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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione VI
12.
Mercoledì 4 maggio 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Conte Gianfranco, Presidente ... 2

INDAGINE CONOSCITIVA SUI MERCATI DEGLI STRUMENTI FINANZIARI

Audizione del Vice direttore generale della Banca d'Italia, Giovanni Carosio:

Conte Gianfranco, Presidente ... 2 8 9 11 12 14 15 16
Barbato Francesco (IdV) ... 10
Carosio Giovanni, Vice direttore generale della Banca d'Italia ... 2 9 11 13 14 15
Fluvi Alberto (PD) ... 8

ALLEGATO:Documentazione consegnata dal Vice direttore generale della Banca d'Italia ... 17
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Iniziativa Responsabile (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): IR; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

[Avanti]
COMMISSIONE VI
FINANZE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 4 maggio 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANFRANCO CONTE

La seduta comincia alle 14,30.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del Vice direttore generale della Banca d'Italia, Giovanni Carosio.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui mercati degli strumenti finanziari, l'audizione del Vice direttore generale della Banca d'Italia, Giovanni Carosio.
Il dottor Carosio è accompagnato dal dottor Giorgio Gobbi, direttore del servizio studi di struttura economica e finanziaria.
Con l'audizione odierna ci avviciniamo alla conclusione dell'indagine conoscitiva, che si rivela sempre più interessante.
Dottor Carosio, poiché immagino che lei abbia già avuto modo di informarsi in merito alle questioni trattate nelle precedenti audizioni, posso senz'altro chiederle di far conoscere alla Commissione la posizione della Banca d'Italia riguardo alla situazione dei mercati degli strumenti finanziari.
Le do quindi la parola per lo svolgimento della relazione.

GIOVANNI CAROSIO, Vice direttore generale della Banca d'Italia. Grazie, signor presidente.
Come lei ricordava, l'indagine conoscitiva è estremamente interessante, perché consente di approfondire alcuni problemi, purtroppo esistenti da lunghissimo tempo, per i quali non si intravedono facili soluzioni. È giusto, quindi, che su tali questioni si indirizzino gli sforzi riformatori delle forze politiche.
Comincerei col fornire alcune informazioni sulla fase congiunturale in cui ci troviamo.
La situazione attuale è caratterizzata da luci e ombre: siamo all'uscita dalla crisi, a una svolta importante, ma la ripresa che si sta manifestando è ancora piuttosto fragile. In particolare, il tasso di crescita dell'economia italiana continua a rimanere più basso di quello degli altri Paesi europei. Si tratta di una crescita in gran parte trainata dalla domanda estera.
La dimensione modesta di questa fase di ripresa del ciclo economico si riflette sulla già fragile situazione finanziaria delle imprese. Hanno agito come fattori attenuanti la politica monetaria espansiva condotta in questi anni e i tassi di interesse estremamente bassi, che hanno contenuto il peso degli oneri finanziari per le imprese.


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Nell'anno appena trascorso la crescita dei prestiti è stata bassa (1 per cento), ma comunque significativa, in quanto nell'anno precedente si era registrata una contrazione del 3 per cento. La crescita è diventata più sostenuta nella prima parte dell'anno in corso, attestandosi al 3,3 per cento negli ultimi dodici mesi fino a marzo.
Continua, d'altra parte, l'emersione di sofferenze sui finanziamenti bancari, con un naturale ritardo nel manifestarsi del fenomeno rispetto all'andamento del ciclo economico. Nel 2010, l'incidenza percentuale delle sofferenze rispetto al totale dei crediti è ritornata a un livello del 2,5 per cento, non tanto alto in un confronto storico di lungo periodo, ma comunque pari a quello più alto manifestatosi durante la crisi.
Altri indicatori simili, relativi ai finanziamenti bancari, convergono nel delineare una situazione tuttora condizionata dagli effetti della significativa recessione che abbiamo attraversato. Com'è normale aspettarsi, le imprese che subiscono maggiormente l'impatto della descritta situazione sono quelle che hanno una struttura finanziaria più squilibrata e, in particolare, un elevato indebitamento, soprattutto a breve termine.
Si pone, pertanto, l'esigenza di un riequilibrio della struttura dei bilanci delle imprese. Come ho affermato all'inizio, si tratta di un problema di lungo periodo, che in questa fase congiunturale risulta, tuttavia, ancora più determinante per rilanciare l'economia.
Passerei ad illustrare alcuni dati sulla struttura finanziaria delle imprese italiane. Poiché la questione è stata ampiamente trattata, le caratteristiche principali sono note. Cercherò di concentrare l'attenzione, quindi, su alcune informazioni concernenti gli aspetti più critici della situazione delle imprese italiane.
Il punto di partenza è quello della bassa capitalizzazione. Il valore della capitalizzazione di borsa delle nostre imprese non finanziarie è pari al 19 per cento del prodotto interno lordo, a fronte del 38 per cento in Germania e del 59 per cento in Francia. Registrano valori significativamente più alti, rispetto ai nostri, altri Paesi dell'Europa continentale nei quali il ricorso ai mercati finanziari non risulta particolarmente elevato in confronto all'indebitamento bancario.
Un altro dato piuttosto sconfortante è il numero delle imprese quotate, aumentato nell'ultimo decennio in misura veramente modesta: secondo gli ultimi dati, le imprese quotate sono 291, mentre dieci anni fa erano 276.
La dipendenza dal credito bancario delle imprese italiane è un altro degli aspetti da segnalare. Il confronto con i Paesi anglosassoni è particolarmente indicativo, ma la situazione italiana è peggiore anche se messa a confronto con quella dei Paesi dell'Europa continentale.
Vale la pena di citare un solo dato: il peso delle obbligazioni sui debiti finanziari delle imprese italiane è dell'8 per cento, mentre è del 24 per cento nel Regno Unito e del 44 per cento negli Stati Uniti.
In proposito occorre rilevare, tuttavia, che l'incidenza della raccolta obbligazionaria sul totale dei debiti finanziari delle imprese italiane sembra essere significativamente collegata alla quotazione. A livello aggregato, il peso delle obbligazioni sui debiti finanziari è veramente minimale. Ove si considerino, invece, le sole imprese quotate, il rapporto tra obbligazioni e debiti finanziari è del 40 per cento, come in Germania, mentre è del 45 per cento in Francia e nei Paesi Bassi.
L'anomalia italiana non sta, quindi, nello scarso ricorso allo strumento obbligazionario da parte delle imprese quotate, ma nel fatto che il numero di queste ultime è più basso.
Un aspetto che influenza la struttura finanziaria delle imprese italiane è quello dimensionale. Sappiamo che la percentuale di imprese molto piccole è assai più alta che altrove, ma è importante notare che, mentre in tutti i Paesi le piccole imprese fanno ricorso al credito bancario anziché ai mercati dei capitali - essenzialmente, a causa dei costi da sopportare per l'ammissione alla quotazione e per la permanenza sul listino -, la percentuale


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di imprese quotate è particolarmente bassa in Italia anche a parità di dimensioni.
Ciò mette in luce il vero problema. In Italia, sono circa 2.000 le imprese classificate come medie. In Francia, alla stessa classe dimensionale appartiene un numero di imprese più alto del 20 per cento. Sebbene la differenza non sia stratosferica, il numero delle imprese medie quotate in Francia è cinque volte superiore al numero di quelle quotate in Italia.
È da tempo che ci si interroga sui motivi della scarsa propensione alla quotazione delle imprese italiane.
Tra le cause del fenomeno viene indicato, in primo luogo, l'atteggiamento dei proprietari delle imprese. Che la scarsa propensione ad aprirsi al mercato sia strettamente connessa all'esistenza di una percentuale di imprese a conduzione familiare particolarmente alta è un dato noto. Non è questa, tuttavia, la sola differenza tra l'Italia e gli altri Paesi. Tra le imprese italiane a conduzione familiare è molto più alta la percentuale di quelle che hanno un management interamente costituito dai membri della famiglia proprietaria. Invece, negli altri Paesi in cui le imprese a conduzione familiare sono diffuse - ad esempio, in Francia - si ricorre molto di più a manager esterni.
Una seconda area di fattori rilevanti riguarda i costi diretti e indiretti per accedere ai mercati, tema che, come ho avuto modo di rilevare dalle trascrizioni delle precedenti audizioni, è stato ampiamente discusso.
Al riguardo, mi sembra di poter commentare che, se consideriamo i costi diretti della quotazione, i nostri non sono particolarmente più alti di quelli degli altri Paesi. È più complessa, invece, la valutazione relativa ai costi indiretti.
Esiste, in Italia come altrove, a seconda del tipo di mercato cui si accede, una differenziazione nella quantità di informazioni che le imprese sono tenute a fornire. Per questa ragione sono stati istituiti segmenti di mercato con oneri informativi più limitati, quali il MAC e l'AIM Italia (quest'ultimo sul modello dell'AIM UK).
Il numero delle imprese quotate sul MAC e sull'AIM Italia è alquanto contenuto - dieci o undici imprese in ciascuno di essi -, ma l'esperienza degli altri Paesi dimostra che occorre un tempo piuttosto lungo prima che tali mercati si affermino. L'AIM UK, ad esempio, conta oggi oltre 1.000 imprese quotate, ma nei primi due anni dopo la sua istituzione il numero delle società quotate non aveva superato le 25 unità.
In proposito, è lecito domandarsi, piuttosto, se sia utile avere due diverse strutture che perseguono fondamentalmente, pur con alcune differenze, lo stesso obiettivo.
Infine, il terzo insieme di fattori che limitano la crescita del mercato dei capitali risiede nella scarsa appetibilità delle nostre imprese per gli investitori. Questo problema è ancora più drammatico e difficile da risolvere rispetto agli altri finora menzionati.
È chiaro che la quotazione in borsa presenta vantaggi soprattutto per le imprese che hanno un potenziale di crescita e di redditività particolarmente alto. Ciò accade raramente nel caso delle imprese italiane, le quali sono contraddistinte da una redditività operativa mediamente inferiore a quella delle imprese straniere. Incidono, da questo punto di vista, non soltanto il più elevato peso degli oneri finanziari, ma anche fattori che riguardano l'intero sistema economico, come la contenuta dinamica della produttività e, più in generale, il fatto che la nostra crescita economica sia stata modesta per un periodo di tempo piuttosto lungo.
A fronte degli indicati fattori condizionanti esisterebbe, in linea di principio, la possibilità di sbloccare la situazione attraverso l'azione del private equity, cioè di intermediari specializzati nello scegliere imprese con un potenziale alto, ivi comprese quelle giovani e innovative, da alimentare con capitali freschi, da portare, eventualmente, alla quotazione in borsa.
Ancora una volta, tuttavia, la situazione italiana sembrerebbe connotata da luci e ombre. Infatti, il mercato rimane sostanzialmente modesto. Ciò nonostante, in termini


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di sviluppo, i dati sono significativi. Tra il 2000 e il 2010, il numero degli operatori di private equity presenti sul mercato italiano è passato da 84 a 188; nello stesso periodo, l'attivo dei fondi di private equity gestiti da SGR è cresciuto da 580 milioni di euro a 5,8 miliardi di euro. Tuttavia, l'espansione maggiore ha riguardato le operazioni di leveraged buyout anziché quelle di early stage e di expansion.
Un aspetto senz'altro positivo consiste nel fatto, empiricamente rilevato, che una quota significativa delle imprese quotatesi in Italia negli anni più recenti si è avvalsa, prima della quotazione, dell'apporto di fondi di private equity. Il meccanismo, quindi, sembra funzionare, ma il comparto è caratterizzato da un livello di sviluppo ancora modesto.
A questo punto, occorre soffermarsi brevemente sull'importanza dello sviluppo del mercato dei capitali dal punto di vista degli investitori. Si pone, infatti, un problema di bassa efficienza dei portafogli dei risparmiatori italiani. In particolare, se verifichiamo la composizione di tali portafogli, emergono differenze significative rispetto agli altri Paesi.
In Italia, la percentuale degli investimenti in quote di fondi comuni, in strumenti assicurativi e in fondi pensione è del 24 per cento, contro il 47 per cento in Francia, il 46 per cento in Germania e il 57 per cento nel Regno Unito. Ciò rappresenta un problema di non poco conto, perché la maggioranza dei risparmiatori, non disponendo di competenze professionali adeguate, dovrebbe rivolgersi ai mercati finanziari proprio attraverso gli investitori istituzionali, i quali hanno la capacità di selezionare e diversificare gli investimenti. Per contro, è relativamente alta la quota degli investimenti delle famiglie in strumenti molto liquidi e poco rischiosi, ma anche a bassissima redditività.
Il fatto che non sia sufficientemente sviluppato l'investimento attraverso gli investitori istituzionali deprime il livello di professionalità nella gestione del risparmio.
Il volume contenuto delle risorse amministrate dagli investitori istituzionali in Italia è il risultato della combinazione della drastica riduzione delle attività dei fondi comuni nell'ultimo decennio e del ritardo nello sviluppo della previdenza complementare.
Le principali cause del declino dell'industria dei fondi comuni sono state identificate nella più stringente regolamentazione in materia di trasparenza, negli svantaggi di natura fiscale e nella struttura delle reti distributive.
Le cosiddette asimmetrie regolamentari in materia di trasparenza informativa tra i fondi comuni e altri prodotti finanziari, quali le obbligazioni strutturate e le polizze vita, sono state sostanzialmente eliminate dalla Consob.
Gli svantaggi di natura fiscale sono stati in parte eliminati dall'articolo 2, comma 62 e seguenti, del decreto-legge n. 225 del 2010.
I problemi legati alla struttura delle reti distributive sono riconducibili al ruolo preponderante degli intermediari finanziari, in particolare delle banche, nella distribuzione dei prodotti. Su questo punto è intervenuta la Banca d'Italia, la quale ha emanato disposizioni di vigilanza volte a garantire il massimo livello possibile di indipendenza dei gestori dei fondi comuni rispetto ai gruppi bancari di appartenenza. Le predette disposizioni contengono, altresì, previsioni in materia di risorse finanziarie che devono essere assicurate alle SGR, criteri di remunerazione delle reti, collocazione organizzativa delle SGR nel gruppo e adozione delle migliori prassi di governo societario.
È ancora presto per valutare l'efficacia dei suddetti provvedimenti. In linea di principio, essi dovrebbero contribuire alla ripresa del settore.
Il comparto dei fondi pensione è un problema ancora più delicato. In termini legislativi, la previdenza complementare è stata definita, ma il suo sviluppo è, in termini quantitativi, assai modesto. Alla fine del 2010, il tasso di adesione tra i lavoratori era pari a circa il 22 per cento, mentre le risorse gestite dalle varie forme


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pensionistiche complementari rappresentavano un po' più del 4 per cento del PIL. In Italia, i fondi pensione costituiscono circa l'1 per cento delle attività finanziarie delle famiglie, contro il 13 per cento in Germania e il 27 per cento negli Stati Uniti.
Emerge, quindi, un problema di scarsa adesione a quello che dovrebbe essere uno dei pilastri del funzionamento di un sistema moderno di mercati finanziari. Ciò dipende, in parte, dalla relativa giovinezza del settore e, quindi, dal fatto che esso non ha avuto ancora il tempo per consolidarsi e per raggiungere dimensioni significative. Proprio le dimensioni costituiscono, in questo campo, un aspetto cruciale, in quanto la diversificazione degli investimenti e l'attività di ricerca, che è necessaria, sono attuabili soltanto se i volumi trattati sono adeguati. Probabilmente, la limitatezza delle risorse a disposizione induce i gestori dei fondi ad adottare atteggiamenti particolarmente prudenti, che a loro volta finiscono per limitare l'efficienza dei portafogli.
Il basso tasso di adesione ai fondi pensione è ascrivibile, in parte, alla scarsa conoscenza delle regole previdenziali da parte dei potenziali aderenti. Si pone, anche da questo punto di vista, un problema di mancanza di informazione. Poiché i lavoratori giovani sottostimano l'importanza di una forma di previdenza complementare, sarebbe utile un investimento del settore pubblico volto a modificare tale atteggiamento.
Veniamo alle prospettive. Tra gli aspetti senz'altro positivi, sotto il profilo delle condizioni indispensabili per lo sviluppo del mercato, c'è quella che possiamo chiamare l'infrastruttura legale del sistema finanziario. Da questo punto di vista, i progressi sono stati significativi. Ad esempio, il quadro istituzionale della corporate governance delle società quotate e delle procedure fallimentari appare sostanzialmente allineato ai migliori standard internazionali.
Tra le iniziative per stimolare ulteriormente lo sviluppo del mercato, la prima che viene in mente è quella di utilizzare la leva fiscale. Attualmente, dopo la riforma varata nel 2008, l'aliquota legale (comprensiva dell'IRAP) dell'imposta sulle imprese si colloca, in Italia, su un livello non diverso da quello medio degli altri Paesi.
Da questo punto di vista, l'effetto di scoraggiamento all'accumulazione di capitale interno, rispetto all'indebitamento esterno, non è particolarmente forte.
Si potrebbe pensare, tuttavia, di agire sugli incentivi relativi alle due forme di alimentazione del capitale e di ridurre l'incidenza della tassazione sugli utili mantenuti all'interno dell'impresa, favorendo l'autofinanziamento e la crescita del patrimonio proprio.
Un secondo canale per aiutare la crescita e il rafforzamento patrimoniale delle imprese è l'industria del private equity. Esiste un numero non esiguo di operatori privati, ma anche in questo caso si può ipotizzare un contributo del settore pubblico, finalizzato a incrementare i volumi e a rafforzare il ruolo nell'economia di tale comparto.
In altri Paesi - quelli più spesso citati sono Israele e Singapore -, il connubio tra pubblico e privato ha prodotto successi notevoli, conseguiti mediante l'azione di fondi che hanno investito in imprese nella fase di avvio della loro attività. I casi di successo esaminati indicano che l'attivazione di tale leva non può prescindere dalla presenza di alcuni requisiti. In particolare, gli incentivi devono essere correttamente allineati sia nella fase di selezione degli investimenti, sia in quella di gestione. Inoltre, le iniziative devono avere un orizzonte temporale lungo. Se l'obiettivo è quello di modificare l'atteggiamento degli imprenditori da un lato, e quello degli investitori dall'altro, è chiaro che occorre agire su prospettive di lungo periodo.
Più specificamente, uno dei problemi che bisognerebbe superare è quello della insufficiente continuità e stabilità degli interventi. In Italia, sono state promosse, in passato, numerose iniziative volte alla creazione di fondi di investimento aventi una dotazione di capitale iniziale proveniente dallo Stato. Tuttavia, la storia di tali


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fondi non è univoca, ma segnata da successi e insuccessi. Uno degli aspetti da prendere in considerazione è l'esistenza, probabilmente, di un problema di massa critica, che non viene raggiunta quando le iniziative sono molteplici e frazionate. Sotto il profilo della stabilità, si assiste spesso a iniziative che non si sviluppano e che sono sostituite da altre.
Può essere considerato sicuramente utile, dal punto di vista delle prospettive future, il Fondo italiano di investimento, il quale si differenzia da altri tentativi analoghi compiuti in passato anche per l'entità notevolmente più significativa delle risorse impegnate. La dotazione iniziale del Fondo è, infatti, di 1,2 miliardi.
Si potrebbe immaginare un aiuto ulteriore da parte del settore pubblico. Si è fatto riferimento, in particolare, a sistemi di protezione da possibili perdite.
A tale proposito, occorre tenere conto della specificità degli investimenti in imprese innovative o di nuova costituzione. Tale segmento di mercato è caratterizzato da un numero relativamente elevato di insuccessi, i quali sono più che compensati, tuttavia, da poche operazione ad altissimo rendimento.
Il Fondo ha le potenzialità per avere successo, purché il numero degli investimenti sia sufficientemente grande e si guardi, come ho già affermato, a orizzonti temporali molto lunghi. Ciò presuppone che l'iniziativa non sia considerata sostitutiva di quelle degli altri operatori privati, ma agisca in modo complementare, facendo da traino allo sviluppo dell'intera industria del private equity.
L'idea di proteggere gli investimenti utilizzando risorse pubbliche potrebbe essere realizzata, in maniera relativamente economica, mediante strumenti assicurativi atti a ridurre il grado di elevata incertezza che connota questo tipo di impiego.
Bisogna assolutamente rivitalizzare il canale degli investitori istituzionali, per fare in modo che esso torni a essere uno strumento di valorizzazione della ricchezza delle famiglie.
Il settore pubblico può svolgere un'azione importante anche per rimediare alla scarsa conoscenza degli strumenti finanziari da parte del risparmiatore medio italiano. A tale proposito, la Banca d'Italia ha lanciato alcune iniziative.
Innanzitutto, una sezione del nostro sito Internet raccoglie le informazioni di base sulla natura e sulle caratteristiche dei prodotti finanziari, spiegando nella maniera più semplice possibile i rischi connessi alle diverse tipologie di investimento. Inoltre, stiamo lavorando per unificare i siti creati al medesimo scopo dalle Autorità di vigilanza per i settori assicurativo, dei fondi pensione, bancario e mobiliare, in modo da offrire un'informazione più omogenea.
Consapevole dell'importanza dell'educazione finanziaria nelle scuole, la Banca d'Italia si è fatta promotrice, con il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, di un progetto sperimentale di formazione in materia economica e finanziaria. Il numero delle classi coinvolte è cresciuto gradualmente nel tempo, arrivando alla quota significativa di circa 800. L'efficacia del progetto è misurata attraverso l'effettuazione di test di valutazione delle conoscenze degli studenti sia prima del ciclo di lezioni, sia dopo l'intervento formativo. I risultati della sperimentazione, piuttosto confortanti, confermano che la formazione contribuisce allo sviluppo delle conoscenze ai diversi livelli scolastici.
Si tratta di ampliare, ora, la dimensione dell'intervento, rimasta comunque modesta rispetto alla platea dei potenziali destinatari. La modalità è stata già identificata. Il problema non attiene, quindi, alla natura delle attività da svolgere, ma alla loro diffusione e, di conseguenza, alle risorse disponibili.
Per fare dell'educazione finanziaria una delle materie del curriculum scolastico, occorre fornire ai docenti i contributi necessari per lo svolgimento dell'attività formativa. Poiché sono stati già condotti, all'estero, esperimenti analoghi su vasta scala, non mancano le fonti di ispirazione. Credo che il bilancio della Pubblica


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istruzione dovrebbe essere opportunamente adeguato, per essere in grado di affrontare anche questo ulteriore compito.
Ritengo di avere indicato gli elementi essenziali delle nostre diagnosi e proposte. Se ci sono domande, sarò lieto di rispondere.

PRESIDENTE. La ringrazio, dottor Carosio, per l'ampiezza degli spunti contenuti nella relazione.
Do quindi la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

ALBERTO FLUVI. Signor presidente, poiché il protrarsi dei lavori dell'Assemblea ci ha obbligato a rinviare i nostri impegni, che adesso si stanno accavallando, se lei è d'accordo, chiederei al dottor Carosio di rispondere alle domande che mi accingo a formulare subito dopo il mio intervento.

PRESIDENTE. Non essendovi motivi ostativi, possiamo senz'altro procedere in tal modo.

ALBERTO FLUVI. Colgo l'occasione per introdurre nella discussione il tema di Basilea 3, che ha comunque una certa attinenza con l'oggetto dell'indagine conoscitiva.
Con reiterati interventi di moral suasion il Governatore della Banca d'Italia sta sollecitando le banche, ormai da diversi mesi, ad aumentare il proprio capitale (mi riferisco anche alla Banca Popolare di Milano). Non ho eseguito calcoli dettagliati, ma ho l'impressione che gli aumenti di capitale annunciati e attuati abbiano ormai superato la somma di 10 miliardi di euro.
Premesso che uno dei pilastri fondamentali del nostro sistema finanziario è rappresentato, com'è noto, dalle fondazioni bancarie, investitori stabili di lungo periodo che hanno garantito la crescita dimensionale delle nostre banche, tali soggetti sono in grado, in base alle valutazioni della Banca d'Italia, di accompagnare le banche in un processo di adeguamento di proporzioni così ampie come quelle richieste da Basilea 3?
Passo a una domanda collegata. Nel nostro sistema finanziario le banche si caratterizzano in senso commerciale: sono orientate, cioè, verso le famiglie e le imprese e poco propense alla speculazione finanziaria. L'eventuale ingresso di fondi speculativi nel capitale delle banche potrebbe modificarne la mission?
Passando ai mercati finanziari e al ruolo di Borsa Italiana Spa, le audizioni ci hanno consentito di delineare un quadro piuttosto chiaro della situazione, così come si è andata evolvendo negli anni. Dopo la MiFID, abbiamo assistito alla nascita di piattaforme diverse da quelle regolamentate e a fenomeni aggregativi tra le principali piazze finanziarie. In particolare, sono intervenuti la fusione tra Borsa Italiana Spa e London Stock Exchange e, più di recente, l'accordo con il gruppo TMX di Toronto.
Le banche italiane possiedono all'incirca il 15 per cento del capitale del London Stock Exchange Group. Se non erro, raggruppando tutte le partecipazioni, esse costituiscono il secondo azionista del gruppo, ma la loro quota si diluirà, ovviamente, quando sarà realizzata l'aggregazione con TMX.
Contemporaneamente, il peso della borsa italiana è andato diminuendo. Anche lei, dottor Carosio, avendo riguardo alle società quotate, ci ha riferito che in dieci anni siamo passati da 276 a 291, dimenticando di aggiungere, però, che nel 2007 eravamo a 344 e che la capitalizzazione di borsa, in dieci anni, si è dimezzata, passando da 818 a 430 miliardi di euro.
Le cause della scarsa propensione alla quotazione in borsa delle nostre imprese sono state individuate nella peculiare cultura del ceto imprenditoriale, da cui è derivato un sistema composto di tantissime piccole e micro imprese, nel ruolo preponderante del sistema bancario, negli eccessivi costi di quotazione e di compliance. Peraltro, l'amministratore delegato di Borsa Italiana ha tenuto a sottolineare


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che, essendo i nostri costi allineati a quelli delle borse di Paesi europei in cui le imprese si quotano molto di più, non possono essere considerati, anche se rilevanti, un ostacolo alla quotazione.
Secondo lei, dottor Carosio, è ipotizzabile una regolamentazione differenziata per le piccole imprese? Per le società quotate sui mercati regolamentati, grandi o piccole che siano, i costi di compliance da sopportare sono all'incirca gli stessi; è evidente, tuttavia, che l'incidenza di tali costi sui bilanci non è indipendente dalle dimensioni delle imprese. Una disciplina diversificata potrebbe favorire l'accesso ai mercati finanziari?
Credo che la borsa rappresenti un'infrastruttura importante per l'economia di ogni Paese. Con specifico riferimento alla situazione italiana, che si presenta più complessa a causa della rilevata struttura del sistema imprenditoriale, ritengo di poter condividere le sue considerazioni, dottor Carosio: non esiste un'unica ricetta, un unico intervento che possa risolvere i nostri problemi. È indispensabile, invece, mettere in campo un insieme di interventi, da realizzare in una prospettiva di medio e lungo periodo.
Nella relazione si pone giustamente l'accento sull'importanza dei fondi specializzati nell'investimento in capitale di rischio (private equity) e sulla necessità di creare strumenti ulteriori per favorire la capitalizzazione e la successiva quotazione delle imprese, eventualmente utilizzando la leva fiscale. Tra l'altro, si ricorda come siano stati eliminati, negli ultimi anni, quei fattori che avevano determinato la netta contrazione del volume di risparmio amministrato dagli investitori istituzionali.
Anch'io penso a un rinnovato ruolo dei fondi pensione e dei fondi comuni, a cautele di natura assicurativa che accompagnino la quotazione in borsa delle piccole imprese, nonché alla creazione di una sorta di corsia preferenziale dal punto di vista fiscale.

PRESIDENTE. Do la parola al dottor Carosio per una prima replica.

GIOVANNI CAROSIO, Vice direttore generale della Banca d'Italia. Le prime questioni che lei ha posto, onorevole Fluvi, riguardano, da un lato, la capacità delle fondazioni bancarie di assicurare i capitali che serviranno alle banche per adeguare i propri patrimoni ai nuovi requisiti previsti da Basilea 3 e, dall'altro, il rischio che l'ingresso nel capitale degli istituti di credito di altri tipi di investitori possa alterare la natura dell'attività da essi svolta.
Pur essendo vero che le fondazioni hanno rivestito un ruolo importantissimo, assicurando quella stabilità che ha sostenuto il sistema finanziario anche in questa fase critica, non credo si possa immaginare che esse siano, per le banche, la fonte prevalente di capitale nel lungo periodo. Come tutte le imprese, anche le banche devono essere aperte a una pluralità indistinta di investitori.
D'altra parte, costituisce sicuramente un aspetto delicato della questione la possibilità che l'acquisizione di partecipazioni da parte di taluni investitori si traduca in atteggiamenti speculativi, mirati al conseguimento di vantaggi di breve periodo (più simili, insomma, a quelli che abbiamo visto svilupparsi in altri mercati).
È proprio questo, tuttavia, l'aspetto sul quale agisce la regolamentazione. Le regole sull'adeguatezza del capitale rappresentano uno strumento essenziale per influenzare gli incentivi all'assunzione dei rischi da parte delle banche e per determinare la capacità di queste ultime di assorbire le perdite. Sono stati innalzati, quindi, i requisiti patrimoniali che le banche devono possedere a fronte di determinati tipi di attività - relative ai prodotti di finanza strutturata, ai portafogli di negoziazione (trading book) e via elencando - rispetto a quelli che devono detenere quando svolgono l'attività di erogazione di credito alle imprese.
Al di là dell'intervento equilibratore della regolamentazione, sostanziatosi in una più adeguata calibrazione del peso di alcuni rischi, credo che possa avere un ruolo importante e calmieratore anche


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l'apprezzamento espresso dagli operatori di mercato dopo gli eventi avversi che si sono verificati.
È evidente, infatti, il favore degli analisti - e dei mercati, in termini di corsi azionari - per le banche che hanno una forte raccolta di depositi retail, in confronto a quelle che, non avendola, devono ricorrere ai mercati all'ingrosso per rifornirsi di fondi. Si è alterata fortemente la percezione, nel mercato, della competitività relativa del primo tipo di banca rispetto all'altro. Da questo punto di vista, credo esistano incentivi - sia di mercato, sia regolamentari - che vanno nella direzione corretta.
Quanto alle questioni della borsa, lei ha insistito molto, onorevole Fluvi, sull'aspetto proprietario.
Naturalmente, si può discutere, in astratto, se determinate infrastrutture, cruciali per il funzionamento dei mercati, debbano essere private ovvero pubbliche. L'argomento sarebbe degno di approfondimento, se la situazione non si fosse evoluta al punto tale da far ritenere superata ogni discussione al riguardo. Le strutture di cui ci stiamo occupando stanno assumendo dimensioni sempre più grandi e sempre più internazionali, che dovrebbero ridurre i costi delle negoziazioni.
Non mi sembra, quindi, che il problema fondamentale attenga all'assetto proprietario della borsa.
Vale la pena di lavorare, invece, per individuare misure che incentivino gli investitori e le imprese ad andare in borsa, ad aprirsi a modalità di finanziamento che prevedono l'apporto esterno al capitale di rischio, anziché il ricorso al debito.
Un aspetto sicuramente importante della questione che stiamo trattando è la possibilità di introdurre discipline distinte per le grandi e per le piccole società. Sebbene la normativa non possa essere diversificata in base alle dimensioni delle imprese, il risultato cui si mira può essere ottenuto indirettamente, attraverso regolamentazioni differenziate dei mercati borsistici.
Accanto al mercato immaginato per le imprese mature, affermate e di grandi dimensioni, contraddistinto da un livello massimo di regolamentazione e, inevitabilmente, anche di costi di compliance, esistono piattaforme di negoziazione diverse, come quelle specializzate per le imprese in fase iniziale, la cui regolamentazione è effettivamente meno onerosa. Il meccanismo è stato individuato, e credo sia possibile attendersi un risultato.
Quanto alla questione del favore, dal punto di vista fiscale, per i fondi di private equity - se ho inteso bene la domanda -, essa porta un po' fuori dal tipico ambito di competenza della Banca d'Italia. Comunque, la normativa comunitaria detta regole molto stringenti in materia di regimi fiscali agevolati, al fine di evitare distorsioni concorrenziali.
Anche se è un po' diverso da ciò che lei aveva in mente, onorevole Fluvi, un sostegno pubblico agli operatori di private equity potrebbe essere offerto o costituendo una dotazione da investire in capitale di rischio o, come accennavo, prevedendo forme di protezione assicurativa degli investimenti. Anche operazioni di questo tipo inciderebbero, alla fine, sul bilancio dello Stato, ma non comporterebbero la necessità di modificare le aliquote d'imposta.

FRANCESCO BARBATO. A nome mio e del gruppo parlamentare Italia dei Valori ringrazio la Banca d'Italia, segnatamente il Vice direttore generale, dottor Carosio, e il dottor Gobbi, che lo accompagna, per l'opportunità che ci hanno offerto.
L'audizione odierna, che riteniamo molto interessante, ci consente di approfondire la conoscenza dei mercati degli strumenti finanziari, anche alla luce delle considerazioni da lei svolte, dottor Carosio, in merito alle disposizioni di vigilanza che la Banca d'Italia ha emanato per valorizzare l'indipendenza delle società di gestione del risparmio dai gruppi bancari di appartenenza.
Invero, la vexata quaestio sembra essere quella del «bancocentrismo» di cui soffre - il termine è appropriato, dal momento


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che viene in considerazione un fenomeno patologico - il nostro sistema economico. Ne abbiamo discusso, non più tardi di una settimana fa, anche con l'amministratore delegato di Borsa Italiana Spa. Le banche continuano ad avere un ruolo non semplicemente centrale, ma addirittura preponderante nell'ambito dei mercati finanziari. Nella relazione, dottor Carosio, si legge che i fondi pensione rappresentano, in Italia, una quota di poco superiore all'1 per cento delle attività finanziarie delle famiglie: un'inezia, se confrontata con le quote del 13 per cento in Germania e del 27 per cento negli Stati Uniti.
Ovviamente, ciò dipende anche dalla scarsa conoscenza degli strumenti finanziari da parte dei risparmiatori, ma soprattutto dal tentativo di mantenere l'impostazione «bancocentrica» del sistema: è fin troppo evidente che l'immagine del grande gruppo bancario si staglia, davanti agli occhi del cittadino, più luminosa di quella del fondo pensione, di cui, probabilmente, molti nemmeno conoscono l'esistenza.
A tale proposito, le chiedo, dottor Carosio, se sia sufficiente la circolare che avete inviato alle banche per tutelare l'indipendenza delle società di gestione del risparmio.
Non trovo condivisibile, invece, l'affermazione, ripetuta più volte nella relazione, secondo la quale è troppo presto per verificare gli effetti prodotti dalle innovazioni attuate, immediatamente prima o durante la crisi finanziaria, a livello regolamentare e nella struttura dell'industria finanziaria.
Il fatto è che il mondo muta a una velocità vertiginosa: quando terminerò il mio intervento, saranno nati 33 bambini in Italia e 578 in Cina! Se si vuole stare al passo con i tempi, se si vuole incidere davvero - è questo lo spirito che anima l'attività di questa Commissione -, non si può non tenere conto della velocità alla quale la realtà si modifica.
Cosa si può fare, quindi, non per ridimensionare, ma per attribuire il giusto ruolo alle banche? Cos'altro ci consigliereste di mettere in campo, dottor Carosio?
Infine, mi farebbe piacere avere un report in merito alla sperimentazione che la Banca d'Italia sta conducendo sul terreno dell'educazione finanziaria. È in tale ambito che bisogna investire, per costruire una società più evoluta, per formare una cittadinanza che, disponendo delle informazioni finanziarie di base, sarà capace sia di investire con maggiore oculatezza sia di evitare le truffe. Le migliori armi contro i fenomeni truffaldini sono la conoscenza e l'informazione.

PRESIDENTE. Vice direttore Carosio, colgo l'occasione per consegnarle una copia di una rivista trimestrale che si sta occupando, tra l'altro, anche dell'attività di questa Commissione e che, in uno dei prossimi numeri, darà conto sia dei risultati dell'audizione odierna, sia della necessità di sviluppare l'educazione finanziaria.
Se crede, può replicare all'intervento dell'onorevole Barbato.

GIOVANNI CAROSIO, Vice direttore generale della Banca d'Italia. Mi è stato chiesto se la nostra circolare sia sufficiente a risolvere il problema dell'eccessivo «bancocentrismo» del sistema.
La risposta è chiaramente negativa. La circolare ha il limitato obiettivo di disciplinare il modo in cui devono operare i fondi comuni di investimento all'interno dei gruppi bancari. Esistono, peraltro, fondi comuni di investimento che non fanno parte di gruppi bancari. Anzi, l'auspicio dal Governatore della Banca d'Italia, che si sta lentamente realizzando, è proprio nel senso di un cambiamento nella struttura proprietaria delle società di gestione dei fondi.
Molte banche, anche stimolate dalle analisi della Banca d'Italia, stanno valutando se convenga loro fare tutto in casa, per così dire, ovvero uscire da settori che, in realtà, sono redditizi solamente quando consentono di ottenere economie di scala imponenti (tranne nei settori cosiddetti di nicchia).
È difficile realizzare, all'interno di un singolo Paese come il nostro, fondi comuni


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di investimento che raggiungano dimensioni tali da essere realmente profittevoli. Poiché questa consapevolezza si va diffondendo, sono sempre più numerose le fusioni tra fondi originariamente appartenenti a singole banche. Si tratta di soggetti più autonomi dalle banche, le quali ne detengono quote minoritarie. Da questo punto di vista, quindi, l'evoluzione è in atto.
Il problema non è tanto quello di mortificare le banche, di cercare di limitarne il ruolo. Infatti, il carattere «bancocentrico» del nostro sistema finanziario non è dovuto a una presunta ipertrofia del settore bancario. Se si osservano indicatori quali il rapporto tra credito bancario e PIL, o altri simili, si rileva come l'Italia non presenti, in realtà, alcuna particolarità rispetto agli altri Paesi. Il vero problema è rappresentato, semmai, dall'atrofia dei canali di finanziamento alternativi a quello bancario.
Onorevole Barbato, lei sostiene che le iniziative da noi messe in atto, peraltro con troppa lentezza, non sembrano avere dato una scossa sufficiente al sistema finanziario.
Su questo punto, purtroppo, non credo di poter essere particolarmente incoraggiante. Nutrendo la convinzione assoluta che i problemi da affrontare sono di lunghissima data, ritengo poco plausibile l'esistenza di rimedi che possano produrre risultati in tempi brevi. Molti dei problemi che abbiamo analizzato hanno a che fare con il più ampio funzionamento dell'economia in generale. Esiste un collegamento tra crescita della produttività, incremento del reddito e sviluppo dei mercati dei capitali: tra questi elementi vi è un reciproco condizionamento. Ovviamente, la presenza di mercati dei capitali efficienti è un prerequisito per lo sviluppo economico, ma è vero anche il contrario.
In un sistema come quello italiano, che è stato caratterizzato, nell'ultimo decennio, da tassi di crescita assolutamente insoddisfacenti, è difficile immaginare che si presentino agli investitori occasioni particolarmente favorevoli.
Per queste ragioni, le ricette per favorire lo sviluppo del mercato dei capitali coincidono, in gran parte, con quelle che dovrebbero innalzare il sentiero di crescita dell'economia italiana ed hanno molto a che vedere sia con il livello estremamente basso degli investimenti in ricerca, sia con la frammentazione del sistema produttivo.
Tenendo conto di tali vincoli, ci illuderemmo qualora pensassimo di trovare soluzioni facili, ovvero di riuscire a produrre cambiamenti in tempi brevi.
Per quanto riguarda l'educazione finanziaria, sarò felice, onorevole Barbato, di farle avere ciò che abbiamo disponibile in merito ai risultati ottenuti grazie all'iniziativa di cui ho già detto. Si tratta - sono assolutamente d'accordo con lei, onorevole - di un investimento di lunghissimo periodo. Tuttavia, il rapporto tra le risorse pubbliche impiegate e i risultati che si otterranno potrà essere particolarmente favorevole, anche rispetto a molte altre ipotesi formulate.

PRESIDENTE. Dottor Carosio, poiché ha fatto riferimento alla raccolta obbligazionaria, nel cui ambito continuano ad avere un certo peso i titoli emessi dalle banche, gradirei avere un suo parere, innanzitutto, sui convertible contingent bond (cosiddetti «CoCo bond») e sull'opportunità o meno di ridurre il prelievo fiscale ad essi applicato. Com'è noto, tali obbligazioni possono essere convertite in azioni nel caso in cui il Tier 1 scenda sotto la soglia del 6 per cento, fissata dagli accordi di Basilea 3. Curiosamente, la locuzione «CoCo bond» dà il senso della situazione transitoria del titolo.
Come avranno capito i colleghi - perché ho introdotto più volte l'argomento nelle precedenti audizioni -, mi appassiona l'idea della creazione di un mercato parallelo di commercial paper e di obbligazioni, che potrebbe essere prodromico della quotazione in borsa. Secondo lei, dottor Carosio, un mercato di obbligazioni potrebbe fungere, magari prevedendo qualche facilitazione fiscale, da anticamera per l'ingresso in borsa,?


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Si pone, poi, la questione, mai risolta, della situazione di conflitto di interessi nella quale si trovano le banche. Queste, infatti, si occupano tanto delle procedure necessarie per l'ammissione alla quotazione e per la permanenza sul mercato, quanto della gestione del credito nei confronti delle medesime società. Tra l'altro, i principali gruppi bancari sono quotati in borsa e sono anche soci di Borsa Italiana Spa. In tale contesto, mi pare veramente singolare aspettarsi che il Nomad, o lo sponsor, aiuti le imprese a uscire dalla logica del debito finanziario a breve e a passare a quella del reperimento delle risorse sul mercato del capitale di rischio. Mi piacerebbe conoscere la sua posizione al riguardo, dottor Carosio.
Per quanto riguarda il ruolo degli intermediari specializzati nel settore del private equity, corre voce che Warren Buffett sia intenzionato a investire in Italia. Poiché è noto che la politica di investimento di Buffett prevede anche interventi in società start-up, ciò significa che nel nostro Paese sono possibili, evidentemente, operazioni di questo tipo e anche di venture capital.
Quest'ultima osservazione mi dà la possibilità di evidenziare quanto sia importante lavorare sul tema della garanzia dello Stato. L'amministratore delegato di Cassa depositi e prestiti Spa, dottor Gorno Tempini, ha tenuto a precisare che la Cassa non può impiegare il risparmio postale in investimenti di venture capital. Esiste, in proposito, lo spazio per un intervento regolamentare? Non capisco per quali ragioni debba essere così poco sviluppato, in Italia, il mercato del venture capital. Indipendentemente dall'alta mortalità delle aziende - compensata, com'è riconosciuto nella relazione, da poche operazioni ad altissimo rendimento -, se il venture capital può essere redditizio per un fondo pubblico, perché non dovrebbe esserlo per le banche? È una domanda, questa, che mi sono posto spesso.
Poiché è stato toccato il tema dei fondi pensione, sarebbe più che opportuna un'audizione dell'Associazione dei fondi pensione negoziali, per capire quali ragioni impediscano di investire in borsa le consistenti risorse dei fondi pensione.
In merito all'educazione finanziaria, sono un po' critico nei confronti del settore bancario.
Le banche lamentano che la circolazione del contante comporta, per loro, costi eccessivi. Perché, allora, non affrontano seriamente la questione delle commissioni sui prelievi con tessera Bancomat, abolendole tout court anche quando il cliente preleva presso gli sportelli di altri istituti? Insomma, la pressione per diminuire la circolazione del contante mira sempre ad addossare su qualcuno il costo di un servizio. Se le banche hanno quantificato in 10 miliardi di euro il costo determinato dalla circolazione del contante, perché non facilitano l'uso della moneta elettronica, abolendo le commissioni? Non credono che, così facendo, la circolazione del contante diminuirebbe?
Tale atteggiamento induce a domandarsi su chi saranno addossati i costi dell'educazione finanziaria. Se i fondi, gli altri soggetti e le banche hanno un interesse reale alla diffusione dei rudimenti finanziari, allora essi sono i primi a doversi adoperare in tal senso. Pur essendo lodevole l'iniziativa promossa dalla Banca d'Italia e dal MIUR, ritengo che l'attuale momento non consenta al bilancio dello Stato di farsi carico dell'onere della formazione. Potrebbe farlo, invece, il sistema finanziario, utilizzando, ove possibile, i fondi europei.

GIOVANNI CAROSIO, Vice direttore generale della Banca d'Italia. Signor presidente, sono tante le domande da lei poste.
I cosiddetti «CoCo bond», al di là del nome, chiamano in causa una questione serissima e importante. Si sta immaginando, infatti, che tali titoli potrebbero avere un ruolo significativo nella capitalizzazione delle banche. Più specificamente, soprattutto per quanto riguarda le banche too big to fail, troppo grandi per fallire, i requisiti patrimoniali aggiuntivi potrebbero essere soddisfatti mediante tali strumenti, i quali, come dice il nome


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stesso, sono una forma intermedia tra il capitale di rischio vero e proprio e le obbligazioni: hanno, infatti, la caratteristica di trasformarsi in capitale in certi casi.
L'esistenza di un sistema di prelievo fiscale che discrimina tra strumenti diversi in maniera molto significativa può effettivamente costituire un ostacolo allo sviluppo del mercato. Non è un caso, quindi, che siano state più volte ipotizzate revisioni dell'attuale regime di imposizione miranti ad attuare in maniera più puntuale il principio di neutralità fiscale. Nel caso specifico, un prelievo particolarmente punitivo potrebbe rendere difficile, in Italia, l'adozione dei predetti strumenti, che potrebbero affermarsi, invece, in condizioni diverse. La questione è sicuramente da esaminare.
Per quanto riguarda il conflitto d'interessi tra mercato e banche e il tornaconto di queste ultime ad accompagnare in borsa le imprese, posso soltanto ribadire che l'impulso maggiore all'espansione del mercato azionario non dobbiamo aspettarcelo dalle banche. Il ragionamento che ho brevemente articolato a proposito degli incentivi al rafforzamento patrimoniale e alla quotazione delle imprese non faceva perno, infatti, sulla buona volontà delle banche, ma su altri fattori.
Comunque, il conflitto non va ingigantito al di là del necessario: le banche potrebbero avere interesse - conta molto la regolamentazione - a una maggiore capitalizzazione delle imprese. Come loro sanno, esiste un sistema di coefficienti patrimoniali articolati sulla base del rischio che i diversi prenditori di credito generano. I metodi di misurazione del rischio utilizzati dalle banche, nelle loro versioni più o meno sofisticate, prevedono che si analizzi proprio la struttura finanziaria di un'impresa per determinare la sua probabilità di insolvenza. In linea di principio, l'impresa che ha una minore probabilità di insolvenza, perché più capitalizzata, dovrebbe essere il cliente preferito dalla banca. In altre parole, le banche possono ridurre l'onerosità dei requisiti di capitale proprio spingendo le imprese a capitalizzarsi.
Da questo punto di vista, è cruciale anche l'azione di vigilanza che si sta esercitando in questo momento, per verificare come i sistemi di valutazione del rischio adottati dalle banche abbiano retto alla prova della crisi. Com'è facile immaginare, sta emergendo, in molti casi, la necessità di un adeguamento di tali sistemi, finalizzato a una più corretta identificazione dei casi più rischiosi rispetto a quelli meno rischiosi, segnatamente discriminando tra imprese che hanno una struttura finanziaria solida e imprese che hanno una struttura finanziaria meno solida.
Ho già evidenziato la persistenza di sofferenze e incagli, fenomeni che rendono manifeste le difficoltà incontrate dalle imprese (è anche ovvio, nella situazione attuale) nel rimborsare i prestiti contratti con il sistema creditizio. Ciò significa che le banche, probabilmente, non discriminano in maniera adeguata.

PRESIDENTE. Dottor Carosio, lei non crede che la necessità di ricapitalizzarsi delle banche entri in conflitto con l'esigenza di favorire una capitalizzazione delle imprese, dal momento che entrambi i settori vanno ad attingere risorse dallo stesso mercato?

GIOVANNI CAROSIO, Vice direttore generale della Banca d'Italia. Un effetto di concorrenza ci può essere. Tuttavia, in termini dimensionali, il fabbisogno di capitale delle banche si colloca a un livello affatto diverso rispetto a quello in cui si situa l'accesso al mercato dei capitali delle medie imprese (che sono, forse, il target al quale occorre fare riferimento). Benché sia vero, in astratto, che un eccesso di ricorso simultaneo al mercato dei capitali può produrre un effetto di razionamento, è difficile pensare, in linea di massima, che un maggiore accesso delle imprese medie a tale mercato possa rappresentare, sotto il profilo quantitativo, un ostacolo significativo all'approvvigionamento


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di capitali da parte del sistema creditizio.
Riguardo a Warren Buffett, pur non essendo informato in relazione al caso specifico, è molto probabile che sia cresciuto l'interesse degli investitori specializzati esteri per il mercato italiano, per il banale motivo che esso è, come abbiamo appena ricordato, relativamente sottosviluppato da molti punti di vista. È facile immaginare, quindi, che il nostro mercato possa rappresentare un'opportunità per chi è alla ricerca di aree in cui ampliare le proprie attività.
La difficoltà che un operatore estero incontra a investire in un mercato poco conosciuto è intuibile. Tuttavia, non vedo perché non si possano creare collegamenti tra operatori italiani ed esteri di private equity. Essendo attrezzati sotto il profilo dimensionale (a differenza dei nostri), e ottenendo dalla diversificazione vantaggi potenziali importantissimi, gli operatori esteri dovrebbero essere in grado di assorbire molto bene il rischio dell'investimento in Italia.
L'anello mancante è un meccanismo che consenta ad alcuni talent scout italiani di individuare quegli investitori che, manovrando una massa di capitali adeguata, potrebbero subentrare in uno stadio avanzato. Poiché gli operatori italiani sono relativamente piccoli, è difficile che possano sostenere a lungo portafogli in rapida crescita. A un certo punto, tuttavia, essi potrebbero cedere il testimone ad altri operatori più grandi, più attrezzati e più diversificati, ovviamente facendosi remunerare per l'operazione di individuazione.
Se vogliamo sviluppare questo tipo di iniziativa, non credo che dobbiamo puntare sulle banche, anche se queste hanno significativamente aumentato, a loro volta, l'investimento in capitale di rischio.
Passando al tema dell'educazione finanziaria e alla critica da lei rivolta alle banche, signor presidente, perché non farebbero la loro parte, devo ricordare che l'industria bancaria ha costituito il consorzio PattiChiari, con il dichiarato intento di promuovere la qualità e l'efficienza del mercato e l'educazione finanziaria nel nostro Paese. Nel campo dell'educazione finanziaria si possono ipotizzare forme di collaborazione tra pubblico e privato. Per raggiungere un pubblico indistinto, non soltanto gli studenti, un collegamento con le banche potrebbe effettivamente essere utile, giacché queste hanno un contatto abituale con la clientela. Se, tuttavia, esiste un interesse pubblico a che il livello di conoscenze nel campo finanziario sia più elevato di quello attuale, se pensiamo, cioè, che ciò sia importante per l'efficienza dell'intero sistema economico, non vedo proprio perché in tale settore non debbano essere impiegate risorse pubbliche.

PRESIDENTE. Anche i finanziamenti dell'Unione europea, ai quali ho fatto riferimento, sono risorse pubbliche. Poiché non siamo in grado di spenderne una parte considerevole, perché non utilizzarle per un'opera meritoria, che ci farebbe compiere un progresso non soltanto dal punto di vista della conoscenza delle dinamiche finanziarie?
Mi sembra veramente curioso che non si riesca a predisporre un meccanismo basato sulla cooperazione della Banca d'Italia e degli istituti di credito - cofinanziato con le risorse comunitarie che non riusciamo a spendere, soprattutto nel Mezzogiorno -, per realizzare programmi decisamente meritori come quello dell'educazione finanziaria.

GIOVANNI CAROSIO, Vice direttore generale della Banca d'Italia. Si tratta di un'operazione fattibile, a maggior ragione se intendiamo rivolgerci al pubblico generalmente inteso.
Sono due, tuttavia, i segmenti strategicamente cruciali: da una parte, i ragazzi che frequentano le scuole; dall'altra, i giovani che entrano nel mondo del lavoro, i quali hanno bisogno di accrescere la propria conoscenza sia delle regole previdenziali, sia delle opportunità offerte dalla previdenza complementare.
Pur non volendo assolutamente limitare il campo delle forme di collaborazione


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con i privati, credo sia compito naturale delle istituzioni intervenire nei due settori indicati.

PRESIDENTE. Ringraziamo il Vice direttore generale per l'interessante audizione e per la documentazione consegnata, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta (vedi allegato).
Auspico che si possa predisporre, al termine dell'indagine conoscitiva, qualche proposta legislativa in grado di mettere in moto il meccanismo di cui abbiamo discusso poc'anzi.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 16.

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