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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione X
8.
Mercoledì 22 luglio 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Gibelli Andrea, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA SITUAZIONE E SULLE PROSPETTIVE DEL SISTEMA INDUSTRIALE E MANIFATTURIERO ITALIANO IN RELAZIONE ALLA CRISI DELL'ECONOMIA INTERNAZIONALE

Audizione di rappresentanti di Confapi:

Gibelli Andrea, Presidente ... 3 9 10 12 13
Fantacone Stefano, Economista ... 4
Occhipinti Armando, Responsabile ufficio relazioni industriali di Confapi ... 3 7 12
Pezzotta Savino (UdC) ... 10
Vico Ludovico (PD) ... 9
Vignali Raffaello (PdL) ... 11

Audizione di rappresentanti di Confindustria:

Gibelli Andrea, Presidente ... 13 19 23
Galli Giampaolo, Direttore generale di Confindustria ... 13 21 22
Lulli Andrea (PD) ... 20
Vico Ludovico (PD) ... 19 22
Vignali Raffaello (PdL) ... 20
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP.

COMMISSIONE X
ATTIVITÀ PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 22 luglio 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE ANDREA GIBELLI

La seduta comincia alle 14,30.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti di Confapi.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla situazione e sulle prospettive del sistema industriale e manifatturiero italiano in relazione alla crisi dell'economia internazionale, l'audizione di rappresentanti di Confapi.
Diamo il benvenuto ai nostri ospiti. In rappresentanza della Confapi sono presenti il dottor Armando Occhipinti, responsabile dell'ufficio relazioni industriali e il dottor Stefano Fantacone, economista. Il dottor Paolo Galassi, presidente di Confapi, è evidentemente impegnato in compiti più importanti di questa indagine conoscitiva.
Invito i rappresentanti di Confapi a svolgere il loro intervento. In seguito i componenti della Commissione potranno porre alcune domande e formulare osservazioni.

ARMANDO OCCHIPINTI, Responsabile ufficio relazioni industriali di Confapi. Signor presidente, saluto i componenti della X Commissione. La Confapi ringrazia in maniera particolare il presidente e i componenti della X Commissione attività produttive. Visto il momento di crisi economica internazionale che continua ad attanagliare il Paese, questo invito si rende, infatti, assai necessario.
Rivolgo un ringraziamento particolare, dunque, anche per la visione e la sensibilità che la Commissione ha dimostrato nel dare vita a questa indagine conoscitiva in un momento particolarmente critico per la nostra economia, che riflette un po' la grande depressione degli anni Trenta.
Poiché nell'ambito di questa indagine è possibile cercare di individuare strumenti di policy che possano ripristinare le condizioni di crescita, noi cerchiamo di dare il nostro contributo. Desidero pertanto impostare il mio intervento con una presentazione iniziale; in seguito, chiederò al collega dell'ufficio economico, il dottor Fantacone, che tra l'altro è un economista, di sviscerare al meglio alcuni aspetti sia in termini di macro-economia, che in termini specifici nell'ambito della piccola e media impresa.
Per quanto riguarda la crisi che ha colpito il sistema, ci sono dati allarmanti che il collega Fantacone evidenzierà in seguito. Forse parlo come un uomo qualunque, ma al di là degli aspetti ufficiali dei dati ISTAT, delle indagini congiunturali e via dicendo, giorni fa una mia collega mi diceva che nella provincia di Reggio Emilia nel settore dell'oleodinamica il crollo è stato dell'85 per cento. Questo è un fatto reale che deve farci riflettere al di là dei dati ufficiali o degli auspici che noi molto spesso esprimiamo,


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gettando il cuore oltre l'ostacolo e pensando che la ripresa possa essere una cosa semplice.
Mentre il collega Fantacone interverrà più nello specifico per gli aspetti di tipo economico, io mi sono permesso di osservare gli ultimi dati, aggiornati al mese di giugno, riguardanti la cassa integrazione. Nonostante il dato della cassa integrazione finalmente non sia più negativo rispetto al mese precedente, l'emorragia continua ad essere pesante. Si tratta, infatti, di una cassa integrazione da 80 milioni, contro gli 87 milioni di maggio. Esiste, quindi, una riduzione di ore di autorizzazione di cassa integrazione, ma stiamo pur sempre parlando di cinque volte il volume di ore delle scorso anno. Nel solo mese di giugno del 2009 abbiamo raggiunto gli 80 milioni rispetto ai 15 del 2008. Questi dati - che troverete nel documento che lasceremo agli atti della Commissione - devono far riflettere su quanto sia pesante la situazione della cassa integrazione.
Oggi abbiamo assistito alla presentazione del rapporto CNEL in cui si dice che ci sono mezzo milione di posti di lavoro a rischio. Entro il 2009 potrebbero esserci tra i 270 e i 460 mila disoccupati in più per effetto della perdita di posti di lavoro, ossia tra le 350 e le 450 mila unità. Il CNEL stima al 9 per cento il relativo tasso di disoccupazione.
Ovviamente, ciò può indurre a riflettere sul fatto che potrebbe rendersi necessario un ulteriore intervento che possa essere utile anche in termini di flessibilità e sostegno al reddito. Quantomeno - questo lo dice il CNEL - bisognerebbe cominciare a pensare ad un sostegno al reddito che abbia i requisiti dell'universalità. La riforma degli ammortizzatori sociali diventa evidentemente sempre più impellente.
Il dottor Fantacone entrerà ora nello specifico degli aspetti economici; nella fase conclusiva riprenderò la parola. La Confapi intende, infatti, approcciarsi a questa indagine con l'auspicio che, anche attraverso il nostro contributo, possano essere fornite indicazioni utili per la soluzione ai problemi che stiamo vivendo come Paese.

STEFANO FANTACONE, Economista. Innanzitutto, vorrei richiamare esplicitamente qualche dato riferito al settore manifatturiero per evidenziare quelli che pensiamo debbano essere i tre punti di analisi di cui un'indagine conoscitiva su questo settore dovrebbe tenere conto oggi; in seguito, vorrei arrivare a sviluppare - e spero a chiarire - l'argomento che ci sembra principale in questo momento, ossia che si compirebbe un grave errore di valutazione, se si ritenesse che dopo la crisi la situazione competitiva per il settore manifatturiero italiano potrà tornare esattamente quella che era prima. Riteniamo, invece - e ci sono elementi di analisi economica che lo dimostrano - che stanno mutando alcuni parametri del modello di sviluppo mondiale e del modello di sviluppo italiano, per cui la situazione post crisi sarà più difficile di quella precedente.
I dati ci servono per mostrare tre cose: che la crisi internazionale colpisce il settore manifatturiero duramente, che lo colpisce nel momento sbagliato e soprattutto che lo fa senza offrire meccanismi di correzione automatica a cui aggrapparsi per sperare in un recupero spontaneo.
Che la crisi colpisca duramente è un fatto ampiamente noto; nel Documento di programmazione economico-finanziaria, il Governo ha recentemente quantificato a meno 5,2 per cento la contrazione attesa quest'anno per il PIL. È un dato che può essere definito, senza timore di retorica, drammatico.
Sostanzialmente, la perdita del prodotto di quest'anno è pari alla perdita accumulata di prodotto registrata nelle tre recessioni precedente (negli anni Settanta, negli anni Ottanta e negli anni Novanta); se questo è un dato forte, molto più forti sono i dati che riguardano il settore manifatturiero.
A maggio la situazione era la seguente: meno 23 per cento per la produzione del fatturato, meno 31 per cento per gli ordinativi,


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meno 25 per cento per le esportazioni; tutto ciò va poi inserito in un contesto di deflazione per cui i prezzi alla produzione nel settore manifatturiero scendono nell'ordine del 6 per cento. In sostanza, e vi fornisco probabilmente un'approssimazione per difetto, per effetto della crisi nel breve volgere di un anno il settore manifatturiero si è trovato nella necessità di mettere a riposo oltre un quarto della sua capacità produttiva. È come se da un anno all'altro ci trovassimo con un settore manifatturiero ridotto di un quarto.
Il livello di produzione industriale è del 25 per cento inferiore a quello di inizio decennio.
Queste sono le dimensioni e le proporzioni con cui la crisi si è ripercossa sul nostro settore manifatturiero. Confapi svolge, con la collaborazione di Unioncamere, un'indagine congiunturale in cui viene monitorata la situazione economica attraverso un questionario sottoposto alle imprese associate; se possibile, il quadro che ne emerge è ancora più drammatico.
Il saldo delle risposte fornite dalle imprese in merito ai livelli di produzione è sceso al di sotto della soglia di meno 50 per cento. Per dare un termine di paragone, ancora nel primo semestre del 2009 questo indicatore segnava un valore positivo del 6,8 per cento. Nel momento di picco congiunturale, toccato fra la prima metà del 2006 e la prima metà del 2007, questo indicatore era pari al 30 per cento; ossia, in questi due anni, l'indicatore è sceso di 80 punti. Si tratta di un fenomeno che, come studioso economista, avrei giudicato statisticamente improbabile prima di averlo visto e che invece si è verificato.
In questa situazione - e penso che non saremo gli unici a rilevare questo aspetto -, un problema ulteriore è dato dal fatto che è molto aumentata la difficoltà di accedere al credito. Anche riguardo a questo abbiamo un indicatore tratto dall'indagine congiunturale; tale indicatore in genere oscilla tra valori compresi fra 5 e 10; esso ha raggiunto, in questa ultima indicazione, un valore del 45 per cento. Anche in questo caso, e approssimando l'interpretazione di questo indicatore, vuol dire che circa il 50 per cento delle imprese interpellate denunciano problemi di accesso al credito. Naturalmente, il rendimento dei consueti canali di finanziamento creditizio non fa altro che acuire le crisi di liquidità in cui le imprese si sono trovate a causa del crollo verticale di fatturato.
Dunque, quali prospettive si offrono? Naturalmente, la situazione sembra ora in via di miglioramento: lo dicono, per esempio, le indagini dell'ISAE e lo dice anche la nostra indagine congiunturale. Nella richiesta fatta alle imprese di esprimere una valutazione su quello che sarà l'andamento della seconda parte dell'anno, osserviamo e registriamo effettivamente un significativo balzo verso l'alto. In questo caso, l'indicatore sulle aspettative risale da un valore di meno 40 ad un valore di meno dieci; si tratta, quindi di un balzo significativo, ma è pur sempre il secondo dato peggiore mai registrato da quando l'indagine Confapi viene svolta. Non solo, se confrontiamo nella sede storica gli indicatori delle aspettative con l'indicatore della produzione effettivamente realizzata, vediamo che da due anni le aspettative delle imprese mancano sistematicamente di realizzarsi. La situazione, cioè, va sempre un po' peggio di quanto le stesse imprese si aspettano. Esiste, quindi, il rischio che questo piccolo ottimismo manifestato dalle imprese associate alla confederazione possa essere in parte smentito. In ogni caso, la ripresa che forse abbiamo di fronte potrebbe essere più debole di quello che ovviamente tutti noi speriamo.
Tuttavia, a questo proposito, c'è un primo punto dirimente che noi vorremmo sottolineare. Al momento vediamo segni di ripresa, siamo finalmente in grado di dare una dimensione a questa recessione che ha proporzioni storiche mai viste e di cui quindi non riuscivamo nemmeno a dare una misura. Va sottolineato che la velocità con cui si sta uscendo dalla recessione è del tutto inadeguata per recuperare il terreno perduto in questo


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anno. Si possono fare varie elaborazioni per dimostrare questo dato. Ne abbiamo messa a punto una molto semplice: a partire dal mese di luglio, abbiamo proiettato, sugli indicatori di produzione dell'ISTAT, l'incremento congiunturale massimo raggiunto dalla produzione industriale in questo mese, ossia un incremento congiunturale dello 0,7 per cento che, in ragione d'anno, equivale ad un incremento di quasi il 9 per cento; abbiamo poi ipotizzato - ma si tratta di un'ipotesi chiaramente non plausibile, essendo una stima ultraottimista - di avere questo 0,7 per cento di aumento permanente da qui all'infinito. Il risultato ci dice che, dato il livello da cui partiamo, occorrerebbe aspettare dicembre 2012 per ritornare ai livelli di produzione del gennaio 2008.
Pertanto, «il trascinamento», l'eredità con cui ci confrontiamo è talmente pesante che occorre un orizzonte pluriennale per tornare ai livelli di produzione che avevamo già raggiunto.
Naturalmente, a questo punto, si pone una questione: ci si può chiedere, se, così come è stata rapida la caduta dei livelli di produzione degli altri indicatori, non possa essere altrettanto rapida la risalita. Questo è il primo momento in cui dobbiamo inserire la riflessione per cui sarebbe errato ragionare a parametri invariati; ci sono, infatti, molte analisi - richiamiamo quella recente apparsa sul Il Sole 24 Ore di Marco Fortis - che ci indicano che il panorama economico post-crisi sarà molto diverso dal panorama economico pre-crisi, e ciò per molte ragioni. Una di queste è che il potenziale di domanda che ha sviluppato la principale economia del mondo, gli Stati Uniti d'America, sarà chiaramente minore del potenziale di domanda espresso a partire dagli anni Novanta fino all'esplodere della crisi. Ciò significa probabilmente che dovremo aspettarci di vedere saggi di crescita dell'economia internazionale e presumibilmente del commercio mondiale più bassi di quelli a cui siamo abituati.
In questo momento, quindi, l'ipotesi più probabile è che si non risalga tanto rapidamente quanto rapidamente si è caduti, ma che si risalga con un ritmo inferiore a quello precedente alla crisi che, per l'economia italiana, era già un ritmo abbastanza lento.
Affermiamo, inoltre, che la crisi colpisce nel momento sbagliato perché noi economisti siamo anche abituati a leggere, a interpretare e ad analizzare le recessioni come elementi di terapia: quando un sistema raggiunge livelli di squilibri non più sostenibili, la recessione induce politiche di correzione. Da questo punto di vista, si tratta, dunque, di un momento virtuoso, anche se non auspicabile, del ciclo economico. Nel caso specifico dell'industria, le recessioni del passato erano sempre intervenute in situazioni di perdita di competitività dell'industria italiana, ragion per cui avevano costituito l'occasione per indurre le imprese ad adottare politiche di ristrutturazione che restituissero la competitività perduta.
Purtroppo, questa analisi non è applicabile alla situazione corrente. Al contrario, gli studi di cui disponiamo ci dicono che il sistema manifatturiero italiano ha compiuto negli ultimi anni importanti sforzi di ristrutturazione e di adeguamento alle nuove condizioni della moneta unica e della globalizzazione. Siamo sostanzialmente in una situazione in cui le imprese manifatturiere hanno molto investito, hanno molto ristrutturato e si aspettavano, quindi, di vedere il ritorno dei loro investimenti. Naturalmente, con questo non intendo dire che tutti i problemi che affliggono il nostro sistema manifatturiero avrebbero potuto essere risolti. Nell'aspettativa delle imprese, tuttavia, tali problemi avrebbero potuto essere risolti in un contesto espansivo.
Ebbene, la crisi è intervenuta a vanificare le loro aspettative. Di fatto, osserviamo un sistema manifatturiero che non riesce a ottenere i ritorni dei propri investimenti. Dal punto di vista dell'analisi economica, un sistema di imprese che fa investimenti e non ottiene ritorni a seguito di cause esterne, è un sistema a rischio chiusura. Questo, dunque, è un elemento di grande rischio.


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Tra l'altro, anche in questo caso vanno sottolineati alcuni dati che segnalano che forse il peggio non è ancora stato superato. I dati di contabilità nazionale ci dicono che nel primo trimestre di quest'anno il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato nell'industria del 10 per cento. Anche questo è un valore mai registrato in precedenza ed è effetto di una caduta della produttività industriale del 6 per cento, anch'essa senza precedenti. Il motivo di tale caduta risiede nel fatto che le imprese hanno esitato a tradurre il crollo del valore aggiunto e degli ordinativi in un proporzionale allontanamento di forza lavoro dai processi produttivi. In pratica, le imprese hanno deciso di provare a continuare a investire, in questo caso conservando il proprio capitale umano. Naturalmente, le dimensioni assunte per questi comportamenti dagli aumenti del costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP) e dalla perdita di produttività sono insostenibili. Probabilmente, quindi, dovremo aspettarci un aggiustamento su questi aspetti nei prossimi mesi.
A tal riguardo, mi permetto di fare un richiamo - che trovate nel documento che vi abbiamo consegnato - a come interpretano questa situazione i tre istituti CER, Prometeia e REF in un rapporto predisposto per il CNEL all'inizio di giugno. I tre istituti ci dicono che la flessione prociclica della produttività può determinare nelle odierne condizioni tre diverse situazioni: una spinta inflazionistica sui prezzi alla produzione dell'industria manifatturiera, che comporterebbe una immediata perdita di competitività sui mercati internazionali; una forte compressione dell'occupazione, tale da ripristinare i valori di produttività precedenti alla recessione; oppure una flessione dei salari nominali proporzionale alla caduta della produttività. Sono tutte ipotesi possibili dal punto di vista della teoria economica ma, naturalmente, non tutte hanno lo stesso costo sociale. I tre istituti concludono affermando che la questione che si pone in questo momento per la politica economica è di individuare quale combinazione di questi tre possibili esiti sia quella con il minimo costo sociale.
Il terzo punto cui accennavo poc'anzi riguarda il fatto che non ci sono meccanismi automatici di aggiustamento. Forse lo sappiamo tutti, ma non mi sembra che nelle analisi disponibili ciò sia stato abbastanza stigmatizzato. È la prima volta che all'industria italiana si chiede di uscire dalla recessione senza ricorrere alla svalutazione del cambio; nei passati episodi di recessione, infatti, la svalutazione era sempre stata un pezzo della manovra di rilancio del ciclo economico.
Naturalmente, nessuno vuole rimpiangere uno strumento alla cui indisponibilità ci siamo ormai abituati e che sappiamo produrre benefici di breve termine e costi di lungo periodo. Va, tuttavia, sottolineato e tenuto presente all'interno di una indagine come quella svolta da questa Commissione, il fatto che altri Paesi nostri concorrenti utilizzano lo strumento del cambio.
Di nuovo, vengo ad un passaggio che ci dice come i parametri e i modelli di sviluppo stiano cambiando. L'attivismo di molti Paesi, dei Governi di molti Paesi, la maggiore flessibilità e possibilità di utilizzare lo strumento del cambio sta in realtà acquisendo, nelle more dell'attuale recessione, nuovi vantaggi per i sistemi Paese dell'area asiatica. Usciremo dalla recessione trovando i Paesi asiatici ancora più competitivi di quanto non fossero ad inizio recessione.
Ovviamente, questo è un elemento di ulteriore difficoltà per il nostro sistema manifatturiero.

ARMANDO OCCHIPINTI, Responsabile ufficio relazioni industriali di Confapi. La Confapi si è preparata a questa indagine; ha avuto tempo per farlo in quanto c'è stato un rinvio della nostra audizione. Noi abbiamo condotto un'indagine anche all'interno del nostro sistema, intervistando un campione di aziende associate e facendo una sintesi delle proposte territoriali. Auspichiamo, pertanto, che questo nostro contributo, che ha anche una valenza


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scientifica, possa essere colto come occasione per far sì che queste proposte territoriali da noi «metabolizzate» a livello nazionale possano avere la dovuta attenzione da parte del Parlamento. Esse possono essere lette anche sotto forma di proposta di legge dal momento che abbiamo effettuato un'indagine che purtroppo conferma la situazione per quello che è: quasi la metà delle PMI ha un portafoglio ordini inferiore ad un mese; che il 22,5 per cento ha dichiarato tre o quattro settimane; che nel 93 per cento delle aziende c'è una diminuzione delle attività produttive rispetto allo scorso anno e che le aziende hanno accusato un calo del lavoro, in termini di ordinativi, che va dal 30 al 70 per cento. Sono tutti dati allarmanti. Il fatturato, nel 90 per cento dei casi, ha avuto un calo e la caduta verticale del fatturato si colloca tra il 30 e il 40 per cento, con punte che vanno fino al 70 per cento. Si tratta di dati che ci hanno spinto a raccogliere una serie di indicazioni su come poter sostenere meglio le PMI e vincere la crisi. Abbiamo innanzitutto evidenziato come l'accesso al credito e la liquidità delle imprese continuino ad essere una difficoltà, e confermiamo questo dato.
I dati raccolti evidenziano che ci sono alcune differenze significative tra i settori merceologici di appartenenza delle imprese, tuttavia la situazione del rapporto con il credito è peggiorata per il 56 per cento nelle PMI.
Le nostre proposte sono evidentemente indirizzate alla possibilità di sospendere gli acconti fiscali. Questo è un documento che troverete nel rapporto che vi consegniamo e, dal momento che lo consideriamo parte integrante del nostro intervento e che disponiamo di un tempo limitato, lo sintetizzo per titoli.
Riguardo alla partita IVA per cassa, abbiamo la questione dell'IRAP, che è un'imposta per certi versi ritenuta iniqua e che avrebbe bisogno di alcuni correttivi.
Per quanto riguarda la pubblica amministrazione, urge un provvedimento che obblighi le pubbliche amministrazioni a saldare le fatture delle aziende in tempi ragionevoli.
Sugli interessi passivi, ci sarebbe da ripristinare la piena deducibilità fiscale. Riguardo al piano casa, già oggi ne abbiamo letto sui giornali. Riguardo al patto di stabilità interna, ci sarebbe una riflessione da svolgere circa la sua eventuale sospensione.
Sulla richiesta di moratoria di Basilea 2, sarebbe il momento di verificare fino a che punto sia il caso di continuare a sostenerla o se non debba essere congelata, modificata, integrata.
Riguardo ai cosiddetti Tremonti bond, è necessario monitorare i comportamenti delle banche, così come sulla Commissione di massimo scoperto andrebbe effettuato un costante monitoraggio. Sulla patrimonializzazione dei confidi, è necessario un intervento di sostegno.
Faccio un ultimo inciso per dire che per quanto riguarda la partita degli stimoli congiunturali che possono essere affidati a misure di sostegno di specifici settori manifatturieri, noi abbiamo visto l'intervento sull'automotive, quello sugli elettrodomestici e adesso, con il cosiddetto Tremonti-ter, abbiamo nel decreto-legge n. 78 del 2009 la partita sulle macchine utensili sulla la quale, però, ci sarebbero ancora dei chiarimenti da fare. Per esempio, noi riceviamo telefonate per quanto riguarda il settore legno, che nel codice ATECO n. 28 manca sebbene, fino a prova contraria, si tratti di macchinari ad alto contenuto tecnologico con microprocessori. I pasticci legislativi rischiano di inficiare il lavoro degli imprenditori che si avvalgono di questa norma e l'Agenzia delle entrate, per cavilli dovuti al modo in cui sono scritte a volte le norme, rischia di penalizzare imprenditori che invece rientrano in quel decreto-legge, nel quale si afferma, tra l'altro, che tutto ciò viene fatto a salvaguardia del lavoro e della sicurezza dell'ambiente e nei luoghi di lavoro.
Un tema che non è stato enfatizzato nell'intervento che mi ha preceduto, ma che trovate nel documento, riguarda l'importanza


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del lavoro che dovremo continuare a svolgere sulla semplificazione amministrativa, sulle agevolazioni fiscali mirate agli investimenti pubblici e sulla domanda pubblica.
Un dato statistico riguarda la privacy - che pronuncio «privasi» in quanto Oxford impone tale pronuncia; altrimenti possiamo chiamarla riservatezza ed è più facile -; essa è costata al sistema aziende 1 milione 728 mila euro, ossia l'apparato per la riservatezza è costato alle aziende questa cifra. Bisogna studiare, quindi, misure utili anche in funzione della semplificazione.

PRESIDENTE. Do la parola ai deputati che intendono porre quesiti o formulare osservazioni.

LUDOVICO VICO. Signor presidente, ringrazio il dottor Occhipinti e il dottor Stefano Fantacone. Mi associo al presidente nel dire che avremmo gradito anche la presenza dei massimi responsabili della Confederazione.
Ho apprezzato l'ultima parte dell'intervento del dottor Occhipinti, che ha riportato alla natura specifica dell'indagine avviata da questa Commissione. La natura specifica dell'indagine è, infatti, provare a comprendere, attraverso i corpi intermedi, dell'impresa, del lavoro e del mondo associativo in generale, quali sono le dinamiche concrete che agiscono all'interno dell'impresa e del mondo del lavoro, dipendente o autonomo che sia. Ci interessa comprendere quando i corpi intermedi non risolvono la tensione, essa deve essere misurata con l'azione di Governo. Secondo la mia opinione, cioè, il punto centrale dell'indagine consiste nel comprendere, in questa sede, se le aspettative rispetto ai dati che ci ha ricordato il dottor Fantacone - per molti di noi si tratta di dati che snoccioliamo quotidianamente - vengono soddisfatte o meno. Il punto è capire se nel mondo reale e concreto delle PMI, che in questa Commissione sono al primo punto dell'agenda dei lavori, le misure anticrisi fin qui messe in campo dal Governo e dal Parlamento sono in grado di fronteggiare questa situazione di emergenza. Ovviamente, poi, sono le decisioni di Governo che prevalgono, come è normale che sia. Il punto, dunque, è delicato.
Il dottor Occhipinti, nell'analisi finale dell'indagine svolta, ci offre un quadro più concreto, e un quadro è concreto sapendo che noi siamo al settimo provvedimento anticrisi del Governo. È necessario, quindi, comprendere, senza tradurre ciò in politica, come pure è naturale, se quelle misure abbiano avuto degli effetti; capire quali misure sia necessario adottare ancora, in attesa delle dinamiche oggettive che potranno verificarsi.
La prossima settimana discuteremo il Documento di programmazione economico-finanziaria; questa settimana ci sarà il voto di fiducia sul settimo provvedimento anticrisi e lo stesso fatto che si tratti di un voto di fiducia significa che non ci sono tempi, forme e modi perché il Parlamento spossa essere investito nella sua piena responsabilità. Abbiamo bisogno di comprendere, proprio attraverso i corpi intermedi delle piccole e medie imprese, in questo caso attraverso la Confapi, se queste misure siano in grado di sostenere una ripresa.
Noi abbiamo avuto l'impressione che le misure non siano sempre state adeguate. Lei ci ha elencato una lista di misure che - voglio dirle - sono state puntualmente bocciate nei sette provvedimenti finora discussi e adottati dal Parlamento e, ovviamente, dal Governo. Continuiamo a pensare che una serie di azioni però debbano essere intraprese; a questo punto subentra il richiamo all'opinione della Confapi, per vedere se essa ha un'opinione già costruita e maturata insieme alle altre associazioni d'impresa, in un concerto delle associazioni del mondo del lavoro che noi riteniamo utile. Desideriamo, pertanto, conoscere quale sia l'opinione rispetto al Documento di programmazione economica-finanziaria che il Governo ha presentato la settimana scorsa.
Pensiamo che una serie di annunci, soprattutto sui saldi, continuino ad essere anticiclici e che, se nel nostro Paese si


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continua a impegnare solo lo 0,2 per cento del PIL sui G20, siamo gli ultimi persino dopo la Turchia. Si tratta di questioni che desidereremmo comprendere in un quadro più ampio, sapendo, come ci è stato fatto osservare in questi mesi, che in fondo il problema principale delle piccole e medie imprese è rappresentato dalla liquidità.
Da più parti ci viene detto che non si tratta più di confidi o di fondi di garanzia, o almeno non in maniera drastica, ma che il problema vero è rappresentato dal rapporto tra le piccole e medie imprese e il sistema bancario. Se la Confapi suggerisce di mettere in moratoria Basilea 2, la mia domanda è la seguente: così facendo, muta il rapporto fra sistema bancario e piccole e medie imprese? Difatti, se muta - mi sia consentita un'iperbole -, qualunque misura va bene. Se, però, la moratoria di Basilea 2 lascia intatta la cattiva relazione territoriale e nazionale tra il sistema del credito e le piccole e medie imprese, allora si pone un problema, sapendo che il Parlamento, o meglio, in ultima analisi, il Governo ha ricapitalizzato le banche, sebbene voglio chiarire che forse era doveroso farlo.
In direzione di una maggiore liquidità, tuttavia, siamo al punto di partenza e tale questione ci riporta a quanto la Confapi ha oggi segnalato, vale a dire la sospensione degli acconti fiscali. Questa richiesta risale a gennaio 2009; noi pensavamo che quella sospensione sarebbe stata applicata alla scadenza del 30 giugno - per sospensione intendevamo, spero comunemente, se ho ben capito, la traslazione al 31 dicembre o a data da stabilirsi -; siamo a luglio e, evidentemente, altre cose non hanno funzionato.
Il problema delle quattro settimane o del mese, di cui lei ci ha parlato, ci viene segnalato dalle associazioni di impresa dal marzo scorso - intendo dire che viene segnalato a tutti i colleghi della X Commissione, non solo ad una sola parte - e ci pone, dunque, di fronte alla necessità di capire la situazione e di recepire dei suggerimenti. Tali suggerimenti, però, ancorché utili, non potranno purtroppo essere recepiti nel decreto che verrà sottoposto al voto di fiducia domani, nel quale, ovviamente, ci si è un po' più preoccupati di adottare una riforma delle pensioni da cento milioni di euro che sarebbe anche importante realizzare. Per altro, con una battuta, prima dicevo che tale cifra è la stessa per la quale è stato venduto dal Milan Kakà.
Abbiamo, dunque, bisogno di capire e di verificare; le ultime osservazioni che il dottor Occhipinti ha formulato, che ci forniscono un quadro che ci sembra coerente con la nostra iniziativa politica.

PRESIDENTE. In ragione del calendario dei lavori di quest'oggi e del fatto che i rappresentanti di Confindustria ci attendono, vi chiederei di porre domande precise ai rappresentanti di Confapi, i quali in ogni caso, anche per il ruolo che ricoprono e al di là delle indicazioni puntuali, non si potranno sostituire al Governo e all'attuale dibattito politico e dialettico in corso tra maggioranza e opposizione.
Vi chiederei, pertanto, interventi brevi, nel rispetto delle persone che ci stanno attendendo e dello spazio che dovremmo dedicare all'esame del DPEF che ritengo significativo per i nostri lavori odierni..

SAVINO PEZZOTTA. Vorrei porre delle domande abbastanza precise circa alcune questioni che non ho capito. Non essendo un pessimista, vorrei capire meglio.
In questi giorni - lo avrete letto anche voi - si parla di ripresa. Vorrei, dunque, capire qualcosa in più; ad esempio, se si tratti di una ripresa che ha una dimensione strutturale, oppure se siamo di fronte ad un ricostituirsi delle scorte e pertanto è una ripresa di necessità, che tuttavia non ha elementi strutturali al suo interno.
Vorrei capire bene, in quanto questo aspetto non mi è chiaro. Voi, infatti, dipingete un quadro tremendo e poi ci dite che c'è una ripresa. Tenendo conto che mi preoccupa molto di più quello che avete detto: se, infatti, c'è una ripresa in questa situazione, l'alleggerimento per poter ripartire sarà tutto scaricato sul sociale e,


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quindi, mi devo attendere un autunno sociale tremendo. Seguendo i vostri ragionamenti, vorrei capire qualcosa di più; è chiaro che se c'è la ripresa, bisogna alleggerirsi in modo da poter correre.
È vero, poi, che dal punto di vista sociale questa è una situazione abbastanza difficile. Vorrei capire, dunque, quali sono i settori di maggiore criticità, quali hanno la possibilità di uscirne e quali no. Voi, infatti, dovreste conoscere i settori che ce la fanno e riescono a sostenersi, mentre per quelli che non ce la fanno si devono prevedere interventi ad hoc. Questo, però, ce lo dovete dire voi. O forse si salvano tutti? In tal caso, va bene, per carità; tuttavia, non credo sia così. Se, come avete detto prima, cambia l'impianto a livello globale, qualche problema, infatti, l'avremo.
Vorrei sapere se Confapi abbia individuato i settori del manifatturiero e della piccola impresa sui quali investire e se abbia una strategia da proporre. Non mi interessa molto la strategia del Governo, che critichiamo e sulla quale non siamo d'accordo; vorrei però sapere se esiste una strategia imprenditoriale di Confapi per l'uscita dalla crisi. Io, infatti, non l'ho intravista. Chiedere degli ombrelli, va benissimo, servono: quando piove tempesta, se non ci sono ombrelli è un disastro. Cosa succede, però, quando ha finito di piovere? Dovrà, infatti, pur finire un giorno di piovere! Vorrei capire se l'associazione ha una strategia imprenditoriale di intervento sulla crisi. Ciò vuol dire rapporto con le banche, innovazione, ricerca e idee di sviluppo da mettere in campo. Condivido le questioni sollevate dal collega in precedenza, ma siccome il tempo è stretto, mi fermo a queste che secondo me sono quelle che dovrebbero chiarirmi anche il ruolo dell'associazionismo imprenditoriale. Io, infatti, non lo capisco. Se si limita a un pianto greco, va benissimo, è utilissimo; vorrei, tuttavia, capire quali proposte avanzate. Poiché credo nell'imprenditoria e nel fare, vorrei sapere quale contributo offrite voi.

RAFFAELLO VIGNALI. Signor presidente, mi permetta un paio di considerazioni. La prima riguarda quelle svolte dal collega Vico; evidentemente infatti, ognuno interpreta la sua parte. Con una battuta, voglio dire che non so quale sia il Governo o il G20 che abbia il potere di far riprendere la domanda mondiale; questo, infatti, è il problema della crisi e francamente non so chi sia in grado di farlo. Credo che con i sette provvedimenti del Governo si sia cercato, con i vincoli della finanza pubblica, di sostenere a vario livello la nostra economia, intervenendo sul rapporto con le banche, sul rilancio della domanda dov'era possibile, e così via. In questa linea si inquadra anche l'ultimo provvedimento sugli investimenti, sul quale anche io avevo proposto degli emendamenti che, però, non stati approvati. Non importa.
Vorrei porre una domanda. Poiché sono assenti i vertici politici dell'associazione, se la ritenete una domanda impropria potete non rispondere. Credo che oggi le richieste che si avanzano alla politica, oltre a quelle che avete rappresentato, sono note e purtroppo si scontrano con una gestione della finanza pubblica che, a partire dagli anni Settanta, non ci consente oggi di avere troppi margini di manovra.
È vero che questa crisi ricade molto sui piccoli e medi imprenditori - direi soprattutto sui piccoli -; ma ciò avviene non tanto e non solo per la crisi in sé, bensì perché gran parte del funzionamento della macchina pubblica italiana, ossia del funzionamento dello Stato, è caricato in forma di tasse proprio sulle spalle dei piccoli. Ciò è assolutamente evidente.
Da questo punto di vista, credo che tale stato di cose dipenda molto dal fatto che la voce dei piccoli è spesso frammentata. Ciò che le chiedo, dunque, è se non riteniate che sia giunto il momento, non dico di costituire una unicità di rappresentanza delle piccole e medie imprese - non mi piacciono, infatti, le utopie -, ma almeno di istituire un coordinamento maggiore della loro rappresentanza. Potrebbe essere uno strumento utile proprio


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per far presente le tante richieste che, per quanto mi riguarda condivido nel modo più assoluto, ma che spesso non trovano udienza non tanto nell'aula di questa Commissione, ma magari in qualche altra aula di Commissione o presso lo stesso Governo.

PRESIDENTE. Do la parola al nostro ospite per la replica.

ARMANDO OCCHIPINTI, Responsabile ufficio relazioni industriali di Confapi. Signor presidente, ringrazio i deputati che sono intervenuti per le interessanti riflessioni e per le domande rivolteci.
Per quanto riguarda la questione sollevata dall'onorevole Vico, posso dire che consegneremo un documento dal titolo: «Sostenere le PMI per vincere la crisi»; dal momento che è il potere legislativo ad avere il compito di avanzare le proposte di legge, all'interno di questo documento riteniamo ci siano gli ingredienti per elaborare una azione incisiva affinché si possa quantomeno combattere questa crisi. Senza ripetere, quindi, gli undici punti, lei sappia che qui dentro trova alcuni utili riferimenti.
Per quanto riguarda l'intervento dell'onorevole Pezzotta, devo dire che non a caso ho citato i dati CNEL, usciti proprio oggi; in essi si parla di mezzo milione di persone che andrà a spasso. Il problema sociale, quindi, esiste. Siccome alla fine dell'intervento mi si chiedeva che cosa ci mettiamo noi, rispondo che non ci stiamo mettendo la faccia: penso, infatti, che nessuno, nel resto dell'Europa industrializzata, abbia le difficoltà che incontriamo noi come imprenditori.
Oggi ci si dovrebbe domandare, piuttosto, perché fare impresa in Italia, qual è lo spirito con il quale si è spinti a farlo. Da poco abbiamo lo sportello unico; prima gli adempimenti cui assolvere per aprire una azienda erano infiniti e ci volevano mesi e mesi di tempo per poter dare avvio ad una attività imprenditoriale.
Per quanto riguarda il discorso della ripresa, noi stiamo dicendo in tutte le lingue, anche in quelle meno conosciute, che la ripresa ancora non c'è. Non a caso abbiamo portato con noi la voce scientifica di un nostro economista; lo abbiamo fatto per poter spiegare più o meno scientificamente il motivo per cui questa ripresa non c'è, per cui ci sono delle difficoltà e che cosa cambierà dopo la ripresa: staremo ancora peggio di prima, nonostante il fatto che eravamo diventati bravi, come è stato spiegato in precedenza parlando del problema del Clup. Eravamo diventati bravi, però è arrivata questa crisi «finanziarizzata» - così è stata definita - a livello economico e di dimensione globale.
Per quanto riguarda i diversi settori, nel documento lo diciamo: non ce n'è uno che si salva. Dovremmo, quindi, chiudere quello che crea la ricchezza che si può ridistribuire per un Paese. Nessun settore, cioè, ha conseguito risultati positivi. Il calo dell'occupazione è del 60 per cento nelle piccole e medie imprese e del 40 per cento nelle piccole. Tuttavia, l'agroalimentare e l'impiantistica presentano valori meno preoccupanti rispetto agli altri settori in forte crisi. Poco fa citavo l'esempio della conversazione avuta a Reggio Emilia con una mia collega; al di là dei dati ufficiali, l'85 per cento dell'oleodinamica ha avuto un calo di produttività. In questo settore, però, sono presenti tecnologie, ingegneri, valore aggiunto e così via. Pertanto, quando ripartiremo per le esportazioni - ha detto, infatti, che senza esportazioni non dobbiamo illuderci che si possa ripartire -, non dobbiamo pensare di chiudere l'oleodinamica; dovremmo, al contrario, trovare la maniera di sostenerla e aiutarla a ripartire, visto che ci fornirà quella ricchezza che potremo poi ridistribuire per il Paese.
Per quanto riguarda il discorso dell'internazionalizzazione, quindi, si tratta di una strada obbligata, in base a quanto è stato già detto. È sufficiente leggere il trattato di Lisbona: noi non rispettiamo nessuno dei parametri di Lisbona. Dunque, come si deve fare? Non basta leggere il trattato di Lisbona, bisogna rimboccarsi le maniche e, ognuno secondo il proprio compito, fare in maniera che


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quei risultati si raggiungano. Non a caso, infatti, l'OCSE afferma che la ripresa passa attraverso l'education, attraverso la società della conoscenza. Società della conoscenza non è una parolaccia o una parola magica, ma una parola che deve essere tradotta in fatti reali. Ciò si può realizzare cambiando e incrementando tutti gli standard legati all'education, alla professionalità, all'innovazione, alla ricerca, all'università. In Finlandia ci sono tre volte tanto i politecnici che abbiamo in Italia. La Finlandia, però, conta 5 milioni di abitanti, l'Italia un po' di più: ci possiamo aggiungere uno zero più altri 10 milioni di abitanti e arriviamo agli oltre 60 milioni di italiani. Abbiamo meno politecnici della Finlandia, che fino a ieri produceva solo legna. Noi, invece, le macchine del legno neanche le vogliamo considerare all'interno dei codici ATECO; così finirà che un imprenditore che fa un investimento a salvaguardia della sicurezza degli impianti, perché così è scritto nella divisione 28 della tabella ATECO, richiamata dall'articolo 5 del decreto-legge n. 78 del 2009, poi si senta invece dire dall'Agenzia delle entrate che per un cavillo burocratico non può usufruire della detassazione degli utili reinvestiti. Noi stiamo denunciando queste cose.
Per quanto riguarda la domanda sulla voce dei piccoli, io sono uomo di parte. Ovviamente, essendo la nostra una associazione apartitica, ma politica nel senso che svolge una politica associativa, noi siamo con tutti coloro che sposano questa causa. Se voi in futuro incontrerete dei signori che rappresentano magari quattro volte le piccole e medie imprese che abbiamo noi, ma non dicono queste cose, significa che in realtà non rappresentano le istanze della piccola e media impresa; altri ancora dicono di rappresentare le piccole e medie imprese, ma poi si preoccupano dei lavoratori autonomi. Noi, invece, siamo qui, dialoghiamo con tutti e siamo la voce della piccola e media impresa; ovviamente, l'unione fa la forza, però vogliamo partire dal concetto che noi rappresentiamo la piccola e media impresa, e siamo convinti di rappresentarla in maniera genuina. Ciò non esclude che in futuro si potranno costruire dei coordinamenti in molti campi, anzi, lo abbiamo già fatto e sviluppato; a volte si sono interrotti, in qualche caso saranno ripresi. Sicuramente, in tema di sicurezza questo coordinamento c'è ed esiste da molto tempo.
Grazie.

PRESIDENTE. Ringrazio gli auditi e dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di rappresentanti di Confindustria.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla situazione e sulle prospettive del sistema industriale e manifatturiero italiano in relazione alla crisi dell'economia internazionale, l'audizione di rappresentanti di Confindustria.
Desidero innanzitutto comunicare che purtroppo il dottor Giampaolo Galli ha un impegno successivo. Inviterei, quindi, il dottor Galli a svolgere il suo intervento, per poi consentire ai deputati che lo richiedano di porre quesiti e formulare osservazioni.
Do quindi la parola al dottor Galli, direttore generale di Confindustria.

GIAMPAOLO GALLI, Direttore generale di Confindustria. Grazie, presidente. Grazie alla Commissione dell'invito. Vi prego di scusare la presidente Emma Marcegaglia che mi ha chiesto di sostituirla in questa audizione. Accanto a me c'è il vicedirettore generale di Confindustria, il dottor Kraus, il quale tra l'altro ha la delega in materia di politiche industriali, ossia i temi che a voi interessano.
Le domande che ho visto formulate nel corso di questa indagine attengono ad aspetti strutturali dell'economia e dell'industria italiana. Naturalmente, da quando avete dato avvio a questo lavoro la crisi si è approfondita e, quindi, le risposte a quelle domande strutturali sono in parte


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diverse. Abbiamo, pertanto, preparato un testo, che vi consegniamo e che testimonia come la crisi stia impattando sul piano congiunturale, ma anche come essa si inserisca in un processo di aggiustamento strutturale molto forte, che era in corso nell'economia italiana e nell'industria italiana in termini di ristrutturazione, competitività, ricerca, innovazione, internazionalizzazione, aggregazione di filiera - tutte questioni su cui vi interrogate - e che adesso deve necessariamente assumere un significato diverso. Nel testo che lasciamo agli atti abbiamo segnalato alcuni effetti molto differenziati sui diversi settori produttivi.
Iniziando dalla crisi, sappiamo tutti quanto essa sia profonda. In questo momento, noi rileviamo qualche segnale di stabilizzazione e in alcuni casi di ripresa dell'attività. Dobbiamo, però, precisare che, quand'anche si ritornasse a crescere, non è prevedibile al momento un tasso di crescita analogo a quello pre-crisi; rimarrebbe, cioè, un vuoto molto ampio, una differenza fra il PIL potenziale, ossia la capacità produttiva potenziale, e la capacità produttiva effettivamente utilizzata. Peraltro, come tutti sanno, i tassi di crescita pre-crisi erano tassi di crescita molto bassi.
Negli ultimi quindici anni l'Italia ha avuto un tasso di crescita del prodotto interno lordo fra i più bassi delle maggiori economie. Per questo noi abbiamo insistito molto - e anche gli organismi internazionali insistono molto - sulle misure atte a rilanciare la crescita nel medio termine. Noi e tutti gli altri Paesi ne usciremo, ma noi più degli altri Paesi, usciremo da questa crisi con un debito pubblico molto elevato. Basta guardare le stesse previsioni che fa il Governo. Il fatto che tanti altri Paesi avranno un debito pubblico forse non molto diverso dal nostro non attenua per noi la gravità della situazione.
Naturalmente, diamo atto e siamo ben lieti di dare atto al Governo e al Parlamento di aver avviato una serie di misure importanti - le cito soltanto, senza approfondire altrimenti andrei fuori tema e sconfinerei dal mio tempo - in materia di pubblica amministrazione, istruzione, giustizia. Sembra importante che sia stata data una forte priorità al tema delle infrastrutture e anche ad un altro tema, che qui voglio solo citare e che è quello della semplificazione del rapporto fra pubblica amministrazione e imprese. Sono azioni che, a nostro avviso, vanno nella giusta direzione in generale; è necessario, tuttavia, intensificare gli sforzi perché gli effetti di queste riforme possono agire sulla crescita economica solo nel medio termine.
Naturalmente, ci siamo fortemente concentrati di questi tempi sull'emergenza con l'obiettivo di evitare che la crisi faccia perdere al Paese pezzi rilevanti del suo sistema produttivo. Come sapete, l'azione di Confindustria ha sempre preso le mosse dalla piena consapevolezza che l'azione di politica economica italiana è fortemente vincolata dall'alto debito pubblico. Abbiamo, quindi, sin qui cercato di individuare azioni finalizzate a dare liquidità alle imprese, a far ripartire la produzione, a sostenere il reddito dei lavoratori. Devo anche dire che in molte delle aree su cui ci siamo concentrati sono state prese delle misure da parte del Governo e del Parlamento. Quindi, il nostro primo punto è stato quello di potenziare gli ammortizzatori sociali per la coesione sociale. Questo è fondamentale. Sono state stanziate risorse, sono state intraprese delle azioni. Noi apprezziamo in particolare l'impegno del Governo a mettere in campo ulteriori strumenti riguardanti la durata della cassa integrazione, qualora ve ne fosse la necessità.
Un secondo punto, sul quale peraltro voi ci interrogate, è quello che riguarda il credito alle imprese. È evidente che questo è un tema sul quale non ho bisogno di soffermarmi. È assolutamente cruciale. Ci sono grandi difficoltà di accesso al credito da parte del sistema delle imprese e numerosissimi sono i provvedimenti assunti dal Governo in materia di Cassa depositi e prestiti, SACE, fondo di garanzia, Tremonti-bond e così via. La nostra considerazione è una sola: fino ad ora, gli effetti di queste misure non sono arrivati alla


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piccola impresa che va in banca; bisogna, dunque, fare l'ultimo miglio, l'ultimo centimetro. Spesso le leggi e i provvedimenti sono stati varati, però il loro effetto ancora non si vede.
Noi abbiamo chiesto che, nell'ambito di una concertazione in sede europea, si riveda l'accordo di Basilea 2 in maniera tale da consentire criteri di valutazione meno stringenti per l'accesso al credito da parte delle imprese. Abbiamo espresso un giudizio positivo e stiamo lavorando con l'ABI e con il Ministero dell'economia e delle finanze per misure che consentano di sospendere per un periodo predeterminato le rate di finanziamento per mutui, leasing e altre tipologie di credito bancario.
A tal proposito, abbiamo apprezzato una misura che è stata assunta nel provvedimento anticrisi da parte del Governo e fatta propria dalle competenti Commissioni, in merito alla ricapitalizzazione o alla parziale detassazione degli apporti di capitale per le imprese. Si tratta di un provvedimento che diventa significativo nella misura in cui permetterà alle imprese di essere più forti nei confronti del sistema creditizio, ricapitalizzandosi.
Abbiamo inoltre dato grande enfasi alla questione dei debiti della pubblica amministrazione verso le imprese: questo è un problema ormai diventato strutturale. Noi valutiamo, e siamo piuttosto sicuri della nostra valutazione, che si tratta di crediti delle imprese verso l'amministrazione stimabili, con una buona approssimazione, in 60 miliardi di euro. Queste risorse sono cruciali, specie in una fase come questa.
Su questo argomento sono state varate a più riprese alcune misure, contenute anche nel cosiddetto decreto anticrisi che da domani sarà in Assemblea. Il ragionamento sarebbe lungo, perché riguarderebbe anche l'assestamento di bilancio; ciò che voglio dire, in estrema sintesi, è che si tratta di verificare l'effettiva incisività e rapidità di utilizzo delle risorse che vengono messe a disposizione.
Occorre approvare molto rapidamente l'assestamento di bilancio e fare in modo che le amministrazioni interessate provvedano, o possano provvedere, quanto più celermente possibile all'emissione dei mandati di pagamento; ciò andrebbe fatto, in ogni caso, prima del 31 dicembre di quest'anno, perché altrimenti diventa «un'altra storia».
Da quello che comprendiamo, riteniamo altresì che i provvedimenti approvati finora non riguardino il settore della sanità, che tuttavia costituisce gran parte del problema.
Abbiamo, inoltre, posto grande attenzione al sostegno degli investimenti. Da questo punto di vista, abbiamo dato un giudizio indubbiamente positivo sulla misura detta Tremonti-ter, la cosiddetta detassazione degli utili investiti. Abbiamo osservato che, tuttavia, rimane esclusa una parte degli investimenti in macchinari e attrezzature; su questo abbiamo pertanto sollecitato una riflessione per evitare di penalizzare settori che pure sono centrali per la tenuta del nostro sistema produttivo. Stiamo cercando di far sì che nel maxiemendamento che verrà presentato domani si trovi il modo di consentire anche alle piccole imprese che non hanno utili di beneficiare di questa misura. Oggi, infatti, si può beneficiare della Tremonti-ter, quindi di un abbattimento dell'imponibile del 50 per cento degli investimenti fatti nel 2009 - questo nel saldo del 2010 -, ma se ne può beneficiare soltanto se si hanno degli utili. Moltissime imprese saranno in perdita nel bilancio 2009. Naturalmente, la perdita può essere poi riportata in avanti di cinque anni, ma in tal modo il beneficio diventa un po' sfuggente nel tempo.
Un altro punto che riguarda gli investimenti - e una componente di essi particolarmente importante, ossia gli investimenti nella ricerca, che a nostro avviso hanno un ruolo assolutamente strategico - è quello relativo al credito d'imposta in ricerca e sviluppo. Sapete che è stato messo un plafond a quello che inizialmente era un credito di imposta per chiunque svolgesse una documentata attività di ricerca e innovazione. Ora si è invece adottato questo sistema di assegnazione dei fondi, il cosiddetto «click day»,


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che è un sistema aleatorio e scarsamente trasparente. A nostro avviso, si tratta di una misura che noi consideriamo come congiunturale, ma anche come fortemente strutturale; la ricerca è, infatti, la base per ritrovare l'innovazione, la via della competitività del nostro sistema e quindi della crescita. A nostro avviso si tratta, dunque, di ripristinare l'automaticità del credito e di integrare la dotazione finanziaria per garantire l'agevolazione. Tra l'altro, ci sono molte imprese che hanno già fatto o avviato progetti di ricerca nel 2008 nella certezza di poter beneficiare di questa misura, mentre ne sono state tagliate fuori.
Infine, abbiamo messo l'accento sul tema delle infrastrutture, dell'accelerazione delle medesime e dell'apertura dei cantieri. Anche in questo caso, vediamo che da parte dei diversi organi, in particolare del CIPE, sono state prese tutte le decisioni che ci sembra dovevano essere prese. L'auspicio è che i cantieri si aprano rapidamente.
Il punto centrale che vorrei affrontare, e che è alquanto ovvio, è che sebbene sia vero che in questo momento abbiamo segnali di arresto della caduta e forse di miglioramento, la produzione industriale si è ridotta; dai picchi a cui eravamo arrivati l'anno scorso, si è ridotta di un quarto, quindi, se da meno 25 si risale la china e si giunge a meno 23, a meno 24 o anche a meno 15, si rimane comunque in una situazione estremamente difficile, estremamente critica.
Come è stata colpita l'Italia dalla crisi? Noi abbiamo prodotto una tabella - che in seguito potrete osservare - in cui abbiamo messo in ordine, Paese per Paese, i diversi settori nell'ambito del manifatturiero e che è basata sugli ultimi dati disponibili dell'Eurostat: maggio 2009 rispetto a maggio 2008. In questo periodo, sul totale del manifatturiero, l'Italia perde il 20 per cento. Come dicevo prima, però, si è toccato anche il 25 per cento; il picco, infatti, si era avuto prima di maggio. Questa percentuale non è molto diversa dalla media dell'Unione europea a quindici, che si attesta al 18 per cento; tuttavia, non è certo migliore, semmai è leggermente peggiore. In ogni caso, è analoga a quella della Germania e della Spagna. Vi sono, poi, Paesi che stanno facendo un po' meglio: in Francia siamo a meno 15. Curiosamente, anche Regno Unito e Stati Uniti, che sono i due Paesi in cui forse più intensa è stata la crisi finanziaria, stanno facendo meglio di noi: il Regno Unito è a meno 13, gli Stati Uniti almeno a meno 15. Chi, invece, sta facendo significativamente peggio di noi è il Giappone, che è quasi a meno 30 come produzione industriale. Gli effetti sui settori produttivi sono fortemente differenziati; evidentemente, quando parliamo di beni di consumo non durevoli, gli effetti sono nell'ordine di meno 1, meno 2 o meno 3 per cento, perché si tratta di beni cui è difficile rinunciare, o il cui acquisto è difficile spostare nel tempo. Gli effetti diventano invece molto pesanti quando parliamo di beni di consumo durevoli, come ad esempio mobili e automobili. In questo caso, siamo su livelli di meno 20 per cento e più. Altrettanto dicasi per i beni intermedi e di investimento, cioè per quei beni che si può decidere di acquistare quest'anno, l'anno prossimo o fra due anni, in funzione dell'andamento congiunturale.
Stiamo parlando naturalmente di medie. Malgrado gli incentivi al settore dell'automobile, esso rimane tra i più penalizzati: nel mese di maggio la produzione ha registrato il meno 30 per cento. Il settore dell'automobile non è, tuttavia, quello in condizioni peggiori: ci sono settori vicini al meno 40 per cento. Quando dico che macchinari, apparecchiature e metallurgia sono intorno al meno 40 per cento, poiché si parla di medie, significa che ovviamente c'è anche l'impresa che è a meno 50 per cento, ed effettivamente in questo caso si incontrano grosse difficoltà ad andare avanti.
Fra le vostre domande ce n'era qualcuna che riguardava lo sviluppo delle reti di impresa entro e al di là dei distretti. Vi esporrò «in pillole» la nostra impressione al riguardo. Innanzitutto, questa volta anche


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i distretti, che tipicamente reagivano meglio nelle situazioni di congiuntura avversa, sono stati colpiti come il resto del sistema. L'osservatorio di Intesa San Paolo, che compie un monitoraggio dei distretti, parla di riduzione delle esportazioni da parte dei distretti del 20 per cento. Le maggiori perdite si sono avute nei mercati di Stati Uniti, Spagna, Regno Unito e Russia.
La nostra impressione è che i distretti rappresentino uno dei contesti importanti di innovazione e valorizzazione dei sistemi di impresa. Servono soprattutto per la pianificazione del territorio e delle attività che devono svolgersi sul territorio, per esempio, in termini di formazione. Noi non siamo favorevoli alla creazione di nuove istituzioni pubbliche. Si punta ad abolire le comunità montane; sarebbe incoerente se si creassero comunità di distretto che rischierebbero di burocratizzare i processi decisionali e distorcere l'allocazione delle risorse. Quindi, il riferimento al distretto rimane importante.
Ci sembra, invece, potenzialmente utile per la pianificazione territoriale quel contratto di rete e di filiera che non necessariamente corrisponde - anzi, in generale non lo fa - alla dimensione geografica del distretto che è stata inserita nel decreto-legge sullo sviluppo appena approvato. Il contratto di rete è una libera associazione di imprese, senza strutture o burocrazie pubbliche, che possono mettersi insieme, per esempio, per partecipare ai bandi di Industria 2015, oppure per lavorare sull'internazionalizzazione o presentare progetti di mercato, superando in tal modo la limitazione della piccola dimensione, che è una delle caratteristiche, nel bene e nel male, come tutti sanno, del nostro sistema produttivo. Riteniamo, quindi, che la linea da seguire sia quella del contratto di rete e della filiera; ciò anche perché l'information technology crea più facilmente di prima nuove strutture di rapporti. Non che prima questo non esistesse, naturalmente; tuttavia, più facilmente di prima essi consentono di uscire da una dimensione strettamente geografica.
La crisi si inserisce in una situazione che, se questa audizione si fosse tenuta alcuni mesi fa, cioè prima di aver preso atto della sua gravità, avrei descritto come un contesto in cui le imprese si stavano fortemente ristrutturando e stavano trovando nuove vie per la competitività.
Le imprese che sono monitorate nel rapporto Mediobanca e Unioncamere, quelle cosiddette del «quarto capitalismo», ovvero le medie imprese, sono cresciute moltissimo negli ultimi anni in termini di fatturato, valore aggiunto, esportazioni e investimenti.
Riguardo ai dati, si è verificato un grosso cambiamento nell'analisi di quanto accaduto al sistema economico italiano e al sistema delle imprese negli ultimi anni. È stata, infatti, compiuta una revisione da parte dell'ISTAT delle stime di contabilità nazionale, per cui abbiamo scoperto, per esempio, che l'aumento della produttività negli ultimi anni (2005-2008), è stato del 5,5 per cento, con i vecchi dati era praticamente pari a zero. Gli investimenti fissi lordi sono cresciuti, mentre leggendoli con i vecchi dati non lo erano; soprattutto, stiamo scoprendo che era in corso un riposizionamento competitivo del nostro settore manifatturiero per quanto riguarda il livello tecnologico. Usando i dati ISTAT sul contenuto tecnologico delle esportazioni, e posto a cento l'export manifatturiero totale, la quota dei beni a contenuto tecnologico medio alto è aumentata, fra il 1993 e il 2008, dal 37 al 42 per cento. Abbiamo avuto un notevole e analogo incremento per le esportazioni a contenuto tecnologico medio e medio basso, mentre è diminuito il peso delle esportazioni a bassa tecnologia. Ci sono stati dei settori in cui si è affermata un'eccellenza tecnologica: nell'aerospazio, nel trasporto su gomma e su rotaia, nei macchinari; senza voler fare torto ad altri, un settore che colpisce particolarmente per il posizionamento dell'Italia è il quello delle biotecnologie. L'Italia conferma un ruolo di primo piano nella competizione internazionale. Siamo il terzo Paese in Europa, il quinto nel


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mondo per numero di addetti nelle scienze della vita. Stanno crescendo i brevetti della biotecnologia italiana: ci sono, quindi, delle eccellenze.
Il problema consiste nel far in modo che questi processi di sviluppo tecnologico si estendano anche ad altri settori che stanno già mostrando segni di vitalità. Da questo punto di vista, a nostro avviso, è necessario adottare strumenti di politica economica che puntino a fare massa critica e a creare collaborazioni tra imprese e fra imprese e settore pubblico, attraverso piattaforme tecnologiche nazionali ed europee, distretti tecnologici e, ovviamente, strumenti di incentivazione orizzontale. Ho già detto, ad esempio, del credito di imposta per la ricerca e lo sviluppo.
Osservo anche che il miglioramento della competitività delle esportazioni italiane, che era in corso prima della crisi, è testimoniato da un saldo attivo manifatturiero che ancora nel 2008 aveva raggiunto i 64 miliardi. Il precedente record era di 55 miliardi e risaliva al 1997. Abbiamo un attivo della bilancia tecnologica che si è palesato a partire dal 2006.
Vengo, ora, a trattare di un'altro fenomeno interessante che sta verificandosi. Sostanzialmente, noi non cambiamo molto la specializzazione produttiva: se si guarda ai grandi settori, essi sono sempre il tessile, l'alimentare, la meccanica,etc.. Tuttavia, all'interno dei settori, sta cambiando tutto e sta aumentando la qualità. Per esempio, quei settori che vengono di solito identificati più di altri con il made in Italy, ossia moda, arredamento, calzature, alimentari - sebbene io creda che il made in Italy siano anche i macchinari e tante altre produzioni -, ebbene, in quei settori è cresciuta l'importanza di quello che viene chiamato affordable luxury, che occupa ormai, definito appropriatamente, il 31 per cento del fatturato, con punte che raggiungono il 40 per cento nella moda e nell'arredamento. Questo è particolarmente importante; noi, infatti, abbiamo il marchio made in Italy, che è molto forte in questi settori, e tuttavia riusciamo a produrre dei beni di qualità, che sono anche affordable. Questa è una qualità importante per entrare nei Paesi emergenti.
Sebbene fare previsioni non sia facilissimo, se le cose non vanno male, si stima che nei prossimi anni avremo nel mondo circa 500 milioni di nuovi consumatori che potranno accedere a questa tipologia di beni e l'80 per cento di questi sarà collocato nei Paesi emergenti, ossia in quei Paesi che fino a poco fa non sognavano di poter avere accesso a questa tipologia di beni; mi riferisco a Russia, Cina, India, Brasile.
Già adesso il nostro export è destinato per il 40 per cento ai Paesi extra UE; si tratta, quindi, di una quota superiore a quella della Germania. La Francia, ad esempio, è al 35 per cento, mentre la Spagna al 31 per cento. I principali mercati emergenti coprono una quota pari al 20 per cento delle nostre vendite all'estero. Ci sarà, quindi, uno spostamento inevitabile delle esportazioni che riguarderà tutti i Paesi, dai Paesi OCSE, che una volta chiamavamo industrializzati, ai Paesi emergenti. Da noi è un processo già in atto in maniera consistente.
Naturalmente, quando ci si sposta verso i Paesi emergenti, diventano particolarmente importanti - lo accenno soltanto, credo abbiate fatto una domanda al riguardo - gli strumenti di incentivazione o di assicurazione dell'export. Cito semplicemente SIMEST e SACE come due temi assolutamente importanti a cui prestare la massima attenzione.
Già negli ultimi 3-4 anni prima della crisi, il contributo principale alla crescita del mondo è venuto dai Paesi emergenti. Ciò è assolutamente vero nell'anno 2009, in quanto i Paesi avanzati danno un contributo negativo, mentre i Paesi emergenti danno un contributo positivo, e lo sarà in misura ancora maggiore nei prossimi anni.
La prima delle vostre domande atteneva all'appartenenza all'Unione europea; essa per noi è fondamentale. Vorrei svolgere solo paio di considerazioni; la prima riguarda l'euro. Vediamo, infatti, che adesso l'Islanda chiede di far parte dell'Unione


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europea e anche la Danimarca e la Svezia stanno riconsiderando la loro posizione di autoesclusione dalla moneta unica.
La successiva considerazione riguarda la questione degli aiuti di Stato. Comprendiamo che in una situazione di emergenza la Commissione europea abbia dovuto rivedere i criteri degli aiuti di Stato; peraltro, noi siamo un Paese che, per via dell'alto debito pubblico, se ne può permettere pochi e, forse per questo motivo, abbiamo più facilità di altri a dire che siamo contrari ad essi. In ogni caso, noi ci dichiariamo favorevoli al ripristino, magari ragionato e su basi diverse rispetto a prima, di regole che facciano in modo che tali aiuti non distorcano il mercato unico e la concorrenza all'interno del mercato unico.
Noi vediamo con molta preoccupazione la guerra dei sussidi. L'Italia probabilmente non potrebbe permettersi di fare ciò che altri Paesi europei hanno fatto per sostenere le loro industrie e gli esempi in questo caso sono pressoché infiniti.
Un'ulteriore considerazione riguarda i fondi strutturali, che ovviamente rimarranno importanti.
A questo punto mi fermo, altrimenti andiamo fuori tempo. Sarebbe, tuttavia, necessario compiere una riflessione in positivo sulla politica industriale dell'Europa, anche in relazione agli obiettivi estremamente ambiziosi che l'Europa si è posta e si sta ponendo con il pacchetto clima, energia e post Kyoto in vista di Copenhagen. Si tratta di un tema di enorme importanza; stiamo assistendo in questo momento al dibattito in corso negli Stati Uniti, dopo il cambiamento a 180 gradi dell'amministrazione Obama rispetto all'amministrazione Bush. Questa scelta di andare verso un differente uso dell'energia al fine di ridurre le emissioni, di porre un cap and trade sulle emissioni di CO2 e via dicendo, richiede un ripensamento molto radicale e molto profondo delle politiche industriali.
Vi ringrazio.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

LUDOVICO VICO. Le pongo subito tre domande «secche».
Nella relazione che lei ci ha sottoposto, fatta salva la sintesi che ci ha esposto, quando si parla del nostro Paese nel suo complesso, osservo di non aver mai sentito l'espressione «Mezzogiorno d'Italia». La domanda che le pongo, dunque, è la seguente: se, cioè, il Mezzogiorno sia comunque considerato un tema da affrontare da parte di Confindustria, come reiteratamente hanno affermato il responsabile del Mezzogiorno e il presidente di Confindustria anche nella recente audizione presso le Commissioni V e VI sul decreto-legge n.78 del 2009.
La questione, infatti, ripropone una serie di valori e di giudizi rispetto alle disponibilità reali delle risorse del Paese. Non richiamerò qui il fatto che il «bancomat» è stato il FAS, tuttavia, mi sembra che sia calato il silenzio sulla verifica dei conti dormienti. Sulle agevolazioni alle imprese in generale, a parte la legge n. 488, lei converrà con me che in questo momento nel Paese non ci sono leggi di agevolazione in favore delle imprese e che, anche quando facciamo ricorso al credito di imposta, lo facciamo come misura emergenziale, riferendoci al credito di imposta per gli investimenti come automatismo o al credito di imposta sull'occupazione. Questa, dunque, è la prima domanda.
La seconda domanda è invece la seguente: giustamente lei ha fatto riferimento alla chimica, alla siderurgia, all'automotive, alla cantieristica, agli elettrodomestici e al made in Italy nell'accezione che lei specificava. Quando parliamo di tutto questo, e quindi della struttura distrettuale, vorrei si ricordasse, agganciandomi alla prima domanda che le ho posto, che il 63 per cento della chimica è nel Mezzogiorno, il 72 per cento della siderurgia è nel Mezzogiorno, il 43 per cento


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dell'automotive è nel Mezzogiorno e così via dicendo. Desidererei, dunque, capire le questioni reali dell'economia reale.
Terza domanda: Confindustria pensa che la sua poca disponibilità negli anni passati sulla tracciabilità dei prodotti del made in Italy sia stata una posizione utile? Ovvero: Confindustria oggi ritiene che la posizione assunta in passato, anche in relazione alla questione del made in - che in Europa è stato bloccato da Paesi dell'Unione e dalla Germania in particolare, e da una debolezza strutturale di Confindustria Italia - sia stata utile? E rispetto a come il mondo si ridefinirà quando saremo usciti da questa crisi, il problema della tracciabilità, del made in Italy e del made in discusso in Europa diventerà un punto importante per Confindustria Italia?

RAFFAELLO VIGNALI. Ringrazio il direttore Galli per questa analisi davvero molto approfondita. Tra l'altro, ho accolto con molta soddisfazione il passaggio sulla revisione della contabilità dell'ISTAT: erano, infatti, anni che sostenevo che ci fosse qualcosa che non tornava nei conti, e non solo sulla produttività. Quando sentivamo da esponenti del sistema statistico nazionale o da tanti opinion leader e da alcuni politici che in Italia non c'era innovazione e che l'hi-tech era impossibile, anche per via della mia piccola esperienza, pensavo che queste realtà dovevano pur esistere, dal momento che io invece le vedevo. Pensavo, dunque, che se qualcuno non era in grado di vederle, era un problema suo.
Dicevo prima al collega Vico che io credo che il Governo stia facendo quello che è possibile fare. Peraltro, mi risulta che neanche il maxi intervento keynesiano operato dal Presidente Obama sull'economia americana abbia portato qualche effetto significativo: 800 miliardi di dollari e quasi neanche un sussulto. Sicuramente, considerate le difficoltà - con questo non voglio dire che va tutto bene e che non si possa fare di più -, credo che si sia fatto il possibile, anche con riferimento al quadro dei conti pubblici che abbiamo davanti e che è destinato a peggiorare, non tanto per le scelte del Governo, ma per l'andamento dell'economia. Credo anche - l'ho sempre sostenuto e continuerò a sostenerlo - che la ripresa non dipenda tanto dalle risorse presenti nel bilancio dello Stato, ma dalle risorse rappresentate dalle le nostre imprese e dai nostri imprenditori. Certo, lo Stato può favorire o non favorire, può accompagnare o non accompagnare, può anche fare danni. Appartengo a quella scuola di pensiero che sostiene che lo Stato meno fa, meglio è, e continuerò a pensarla così.

ANDREA LULLI. Il 55 per cento dell'economia italiana è dello Stato!

RAFFAELLO VIGNALI. Lo Stato la ruba alle imprese - così la diciamo tutta - per mantenere una macchina inefficiente.

ANDREA LULLI. Se la ruba non lo so.

RAFFAELLO VIGNALI. Ognuno ha la propria opinione. Se lo Stato ha il 53 per cento del PIL, qualcuno li produrrà questi soldi. Normalmente li producono le imprese e i lavoratori, non vengono in un altro modo. Dico solo che il 53 per cento di PIL che si mangia lo Stato forse meriterebbe di avere almeno uno Stato più efficiente. Non mi sembra che il 53 per cento sia poco.
Il Governo ha fatto diversi interventi a più riprese, e a mio avviso giustamente. Fare tutto lo scorso anno a novembre credo sarebbe stata una scelta poco realistica e poco utile al Paese. Chiedo, dunque, quali siano secondo voi, se doveste indicarne tre, le priorità per i prossimi provvedimenti rispetto alla situazione che vedete che è, per altro, in evoluzione; proprio questa mattina, nel corso della presentazione del rapporto ICE, sono emersi altri dati. Vorrei sapere, quindi, quali sono secondo voi le priorità sulle quali varrebbe la pena insistere.

ANDREA LULLI. Innanzitutto, vorrei ringraziare per la serietà e la profondità dell'esposizione. Questo ringraziamento


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credo sia dovuto, sebbene noi non siamo d'accordo con l'approccio politico del Governo nella gestione delle crisi, cosa che mi sembra ultroneo sottolineare.
La crisi è sicuramente profonda e mondiale, anche se il mondo reagisce in un modo diverso. Ci ha colti in un processo di trasformazione che l'apparato produttivo italiano stava portando avanti in maniera significativa, anche se forse, purtroppo, nel resto del sistema Paese non avveniva altrettanto. Per inciso, dico che la querelle sullo Stato è una cosa diversa. Mi domando, infatti, che cosa sarebbe successo se questa crisi fosse avvenuta con la presenza dello Stato nell'economia come nel '29.
Per quanto riguarda la struttura dei consumi, in una ipotetica ripresa seria dell'economia, una risposta parziale me l'avete già fornita: saranno centrali l'energia, la questione del clima, eccetera. Tuttavia, la struttura dei consumi probabilmente si modificherà rispetto a quello a cui eravamo stati abituati fino ad oggi. La domanda che vorrei porle, dunque, è la seguente, e cioè se tale cambiamento porterà - io, infatti, non so dirlo - ad una maggiore qualificazione della produzione, specificando che quando parlo di qualificazione, non intendo l'alta qualità di un singolo prodotto, ma ricercare l'attenzione del consumatore o dell'utilizzatore finale - questa mi piacerebbe un po' di più come dizione intellettuale - e ad una maggiore consapevolezza di ciò che si utilizza o consuma.
Per quanto in tal modo si sconfini nell'ambito filosofico, vorrei una risposta a tutto ciò. Di fronte a questa crisi, forse conviene interrogarsi anche su questo, se cioè, secondo voi l'eventuale ripresa si sposterà più in quella direzione, oppure si pensa che, tutto sommato, il mercato, dopo questo grosso stop, possa proseguire nel modo in cui siamo abituati. Forse si tratta di una domanda banale, ma gradirei una risposta.

GIAMPAOLO GALLI, Direttore generale di Confindustria. Cercherò di rispondere alle vostre domande. Se il dottor Kraus lo ritenesse, potrà in seguito integrare le mie risposte.
Per quanto riguarda la domanda postami dall'onorevole Vico, ho citato i fondi strutturali che servono o che dovrebbero servire per il Mezzogiorno. Tuttavia, c'è del vero in quello che lei dice, e non soltanto con riferimento alla mia audizione.
In questo momento, un po' tutto il Paese, il Governo e, mi permetterei dire, la politica in generale, compresa l'opposizione, sono concentrati su come salvare il sistema produttivo, che sta in gran parte al Nord. Si trova certamente anche al Sud - come lei ha sottolineato -, e pertanto anche il Sud è colpito. In qualche modo l'emergenza ci unisce al di là delle differenze, che pure rimangono, fra Centro, Nord e Mezzogiorno e che, anzi, si sono leggermente accentuate: dal 38-39 per cento siamo arrivati al 42 per cento in termini di PIL. Questo, quindi, è un problema. È indubbiamente vero che sono venuti meno strumenti importanti di incentivazione degli investimenti nel Mezzogiorno. Non credo, però, che sia venuta meno l'attenzione generale di Confindustria sul Mezzogiorno. Come lei sa, sono messe a punto iniziative cui noi attribuiamo grande importanza e che attengono alla legalità. La decisione di espellere dalle associazioni industriali coloro che non denunciano i tentativi di estorsione è di sicuro rilievo. Essa si è poi tradotta in una norma del «decreto sicurezza» che, come lei sa, esclude dagli appalti pubblici le imprese che non denunciano i tentativi di estorsione. Al di là della formulazione puntuale della norma, noi abbiamo approvato l'iniziativa; si tratta, infatti, di un provvedimento estremamente severo rispetto ad un fenomeno che i nostri colleghi del Mezzogiorno, gli imprenditori del Mezzogiorno, ci segnalano con angoscia e con ansia crescente come un tema - quello della legalità - assolutamente centrale per poter parlare di Mezzogiorno.
Questo non vuol dire che non si debba riflettere sul tema da Lei sollevato. Gli stessi imprenditori del Mezzogiorno dicono «no» alla logica dell'intervento


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straordinario e dell'assistenzialismo. Esiste una posizione molto diversa da quella del passato.
Tuttavia, ripeto, ciò non significa che non si debbano colmare quelle divergenze, come i divari di natura infrastrutturale, o le diseconomie esterne che penalizzano l'attività di impresa del Mezzogiorno. Mi rendo perfettamente conto che la crisi di alcuni settori importanti riguarda specifiche regioni del nostro Mezzogiorno, per i cui problemi magica non abbiamo soluzioni facili. Ho visto che alcune soluzioni si stanno prospettando; ieri, per esempio, in sede di Ministero dello sviluppo economico, si stava affrontando la questione relativa a importanti impianti in Sardegna.
Si tratta, tuttavia, di questioni che vanno trattate singolarmente; è difficile affrontarle nel loro complesso, perché riguardano diversi settori, diverse regioni e realtà molto diverse.
La tracciabilità del made in Italy è una questione molto complessa, fondamentalmente per quanto attiene alla veridicità dell'informazione che si dà al consumatore e per la tutela della filiera, non solo, quindi, del marchio, che è l'ultimo passaggio della filiera. Peraltro, noi riteniamo che si debba, comunque, tenere una posizione in linea con quella dell'Europa, e questa è la posizione che abbiamo assunto nei mesi passati a cui lei faceva riferimento. In teoria si potrebbe indicare, sebbene diventi un po' lungo, quali siano stati tutti i passaggi per il confezionamento di un capo d'abbigliamento. Tuttavia, noi riteniamo che se il grosso, in termini di valore aggiunto - quindi in termini valore intellettuale, di creatività, eccetera - è realizzato in Italia, l'etichetta made in Italy sia una etichetta giustificata. Certo, vorremmo evitare che, per il solo fatto che una macchina FIAT è stata assemblata in gran parte in Polonia, non si potesse più dire che è una macchina FIAT è italiana e, quindi, un magistrato ci obbligasse a mandarla al macero.

LUDOVICO VICO. Non ho capito questo passaggio dottor Galli. Mi riferisco, ad esempio, agli euro che l'ENI ha in Olanda e Germania, che per le imposte non sono italiani, al netto degli utili.

GIAMPAOLO GALLI, Direttore generale di Confindustria. La nostra posizione è che la FIAT sia made in Italy.
Passiamo, ora, alle tre priorità di cui chiedeva l'onorevole Vignali. Io porrei grandissima enfasi sulla questione dell'innovazione e della ricerca. In tal modo si esce dalla crisi e gli stessi nuovi modelli di produzione e di consumo li troviamo attraverso l'innovazione e la ricerca; ciò passa forse anche attraverso una maggiore consapevolezza del consumatore, che è sovrano e alla fine sceglie se comprare o meno un oggetto utile o superfluo e inutile. Questo lo giudica lui.
Dal punto di vista del sistema delle imprese, la priorità non può che essere l'innovazione e la ricerca.
Un'altra grande priorità rimane quella del credito. Tra i vari strumenti che sono stati messi in campo dal Governo, noi diamo grande importanza, per esempio, al fondo di garanzia presso il Mediocredito centrale. Ci sembra uno degli strumenti più utilizzati nel mondo, in Europa come negli Stati Uniti. Lo Stato dà una garanzia sull'x per cento di un prestito concesso da una banca ad una azienda e questo mi sembra il modo più efficace e meno costoso per lo Stato di offrire un aiuto. Noi teniamo molto che questo fondo abbia continuità gestionale e venga rifinanziato. È stata fatta una scelta in questo senso; credo che i fondi non siano ancora arrivati perché siamo ancora alla Corte dei conti, tuttavia facciamo affidamento sul fatto che venga rifinanziato rapidamente.
L'altro tema sul quale non ci possiamo distrarre un minuto è quello degli ammortizzatori sociali. Se a un certo punto, arrivati alla fine della Cassa integrazione e trascorse le canoniche 52 settimane, ci rendessimo conto che lo strumento della Cassa integrazione straordinaria non è utilizzabile senza creare tensioni con i lavoratori - questo è il punto fondamentale -, allora ritengo che dobbiamo essere pronti a prolungare l'utilizzo di questo strumento, magari anche solo temporaneamente,


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data la situazione di crisi, per poi ritornare agli strumenti normali. In qualche modo ho così risposto anche alla domanda di come sarà la struttura dei consumi. Lo ripeto, non c'è solo il problema dell'energia. C'è anche quello dell'invecchiamento della popolazione. Avremo, quindi, i consumi tipici di una popolazione più anziana e una fortissima crescita nei consumi sanitari. Non so quanto consapevoli siano gli utenti di servizi sanitari; tuttavia, tutte le proiezioni ci dicono che uno dei grandi motori della crescita sarà dato dal fatto che, con l'invecchiamento della popolazione e con la maggiore consapevolezza del consumatore, della persona umana e dei sui diritti, crescerà fortemente il consumo di questa tipologia di beni, quindi dei beni e dei servizi sanitari.

PRESIDENTE. Visto l'orario e in considerazione anche dell'ampia relazione svolta dal dottor Galli, ringrazio gli auditi e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 16,30.

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