTE. La ringrazio, avvocato Morri.


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Il suo intervento ha fatto nascere in me alcuni dubbi. Come ho ricordato in precedenza, abbiamo da poco affrontato, qui alla Camera, in occasione della discussione di alcune mozioni, le problematiche concernenti il rilancio dell'economia ed il sostegno alle piccole e medie imprese. Mi pare che il dottor Italia abbia fotografato la situazione, indicando soluzioni in parte analoghe a quelle prospettate dalle predette mozioni.
Premesso che diffido, in genere, dei paragoni tra il nostro ed altri Paesi, trovo improponibili, in particolare, quelli con il Regno Unito. La nostra situazione, la storia della nostra pubblica amministrazione e il nostro modo di amministrare nulla hanno a che vedere con quelli degli inglesi, dei tedeschi o dei francesi.
Definirei anomala la situazione che ha caratterizzato il 2010, se si pensa, da una parte, alle riforme economiche del Ventennio, a quello che è stato fatto durante la cosiddetta prima Repubblica e, dall'altra, all'attuale organizzazione degli organi comunitari, dove decidono tutto gli altri, perché la nostra rappresentanza ha un peso pressoché nullo (è una constatazione di fatto).
Poiché non voglio togliere spazio ai colleghi, non mi dilungo e cedo la parola ai deputati che vogliano intervenire per porre domande o per formulare osservazioni.

ALBERTO FLUVI. Ringrazio i nostri ospiti per la documentazione che hanno consegnato, la quale sarà oggetto, ovviamente, di attento esame da parte nostra.
Comincerei il mio intervento con alcune considerazioni, dalle quali deriveranno, in seguito, alcune domande.
La Commissione ha deliberato lo svolgimento dell'indagine conoscitiva sui mercati degli strumenti finanziari a seguito dell'allarme - possiamo definirlo così - lanciato la scorsa estate dal presidente della Consob, il quale, nel proprio Discorso al mercato finanziario, aveva tratteggiato un quadro non molto positivo del mercato azionario italiano.
Premesso che Borsa italiana Spa fa ormai parte di un network più ampio, potrebbe essere più facile, rispetto a qualche anno fa, dare risposta ad alcuni interrogativi. Ad esempio, sarebbe stato meglio, per Borsa italiana Spa, rimanere da sola, aggregarsi con il London Stock Exchange, mentre si perfezionava l'accordo tra Euronext e New York Stock Exchange, oppure concorrere alla creazione di un'unica, grande piazza finanziaria europea? A tale proposito, potremmo sviluppare una serie di interessanti osservazioni, ma il dato di fatto è, ormai, quello che tutti conosciamo.
Lasciando da parte temi sui quali non ha più senso soffermarsi, si sono quotate, nel 2010, soltanto due società, di cui una spin off di ENEL. Sono stati più numerosi, nello stesso periodo, i casi di delisting. Aggiungo una nota di colore, probabilmente non significativa, che dà, tuttavia, l'idea del clima che si respira: Prada non si è quotata a Milano, ma su un'altra piazza finanziaria. Non discuto la scelta della società, che è legittima, ma mi auguro che un altro grande marchio dell'industria italiana, Ferrari, voglia quotarsi alla borsa di Milano.
Insomma, la tesi che sto sostenendo è che la piazza finanziaria italiana stia perdendo appeal. Quali le motivazioni di tale perdita di appeal? Questa è una delle domande cui dovrà dare risposta l'indagine conoscitiva, all'esito della quale auspico che la Commissione possa approdare a una posizione comune, al fine di dare al Governo le indicazioni operative più appropriate per utilizzare al meglio il mercato dei capitali.
Dopo la fusione con Londra, abbiamo visto una crescita di Borsa italiana Spa, che tuttavia, negli ultimi due anni, è entrata in una fase calante. La domanda che pongo è la seguente: secondo la vostra esperienza, qual è il ruolo degli azionisti italiani? Voi sapete che circa il 15 per cento del London Stock Exchange è posseduto dalle banche italiane (ho sommato le loro quote). Quindi, vorrei sapere quale ruolo tale azionariato, considerato complessivamente, svolga per favorire lo sviluppo


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della piattaforma italiana. Ad esempio, se si ha riguardo alle piattaforme alternative, nate a seguito della MiFID, si nota che quelle inglesi stanno andando abbastanza bene, mentre quelle italiane stanno sostanzialmente naufragando. Si tratta di un effetto da imputare alla latitudine o alle scelte?
Passando a un'altra questione, sono state create, come sapete, due piattaforme orientate verso le imprese di minori dimensioni: una riservata agli investitori professionali; un'altra aperta anche agli investitori retail. Ciò nonostante, mentre ho sentito molte volte le associazioni di categoria delle imprese sollecitare il Governo a farsi promotore di accordi per la sospensione dei pagamenti e per l'allungamento dei finanziamenti contratti con le banche italiane, non so di richieste di agevolazioni per il ricorso al mercato dei capitali.
Un'altra questione riguarda il ruolo delle banche nel nostro Paese. Ce lo siamo detti tante volte: il nostro è un sistema bancocentrico, ovvero dipendente dalle banche.
In proposito, è significativa la vicenda dei fondi comuni di investimento, i quali fanno capo a SGR costituenti emanazioni di gruppi bancari. Uno studio di un paio d'anni fa, coordinato dalla Banca d'Italia - al quale partecipavano, tra gli altri, la Consob e il Ministero dell'economia e delle finanze - poneva anche la questione fiscale, evidenziando il differente trattamento fiscale tra i fondi comuni di diritto italiano e quelli esteri, ma sottolineava soprattutto la necessità di creare le cosiddette «muraglie cinesi» tra le società prodotto (le SGR, appunto) e i soggetti che controllano la distribuzione (le banche). Credo si sia capito quello che intendo dire.
Ebbene, la domanda è la seguente: com'è possibile attrarre verso il mercato dei capitali quell'ingente stock di risparmio che è presente nel nostro Paese?
Qualche anno fa, quando affrontammo il tema della previdenza integrativa, tenemmo conto di una duplice esigenza: integrare progressivamente la cosiddetta «gamba pubblica» con quella privata, per sopperire al progressivo indebolimento della prima, causato dell'andamento non favorevole della finanza pubblica; assicurare un sostegno all'economia, mediante l'utilizzazione delle ingenti risorse finanziarie affluenti ai fondi della previdenza integrativa.
Si tratta, dunque, soltanto di una questione fiscale, oppure c'è altro?
A mio avviso, l'aspetto fiscale è importante; tuttavia, poiché il livello di tassazione sulle rendite finanziarie è, da noi, tra i più bassi in Europa, deve esserci qualcos'altro che non funziona.
Spero abbia ragione l'amministratore delegato di Borsa italiana Spa, il quale, intervistato da Il Sole 24 Ore, qualche settimana fa, ha affermato che a causa di Basilea 3, o grazie ad essa, la borsa diventerà un canale essenziale nel finanziamento delle aziende (anche il dottor Italia ha fatto riferimento alla nuova regolamentazione in materia di requisiti patrimoniali delle banche e alle conseguenti difficoltà che queste avranno a finanziare il sistema economico). Poiché abbiamo programmato l'audizione di rappresentanti di Borsa italiana Spa, chiederemo delucidazioni in merito direttamente a Jerusalmi.
Se ho capito bene, avvocato Morri, lei propone l'introduzione di uno strumento agevolativo analogo alla DIT, una delle poche misure che favoriva la capitalizzazione delle imprese, segnatamente attraverso l'applicazione di un'aliquota di imposta ridotta alla parte degli utili corrispondente alla remunerazione ordinaria dell'incremento di capitale netto verificatosi nell'esercizio.
In conclusione, credo che dovremmo abituarci a ragionare guardando al sistema Italia non come vorremmo che fosse, ma com'è. Purtroppo, o per fortuna, non so, per un lungo periodo della storia di questo Paese (io vengo dalla Toscana), lo slogan «piccolo e bello» ha rappresentato una realtà imprenditoriale che ha gonfiato le vele dell'economia italiana, con i suoi pregi e i suoi difetti: da una parte, l'inventiva, la flessibilità, la capacità di adattarsi e di


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riuscire a incunearsi nelle nicchie produttive; dall'altra, la difficoltà a confrontarsi con i mercati internazionali.
L'interrogativo fondamentale, secondo me, è il seguente: come fare in modo che questo sistema, così com'è, possa giovarsi del ricorso al mercato dei capitali, ovviamente indirizzato dalle opportune politiche del Governo?
Non credo si tratti soltanto di una questione di incentivi fiscali, tanto per intendersi. Forse, conta molto il fattore culturale?
Comunque, credo che l'azionariato italiano nel London Stock Exchange dovrebbe distogliere lo sguardo dalle alte latitudini - nel caso specifico, dalla City londinese - e volgerlo un po' di più verso l'equatore: non risolveremmo i problemi della borsa italiana, ma c'è sicuramente una via di mezzo tra la situazione attuale e quella che, invece, potremmo raggiungere.

PRESIDENTE. Do la parola agli auditi per la replica.

ROBERTO ITALIA, Partner di Cinven. Condivido molte delle riflessioni dell'onorevole Fluvi.
Il termine che riassume bene le nostre difficoltà è «latitudine»: alla nostra, il modello culturale è refrattario all'apertura delle aziende al capitale di terzi.
Peraltro, alla refrattarietà si aggiunge un atteggiamento che richiama un'offerta turistica oggi molto in voga, il last minute: dopo che è scoppiato l'incendio, si chiamano i pompieri.
Questo atteggiamento è tipico di molti imprenditori, i quali, quando sono in difficoltà, non danno al sistema bancario le informazioni che consentirebbero a quest'ultimo di comprendere cosa stia avvenendo, se non quando la difficoltà si è già trasformata in vera e propria emergenza. A quel punto, le banche vanno nel panico, perché non dispongono degli strumenti operativi adatti a gestire l'emergenza, e l'incendio divampa in maniera irreparabile.
Un'impostazione più professionale, magari meno affine a quella abituale alla nostra latitudine, potrebbe consentire, compatibilmente con la logica secondo la quale small is beautiful - l'imprenditoria diffusa è un talento che va sfruttato -, di mettere a sistema lo stock di risparmio, nella misura in cui questo sia intermediato.
L'imprenditoria diffusa fa anche sì che, in Italia, ci sia la percentuale di day trader più elevata al mondo. Tanti artigiani si sono riciclati come day trader e giocano in borsa tutti i giorni. Si tratta di un'attività che è pura speculazione, non investimento.
Credo che, operando opportunamente, si possa far comprendere, con il tempo, la differenza tra l'investimento e la speculazione, giungendo a indirizzare i capitali in una certa direzione. Si deve intervenire, però, a monte, facendo accettare agli imprenditori l'idea di aprire le aziende al mercato dei capitali.
Mi rendo conto quotidianamente, svolgendo il mio lavoro, quanto sia difficile ottenere tale risultato. Dietro la parola «imprenditore» c'è una categoria complessa, che ha un ruolo sociale e un posizionamento specifico a livello locale. L'apertura al capitale di terzi, anche in virtù dell'atteggiamento, in precedenza segnalato, che si ispira alla filosofia del last minute, è vista dall'imprenditore come una sconfitta. Pochissimi si rendono conto che, aprendo al capitale di terzi, assicurano alle proprie aziende nuove opportunità di sviluppo.
Mi è capitato di conoscere, in occasione di un convegno, un imprenditore il quale, dopo aver venduto il 100 per cento di un'azienda, affermava di aver concluso un contratto di joint venture. Poiché, tecnicamente, la joint venture comporta la condivisione del capitale della società che dovrà realizzare il progetto comune, è evidente come la locuzione «cessione di azienda» non rientrasse nel vocabolario di quell'imprenditore. Questa è aneddotica, che riflette, tuttavia, una mentalità molto diffusa.
Si può intervenire su questo? Assolutamente sì. Ritengo, anzi, che si debba intervenire.


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La crisi ha fatto sì che molti imprenditori, i quali avevano accumulato parecchio fieno in cascina, come si suole dire, decidessero di tirare i remi in barca, ossia di non spingere più le loro aziende verso la crescita, perché là fuori, nel mercato globale, la situazione si era fatta, nel frattempo, troppo difficile.
Anche in conseguenza di tale atteggiamento l'economia nel suo complesso comincia a mostrare segni di debolezza. Quindi, non ci deve sorprendere che non vi sia crescita economica.
Incontro spesso imprenditori che mi dicono: quest'anno va male; vedremo cosa accadrà il prossimo anno. Invece, dovrebbero dire: se quest'anno qui va male, cerchiamo di capire se da qualche altra parte potrebbe andare meglio.
L'atteggiamento di molti imprenditori italiani, ovviamente non di tutti, dimostra - per fortuna, il discorso riguarda più il passato - che essi non avvertono la necessità di perseguire obiettivi di crescita. Gli impatti sociali di una simile impostazione sono sotto gli occhi di tutti: abbiamo la percentuale di disoccupazione giovanile più elevata d'Europa, con una presenza bassissima, nel mondo del lavoro, della popolazione tra i 45 e i 64 anni.
La situazione attuale è l'effetto del combinato disposto di due fattori: imprenditori pressoché immobili e un sistema pensionistico che consentiva a molti andare in pensione indipendentemente dall'età anagrafica. Era inevitabile che ciò comportasse un rallentamento netto della nostra economia.
Credo che i capitali, utilizzati in maniera intelligente, possano contribuire a modificare le cose. A tal fine, sono necessarie normative che favoriscano l'apertura delle imprese al mercato del capitale di rischio. Può darsi che tali normative non debbano fare perno necessariamente sugli incentivi fiscali; tuttavia, questi possono essere utili.

STEFANO MORRI, Partner dello Studio legale Morri Cornelli e Associati. Da fiscalista, sostengo che gli incentivi fiscali non bastano, come ho detto in precedenza. Essi sono il fluido che può permettere un movimento più agevole, ma non creano il movimento.
A mio avviso, un mercato dei capitali per le piccole e medie imprese non è mai decollato, in Italia, per la semplice ragione che, fino ad oggi, non ce n'è stato bisogno: la nostra imprenditoria, che è diversa da quella inglese, francese o tedesca - sono d'accordo con lei, signor presidente -, ha fatto senza, e anche abbastanza bene. Ho la sensazione, tuttavia, che tale modello, rivelatosi virtuoso, pur con tutti i suoi difetti, non funzioni più.
Non funziona più perché stanno venendo meno alcuni elementi anche esterni, di sistema.
Le banche, ad esempio, dovranno adeguarsi ai nuovi requisiti di capitale e, di conseguenza, dovranno attuare una politica di restrizione del credito. Naturalmente, le imprese ne risentiranno, dal momento che le loro passività sono nettamente sbilanciate a favore del finanziamento bancario.
D'altra parte, la concorrenza spietata esige il cambiamento del mix di prodotto offerto, l'innalzamento dei livelli qualitativi, la penetrazione in nuovi mercati, investimenti in hardware e, soprattutto, in personale qualificato.
Il mondo sta cambiando rapidamente, e si avverte una diffusa sensazione di debolezza.
Il problema è che l'economia, da sola, non ce la fa. Se, da élite politica o economica, auspichiamo di avere mille imprese di dimensioni medio-piccole quotate, ritenendo questo un obiettivo utile per l'Italia, dobbiamo anche prendere atto del fatto che queste mille imprese quotate non le avremo se non si metterà mano a un piano, anche di matrice pubblica, capace di indurre una mobilitazione molto forte (quasi una chiamata alle armi).
Siamo nella classica situazione, descritta dagli economisti, in cui il mercato, da solo, non ce la fa? Ebbene, mi è stato insegnato che, quando il mercato non ce la fa, deve intervenire il pubblico: se c'è un


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interesse pubblico economico superiore da tutelare, e il mercato non ce la fa, deve intervenire il pubblico.
In quale modo, dunque, bisognerebbe intervenire?
A mio avviso, basterebbe che ci fosse un fondo con una dotazione di due o tre miliardi di euro. Cosa saranno mai due o tre miliardi di euro paragonati al PIL italiano o allo stock di risparmio di cui parlava il dottor Italia? Stiamo parlando, praticamente, di poco più di niente.
Se due o tre miliardi di euro fossero investiti in modo non clientelare, ma efficiente, per fare da catalizzatori dell'investimento di altri operatori, allora, forse, qualcosa si smuoverebbe. Ci sono i capitali delle banche, delle assicurazioni, dei fondi pensione, i risparmi della vecchietta pensionata, dei risparmiatori in generale e degli imprenditori. In altre parole, i soldi in giro ci sono; il problema è che nessuno si fa carico di far partire la macchina.
Il Mercato alternativo del capitale (MAC) è fallito. Quando venivano nel mio studio a spiegarmene il funzionamento, osservavo: è interessante, ma pensate che la gente andrà in borsa soltanto perché togliete qualche regola di troppo?
Poiché faccio l'avvocato d'affari, sono certamente interessato a un mercato dei capitali in cui vi sia un numero di imprese superiore alle attuali trecento. L'anno scorso abbiamo avuto 15 delisting. Quindi, potete immaginare in quale situazione si trovino gli studi legali che svolgono la propria attività principalmente in questo settore: siamo disperati (per fortuna, ci occupiamo anche di altro).
In altri momenti storici, lo Stato è intervenuto: se intervenisse anche adesso, non ci vedrei alcunché di scandaloso.

PRESIDENTE. Ritengo che l'audizione odierna, estremamente importante, abbia consentito di acclarare ciò che già sapevamo.
Nel ringraziare il dottor Italia e l'avvocato Morri, desidero svolgere alcune brevi considerazioni, che introdurrò servendomi di un esempio.
In Italia, molti hanno fatto investimenti nel settore dei call center, stipulando contratti con lo Stato, che è il maggiore committente, ma anche con grandi aziende. Naturalmente, i corrispettivi sono stati rapportati ai costi sostenuti dagli imprenditori, i quali hanno fatto ricorso a personale giovane assunto con contratti di lavoro diversi da quello a tempo indeterminato.
In tal modo, i call center hanno creato un'area di precariato, ma hanno anche assicurato un'occupazione a tanti giovani. In simili casi, è evidente che un obbligo di stabilizzazione del precariato, facendo aumentare i costi a carico degli imprenditori, ma non i corrispettivi stabiliti nei contratti, determinerebbe uno squilibrio economico che avrebbe effetti devastanti per le imprese.
Allora, sono pienamente d'accordo con i nostri ospiti: abbiamo a che fare con un problema prima di tutto culturale.
Nel prenderne atto, non è che ci possiamo fermare allo «spirito del capitalismo», alla tendenza razionale dell'uomo al profitto sulla base del calcolo del capitale, oggetto della speculazione di Max Weber, il quale morì nel lontano 1920. Sarebbe opportuno aggiornare le nostre riflessioni in relazione a ciò che vediamo accadere nel presente.
Intervenendo in Assemblea, ieri, ho affermato che un numero così grande di piccole imprese (circa 4.300.000), le quali occupano da uno a dieci dipendenti, creano a noi difficoltà di gestione con le quali non si devono misurare, invece, altri Paesi nei quali non si è prodotto un fenomeno analogo (come Francia, Germania e Inghilterra).
Lo slogan «piccolo è bello» esprime, come rilevava l'onorevole Fluvi, una caratteristica sicuramente importante della nostra economia. Tuttavia, una struttura economica siffatta non è funzionale in un mercato globalizzato, soprattutto se il sostrato culturale delle nostre piccole e medie imprese è costituito dall'arte di arrangiarsi.
A proposito di mercato globale, le agenzie di stampa ci hanno informato, oggi, dei


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problemi che alcuni comportamenti stanno creando in Oriente. Ad Hong Kong, ad esempio, la popolazione residente non riesce più a reperire il latte in polvere, acquistato in grandi quantità dai cinesi, i quali non si fidano più di quello prodotto nel loro Paese. Quello del latte in polvere contenente melamina è un problema allarmante, che è diventato mondiale.
Tornando all'oggetto dell'audizione, ringrazio il dottor Italia e l'avvocato Morri per le proposte che hanno avanzato.
Credo che la cosa più importante da fare sia dare vita a una nuova cultura d'impresa in Italia. Lo Stato deve fare la sua parte, ma ricordiamoci che dobbiamo rispettare il Patto di stabilità e crescita e tenere i conti in ordine. Se i nostri padri, per far stare meglio la nostra generazione, hanno creato problemi alla generazione dei nostri figli, dobbiamo tenere conto dei loro errori.
Purtroppo, quando arriviamo alle conclusioni, siamo costretti a constatare, avvocato Morri, che non abbiamo i soldi necessari per fare ciò che vorremmo. Per quanto riguarda la proposta di istituire un fondo con una dotazione di due o tre miliardi di euro, stia pure certo, avvocato, che quando qualcuno, in Parlamento, la farà propria, qualcun altro si alzerà e chiederà per quale motivo quelle risorse dovrebbero essere impiegate in quel modo e non, invece, in un altro.
Cercheremo, comunque, di fare tesoro dei vostri suggerimenti.
Ringrazio ancora i nostri ospiti, anche per la documentazione consegnata, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta (vedi allegati), e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 16,40.

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