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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione VI
13.
Giovedì 12 maggio 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Conte Gianfranco, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUI MERCATI DEGLI STRUMENTI FINANZIARI

Audizione del presidente di Assogestioni, Domenico Siniscalco:

Conte Gianfranco, Presidente ... 3 7 14 16
Causi Marco (PD) ... 13
Fluvi Alberto (PD) ... 9
Galli Fabio, Direttore generale di Assogestioni ... 16
Siniscalco Domenico, Presidente di Assogestioni ... 3 8 10 13 15 16
Ventucci Cosimo (PdL) ... 7

ALLEGATO: Documentazione consegnata dal presidente di Assogestioni ... 17
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Iniziativa Responsabile (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): IR; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

[Avanti]
COMMISSIONE VI
FINANZE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 12 maggio 2011


Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANFRANCO CONTE

La seduta comincia alle 10,40.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del presidente di Assogestioni, Domenico Siniscalco.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui mercati degli strumenti finanziari, l'audizione del presidente di Assogestioni, professor Domenico Siniscalco, che desidero subito ringraziare per avere aderito al nostro invito.
Sento di dover rivolgere un ringraziamento anche ai colleghi, i quali, nonostante la campagna elettorale, sono presenti in numero significativo.
Il presidente di Assogestioni è accompagnato dal dottor Fabio Galli, direttore generale, dalla dottoressa Arianna Immacolato, direttrice del settore fiscale, e dal dottor Massimo Menchini, responsabile delle relazioni istituzionali.
Il tema dell'indagine conoscitiva è noto. Dopo aver svolto numerose audizioni, sarà interessante conoscere anche la posizione di Assogestioni sulla situazione dei mercati degli strumenti finanziari.
Do la parola al professor Siniscalco per lo svolgimento della relazione.

DOMENICO SINISCALCO, Presidente di Assogestioni. Signor presidente, onorevoli deputati, è per me un grande onore, nonché un piacere, tornare in una sede istituzionale per parlare di temi finanziari.
Al di là di ciò, e del fatto che l'argomento da trattare è di per sé molto importante, siamo a un punto di svolta che richiede una riflessione di carattere organico.
Il settore del risparmio, che è stato fondamentale per il superamento della crisi, si presta a riforme che potrebbero migliorarne notevolmente la situazione, nell'interesse dei risparmiatori, ossia di tutti i cittadini, e del Paese in generale.
L'associazione che ho l'onore di presiedere rappresenta tutti i principali operatori italiani ed esteri attivi nel nostro Paese e specializzati nella gestione di fondi comuni di investimento, nelle loro diverse forme: aperti, chiusi, previdenziali, immobiliari e via elencando.
L'industria del risparmio gestito amministra un trilione di euro, ossia 1.000 miliardi di euro - una cifra ragguardevole, equivalente a più della metà del prodotto interno lordo -, presta i propri servizi a più di 8 milioni di sottoscrittori (ma il numero di tali soggetti è sottostimato, in quanto Assogestioni serve, a sua volta, operatori istituzionali come le assicurazioni, che hanno altri clienti finali) e impiega direttamente più di 10.000 addetti ad alta professionalità.
Se la Commissione è d'accordo, consegnerei il testo della relazione, molto corposa, che contiene proposte generali e


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altre più di dettaglio, e mi concentrerei, invece, sui temi più rilevanti. Eventualmente, potremo approfondire qualche argomento specifico in seguito, ma non vorrei annoiare chi ascolta con una presentazione troppo dettagliata.
Innanzitutto, ritengo che le questioni relative agli strumenti finanziari e al risparmio in generale debbano essere affrontate non con tante piccole misure episodiche, ma attraverso misure di più ampio respiro, da attuare nel lungo periodo, ispirate dalla volontà di razionalizzare il sistema nel suo complesso.
Le ragioni per le quali il momento è particolarmente importante sono evidenti a tutti. Il nostro Paese, come tutto il mondo occidentale, sta uscendo da una crisi gravissima: non se ne vedeva una così grave dagli anni Trenta e, probabilmente, quest'ultima è anche peggiore. Quando affermiamo che ne stiamo uscendo, esprimiamo, in un certo senso, anche un auspicio, poiché vi sono ancora, per quanto riguarda i debiti sovrani, la capitalizzazione e la liquidità delle banche, timori di fragilità. Comunque, l'economia reale sta andando sicuramente meglio. Tuttavia, la ripresa è ancora debole, e se volessimo esprimerne l'andamento mediante un segno grafico, questo avrebbe una forma simile al logo della Nike: una curva caratterizzata da una discesa ripidissima e drammatica, e poi da una risalita con poca pendenza.
Dobbiamo fare in modo che le perduranti perturbazioni finanziarie non danneggino la ripresa, che con fatica sta cominciando a manifestarsi. Il prodotto interno lordo ha subito, nei principali Paesi, una contrazione tra il 6 e il 9 per cento, e ora sta risalendo al ritmo dell'1 per cento annuo. Per tornare ai livelli del 2007 occorreranno tempo e politiche economiche adeguate.
Ci si chiede, abbastanza spesso, se l'Italia sia uscita dalla crisi meglio o peggio di altri Paesi. A mio avviso, la domanda è alquanto generica, nel senso che i comparativi «meglio» e «peggio» abbracciano, in questo caso, troppe variabili. Credo si possa affermare che l'Italia è uscita dalla crisi con maggiore stabilità in confronto ad altri Paesi, il che è sempre un bene, ma anche con una crescita minore.
Per la politica economica e per gli investitori la sfida è, dunque, quella di promuovere una maggiore crescita, preservando ovviamente la stabilità. Poiché fare meglio significa assicurare sia la stabilità, sia la crescita, bisogna riconoscere che, mentre la prima variabile è positiva, la seconda è molto più negativa rispetto a molti altri Paesi, con la Germania in testa.
Perché, sul piano della stabilità, l'Italia è andata meglio di altri Paesi? Per molti motivi, tra cui una gestione estremamente attenta dei conti pubblici, coronata da successo. Come ricordava il Ministro Tremonti, la stabilità dei conti pubblici è l'effetto di molte altre variabili, dall'occupazione, alla tenuta sociale, agli ammortizzatori sociali e via elencando. Si tratta di assicurare non soltanto l'equilibrio dei conti, ma anche la tenuta del Paese nel suo complesso.
Tra le variabili va indubbiamente annoverato il risparmio privato. La ricchezza dell'Italia ha costituito un ammortizzatore nei momenti più difficili della crisi: un ammortizzatore ancora più importante in un Paese con numerosissime piccole e medie imprese a proprietà familiare, la cui stessa sopravvivenza sarebbe stata in forse se gli imprenditori non fossero stati in grado di fronteggiare la crisi con risorse proprie.
Il risparmio ha avuto un ruolo fondamentale. Quello italiano è il più ampio dei Paesi del G7: è pari all'800 per cento del prodotto interno lordo, contro il 500 per cento degli altri Paesi più ricchi del G7. Siamo un Paese di formiche, di risparmiatori. Il 60 per cento del nostro risparmio è investito in immobili e il 40 per cento, equivalente a circa tre trilioni e mezzo, in strumenti finanziari.
Il tema del risparmio deve essere affrontato nel suo complesso. Raramente sento parlare, ad esempio, degli immobili come forma di risparmio (non mi riferisco ai fondi immobiliari, ma alla proprietà della casa da parte delle famiglie). Invece, quella immobiliare è una forma di risparmio


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fondamentale: tramanda la ricchezza di generazione in generazione e costituisce una leva formidabile per superare i momenti difficili.
Quali sono, guardando al tema del risparmio nel suo complesso, le grandi sfide della politica economica, non soltanto italiana ma di tutti i Paesi europei?
La prima è la valorizzazione, nelle forme opportune, degli investimenti in strumenti di risparmio gestito e previdenziale a lungo termine, in primo luogo per salvaguardare il livello di benessere delle famiglie, alla luce delle riforme pensionistiche in cantiere.
La seconda è ampliare i canali di connessione esistenti - o addirittura crearne di nuovi - tra risparmio e investimento: il risparmio deve sostenere la crescita, altrimenti continueremo ad avere una buona stabilità, ma poca crescita.
La terza, che riguarda specificamente il settore delle imprese, è migliorare ulteriormente la corporate governance delle società quotate, per una maggiore protezione degli azionisti e dei creditori, perché solo se si sentiranno adeguatamente protetti gli investitori incanaleranno i propri soldi verso il settore delle imprese.
Una delle nostre riforme più riuscite è stata quella che ha interessato il sistema previdenziale pubblico, iniziata nel 1992 con il Governo Amato, proseguita nel 1995 con il grande caposaldo rappresentato dalla riforma Dini, fino all'ultima riforma attuata dal Governo in carica. Siamo riusciti finalmente ad appiattire la gobba della spesa pubblica per le pensioni, che avrebbe messo in crisi il settore previdenziale nel giro dei prossimi quindici anni. Si è trattato di un'operazione lunga e molto ben condotta, per realizzare la quale si è reso necessario il consenso di tutte le parti sociali.
Tuttavia, quanto più il sistema delle pensioni diventa sostenibile per lo Stato, tanto meno lo diventa per le famiglie. Infatti, il tasso di sostituzione, vale a dire il rapporto tra l'ultimo stipendio e la prima pensione, si è abbassato in maniera molto rilevante: per coloro che entrano adesso nel mercato del lavoro rischia di essere sotto il 50 per cento.
Se la riforma delle pensioni, che era giusto attuare, si risolve in un minor beneficio per le famiglie, il che è inevitabile, atteso anche l'andamento demografico, è necessario che al primo pilastro, la previdenza pubblica, si aggiungano forme di previdenza complementare, ovvero i fondi pensione.
Questi ultimi, però, continuano a essere, nel nostro Paese, la cenerentola del mercato finanziario, per motivi sia culturali, sia fiscali. Il settore della previdenza complementare non si è mai sviluppato completamente ed ha, in Italia, una dimensione che è circa la metà in confronto a quella dei settori omologhi degli altri Paesi europei.
Noi riteniamo che la presenza di investitori di lungo periodo, come i fondi pensione, sia un elemento imprescindibile per conseguire uno sviluppo equilibrato e concorrenziale del mercato finanziario. Nella relazione proponiamo alcune riforme specifiche anche per quanto riguarda la tassazione. Il legislatore nazionale ha scelto di agevolare, sotto il profilo fiscale, la fase finale di erogazione delle prestazioni. Pur essendo ciò apprezzabile, occorre segnalare, tra gli elementi di criticità della vigente disciplina, la tassazione quasi piena dei rendimenti maturati nella fase di accumulazione, che scoraggia l'investimento.
Una ulteriore misura potrebbe consistere nell'incentivazione fiscale dei piani di risparmio individuali a lungo termine. Se ne parla molto in Europa, e recentemente ho avuto modo di discuterne con il Commissario europeo Barnier.
Molti risparmiatori detengono strumenti di breve termine - i depositi bancari sono il caso più evidente, ma ci sono anche titoli a breve - per tutto l'arco della propria vita. Posto che la flessibilità è un fattore fondamentale e che nessuno vuole congelare i propri risparmi vincolandoli, sulla scorta di quanto avvenuto in altri Paesi (Stati Uniti e Gran Bretagna in primis), si potrebbero incentivare le persone


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fisiche che aprano un conto agevolato avente ad oggetto strumenti finanziari di qualunque tipo, ovvero sottoscrivano (o acquistino) quote di OICR o concludano contratti di assicurazione collegati ai predetti strumenti o quote.
I risparmiatori potrebbero allocare i propri risparmi in un conto - caratterizzato da un'ampia dose di flessibilità delle possibilità di versamento o prelievo - sul quale, superato un certo periodo minimo, godrebbero di un'aliquota agevolata, che potrebbe ridursi ulteriormente in caso di durata ancora più lunga del piano di risparmio.
Credo che questa potrebbe essere una forma di risparmio molto importante, perché, da un lato, i tradizionali strumenti della previdenza complementare, come i fondi, sono caratterizzati da stringenti vincoli all'utilizzo delle somme investite, mentre, dall'altro, l'orizzonte temporale limitato rende lo strumento a breve inadeguato ai bisogni dei cittadini.
La seconda questione, molto importante per il nostro Paese, riguarda la creazione di un canale di transito tra risparmio e investimento. Molti dei nostri risparmi, pari a 3,5 punti di PIL complessivi, finiscono sterilizzati in canali che si inabissano come fiumi carsici e non si capisce dove riemergano.
Cito un caso per tutti. Com'è noto, il TFR che i lavoratori non scelgano di destinare alla previdenza complementare confluisce nel Fondo per l'erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto, gestito per conto dello Stato dall'INPS. Perché con queste risorse non si crea un fondo dedicato all'investimento? Si può obiettare che, trattandosi di soldi dei lavoratori, sarebbe opportuno non metterli a rischio. Sono pienamente d'accordo. Tuttavia, esistono molti fondi a benefici definiti. Se stabilissimo un pavimento, una rendita minima, ad esempio del 2,5 per cento, potremmo ottenere gli stessi risultati, indirizzando risorse verso le aziende.
Il Ministero dell'economia e delle finanze sta cercando di intervenire su alcune sacche di risparmio non utilizzate a fini produttivi, in primis sul risparmio postale, la cui raccolta ammonta a più di duecento miliardi di euro. Sbloccare il risparmio postale, sia pure con tutte le cautele del caso, è uno dei modi per creare un canale tra risparmio e investimenti.
Poiché il circuito del risparmio e dell'investimento può essere visto come un acquedotto, bisognerebbe procedere a una verifica della rete, per individuare in maniera più puntuale le perdite. Di fatto, soltanto una piccolissima parte dei risparmi finisce a usi produttivi.
Ad esempio, sebbene le società associate ad Assogestioni raccolgano, nei segmenti dei fondi e dei mandati, circa 1.000 miliardi di euro, non troviamo 3 miliardi per un aumento di capitale o per investire nella Parmalat di turno: è un po' strano.
Il fatto che i fondi aderenti ad Assogestioni rappresentano - correggetemi se sbaglio - appena l'1 per cento del listino di Piazza Affari fa capire l'entità dello sforzo da compiere per portare il risparmio verso l'investimento e per migliorare, in tal modo, il profilo di crescita delle nostre aziende, laddove ciò sia conveniente.
Il terzo tema caro alla nostra associazione è il miglioramento della governance delle società quotate.
Coloro che amministrano il risparmio lo indirizzano verso l'investimento azionario o obbligazionario soltanto se tali forme di impiego sono in qualche modo protette; scelgono altre destinazioni, invece, se gli investimenti non godono di forme di protezione adeguate, oppure corrono il rischio di essere utilizzati a fini distorti.
Tradizionalmente, le SGR associate ad Assogestioni presentano, con il supporto del Comitato per la corporate governance dell'associazione, il quale si avvale dell'assistenza di un advisor esterno (una società di executive search), liste di amministratori indipendenti nelle principali società quotate di cui detengono quote azionarie. Bisogna far sì che i candidati alle cariche sociali inclusi nelle liste di minoranza possano svolgere un ruolo di controllo dall'interno delle società, garantendo un più corretto rapporto tra azionisti di maggioranza


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e di minoranza e tra assemblee dei soci e consigli d'amministrazione.
La recente entrata in vigore delle disposizioni attuative della direttiva 2007/36/CE, relativa all'esercizio di alcuni diritti delle società quotate, ha apportato alcune novità che hanno migliorato il sistema.
In particolare, abbiamo accolto con particolare favore l'introduzione della regola del record date, che ha consentito, per la prima volta quest'anno, di superare alcuni meccanismi procedurali che ostacolavano la partecipazione alle assemblee societarie di molti investitori istituzionali. Infatti, siamo passati da percentuali di partecipazione molto basse a una media del 36 per cento, sia nelle società in cui partecipa il Ministero dell'economia e delle finanze, sia nelle altre, più squisitamente private, come Pirelli o Mediaset.
Ciò dimostra come piccole modifiche normative possano generare rilevanti effetti.
Gli amministratori indipendenti e i sindaci eletti dagli investitori istituzionali, attraverso procedure trasparenti e in assenza di conflitti di interessi, possono essere uno strumento efficace per assicurare che le decisioni siano assunte nell'interesse delle società nel loro complesso e non soltanto degli azionisti di maggioranza. La tutela degli azionisti e dei loro risparmi permette uno sviluppo armonico del mercato finanziario, che è fondamentale per la crescita dell'intero sistema economico.
Mi fermerei qui, anche se sono molti i temi caldi (ad esempio, quello dei fondi immobiliari).
Nell'ambito delle attività di attuazione della nuova disciplina comunitaria in materia di risparmio gestito, la Banca d'Italia ha sottoposto a consultazione uno schema di modifica della regolamentazione secondaria, che aggiorna, tra l'altro, la vigente disciplina in materia di gestione collettiva del risparmio. Essendo stato diffuso ieri sera, non ho ancora avuto modo di leggere il documento, di oltre 400 pagine, sul quale dovremo lavorare nei prossimi giorni.
Stiamo attraversando un momento particolare. Poiché non siamo in presenza di un'inversione di ciclo, ma di un cambiamento strutturale, sarebbe un peccato se un Paese con un risparmio come il nostro non riuscisse a cogliere l'occasione per riformare in modo organico e profondo il settore.

PRESIDENTE. Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

COSIMO VENTUCCI. La ringrazio, professore, anche perché so che viene da Londra e che, per essere presente all'audizione odierna, è stato costretto a una levataccia. Ci deve scusare, ma anche noi siamo alle prese con i nostri numerosi impegni connessi al primo turno delle elezioni amministrative. Come sa, in occasione delle consultazioni elettorali, il nostro Paese si trasforma in un grande condominio o, peggio ancora, in un teatro di operazioni militari, alle quali bisogna partecipare bene attrezzati (con elmetti, corazzate e finanche bombe atomiche).
Le porrò una domanda di rilievo generale, professore, evitando, per quanto possibile, di coinvolgerla in problematiche di natura sociologica.
Lei rileva che il risparmio delle famiglie è otto volte il reddito disponibile. Non pensa che una certa evoluzione della società abbia determinato una situazione nella quale l'utilizzo del risparmio è diventato più difficoltoso?
Mi spiego meglio. Questa Commissione ha affrontato problemi delicati, e li ha anche risolti. Per esempio, ci siamo accorti che operavano, in Italia, circa 160.000 intermediari finanziari: stranamente, ce n'erano 15.000 in Sicilia e 12.000 in Lombardia, nonostante questa seconda regione abbia una popolazione superiore alla prima. Insomma, ci siamo trovati davanti a una situazione vergognosa.
Se guardiamo alla flessione della raccolta del segmento fondi verificatasi dopo il 2007 e al potenziale inespresso del risparmio italiano - messo in luce non soltanto da lei -, non pensa che un fattore


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di freno nell'accesso agli strumenti finanziari possa essere rappresentato anche da alcuni scandali che si sono verificati (possiamo fare riferimento ai casi Cirio e Parmalat e ai bond argentini)?
Peraltro, il 95 per cento della nostra struttura produttiva è costituito da piccole imprese con cinque o sei dipendenti. A tale proposito, taluni ripetono spesso che «piccolo è bello»; altri economisti, che insegnano magari all'università, ribattono che non è vero, perché la piccola impresa non è competitiva nell'economia globalizzata.
Visto che lei, professore, appartiene alla ristretta schiera degli economisti che sanno guardare avanti e sanno avanzare proposte - mentre gli altri sono bravi soltanto a raccontare ciò che è già successo -, ritiene che la società italiana sia in grado di cogliere le possibilità offerte dal mercato globalizzato? E pensa che tali possibilità siano conosciute in un Paese il cui tessuto produttivo è composto per il 95 per cento da piccole e medie imprese? Esiste, infatti, una grande massa di soggetti che, per provincialismo o per altri motivi, non ha contatti con l'Europa, e tanto meno con il mondo globalizzato. Abbiamo posposto un'operazione che avremmo dovuto realizzare prima.

DOMENICO SINISCALCO, Presidente di Assogestioni. La sua domanda è molto interessante, onorevole Ventucci.
Se, da un lato, è importante che il Paese nel suo complesso sia in grado di far affluire il risparmio verso l'investimento - gli strumenti finanziari sono un mezzo, non un fine -, è altrettanto vero, dall'altro, che la propensione a investire in strumenti finanziari di un tipo o di un altro dipende da un insieme di fattori, anche culturali.
In primo luogo, l'Italia non è un Paese particolarmente finanziarizzato, né propenso a finanziarizzarsi (alla fine, questo è l'aspetto che ci ha salvato).
In secondo luogo, queste decisioni sono proprio quelle di lungo periodo sulle quali mi sono già soffermato.
In terzo luogo, occorre considerare il complesso dei fattori, culturali e di regolamentazione, cui ho accennato quando ho esposto brevemente i temi del miglioramento della governance e della protezione degli investimenti. Solo una regolamentazione che riduca al minimo i casi di frode e di abuso può migliorare la propensione all'investimento in strumenti finanziari.
Avere un grande stock di risparmio non investito è come avere un grande capitale che non rende e che, di conseguenza, non sostiene l'economia. Si tratta di trovare, quindi, il giusto equilibrio tra le esigenze di tutela - ciò è compito della regolamentazione - e tutte le altre che vengono in considerazione ogni volta che si realizza un investimento.
Penso che quello di cui stiamo discutendo non sia un problema di marketing, ma di politica economica, e suggerirei di andare avanti con giudizio.
La mia personale percezione è che, in questo campo, sia molto più sicuro affidarsi a un intermediario, il quale è in grado di selezionare gli investimenti utilizzando criteri professionali: è troppo difficile fare da sé in un mondo così complesso.
Ciò non basta: occorrono alcune tutele. I casi di frode, che sono tipici delle fasi di recessione, hanno disamorato fortemente gli investitori.
Un tema collegato, che merita qualche considerazione, è quello dell'educazione finanziaria, che deve essere somministrata per princìpi fondamentali. Quando decidiamo di acquistare un'automobile, non abbiamo bisogno di smontarla: dobbiamo capire, innanzitutto, se ci occorra una monovolume, una station wagon, una sportiva, un'auto alimentata a benzina, a gasolio oppure ibrida; inoltre, la regolamentazione deve assicurarmi che, quando agirò sul pedale del freno, l'auto si fermerà.
Un po' di educazione finanziaria è fondamentale, soprattutto nelle scuole (ho figli che frequentano la scuola secondaria di primo grado e ho tenuto due o tre lezioni su questi temi nel loro istituto). Innanzitutto, bisogna spiegare che esiste


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un rapporto tra rischio e rendimento e che, se qualcuno offre un rendimento straordinario, probabilmente c'è dietro molto rischio (o peggio ancora). In secondo luogo, si deve spiegare quanto sia importante la diversificazione, la quale consiglia di non mettere tutte le uova in un solo paniere.
Si tratta di nozioni fondamentali, che dovrebbero essere apprese già a scuola: non c'è bisogno di istituire una nuova materia, perché sono sufficienti poche lezioni.

ALBERTO FLUVI. La ringrazio, presidente, sia per la documentazione, che sarà sicuramente utile alla Commissione, sia per la sintesi che ha svolto, mettendo in evidenza i temi principali della relazione.
Poiché l'occasione è troppo ghiotta, allargherei un po' la prospettiva dell'audizione, prendendo spunto dalle ultime vicende che stanno interessando i mercati finanziari.
Mi riferisco, in particolare, agli aumenti di capitale che le banche stanno attuando per adeguarsi ai nuovi requisiti patrimoniali di Basilea 3, che avranno un impatto anche sulle aziende e, in generale, sull'intera economia del Paese. Dall'inizio dell'anno, gli aumenti di capitale già realizzati (Banca Popolare di Milano) o annunciati (Intesa Sanpaolo, Monte dei Paschi) hanno raggiunto un ammontare di 10 miliardi di euro.
Una prima domanda è implicita nella seguente considerazione. Basilea 3, al di là del giudizio sul contenuto dell'accordo, ha un senso se le nuove regole prudenziali sono applicate non soltanto in Italia o in Europa, ma in tutto il mondo, e soprattutto nei Paesi in cui si è prodotta la bolla che ha causato il patatrac generale. Diversamente, il campo di gioco non sarebbe livellato, e si renderebbe possibile una concorrenza sleale di alcune istituzioni finanziarie rispetto ad altre.
La seconda considerazione verte proprio sui 10 miliardi di aumento di capitale. Le fondazioni bancarie, secondo lei, sono in grado di accompagnare questi aumenti di capitale? Finora esse hanno agito come investitori di lungo termine, garantendo la stabilità e la crescita delle banche italiane, le quali hanno potuto svolgere più agevolmente il proprio ruolo, connotato da un servizio rivolto principalmente alle famiglie e alle imprese e poco incline alla finanza.
Una volta conclusi gli aumenti di capitale, nelle banche ci saranno ancora le fondazioni, ma anche, ad esempio, gli hedge fund, i fondi speculativi. Ciò significa che tra pochi mesi avremo un sistema bancario diverso, più orientato verso la finanza?
La seconda questione che desidero porre riguarda la riforma della tassazione dei fondi comuni di investimento. Noi la condividiamo. Aggiungo, pur essendo un parlamentare dell'opposizione, che è arrivata troppo tardi. Sarebbe stato opportuno attuarla nella precedente legislatura: ci abbiamo provato, ma non ci siamo riusciti. Insomma, la riforma va nella direzione giusta.
Personalmente, ritengo che la maggiore difficoltà per l'industria dei fondi comuni di investimento sia stata rappresentata non tanto dal regime fiscale meno favorevole, quanto dal legame troppo stretto tra società di gestione del risparmio e gruppi bancari di appartenenza.
Nell'audizione del 4 maggio scorso, il dottor Carosio, Vice direttore generale della Banca d'Italia, ha affermato che dal 2000 al 2010 la ricchezza finanziaria investita in quote di fondi comuni è scesa dal 16 al 6 per cento, mentre l'incidenza degli investimenti in strumenti bancari e postali è salita dal 27 al 37 per cento. Sembra che le banche, pur essendo azioniste delle SGR che gestiscono i fondi comuni, abbiano privilegiato la raccolta attraverso le obbligazioni bancarie, dirottando il risparmio verso tali strumenti e distogliendolo dai fondi comuni.
Sebbene comprenda che bisognerà attendere qualche anno per verificare se la riforma della tassazione sarà stata in grado di dare una spinta all'industria dei fondi comuni, gradirei avere, presidente, una sua opinione in merito.


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Merita una riflessione il ruolo di Cassa depositi e prestiti Spa, il cui amministratore delegato è stato ascoltato nell'audizione dell'8 marzo scorso.
Pur essendo d'accordo su un utilizzo delle risorse disponibili più consono alle attuali esigenze del sistema produttivo - abbiamo valutato positivamente, ad esempio, la partecipazione della Cassa ai fondi di private equity e ad altre iniziative a sostegno dell'economia -, abbiamo dovuto constatare che il Fondo italiano di investimento ha realizzato un numero molto limitato di interventi.
Di contro, il numero degli operatori di private equity presenti sul marcato italiano è passato, negli ultimi dieci anni, da 84 a 188, mentre l'attivo dei fondi di private equity gestiti da SGR è cresciuto da 580 milioni a quasi 6 miliardi di euro.
In tale contesto, Cassa depositi e prestiti può diventare l'ennesimo fondo di private equity o una diversa realtà, capace di dare un valore aggiunto all'intervento dello Stato.
Sappiamo che le dimensioni della nostra borsa sono molto contenute: in dieci anni, la capitalizzazione si è dimezzata, e il numero delle società quotate è addirittura diminuito.
Non esiste una misura che da un giorno all'altro, quasi per magia, possa far aumentare da 286 a 500 le società sul listino, a maggior ragione in un Paese con un tessuto imprenditoriale formato in larghissima parte da piccole o da micro imprese. Ciò nonostante, se consideriamo la borsa un'infrastruttura importante per il sistema economico - e io la ritengo tale -, è necessario anche incrementare il ruolo di Cassa depositi e prestiti Spa.
Lei, presidente, ha indicato alcuni interventi, tra i quali il risparmio di lungo periodo, lo sviluppo della previdenza complementare, la creazione di canali di connessione tra risparmio e investimenti nella struttura produttiva, la riforma della governance a protezione degli azionisti e degli investitori. Occorre mettere in campo una batteria di interventi che abbia la capacità di far crescere la piazza finanziaria italiana in un orizzonte temporale di medio e lungo periodo (cinque o dieci anni).
Nello specifico, lei sa, presidente, che la Consob e alcune associazioni stanno lavorando a un'ipotesi di semplificazione degli obblighi informativi e di trasparenza del mercato. Si immagina, in particolare, una regolamentazione differenziata per le società del segmento base, volta a ridurre anche i costi di compliance.
È possibile immaginare una fiscalità di vantaggio per i fondi che accompagnino le piccole e medie imprese alla quotazione sull'AIM Italia, che conta pochissime società? Una simile misura, unita alla regolamentazione differenziata, sarebbe in grado, secondo lei, di convogliare le piccole e medie imprese verso i mercati azionari?

DOMENICO SINISCALCO, Presidente di Assogestioni. Lei ha posto molto questioni, tutte interessanti.
Cominciando da Basilea 3, ha perfettamente ragione, onorevole Fluvi: le nuove regole prudenziali hanno senso in quanto applicate a livello internazionale. Al momento, non è così.
All'indomani della crisi, è stato chiaro che l'instabilità era da ricondurre all'eccesso di debito, di cui erano pieni tutti gli asset. Le banche - mi riferisco ai grandi centri internazionali di liquidità, non alle banche locali - operavano con valori di leverage senza precedenti (in qualche caso superiori a 30) e detenevano liquidità sufficiente a onorare obblighi di pagamento che non andavano al di là di una settimana.
Il problema è stato affrontato in tutto il mondo - Basilea 3 è un esempio - abbassando, se mi è consentito utilizzare una terminologia poco tecnica, il limite di velocità delle banche. Queste hanno dovuto, da un lato, rinunciare a operare con leve finanziarie improponibili e, dall'altro, riequilibrare l'ordine temporale dei propri flussi di cassa attraverso un insieme di strumenti. In altre parole, per essere più sicure, le banche dovranno procedere con maggiore cautela.


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In Europa sono state adottate le nuove regole prudenziali note come Basilea 3, le quali calibrano in maniera più adeguata il peso di alcuni rischi e, di conseguenza, anche il patrimonio che le banche devono possedere per farvi fronte. Bisognerebbe aprire una discussione in merito, perché non sembra che le banche si siano dimostrate bravissime nel valutare i propri rischi. Da questo punto di vista, un vizio d'origine di Basilea 2 è rimasto, probabilmente, anche in Basilea 3. Comunque, occorrono più capitale e più liquidità.
La domanda relativa agli aumenti di capitale è collegata a questo tema. È vero che negli Stati Uniti non c'è Basilea 3; tuttavia, si sta arrivando a risultati analoghi a quelli europei con il Dodd-Frank Act e con altri interventi della Federal Reserve, che impegnerà le banche statunitensi a rafforzare in maniera significativa i propri requisiti patrimoniali.
Benché la presenza di regolamentazioni diverse rappresenti, in assoluto, un fattore di preoccupazione, è indubbio che, almeno per quanto concerne i temi dei requisiti di capitale e della liquidità delle banche, le misure adottate sulle due sponde dell'Atlantico stanno puntando, per il momento, nella medesima direzione: requisiti di capitale più stringenti e maggiore liquidità costituiscono un tratto comune delle azioni intraprese dall'Unione europea e dagli USA.
Naturalmente, bisognerà tenere alta l'attenzione. Al momento, ho la sensazione che i requisiti di capitale cui dovranno adeguarsi le banche negli Stati Uniti non siano meno rigorosi di quelli previsti da Basilea 3. Ciò dovrebbe evitare il prodursi di un'ondata di crisi sistemica come quella cui abbiamo assistito negli ultimi anni.
La somma di 10 miliardi di euro è inferiore a quella che la stessa Banca d'Italia ha stimato essere necessaria per adeguare il capitale delle banche italiane ai nuovi requisiti patrimoniali. È probabile, quindi, che 10 miliardi di euro non siano sufficienti (peraltro, molti non sono ancora stati investiti). È sicuramente adeguato innalzare a valori intorno al 10 per cento il capitale totale (comprensivo del capital conservation buffer) in rapporto alle attività ponderate per il rischio: non è il livello più alto al mondo, ma è un intervento che condivido pienamente.
Per quanto riguarda le fondazioni, alcune sono molto ricche: Compagnia di San Paolo, Cariplo e altre hanno, al limite, un problema derivante dalla diversificazione del patrimonio, perché, se devono partecipare agli aumenti di capitale, devono distogliere tali risorse da altri settori. La legge delega n. 461 del 1998 (cosiddetta legge Ciampi) accoglieva il principio della diversificazione degli investimenti delle fondazioni, ma adesso si rischia di concentrarli (anche se il problema non è quello di esaurire le risorse; comunque, non mi riferisco all'aumento di capitale di cui stiamo discutendo).
Come sapete, l'ingresso di un nuovo azionista non comporta, di per sé, la possibilità che la condotta di una banca ne sia influenzata in maniera immediata. In altre parole, se un hedge fund acquista l'inoptato di un aumento di capitale, non è detto che sarà in grado di imporre cosa fare e cosa non fare. Ad ogni modo, i regolatori dovranno tenere d'occhio questi casi: sarebbe veramente il colmo, per noi, passare da un sistema troppo stabile a uno troppo rischioso.
Non c'è dubbio, quindi, che si debba prestare attenzione, per evitare un'eccessiva concentrazione del rischio e la mancanza di risorse. Un aumento di capitale presenta sicuramente qualche rischio. Assistiamo a una nemesi, perché si andava verso un mondo di diversificazione, mentre adesso si va verso l'investimento fino all'ultimo euro: è uno dei paradossi della recessione.
Quanto alla riforma della tassazione dei fondi comuni, sono stato il primo, in tempi non sospetti, a sostenere che essa fosse una condizione necessaria, ma non sufficiente per risolvere i problemi del settore. Il declino nell'industria italiana dei fondi non è tutto dovuto al diverso regime fiscale. Credo che nessuno lo pensi: di sicuro non lo penso io. Si trattava, piuttosto, di un freno, di un fattore che ne diminuiva la performance.


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La riforma ha eliminato un alibi: adesso i fondi possono risultare più attraenti, ma si pone pur sempre un problema di competitività, perché non tutti i fondi sono ugualmente competitivi, e non tutti sono molto competitivi. C'è anche un problema di domanda. Forse, quelli che sono rimasti scottati da esperienze deludenti non si fidano più. C'è, inoltre, un problema di educazione finanziaria: continua a essere in voga la versione moderna dei soldi sotto il materasso.
Il tema del conflitto di interessi dei gruppi bancari proprietari di SGR è noto. Come affrontarlo? Si può avere una separazione proprietaria, come negli Stati Uniti, o una separazione soltanto regolamentare: la prima elimina il conflitto di interessi, ma anche la disponibilità di una rete distributiva. Noi abbiamo affrontato il problema elaborando, dapprima nel 2001, e poi all'inizio di quest'anno, dopo il recepimento della MiFID, il «Protocollo di autonomia per la gestione dei conflitti d'interessi», cui le imprese associate possono aderire.
Il tema che lei pone, onorevole Fluvi, è meritevole di riflessione, ma mi pare che le soluzioni disponibili presentino pro e contro. Se passassimo da un sistema in cui la distribuzione la fa da padrona, per esprimersi in linguaggio corrente, a uno opposto, avremmo altri problemi. Bisogna riflettere.
Personalmente, ritengo che il sistema italiano debba essere imperniato sul rafforzamento delle cosiddette fabbriche dei prodotti, sull'autoregolamentazione, la quale dovrebbe garantire la separazione di funzioni e interessi, e sull'intervento sanzionatorio delle autorità di vigilanza nei casi di mancato funzionamento dell'autoregolamentazione.
La questione della quotazione è complessa: quotarsi è molto costoso, dal duplice punto di vista dei costi diretti e degli adempimenti da assolvere. D'altra parte, la sollecitazione del pubblico risparmio deve essere circondata da cautele: non si può pretendere che trovi applicazione, in tale ambito, il regime di notevole flessibilità manageriale che caratterizza le ordinarie vicende sociali.
La necessità di assoggettarsi a un regime fortemente regolamentato è, secondo me, la ragione per la quale le piccole e medie imprese italiane non si quotano. Se ce ne sono così tante e così piccole, è perché non vogliono crescere, non perché non sappiano farlo. È anche un po' assurdo, quindi, pretendere di spingerle a tutti costi verso la quotazione, in mancanza di una decisione imprenditoriale in tal senso.
Mi ha colpito, onorevole Fluvi, quando ha fatto riferimento a una batteria di interventi da mettere in campo per portare maggiori risorse dal risparmio all'investimento.
Premesso che siamo tutti limitati nella comprensione di determinati fenomeni, e che non esiste un manuale che spieghi come portare il risparmio all'investimento, c'è bisogno, al di là della questione culturale e di educazione finanziaria, proprio di una batteria di interventi che indirizzi verso una determinata direzione, con la consapevolezza che non esiste né la legge perfetta, né la misura perfetta.
Ho citato il TFR e l'INPS, ma potrei menzionare anche Bancoposta Fondi SGR di Poste Italiane Spa e la Banca del Mezzogiorno: sono molti gli strumenti che si ispirano alla medesima filosofia. Se vogliamo portare il risparmio verso l'investimento, o compiere qualsiasi altra operazione analoga, dobbiamo adoperarci per cambiare in maniera rilevante la nostra direzione di marcia.
I singoli provvedimenti devono inquadrarsi all'interno di tale ottica, come ho affermato in apertura della relazione. È facile che tali provvedimenti, pur necessari, non siano sufficienti. Comunque, il criterio guida che adotterei - pensando alle opportunità offerte da Cassa depositi e prestiti, INPS e Banca del Mezzogiorno - è quello secondo il quale lo Stato deve liberare il risparmio che trattiene in maniera ingiustificata, intervenendo anche mediante il fondo strategico e il fondo di private equity, ma soltanto per svolgere


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attività che non siano già svolte dai privati. O si crea valore per il contribuente, o si promuovono attività che il settore privato, in quanto imperfetto - nessuno crede più ai mercati perfetti - non riesce a proporre, o si creano grandi esternalità. Supponiamo che si voglia creare, tra Nord e Sud d'Italia, un grande corridoio infrastrutturale, in cui passino le reti. Dal punto di vista paesaggistico, ambientale e di valorizzazione dei territori, ciò andrebbe benissimo, ma un pubblico che scimmiotta il privato non ha ragion d'essere.

MARCO CAUSI. Innanzitutto, desidero ringraziare il presidente Siniscalco e Assogestioni, in particolare, per la tabella a pagina 23 della relazione, che mi sembra molto interessante. Essa mostra che in tantissime società quotate italiane, anche grazie alle recenti riforme, le percentuali dei voti espressi nelle assemblee dagli investitori istituzionali sono cresciute molto, arrivando quasi al 40 per cento in Telecom Italia e al 36 trentasei per cento in Saipem.
Da questo punto di vista, ho da formulare soltanto una domanda all'amico professor Siniscalco.
Poco fa, quando ha affrontato il terzo tema, relativo alla corporate governance delle società quotate, lei ha collegato la partecipazione dei fondi al ruolo degli amministratori indipendenti, soffermandosi sulla funzione di garanzia da questi esercitata.
Non ritiene che la predetta crescita - la quale potrebbe raggiungere livelli ancora più elevati, come prefigurato da alcuni indirizzi e strategie in atto - porrà ai fondi, prima o poi, il problema di non esprimere soltanto amministratori indipendenti? Oppure l'obiettivo dei fondi sarà sempre quello di esercitare una funzione di sorveglianza, di controllo, senza avere mai un coinvolgimento diretto nella gestione delle società? A mio avviso, questo è un tema sul quale dovremmo cominciare a riflettere.

DOMENICO SINISCALCO, Presidente di Assogestioni. La ringrazio moltissimo.
È necessaria una premessa. Assogestioni si è dotata di un ufficio studi che si occupa di questi temi, e di uffici - in particolare, quello di cui è responsabile il dottor Menchini - che hanno curato i temi della corporate governance. Sappiate sin d'ora che siamo a vostra disposizione: sentitevi liberi di chiamarci, perché considereremmo un piacere e un privilegio procurare alla Commissione tutta la documentazione di cui essa dovesse avere bisogno.
Ciò detto, proprio con riferimento alla tabella di pagina 23 della relazione (sulla governance possiamo fornire dati ancora più dettagliati), bisogna aggiungere che il tema ha una dimensione duplice: è vero che i fondi hanno votato in maniera massiccia, arrivando anche in ENI, in ENEL e in Finmeccanica a percentuali di poco inferiori al 40 per cento; tuttavia, il peso dei fondi italiani corrisponde all'incirca al 2 per cento, come indicato nella seconda colonna. Ripeto che noi abbiamo poche quote azionarie.
Come ho già riferito, Assogestioni ha costituito un Comitato per la corporate governance - coordinato dal dottor Roberto Giubergia e animato, di fatto, dal dottor Menchini -, il quale predispone liste di candidati il più possibile autorevoli, da sottoporre all'attenzione del mercato per incarichi di amministratori o sindaci di minoranza. Noi dobbiamo essere abbastanza bravi da attrarre i fondi esteri, che sono i detentori delle azioni.
Per fortuna, molti investitori istituzionali non attivisti e non ostili (come i fondi pensione degli insegnanti della California o dell'Oregon) hanno inserito nei propri statuti clausole in forza delle quali non nominano né amministratori, né presidenti: vogliono essere liberi di comprare e vendere, ma possono votare per gli amministratori di minoranza. Non vedo un rischio di interferenza di tali fondi, né nel bene, né nel male. Ovviamente, essi possono adoperarsi per cambiare un manager inefficiente, ma non vogliono essere coinvolti nella scelta di quello nuovo.
Gli amministratori indipendenti nominati dalla minoranza siedono nei comitati


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per il controllo sulla gestione e nei comitati per la remunerazione: non assumono decisioni, ma verificano che tutto si svolga regolarmente e che i manager non si portino via troppe fette di valore aggiunto.
Naturalmente, le cose possono andare diversamente se, anziché il 5 per cento, si rappresenta il 40 per cento.
Gli amministratori indipendenti sono eletti da fondi che, magari, l'anno successivo non sono più presenti nella società. Essi non rappresentano l'azionista tal dei tali, che non conoscono nemmeno, ma tutelano l'interesse della società nel suo complesso: è un «gioco» che dobbiamo imparare tutti.

PRESIDENTE. Intervenire per ultimo significa trovare molti argomenti già sviluppati. A me rimane, più che altro, il compito di richiamare, per approfondirli, alcuni punti non sufficientemente chiari.
Si parla di introdurre l'educazione finanziaria, importantissima, nella scuola. Durante le precedenti audizioni, i rappresentanti dell'ABI e della stessa Banca d'Italia hanno espresso l'opinione che debba farsene carico lo Stato, come se quello dell'educazione finanziaria non fosse, prima di tutto, un problema degli attori che operano nel settore finanziario. Insomma, mi pare che il sistema bancario, nonostante le evidenti difficoltà della finanza pubblica, non mostri un interesse effettivo a finanziare iniziative volte a diffondere l'educazione finanziaria.
Tale atteggiamento fa il paio con quello emerso riguardo alla circolazione del denaro contante: da un lato, si sottolinea il costo per il sistema; dall'altro, si continua ad addebitare una commissione per il prelievo mediante bancomat, chiedendo, contraddittoriamente, che la circolazione del contante sia limitata mediante interventi normativi.
Secondo lei, presidente, è possibile coinvolgere anche i privati nelle iniziative necessarie per garantire quell'approccio all'educazione finanziaria che è preliminare per orientarsi con un minimo di consapevolezza nel settore degli investimenti?
È stato affrontato anche il tema della distribuzione dei prodotti finanziari. Quali sono le dinamiche della distribuzione? Se facciamo riferimento, in generale, alla distribuzione pura e semplice di prodotti, possiamo constatare che, mentre prima erano le fabbriche che imponevano il corrispettivo, adesso è la distribuzione a imporlo: avendo in mano il mercato, chiede una remunerazione adeguata per assicurare la presenza di un prodotto sugli scaffali degli esercizi commerciali. Insomma, è la distribuzione che fa vendere il prodotto. Naturalmente, la grande distribuzione può immettere nei circuiti di vendita, a prezzi convenienti, anche prodotti con il proprio marchio.
Il problema dell'eccessiva vicinanza tra i gruppi bancari e le società che gestiscono i fondi va inquadrato nella medesima logica: se il prodotto è buono, una boutique riuscirà a garantirgli visibilità e redditività. Bisogna favorire l'ingresso nei canali della distribuzione di soggetti che sono in grado di vendere i prodotti buoni, altrimenti il mercato rimarrà ingessato, perché le banche, che hanno il controllo dei prodotti e della distribuzione, continueranno a imporre ciò che vorranno.
L'altro tema riguarda le iniziative da mettere in campo per creare un canale di trasmissione tra risparmio e investimento, fondamentale per la crescita del sistema economico.
Mi sembra che, per quanto riguarda il venture capital, nessuno abbia fatto qualcosa. Quanto alla logica del Fondo italiano d'investimento, avevo annotato l'acronimo WOW (Way Out Write-off): dobbiamo stare attenti, perché alla fine del periodo di investimento potremmo ritrovarci, se non si dovessero compiere scelte oculate, nella condizione di dover cancellare l'investimento e di considerarlo come perdita (il che non è auspicabile, dal momento che una parte di quanto è investito viene dal risparmio postale). Il problema è che si ragiona su un periodo di cinque anni (più uno di eventuale proroga).
Secondo lei, presidente, anziché limitare l'azione del Fondo alle società che, in fin dei conti, non hanno bisogno di investimenti,


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non sarebbe meglio ampliarla a quelle che hanno una proiezione di crescita importante e che, pertanto, hanno la necessità di un sostegno alle proprie iniziative di crescita?
Inoltre, sarà concreta, tra sei anni, la possibilità che altri fondi di private equity subentrino al Fondo italiano di investimento o a qualsiasi altro organismo, oppure ci dobbiamo aspettare che l'imprenditore ricompri la partecipazione che aveva venduto, ovvero che intervengano fondi esteri?
Ho un'ultima domanda: poiché lei ha un osservatorio privilegiato sul mercato londinese, presidente, cosa ci possiamo aspettare per la nostra borsa dai processi di fusione in atto e, in particolare, dalla preannunziata fusione tra London Stock Exchange Group e TMX?

DOMENICO SINISCALCO, Presidente di Assogestioni. Risponderei alle domande sull'educazione finanziaria, sul venture capital e sulla borsa, lasciando a Fabio Galli, che ha seguito l'argomento più da vicino, il compito di replicare sulla distribuzione.
Non c'è dubbio che l'educazione finanziaria sia un'esternalità produttiva di un bene pubblico, la conoscenza dei fenomeni finanziari, che però non è immediatamente monetizzabile.
O convinciamo due o tre grandi istituzioni finanziarie (non solo banche, ma anche assicurazioni) a elaborare un programma, magari pubblico-privato, per diffondere l'educazione finanziaria attraverso la stampa online, in maniera che chiunque voglia possa scaricare la lezione che vuole dal sito del tale giornale, oppure ci deve essere un investimento pubblico.
Non si tratta di spendere di più, ma semplicemente di introdurre la materia nei programmi. In quello di matematica, ad esempio, si possono inserire le nozioni di rischio e di diversificazione. Si possono anche immaginare cattedre itineranti, con docenti che impartiscono due o tre lezioni presso vari istituti. Non credo che una simile iniziativa richieda grandi investimenti. Magari, nel documento conclusivo dell'indagine conoscitiva si potrebbe inserire una raccomandazione in tal senso.
A proposito, l'ABI e l'ANIA hanno costituito la Federazione delle Banche, delle Assicurazioni e della Finanza, di cui entrerà a far parte anche Assogestioni: che si renda utile!
Il secondo tema è il venture capital.
In astratto, nei Paesi con un capitalismo più sviluppato, l'imprenditore, che tipicamente ha le idee e la capacità, ma non i soldi, si avvale di svariate tipologie di investitori nelle diverse fasi della propria attività economica: comincia con i soldi propri, o con quelli forniti da un business angel; successivamente arriva il venture capital, che finanzia la fase iniziale dell'iniziativa imprenditoriale; poi arriva il fondo di private equity e, alla fine, la società va a capitalizzarsi in borsa. Senza quest'ultimo passaggio, il percorso diventa complicato.
Secondo una massima che ho letto da qualche parte, essere nel giusto all'80 per cento non significa essere nel giusto. Gli economisti lo chiamano teorema del second best: se si hanno tante cose, ma non tutte quelle che servono, si potrà avere soltanto un risultato di secondo livello.
Il rischio che, alla fine, ci siano write-off è notevole (nel venture capital classico va bene un investimento su dieci). Comunque, guardando alla situazione attuale, mi sembra che il rischio sia, piuttosto, quello dell'eccesso di avarizia. Bisognerà trovare strumenti adeguati.
Le borse saranno sempre più utility. Il loro problema è quello dei costi: funzionano se sono bassi e se ci sono economie di scala. Mi sembra che la logica delle aggregazioni sia stata proprio questa. Avremo, quindi, due o tre grandi raggruppamenti: il NYSE Euronext, il gruppo anglo-italo-canadese e, probabilmente, quello tedesco, ai quali si aggiungeranno i sistemi di negoziazione diversi dai mercati regolamentati. Ritengo che vincerà chi praticherà i costi più bassi.
Avere investitori nazionali come i fondi è importante, perché, specialmente in un Paese con tante piccole imprese, soltanto questi sono in grado di capire cosa faccia


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l'impresa X o Y. Al contrario, se si sta seduti a Toronto, non ci si occupa certo dell'impresa agricola italiana.
La nazionalità delle piattaforme di scambi non mi sembra una questione dirimente.
Se lo consente, signor presidente, chiederei al direttore generale Galli di trattare le questioni concernenti la distribuzione.

PRESIDENTE. Prego, dottor Galli.

FABIO GALLI, Direttore generale di Assogestioni. Grazie, signor presidente.
In una fase di profondi cambiamenti a livello europeo, il mercato interno è caratterizzato da una maggiore integrazione ed efficienza anche per ciò che attiene alla regolamentazione delle imprese e dei servizi di investimento aventi ad oggetto strumenti finanziari. Peraltro, nell'ambito della riforma del sistema europeo di vigilanza finanziaria, è stata attribuita all'ESMA (Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati) la funzione di assicurare l'integrità, la trasparenza, l'efficienza e il regolare funzionamento dei mercati mobiliari. In particolare il mercato dei fondi è quello più integrato, come si può rilevare anche dai dati già illustrati a proposito dell'attività di corporate governance.
Il tema dei rapporti tra banche e fondi, che non riguarda soltanto la realtà italiana, è ben presente alla Commissione europea, e siamo convinti che una soluzione sarà trovata a livello comunitario.
Il sistema italiano presenta almeno due punti di forza.
Il primo, già citato dal presidente, è costituito dal Protocollo di autonomia per la gestione dei conflitti di interessi, una forma di autoregolamentazione menzionata anche nell'ambito della consultazione avviata dalla Commissione europea sul Libro verde Il quadro dell'Unione europea in materia di governo societario. Il documento prende in considerazione sia il ruolo degli investitori fondi nelle società quotate, sia i rapporti tra i fondi e le società bancarie o assicuratrici che li controllano.
Inoltre, siamo consapevoli che un rapporto molto stretto tra produttori e distributori è essenziale per migliorare l'informazione e la tutela del risparmiatore, a patto che sia ben regolato l'aspetto dei potenziali conflitti di interessi.
Il nostro Protocollo di autonomia è un esempio di cui si terrà conto nella definizione dei prossimi passi, anche in sede di revisione della direttiva MiFID. Sono in corso, in Inghilterra e in Olanda, due esperimenti di regolamentazione della remunerazione dell'advisor e del distributore, che non stanno riscuotendo, però, il successo sperato.
Probabilmente, nei prossimi anni, la revisione della direttiva MiFID potrà beneficiare dei risultati dell'esperienza italiana relativa al Protocollo di autonomia e della predetta sperimentazione inglese e olandese. Sinceramente, sono convinto che il nostro Protocollo di autonomia avrà un ruolo piuttosto importante.

DOMENICO SINISCALCO, Presidente di Assogestioni. La nuova versione del Protocollo, che è stata approvata dal consiglio direttivo di Assogestioni a giugno dello scorso anno, è stata trasmessa alla Banca d'Italia e alla Consob. Ne faremo avere una copia alla Commissione.

PRESIDENTE. Ringraziamo il professor Siniscalco e gli altri ospiti anche per la documentazione consegnata, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta (vedi allegato).
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 12.

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