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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione X
12.
Mercoledì 30 settembre 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Gibelli Andrea, Presidente ... 2

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA SITUAZIONE E SULLE PROSPETTIVE DEL SISTEMA INDUSTRIALE E MANIFATTURIERO ITALIANO IN RELAZIONE ALLA CRISI DELL'ECONOMIA INTERNAZIONALE

Audizione di rappresentanti delle organizzazioni sindacali CGIL, CISL, UIL e UGL:

Gibelli Andrea, Presidente ... 2 7 10 16 21 24
Allasia Stefano (LNP) ... 14
Baratta Gianni, Segretario confederale della CISL ... 5 17
Barone Salvatore, Responsabile del dipartimento settori produttivi della CGIL ... 2 16
Pezzotta Savino (UdC) ... 12
Pirani Paolo, Segretario confederale della UIL ... 7 21
Ricci Cristina, Segretario confederale della UGL ... 8 23
Togni Renato Walter (LNP) ... 14
Vico Ludovico (PD) ... 10
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP.

COMMISSIONE X
ATTIVITÀ PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 30 settembre 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE ANDREA GIBELLI

La seduta comincia alle 14,20.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti delle organizzazioni sindacali CGIL, CISL, UIL e UGL.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla situazione e sulle prospettive del sistema industriale e manifatturiero italiano in relazione alla crisi dell'economia internazionale, l'audizione di rappresentanti delle organizzazioni sindacali CGIL, CISL, UIL e UGL.
Sono presenti - e li ringraziamo - il dottor Salvatore Barone, responsabile del dipartimento settori produttivi della CGIL; Gianni Baratta e Silvano Scajola, rispettivamente segretario confederale e responsabile delle politiche settoriali e industriali della CISL; Paolo Pirani e Fernando Mariani, rispettivamente vicesegretario confederale e funzionario della UIL; Cristina Ricci, segretario generale dell'UGL. Come sapete, nelle nostre audizioni, in genere i lavori si aprono con un'introduzione sul tema da parte degli auditi, quindi si lascia spazio ai deputati che riterranno opportuno intervenire per porre quesiti e formulare osservazioni, infine si chiude con la replica.
Do quindi la parola agli auditi.

SALVATORE BARONE, Responsabile del dipartimento settori produttivi della CGIL. Grazie, presidente. Porto le scuse di Susanna Camusso, che non ha potuto essere presente, perché è in corso un'importante riunione del comitato direttivo della CGIL.
Vorrei comunicare subito che noi, come CGIL nazionale, il prossimo 8 ottobre terremo un'importante iniziativa sul tema della politica industriale. In quell'occasione, saranno presentate le nostre analisi sulla situazione generale del Paese relativamente allo stato di crisi che investe i settori industriali e i servizi connessi. Avanzeremo proposte, da una parte, per uscire dalla crisi stessa, o comunque per tentare di accorciare i tempi di fuoruscita e, dall'altra, idee per guardare al futuro, immaginando che il superamento della situazione di crisi sarà possibile nella misura in cui guarderemo agli aspetti strutturali che la caratterizzano per giungere a uno sviluppo nuovo e diverso, che faccia leva sulle eccellenze dell'industria italiana.
Faremo subito avere alla Commissione la documentazione che presenteremo in quell'occasione, distinta anche per settore e per categorie e completeremo quindi la nostra posizione riguardo a questi temi. Naturalmente, sarete invitati, in quanto Commissione, al nostro importante appuntamento che, peraltro, vedrà la presenza di rappresentanti del mondo accademico ed economico, nonché di importanti aziende italiane.


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Ciò premesso, vorrei partire semplicemente da alcuni dati - sono di dominio pubblico, ma è bene ribadirli - sullo stato di crisi che investe l'insieme dei settori industriali del nostro Paese, chi più chi meno. Il dato più significativo è quello relativo al ricorso alla cassa integrazione guadagni. Complessivamente intesa, essa è cresciuta del 222 per cento dal settembre 2008 all'agosto 2009. Se guardiamo il dato in modo più disaggregato, riscontriamo che la cassa integrazione ordinaria è cresciuta, nello stesso periodo, del 409,38 per cento, quella straordinaria del 86,68 per cento, e che l'ordinaria più la straordinaria - per sottolineare quanto dicevo, ovvero che la crisi investe tutti i settori - nel settore metalmeccanico, sempre per lo stesso periodo, hanno registrato un incremento del 376 per cento.
Se poi andiamo a disaggregare ulteriormente il dato, vediamo che, per esempio, a livello regionale, nel Piemonte la cassa integrazione complessivamente intesa è cresciuta del 787 per cento, in Emilia Romagna del 739, nel Friuli del 628, in Lombardia del 573, nel Veneto del 499.
Possiamo associare tali dati che, trovano purtroppo conforto nell'andamento del fatturato, il quale oscilla tra meno 25 per cento per i settori meno colpiti dalla crisi e 40-45 per cento in altri casi.
Questa mattina è stata diffusa la notizia, condivisa dalle parti sociali e quindi dal sindacato e dagli imprenditori, per cui, se non intervengono fatti nuovi, nel settore tessile, per esempio, potremmo riscontrare una caduta verticale dei posti di lavoro, stimata tra i 50 e gli 80 mila.
L'andamento della cassa integrazione, se proiettato nel prossimo futuro, vede una situazione, dal punto di vista occupazionale, particolarmente preoccupante. Nello stesso periodo, settembre 2008-agosto 2009, i lavoratori coinvolti, chi più chi meno, dalla cassa integrazione, sono circa un milione, e negli ultimi otto mesi, da gennaio ad agosto, 800 mila. Se dovessimo considerare le ore perse per intero in assoluto, esse corrisponderebbero a più di 400 mila posti di lavoro che non sono stati operanti negli ultimi otto mesi.
Questa è la situazione, il quadro che abbiamo di fronte, che naturalmente preoccupa moltissimo. Si tratta di un quadro conseguente alla crisi internazionale, alle conseguenze finanziarie ad essa connessi, a un calo della domanda dell'export, dal momento che anche in quest'ambito si è registrata una caduta piuttosto pesante che coinvolge l'insieme dei settori, ma - qui è il punto - si inserisce in un contesto che vede complessivamente l'industria italiana in una condizione di debolezza, aggravata dalle situazioni contingenti derivanti dalla crisi finanziaria intervenuta dal settembre 2008 in avanti.
Affrontare questo quadro significa, quindi, camminare su due binari paralleli. Il primo riguarda l'accorciamento dei tempi di fuoriuscita dalla crisi e gli interventi che bisogna mettere in campo per tutelare le imprese e i lavoratori coinvolti. Parliamo, innanzitutto, dei lavoratori.
Sono migliaia le aziende in scadenza delle cinquantadue settimane di cassa integrazione ordinaria. Con un'ultima correzione relativa alla norma sulla cassa integrazione, esse possono slittare anche su quella straordinaria. Possono slittare, ma evidentemente la situazione attuale ci pone nella condizione per cui, laddove le cinquantadue settimane sono in prossimità di scadenza, ci si trova di fronte a decisioni che possono intervenire negativamente sui livelli occupazionali. Noi ribadiamo, quindi, assolutamente l'esigenza di un aumento del numero delle settimane possibili di ricorso alla cassa integrazione straordinaria. Parliamo di un raddoppio (da 52 a 104), che darebbe il segnale alle aziende di tenere duro e «traguardare» il periodo difficile attraverso gli ammortizzatori.
Dall'altra parte, chiediamo, soprattutto per i lavoratori che hanno dovuto sopportare un periodo prolungato di cassa integrazione straordinaria, un aumento dei massimali retributivi che, allo stato, oscillano al netto tra i 650 e i 750 euro, e la tutela per i lavoratori cosiddetti precari - per essere sintetico - che invece rischiano di uscire dalle imprese senza alcuna tutela, sapendo, peraltro, che ci sono già


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lavoratori fuoriusciti dal mese di gennaio che hanno perso anche la copertura dell'indennità di disoccupazione.
Questo è un primo blocco di problemi che riguarda immediatamente la capacità di tutela dei lavoratori coinvolti. Dopodiché, si pone la questione dell'accelerazione del superamento della crisi, che, a nostro avviso, può essere determinata da alcuni fattori, tra cui, per esempio, un'accelerazione della domanda pubblica, e quindi di lavori pubblici, che può essere favorita attraverso un allentamento del Patto di stabilità interno a favore dei Comuni, per dare corso alle opere da realizzare o persino per completare opere interrotte per diverse ragioni. Noi pensiamo, dunque, che la domanda pubblica possa agevolare e favorire la rapida fuoriuscita dalla crisi.
L'altro insieme di questioni riguarda come alimentare la domanda. Su questo non si scappa, a nostro avviso. Perdonerete la schematicità, ma noi pensiamo che occorra intervenire sui redditi da lavoro dipendente. Ci aspettiamo un netto intervento in termini di sgravio fiscale per i salari dei lavoratori dipendenti e, sotto una certa soglia, per le pensioni. Bisogna intervenire sul grosso dei consumatori, perché altrimenti, a risentirne sarà il settore manifatturiero, quello dei beni di consumo, con quel che ne consegue sull'attività stessa delle sue imprese.
Il secondo binario - vado verso la conclusione - è quello di guardare oltre la crisi per considerarla, come si dice in gergo, un'opportunità per «traguardare» il futuro. Pensiamo che, da questo punto di vista, bisogna davvero fare leva sulle eccellenze del sistema produttivo e industriale italiano. Non stiamo parlando, evidentemente, di un sistema di per sé arretrato. Ci sono tutti gli aspetti negativi che conosciamo, ma possiamo far leva su alcune condizioni favorevoli, che hanno sempre contraddistinto l'economia italiana all'interno del mercato internazionale.
Da questo punto di vista, pensiamo che l'ambito di intervento prioritario si debba realizzare nei contesti territoriali laddove la crisi sta mordendo in modo forte, per valorizzare le eccellenze che ritroviamo soprattutto nell'ambito dei sistemi a rete, delle filiere, delle aree sistema. È possibile consolidare maggiormente la cosiddetta parte del quarto capitalismo e delle medie imprese, che meglio è capace di reagire alle situazioni di crisi e che, già nel passato, ha dimostrato capacità di tenuta rispetto alle innovazioni organizzative, di prodotto, e via elencando.
Quest'ultimo aspetto è particolarmente delicato. Negli ultimi anni, la nostra analisi rileva che abbiamo compiuto tante innovazioni di processo, anche tecnologiche, in macchinari, ma abbiamo investito poco sul prodotto, sulla sua diversificazione, in modo tale che esso potesse incontrare più agevolmente il rapporto con la domanda, per la sua capacità di tenere insieme qualità e prezzo, che è ciò che i consumatori richiedono. Nelle aree, nei distretti e nei territori bisogna far sì che l'intervento pubblico favorisca le azioni di innovazione che puntino a rafforzare le nostre eccellenze, soprattutto sul prodotto e non solo sui processi.
Un altro punto per guardare al futuro riguarda i settori. Abbiamo parlato delle medie imprese, dei territori, dei distretti, del made in Italy, nella sostanza, perché è lì che si colloca la parte manifatturiera che meglio conosciamo del nostro Paese, però ci sono i settori. La chimica rischia di sparire dall'Italia e noi chiediamo al Governo di intervenire sull'ENI per capire che cosa intenda fare di questo importante settore che riguarda i beni intermedi che rischiano di sparire, dal ciclo del cloro in giù, con un pericolo di subalternità del nostro Paese rispetto ai competitori internazionali.
Per quanto riguarda l'elettronica siamo al lumicino; vi sono intere aree del nostro territorio - per esempio possiamo parlare dell'Abruzzo - dove insistevano aziende importanti e significative di questo settore, che sono ferme da mesi e anni. Vi sono settori innovativi (come l'hi-tech) in cui sostanzialmente non siamo mai entrati e per i quali il nostro Paese è considerato più un mercato di sbocco, che non di produttori. Mi riferisco ai beni di consumo


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innovativi, quelli che hanno stimolato la domanda soprattutto di una certa fascia di consumatori.
Ho proposto solo questi esempi per dire che occorre svolgere una riflessione per verificare lo stato dei nostri settori, vedere quali sono i punti di forza e di debolezza, e su questi intervenire attraverso una politica che guardi al futuro. Noi parliamo di green economy soprattutto, non come prodotto in sé, ma come processo da innestare nell'ambito dello scenario produttivo italiano, proprio per competere in modo più adeguato sui mercati internazionali.
Vi sono poi il tema dell'Europa e quello dell'energia, che affronteremo in modo dovuto nel nostro convegno e sui quali avanzeremo alcuni orientamenti. Penso a quello dell'Europa come a un ruolo che deve guardare soprattutto alla politica industriale e difendere i settori che assicurano la maggior parte di occupazione. Non si chiede una politica protezionistica, ma un intervento pubblico anche per tutelare un patrimonio professionale e produttivo, collocato nelle produzioni strategiche che hanno reso grande l'industria italiana, in questo caso, e quella europea nel mondo, e rispetto ai quali il Governo italiano deve poter dire la sua in modo forte.

GIANNI BARATTA, Segretario confederale della CISL. Illustrerò alla Commissione - in maniera spero sintetica - quattro punti e consegno, invece, alla Presidenza uno studio più complesso che la Commissione potrà utilizzare nelle modalità che riterrà più opportune.
I punti chiave che intendo affrontare sono: lo scenario produttivo nell'industria; la questione dell'occupazione e della cassa integrazione; prospettive e quale progetto per il futuro.
Il Rapporto Industria 2008 della CISL del 2 dicembre dello scorso anno aveva previsto uno scenario di crisi dell'industria di particolare gravità. Tutti i dati che citerò d'ora in poi sono estratti in maniera precisa dai dati di contabilità nazionale o dell'ISTAT, non sono elaborazioni nostre, ma dati desunti. La misura di ciò che poi è accaduto si può sintetizzare nel dato relativo all'indice della produzione al luglio 2008 rispetto al 2007, che equivale a 20,7 punti di produzione persi in un anno e a 23,3 punti nel biennio. Nello stesso periodo, il fatturato nazionale si è ridotto del 21,2 per cento, quello estero invece del 26,4, con una riduzione complessiva del 22,7 per cento.
Lo scarto tra produzione e fatturato ha significato, in media, una riduzione dei prezzi industriali per unità prodotta. I dati positivi di luglio 2009 sulla produzione industriale del mese precedente - che è uno 0,9 per le attività manifatturiere e un più 3,9 per le forniture di energia, fatturati e ordinativi - fanno sperare che la fase più dura sia alle spalle. Al momento, in ogni caso, non ci sono elementi certi per parlare di ripresa.
Una lettura di sintesi dei vari indicatori articolati per settore evidenzia una crisi a vari livelli. In particolare, i settori più in difficoltà sono quelli delle produzioni di base (metallurgia e prodotti chimici), dei beni di investimento (macchinari e attrezzature), della fabbricazione dei mezzi di trasporto, comprensivi di auto e motocicli, e in misura minore gli articoli di gomma-plastica.
Sono anche in difficoltà settori come legno e carta, tessile e abbigliamento, ma con una caduta di ordinativi meno drammatica e capacità di rispondere alla sfida competitiva riducendo i prezzi. Anche il settore elettronico è in una situazione di sofferenza. Il settore alimentare, pur in contrazione, regge bene l'impatto della congiuntura. Il settore farmaceutico, pur con una produzione in aumento, riduce il fatturato generale, riducendo i prezzi e l'occupazione nelle grandi imprese.
Molte imprese, fino ad ora, hanno preferito operare con livelli di produttività negativi in attesa di tempi migliori, pur di evitare duri impatti sui livelli di occupazione aziendale. Su questo comportamento hanno sicuramente influito il clima di concertazione sociale e le molte iniziative, anche istituzionali, delle regioni, dei comuni e delle camere di commercio.


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Se parliamo di occupazione e cassa integrazione, come effetto della contrazione delle attività, l'occupazione del secondo trimestre 2009 rispetto al primo del 2008 è scesa del 3,4 per cento nell'industria e del 3,9 per cento nell'industria manifatturiera. Ciò significa una riduzione di 238 mila posti di lavoro nell'industria nell'arco di un anno, fra lavoratori dipendenti e indipendenti, di cui 197 mila nella manifattura e 41 mila nelle costruzioni. In termini relativi, l'impatto sull'occupazione ha colpito nella manifattura più il lavoro indipendente, la piccola impresa, specialmente nel sud (meno 17,1 per cento). L'edilizia ha perso, nel complesso, circa 45 mila posti di lavoro (meno 2,1 per cento). Le ore totali di cassa integrazione autorizzate, ordinarie più straordinarie, fra gennaio e agosto 2009 sono più che triplicate rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Tenendo conto di un «tiraggio» della cassa del 60,4 per cento su indicazione dell'INPS, si tratta di un numero equivalente a circa 540 mila lavoratori a rischio occupazionale per 16 settimane di lavoro medio.
Passo a illustrare le prospettive. Di fatto, tra la contrazione attuale dell'attività economica e la ripresa effettiva c'è un tunnel da attraversare di incerta lunghezza. La forte riduzione dei volumi produttivi, se protratta nel tempo, potrebbe costringere alla chiusura le imprese più in difficoltà dal lato della domanda e delle condizioni finanziarie. In linea di massima, riteniamo attendibile l'analisi del Centro studi di Confindustria, per il quale la recessione è ormai alle spalle, ma l'uscita dalla crisi sarà lenta e lunga e, perciò, insidiosa. È importante un sostegno della domanda interna di consumo attraverso un'ampia defiscalizzazione dei redditi di lavoro e del salario di produttività.
Un altro punto cruciale è quello del credito alle imprese e della capacità delle banche di selezionare il merito creditizio. Numerose imprese potrebbero veder frustrare il loro sforzo di adeguamento organizzativo, tecnologico, di mercato e rischiano la sopravvivenza. Per queste imprese, se l'azione delle banche dovesse rivelarsi inadeguata, occorre pensare, compatibilmente con la norma europea, ad azioni e strumenti istituzionali di sostegno temporaneo e ristrutturazione, ad esempio rafforzando la norma nazionale per le imprese in regime di commissariamento.
Si dovrebbe ripartire dalla governance per un progetto nazionale innovativo, assumendo ai vari livelli istituzionali, un progetto di innovazione capace di rispondere in modo coordinato e stabile ai problemi di competitività nell'economia reale nel medio termine. Tracce di questa impostazione sono presenti nel progetto incompiuto Industria 2015, che andrebbe urgentemente rivisitato, sia nel merito dei temi coinvolti, sia nelle risorse finanziarie di incentivazione complessivamente attivabili, sia nel metodo, che dovrebbe basarsi su una stretta cooperazione tra Governo, regioni e parti sociali. La rivisitazione è necessaria soprattutto oggi, perché è difficile pensare che le imprese possano, con le sole risorse proprie, attivare il volume di investimenti necessario.
Nel riproporre un forte progetto innovativo, alcuni grandi filoni trasversali ai settori andrebbero messi a fuoco e adeguatamente sostenuti. Il primo filone è quello della qualità, intesa come qualità del prodotto percepita dai clienti effettivi e potenziali in rapporto al prezzo richiesto. Un progetto sulla qualità implica investimenti per accumulare competenze distintive difficili da replicare, nuove idee per nuovi mercati, ricerca su tecnologie e materiali, sia nelle imprese, sia nelle reti di impresa collegate nei sistemi a filiera.
Un secondo filone è quello del sostegno alle piccole imprese per favorire aggregazioni e alleanze in grado di ridurre il gap dimensionale che pesa nell'accesso al credito, nei processi di innovazione, nel condurre i relativi business con abilità manageriale.
Un terzo filone, infine, è quello del collegamento dell'intero sistema produttivo con i circuiti della scienza e della ricerca, particolarmente vitali in settori connessi con la salute e la vita, con


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l'energia pulita e l'ambiente, con l'intelligenza artificiale e lo spazio. È un filone che dà risultati nel periodo medio-lungo, che richiede investimenti oggi per le generazioni future per diffondere un'economia basata sulla conoscenza, vera leva competitiva nei prossimi decenni. Il tema per l'Italia è irto di nodi irrisolti, dall'insufficienza di spesa nazionale per la ricerca, alla qualità del sistema scolastico e formativo che sia idoneo a preparare un capitale umano capace di eccellenza. Tuttavia, non può più essere accantonato o rinviato nessuno di questi temi.

PRESIDENTE. Ci sono molte questioni che non devono essere rinviate. Peraltro, la nostra Commissione ha in calendario un intervento, di carattere normativo, sulla ristrutturazione delle grandi aziende in crisi. Si tratta di un argomento che ha già suscitato interessanti momenti di discussione.

PAOLO PIRANI, Segretario confederale della UIL. Credo che non sia inutile definire il criterio con cui analizziamo il settore manifatturiero in rapporto alla crisi. Penso che una prima distinzione debba tenere presente il rapporto con il mercato. Le aziende che contavano prevalentemente, se non esclusivamente, sul mercato interno hanno avuto una contrazione delle proprie capacità produttive, in relazione alla contrazione dei consumi interni. Sono aziende collocate, per molti versi, in settori tradizionali e nel Mezzogiorno: penso ad alcuni filoni del tessile e abbigliamento, che ha subito pesantemente la contrazione dei consumi, da un lato, e la concorrenza, dall'altro, con la Cina, l'India e altri Paesi che si sono presentati in maniera molto aggressiva sui mercati internazionali.
Altra è, invece, la questione delle imprese che fondavano la propria azione prevalentemente sulla capacità di competere nel mercato internazionale. Dobbiamo registrare il fatto che molte imprese, soprattutto all'interno di distretti industriali delle aree del nord e del nord-est, hanno, nel corso del tempo, avuto la capacità di riorganizzarsi, ristrutturarsi, posizionarsi in maniera efficacemente competitiva sul mercato internazionale. Noi pensiamo che occorra puntare soprattutto su queste tipologie di imprese per cercare di trovare e individuare una nostra uscita dalla crisi.
I diversi indicatori ci riferiscono di aver superato il punto più basso e, quindi, di essere in una fase di evoluzione, seppur lunga, di progressiva crescita, ma certamente la crisi ci consegnerà un panorama industriale che sarà profondamente diverso in relazione alle politiche che saremo capaci di portare avanti. Da questo punto di vista, pensiamo che puntare, rispetto al nostro sistema industriale, sulle imprese maggiormente competitive, sia la scommessa giusta.
Riteniamo che i programmi e gli impegni dei diversi Governi riferiti a tali settori - penso a Industria 2015, che conobbe una sua prima stesura con il Governo Prodi e, successivamente, è stata ripresa dall'attuale Governo - debbano essere implementati e potenziati, soprattutto nei filoni dei settori che in questo progetto vengono individuati.
Dall'altro lato, si tratta di capire la fase che stiamo attraversando. In base alle nostre previsioni, abbiamo oggi un problema concreto, quello di evitare che le imprese, che escono a mano a mano dalla crisi, adeguino in maniera automatica gli organici ai volumi produttivi e agli ordinativi. Se questa fosse la politica che di fatto le diverse imprese dovessero adottare, ci troveremmo immediatamente, nei prossimi mesi, da un minimo di 200 mila fino ad una cifra non quantificabile di interruzioni di rapporti di lavoro. Pensiamo, quindi, che una delle priorità, almeno nel corso degli ultimi mesi del 2009, ma probabilmente anche del 2010, sia quella di mantenere il rapporto di lavoro attraverso un utilizzo degli strumenti disponibili, ossia la cassa integrazione guadagni, che deve poter essere accessibile proprio per evitare il rischio di un'interruzione del rapporto di lavoro per centinaia di migliaia di lavoratori, con tutti gli effetti sociali ed economici che ciò provocherebbe.


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Nel contempo pensiamo che vadano messe in atto politiche efficaci, come il potenziamento di Industria 2015, e che vada valutata con attenzione la politica degli incentivi. Vedo che adesso la FIAT ripropone tale criterio, ma ritengo che, fuori da una dimensione europea, adottando una politica di incentivi solo nazionali, si rischi di favorire altre imprese e di non avere sul territorio nazionale gli effetti sperati. Tali politiche andrebbero dunque calibrate e concertate anche a livello europeo.
Occorre, invece, garantire un flusso costante di finanziamento alle imprese perché questo, soprattutto nella dimensione della piccola e piccolissima impresa, rappresenta una discriminante: ci sono imprese che hanno necessità di credito anche per pagare la bolletta della luce e che, se tale flusso viene a mancare, chiudono. Assieme alla disponibilità della cassa integrazione almeno su tutto il 2010, quello della garanzia dei flussi di credito al tessuto produttivo della piccola e piccolissima impresa, che ha retto meglio nel nostro che in altri Paesi, va assicurato in ogni modo.
Accanto a ciò, vi sono politiche che tonificano la domanda. Una è quella relativa alla riduzione delle tasse. Ci sono troppe tasse sul lavoro. Noi abbiamo avanzato alcune proposte, come la detassazione della tredicesima, magari in maniera parziale, o del salario di risultato, in sostanza interventi di natura fiscale che favoriscano il lavoro e contemporaneamente tonifichino i consumi. Se la gente non ha soldi, possiamo fare tutte le giaculatorie che vogliamo, ma nessuno compra niente.
Vi sono poi problemi di natura più strutturale. Non si tratta tanto di dare più soldi alle infrastrutture, perché ne sono stati stanziati molti su tale settore, ma il problema dello Stato è che essi vengano effettivamente spesi in infrastrutture. Occorrerebbe adottare politiche concrete di spesa sul terreno infrastrutturale che garantiscano effettivamente che tali opere vengano realizzate. È stato nominato il commissario per i rifiuti a Napoli o per gestire l'emergenza terremoto a L'Aquila. Dovremmo adottare criteri analoghi per far funzionare le infrastrutture.
Ci sono poi questioni che riguardano aspetti decisivi del nostro apparato industriale e produttivo, su cui occorre che ci siano politiche precise. La politica energetica non è secondaria ai fini del superamento della crisi e, quindi, pensiamo a una scelta più decisa sul nucleare come a una delle strade concrete per poter assicurare anche un'energia accessibile all'impresa, in maniera tale da lanciarla. Ci sono poi le politiche sulle telecomunicazioni: l'avvio della banda larga come elemento di servizio universale nelle telecomunicazioni è un altro terreno decisivo, che attiene alle politiche proprie del Governo e alle scelte che su questi temi vengono compiute.
Tutto ciò si può fare se immaginiamo una fuoriuscita dalla crisi che presenti un Paese più competitivo, e non pensiamo che tutto si possa salvaguardare. Oggi dobbiamo salvaguardare il reddito e quindi avere l'accessibilità della cassa integrazione, però dobbiamo guardare anche al futuro e, di conseguenza, domandarci che tipo di apparato produttivo e di Paese immaginiamo per il passaggio alla fase successiva alla crisi.

CRISTINA RICCI, Segretario confederale della UGL. Mi ripeterò, per ovvi motivi, perché ci sono alcuni aspetti che condividiamo con i colleghi che ci hanno preceduto.
Assistiamo a una delle crisi più importanti dal dopoguerra, che determina una contrazione dei consumi interni e delle esportazioni. L'ultimo dato a nostra disposizione riguardo il PIL rileva che esso è calato del 5 per cento; ciononostante, ci sono i primi timidi segnali di ripresa e anche una debole crescita e ripresa dei consumi. Ciò, però, non si ripercuote sull'occupazione.
Alcuni autorevoli istituti, come l'ILO, affermano che occorrono almeno cinque anni dalla fine della crisi per poter assistere alla ripresa di nuova occupazione. Ammesso, quindi, che la crisi terminasse


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definitivamente nel 2010, dovremmo aspettare il 2015 per vedere effetti positivi sull'occupazione. Il tasso di disoccupazione ultimo a livello annuale è il 7,4 per cento che, benché migliore rispetto ad altri Paesi europei, è comunque importante e preoccupante.
Naturalmente, esiste la necessità che il Governo intervenga sulle aziende per sostenere il lavoro dove è stato maggiormente colpito. Abbiamo apprezzato, come organizzazione sindacale, gli interventi di sostegno all'industria automobilistica, e gli incentivi alle ristrutturazioni edilizie ed energetiche per il rinnovo degli elettrodomestici, anche a sostegno di una svolta ecologica che abbiamo sempre sostenuto.
Riteniamo comunque che, per giustificare anche davanti agli occhi dei cittadini l'impegno di risorse pubbliche, siano indispensabili due requisiti a sostegno dell'economia industriale: la salvaguardia dei posti di lavoro e la garanzia del mantenimento delle sedi ubicate sul territorio nazionale. Questo tipo di politica industriale porta sicuramente benessere collettivo con un forte impegno economico pubblico.
L'altro aspetto, già menzionato dai miei colleghi, riguarda l'attenzione al potere di acquisto sui redditi da lavoro e da pensione. Si avverte l'esigenza di una riforma fiscale del reddito e, quindi, di un'attenzione che comporti un circolo virtuoso, invece che vizioso, di successiva ripresa dei consumi, indipendentemente dai benefici legati alla produttività che abbiamo visto con la riforma del modello contrattuale. A questo proposito, ricordiamo l'adozione del quoziente familiare, che riteniamo uno strumento socialmente più equo dal punto di vista fiscale.
Per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali, abbiamo un forte incremento, com'è stato detto, del ricorso alla cassa integrazione. Abbiamo verificato i dati relativi alla cassa integrazione guadagni straordinaria delle prime due settimane di settembre: sono 190 i decreti relativi alla sua adozione solo in due settimane e interessano in particolare la regione Lombardia, l'Emilia Romagna e il Piemonte ma, elemento da non sottovalutare, anche le regioni meridionali, che addirittura sono percentualmente più interessate rispetto al nord-ovest, in particolare la Puglia e la Sardegna.
I settori, come già detto, più interessati sono il metalmeccanico, il tessile, ma anche la ristorazione, che potremmo definire colpita da crisi indotta, soprattutto per ciò che attiene le mense aziendali che servono le grandi fabbriche del settore metalmeccanico. Non sfuggono alla crisi neanche il comparto dell'elettricità e degli elettrodomestici, nonostante l'adozione delle misure intraprese dal Governo, né il settore dell'editoria e della carta stampata, come già ricordato.
Accanto all'adozione della cassa integrazione, per la quale chiediamo sicuramente il raddoppio per quelle aziende per le quali terminerà e per le quali vi è il rischio di non avere copertura per i lavoratori, si pone l'esigenza di una riforma strutturale degli ammortizzatori, che consideri anche i lavoratori che hanno contratti cosiddetti flessibili, per non farli rimanere scoperti, insieme all'esigenza di mantenere le maestranze legate al mondo del lavoro. Il problema del distacco, anche attraverso il sostegno, pure indispensabile, della cassa integrazione, è comunque un segno sempre negativo e anche psicologicamente difficile da vivere da parte dei lavoratori e, quindi, pensiamo a ulteriori forme di ammortizzatori, come la settimana corta o i contratti di solidarietà.
Si avverte la necessità di un rilancio industriale nel nostro Paese, anche perché la cassa integrazione è uno strumento a termine che, se non intervengono provvedimenti diversi di rilancio che ci aiutino nel superamento del guado della crisi - o anche una volta superato tale guado - rischia di rappresentare solo un rinvio dello spettro della disoccupazione.
Occorre, infine, modernizzare il sistema produttivo. Pensiamo, per esempio, alle tecnologie ambientali, un settore che ha sicuramente potenzialità importanti, o anche ai servizi sociali, dove vediamo nuovi sbocchi occupazionali.


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Il ruolo delle banche è stato già ricordato. Abbiamo sottolineato in più occasioni che le banche devono sostenere le imprese sane nel superare le difficoltà dovute alla crisi. Non è possibile che, nonostante gli interventi a disposizione in loro favore, ci sia poi una stretta sul credito che fa sì che soprattutto le piccole imprese, che faticano a mantenere i propri posti di lavoro, non trovino il credito necessario per superare questo momento difficile.
C'è bisogno di un welfare più importante per quanto attiene la prima occupazione e il reimpiego dei disoccupati, di chi ha perso il lavoro, e in questi casi dovrebbe intervenire massicciamente la questione della formazione.
Consideriamo, infine, anche la possibilità di un aumento del deficit che, a nostro avviso, sarebbe un sacrificio giustificato in questo momento, per far superare la crisi a tutte le fasce sociali, soprattutto alle più deboli, perché ciò eviterebbe il rischio di una rottura della coesione sociale nel Paese.

PRESIDENTE. Ringrazio gli intervenuti.
Do la parola ai deputati che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

LUDOVICO VICO. Nel dare il benvenuto agli ospiti, desidero porre subito alcune domande e contestualmente fare alcune riflessioni. La prima osservazione riguarda il fatto che la dimensione della crisi in corso, internazionale ed europea, non ci ha consentito di osservare, con una certa accuratezza, il tipo di mobilitazione e le iniziative del sindacato europeo. Il sindacalismo confederale italiano, per la sua storia, ha avuto sempre un ruolo e una funzione, come si dice in gergo, orizzontale, da soggetto politico. Ci saremmo attesi un'iniziativa più pregnante in Europa da parte del sindacato europeo e, se vi è stata, vi assicuro che non è stata visibile dal nostro osservatorio.
La seconda considerazione, molto benevola, è la seguente: in questa fase della crisi, penso che il mondo del lavoro, soprattutto i lavoratori e le lavoratrici, oltre alle misure indispensabili e insufficienti, per come sono state rese dal Governo in carica - mi riferisco al ricorso agli ammortizzatori sociali, e via elencando - pongano anche un'altra grande domanda, quella di essere un gruppo sociale in campo.
I sindacati confederali italiani (CGIL, CISL, UIL e UGL) non hanno scelto, in questi ultimi dodici mesi, di essere particolarmente visibili sotto forma di mobilitazione unitaria, per avviare un confronto con il Governo e con le forze politiche in campo. Mi sembra - questa è un'opinione che sottopongo alla vostra valutazione, che non deve necessariamente avere risposta in questa sede - che non si sia data visibilità a un gruppo sociale e a un soggetto importante quale il mondo del lavoro e i suoi lavoratori. Un modo per instaurare una relazione efficace con il Paese sui problemi che contano sta nell'elaborare una strategia più ravvicinata da parte dei sindacati italiani più rappresentativi.
Alcune questioni di merito sono già state affrontate. In questa interessante indagine sulla crisi industriale, abbiamo sentito come il presidente vi ha già ricordato, i corpi intermedi, i distretti, i protagonisti in un cammino lungo e ampio. Noi abbiamo ascoltato e posto domande. Ora siamo a un anno dall'inizio della crisi - se vogliamo darle una cornice temporale - e ci sono alcune questioni che sono state sollevate e che, oltre ad essere registrate, forse meriterebbero alcuni suggerimenti, che invece non sono venuti in maniera compiuta né da Confindustria né dall'ABI, in audizione presso la nostra Commissione la scorsa settimana.
Il settore auto non ha definito il suo assetto produttivo; sembrava che il trend fosse favorevole, ora si ripropongono gli incentivi. Non si tratta di un problema delle maggioranze e delle minoranze nel Parlamento. Che cosa dice il sindacato dei lavoratori, che cosa suggerisce?
Nella chimica, il processo di rottamazione terribile è stato citato anche in


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quest'occasione. Quello della chimica è un ottimo tavolo di monitoraggio, però, se i beni intermedi, il ciclo del cloro e del PVC chiudono, di che cosa stiamo parlando? Non vi è un tavolo con ENI. Cosa dice il mondo del lavoro, prima che si scelga esclusivamente di salire sui carroponti o sulle terrazze per manifestare la propria posizione?
Nel campo della siderurgia, di fronte al dumping riproposto con i bollettini settimanali dal Far East, particolarmente dalla Cina e dall'India, ma anche dagli Stati Uniti, le regole di ingresso in Europa non prevedono misure antidumping, per cui le bramme entrano via Serbia e i coils via Rotterdam. Si pone un problema, che non è la scelta del protezionismo, ma non può essere neanche quella per cui tutto va bene, ovvero non va bene niente.
L'altro grande pezzo dell'economia italiana nazionale è l'holding Finmeccanica. Non si capisce, sul versante della cantieristica navale, quale sia la situazione, compresa la presenza dell'azienda in borsa. Non so se sia storia vecchia o ancora nuova. Certo è che nel settore dell'aerospazio e dell'avionica scontiamo alti e bassi - in questo momento anche alti, soprattutto sulle commesse militari straniere, il che è positivo - però sulla location di Alenia Composite o di Alenia Centrale si pongono interrogativi cui corrispondono centinaia e centinaia di posti di lavoro e di licenziamenti per il sistema degli appalti e dell'indotto delle forniture, e di cassa integrazione per i lavoratori diretti. Tale fascia, la prima di cui parlavo, non ha visibilità né rappresentanza, se non attraverso voi. Come la sapete interpretare? Scusate se parlo in questi termini, in modo così diretto.
Poi, vi è la questione del made in Italy. Siamo interessati all'opinione dei sindacati confederali italiani in merito alla tracciabilità, al made in, tutte battaglie perse, ovvero non compiute. Per quanto riguarda il made in, in sede europea dopo due anni, siamo ancora alla riunione di Commissione, benché la maggioranza sia più interessata agli aspetti dell'import. In Italia, siamo alla vigilia del secondo decreto correttivo - che forse non vedrà la luce - che reca un passaggio sulla tracciabilità (che non equivale al full made in Italy) e ciò potrebbe diventare un problema. Che cosa dicono i lavoratori e i loro sindacati delle grandi aziende delocalizzate e del sistema delle PMI, del tessile, del calzaturiero e dell'abbigliamento che, senza tracciabilità, non possono rappresentare neanche il decentramento secco di cui si parla? Che dire della moda e del design, se non vi sono elementi che li riconducano al made in Italy? Di questi fatti ci parlano le imprese e le loro associazioni, ma anche i sindacati dei lavoratori.
Ho visto che è assente il Mezzogiorno. Se vi è a ragione, nella lettura del Paese da parte dei corpi intermedi importanti, l'idea che l'Italia sia costituita da tre grandi macroaree con la loro storia, i loro successi e le loro difficoltà, non avrebbe senso, se il Mezzogiorno sparisse - non è un problema che sto ponendo agli ospiti presenti - da una lettura della rappresentanza del mondo del lavoro. Non è una questione di numeri. Il 224 per cento di più di CIGS e CIGO in Puglia, è più del 900 per cento nel distretto della Val d'Ossola. Il mondo del lavoro ha bisogno di sentir rappresentate queste misure in qualche modo.
Per quanto riguarda le banche, qual è il giudizio sui confidi e sui fondi di garanzia che non funzionano? L'accordo del 3 agosto tra ABI e Confindustria non ha consentito a nessun lavoratore padre di famiglia di spostare di un anno il rateo di un mutuo. Che cosa dicono i sindacati dei lavoratori? Noi abbiamo bisogno di sentire le vostre opinioni, come parlamentari, non come PD, e poi ognuno le può selezionare. Che cosa sta accadendo nel sistema delle piccole e piccolissime imprese? Noi sosteniamo la vostra richiesta di prolungare la cassa integrazione a 104 settimane, come quelle di Confindustria - pare che non ci arriveremo, ma non è questo il problema, ci batteremo e spero che converremo tutti - ma il punto non è prevedere solo quel tipo di ammortizzatore. Ce ne sono diversi altri, che nella vita quotidiana ci pongono problemi seri. Noi abbiamo l'interinale


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fuori, i lavoratori delle forniture industriali già in mobilità, i lavoratori con i contratti a termine delle forniture già licenziati senza mobilità; abbiamo i contratti impropri, chiamiamoli così in linguaggio generale, e fenomeni di lavoro nero che si oscurano continuamente. Un tempo questo fenomeno riguardava solo l'agricoltura, o il settore delle costruzioni, poi è arrivato nei servizi e ora attraversa in maniera preoccupante tutta l'economia italiana.
Farò un'ultima considerazione sul fisco. Se c'è un soggetto nella storia italiana - quella più recente, post guerra, quindi la storia della Repubblica - che ha saputo scendere in campo, è il sindacato italiano, in tema di fisco ed equità fiscale. Si tratta di un tema che oggi prova a ripartire dalla riduzione delle tasse sul lavoro, obiettivo che condividiamo. Al riguardo, vi sono proposte di legge e iniziative. Un altro punto, però, rimane difficoltoso nel nostro Paese, ossia che non tutti pagano le tasse. Oggi c'è il voto di fiducia sul condono, più noto come scudo fiscale. Credo che si dovrebbe dare voce a chi paga rispetto a chi non paga, ed è una grande parte del popolo italiano: soprattutto i titolari di reddito da lavoro e da pensione, poi ci sono anche i professionisti e le imprese, sebbene un po' meno numerosi, stando a quanto persino alcuni giornali in prima pagina ci hanno detto qualche giorno fa.

SAVINO PEZZOTTA. Ringrazio le organizzazioni sindacali per una questione semplice, ossia perché confermano il giudizio di alcuni di noi, che magari sono un po' pessimisti e che non vedono un'uscita immediata dalla crisi, anche perché, probabilmente, la lettura che se ne fa in questi ultimi tempi è basata sui decimali di PIL o dati di questo tipo, mentre bisognerebbe effettuarla dal punto di vista di ciò che si muove sul terreno occupazionale. Credo che su tale terreno ne vedremo ancora delle belle. Io sono abbastanza pessimista e certamente le informazioni che ci sono state date ci confermano in questa direzione.
Ricorre in tutti gli interventi - ma io vorrei capire meglio - il discorso di dare sostegno alla domanda interna attraverso la detassazione. Mi domando e vi domando: con la crisi che abbiamo, fino a che punto possiamo detassare la piccola impresa, i salari, varare lo scudo fiscale - magari non sarebbe male trasferirlo come tutela ai salari dei lavoratori - ma fino a quando possiamo fare tutto ciò? Io credo sia necessario, se noi vogliamo ricavare risorse da investire in alcuni elementi importanti (penso in modo particolare ai giovani, di cui bisognerebbe forse parlare di più), cominciare a pensare se il nostro sistema di welfare e, in modo particolare, quello pensionistico, oggi non sia piuttosto un sistema che drena risorse che, invece, dovrebbero essere indirizzate ai giovani. Non parlo della copertura del debito pubblico, che comunque resta un problema. Diversamente, continuiamo tutti solo a girare attorno alle questioni.
Sono convinto che la questione del declino demografico, del restringimento di risorse, la dimensione del debito pubblico, nonché la crisi, ci imponga, e imponga a tutti, un atto di coraggio rispetto a una rimodulazione del sistema di welfare, compreso quello pensionistico. Altrimenti, dove si vanno a prendere i soldi? Tutti stiamo dicendo di diminuire, ma comincio a pormi alcuni problemi di questa natura proprio perché mi oppongo alla manovra sul rientro dei capitali, che non trovo giusta. Mi oppongo perché ritengo che per alcuni non si possa fare e ci sono ragioni per cui non si può fare. In questo senso, vi chiedo di precisare meglio la vostra posizione anche su questo punto e di indicarci quali modalità si possono adottare.
Si dice di abbassare le tasse sui salari e mi domando chi non sia d'accordo. Poi ci aggiungiamo anche la partecipazione agli utili di impresa così sembra di essere in un paese ricco. Se ci spingiamo ancora più avanti e diciamo anche che vorremmo fare le differenziazioni salariali a livello territoriale, secondo me c'è qualcosa che non va. Lo dico anche per esperienza, probabilmente bisogna che «tariamo» i


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termini di priorità di intervento. Credo che la priorità delle priorità sia oggi la questione dell'occupazione giovanile. Rischiamo tutti molto, e soprattutto per tutti i giovani che abbiamo lasciato uscire, che non hanno copertura e neanche la speranza di rientrare presto, perché il precariato, sul quale abbiamo tutti combattuto battaglie, che fine ha fatto?
Se la questione è come recuperare le risorse, probabilmente una riflessione comune sul ruolo e sulla funzione del sistema manifatturiero italiano diventa indispensabile oggi, perché si afferma che si sta uscendo dalla crisi. Dopo la crisi il sistema manifatturiero italiano come sarà? Ne avete un'idea? Personalmente non ce l'ho. Anzi, ho la certezza che non può essere così, che avremo problemi sul settore della chimica, sul settore del tessile, che tutti consideriamo marginale ma che ha ancora 800 mila lavoratori, tra cui molte donne.
Sostengo che, se non riprendiamo in mano il tema di quale ruolo si dà al settore manifatturiero nel nostro Paese, sapendo che nel dopo crisi la situazione non sarà la stessa, giriamo attorno alla questione, e mi sembra che sia questo il caso, perché abbiamo sicuramente alcune misure anticrisi - alcune buone, molte altre contestabili - ma non abbiamo ancora una direttiva di marcia in merito a quali politiche industriali adottare per traguardare il nostro settore manifatturiero oltre la crisi. Stiamo pensando ancora a come stare dentro la crisi, ma credo sia arrivato il tempo in cui tutti dobbiamo pensare al dopo. Da questo punto di vista, io credo che forse si debba fare uno sforzo in più, sia da parte della politica, sia da parte del Governo, ma che si presenti un'analoga necessità anche dal punto di vista della proposta da parte delle organizzazioni sociali di rappresentanza.
Si inserisce a questo punto il ruolo del sistema creditizio. Sono convinto che il nostro sia estremamente avaro, ma perché diventi meno avaro occorre che si sappia dove stiamo andando, informazione che non ho intravisto, se non nella misura in cui elenchiamo le cose che stanno andando male. In questa direzione, credo che - come veniva sollevato precedentemente dal collega - si possa iniziare a ragionare anche su quale sia la realtà dimensionale buona per un settore manifatturiero. Possiamo continuare a reggere, con tante miriadi di piccole imprese? Probabilmente non è male che esistano, ma come le mettiamo in rete? Come creiamo un sistema di filiera che consenta alla piccola e media impresa di competere? La competizione che troveremo fra uno o due anni non sarà molto facile. Non so se, mantenendo un sistema così atomizzato di piccola impresa, potremo reggerla. Bisognerà quindi apportare nuovi elementi di riflessione sulle reti e sui distretti, anche dal punto di vista del sostegno normativo e legislativo, soprattutto se è vero ciò che voi dite - e ne sono anche io convinto - ossia che bisogna puntare all'innovazione. Puntare all'innovazione, oggi, significa realizzare investimenti in ricerca, nelle modalità della logistica e dell'organizzazione dei sistemi, e credo che su questo bisognerebbe veramente mettere in campo alcune iniziative.
Mi interessa capire il vostro punto di vista, non tanto sulla questione dei salari differenziati, quanto su quella della necessità di una riorganizzazione, una rettificazione della piccolissima e media impresa a livello territoriale. Dov'è il gioco? Si tratta di una questione su cui mi interesserebbe una risposta da voi. Se questo è il gioco, e pertanto la dimensione delle priorità, un altro aiuto al sistema manifatturiero potrebbe essere rappresentato da una nuova relazione tra formazione e innovazione. Quanto si investe sulla risorsa umana? Credo che sia una delle sfide che abbiamo davanti. So che vi state occupando della questione della formazione e degli accordi bilaterali in merito. Quando parliamo del settore manifatturiero, il tema della formazione dei lavoratori, della risorsa umana, diventa un tema essenziale e importante e dovremmo, anche in quest'ambito, capire di più ciò che possiamo fare noi per sostenere gli elementi di formazione dal punto di vista bilaterale.


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Infine, sempre ragionando all'interno di questo schema, mi interessa conoscere quale idea avete sulle nuove forme di economia, quelle di cui bene o male nessuno parla, ma che stanno innovando e creando lavoro. Penso al no profit, alla cooperazione, all'economia sociale, che possono essere modalità per sviluppare potenzialità, capacità produttive, innovazione, ma anche modalità lavorative nuove e forse anche per metterci in una relazione diversa tra politiche sociali e investimenti. Mi interesserebbe capire meglio questo punto. Voi avete fatto un'analisi molto puntuale e precisa su alcune situazioni e sulle difficoltà che condividiamo, e di ciò vi ringraziamo, ma, se poteste darci ulteriori spunti su alcuni di questi temi, ve ne saremmo grati.

STEFANO ALLASIA. Cercherò di essere breve. Innanzitutto, condividendo le parole del collega Vico e riprendendole, mi fa piacere l'ottimismo che portate avanti per il futuro, perché indubbiamente c'è tanto da fare, non solo nel lungo termine - penso alle proposte che avete già avanzato sull'organizzazione del lavoro e sull'innovazione - ma anche per il breve periodo, con riferimento alle vostre proposte di riduzione delle tasse, detassazione delle tredicesime e degli straordinari, proposte già sentite da tempo anche da parte di questo Governo.
Vorrei, tuttavia, avanzare una riflessione e una domanda ben precise. La riflessione è la seguente: arrivando da un territorio, come quello torinese, dove la crisi incalza da almeno quindici anni, fa piacere sentire dalle vostre parole che esiste fra nord e sud una differenziazione, per la quale a sud la crisi sta arrivando adesso, mentre al nord incalza già da tempo - e non solo nell'ultimo anno - in cui stiamo vedendo la situazione più drammatica. Questo Governo, dal proprio canto, ha messo in campo opere come l'estensione degli ammortizzatori sociali a categorie che fino a poco tempo fa era immaginabile e impensabile che potessero chiedere la cassa integrazione. Vediamo sempre di più la differenza, in questo caso anche nella crisi, fra nord e sud.
Lo ribadisco e lo avete detto anche voi: a sud la crisi sta arrivando in questi mesi in alcuni settori. La stiamo affrontando e l'affronteremo, sfortunatamente per noi, ma essendo, come voi, ottimisti la potremo superare senza strascichi. Sicuramente porterà stravolgimenti a livello strutturale nelle grandi e nelle piccolissime imprese soprattutto, ma vorremmo capire qual è il vostro pensiero - avendo sentito i delegati territoriali sui nostri territori totalmente favorevoli - sulle cosiddette gabbie salariali, ossia i salari differenziati o regionalizzati.
Vediamo sempre di più la necessità di collegare il reddito del lavoro al potere d'acquisto, cosa che in questo Paese non avviene. La realtà è che tra il nord e il sud le situazioni di potere d'acquisto sono totalmente differenti, se non addirittura dimezzate fra un estremo e l'altro della penisola. Mi interessa perciò capire il vostro indirizzo generale - come ripeto, indubbiamente non a livello locale, perché lo conosciamo a menadito - ma a livello nazionale. Qual è, dunque, il vostro interesse su questa proposta e sulla discussione in essere in merito alle cosiddette gabbie salariali?

RENATO WALTER TOGNI. Sarò brevissimo. Innanzitutto, mi scuso con il rappresentante della CGIL per essere arrivato in ritardo e non aver sentito il suo intervento. Se toccherò punti che sono già stati affrontati, chiedo scusa. Sono fondamentalmente un creativo, quindi per definizione disordinato mentalmente. Cercherò, tuttavia, di essere pragmatico il più possibile, in questo caso.
Si sono messe sul tavolo moltissime questioni, sicuramente tutte interessanti e degne di nota. Sono d'accordo con l'analisi del rappresentante della UIL sul fatto che - come ha sostenuto anche il collega Allasia - quando usciremo dalla crisi, il mondo produttivo sarà radicalmente cambiato e stravolto. Ritengo, però, che fondamentalmente il problema principale, che


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tocca soprattutto il nostro Paese - su questo concordo con il rappresentante della CISL - sia la necessità di individuare le particolari produzioni di qualità e di eccellenza che il nostro Paese può esprimere.
Io direi, in più, che purtroppo dovremo adeguarci, perché le leggi del mercato - per quel poco di economia che ho studiato - sono inflessibili. Non possiamo più produrre merci che non si vendono. Questo è il dato fondamentale, al di là delle considerazioni che dobbiamo fare in relazione allo specifico momento di crisi, che coinvolgono gli ammortizzatori sociali e tutti gli interventi che, secondo me, a differenza di ciò che pensa il collega dell'opposizione, il Governo ha realizzato in maniera giusta e sta ancora procedendo a realizzare. La crisi si sta evolvendo: non si possono adottare i provvedimenti tout court e risolvere il problema, ma si devono adottare anche in corso d'opera.
Finita la crisi, ci sarà, dunque, un indubbio stravolgimento e - spero - si dovranno individuare i settori nei quali saremo competitivi nel mondo. Ho sentito dire che abbiamo concorrenti come la Cina, l'India e via elencando. Noi, come Lega, abbiamo già individuato il problema otto anni fa e sostenuto che, per proteggere le nostre produzioni, avremmo dovuto intervenire con dazi ad hoc per evitare la concorrenza sleale. Non è bello dire «l'avevo detto», ma purtroppo la situazione è questa.
In merito alla disoccupazione di oggi, essa in effetti è cresciuta molto, però, d'altra parte, vi è la discrasia di chi chiede l'ingresso di altri lavoratori stranieri. Se non abbiamo la possibilità di proteggere, o stiamo cercando di proteggere, i lavoratori italiani - oltre agli stranieri che stanno producendo in questo momento nel nostro Paese - per quale motivo dobbiamo farne arrivare altri? È una domanda che vi rivolgo.
In merito agli incentivi, essi sono sicuramente un provvedimento che in questo momento potrebbe essere utile, però si pone il problema che potrebbero anche portare conseguenze anche a che si concedono. Vi porto un esempio: la Ferrari, che si vanta di essere made in Italy, costruita totalmente in Italia, oggi come oggi non lo è. L'azienda Graziano trasmissioni, che è delle nostre zone, del torinese, ha perso la commessa per i cambi della Ferrari, perché essi vengono fatti costruire in Romania, dove costano meno. Copiando il mito della sinistra, ossia il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, dovremmo imporci - e la Lega ha cercato di farlo nell'ultimo provvedimento che abbiamo esaminato - che, per ricevere tali incentivi, si debba essere produttori sul suolo italiano.
Avete toccato marginalmente uno dei settori strategici, quello della filiera del legno, dei mobili e via elencando. Tale settore è meno in crisi rispetto agli altri, perché siamo i primi al mondo, ragion per cui la produzione della filiera del mobile non ha subito la crisi in misura analoga ad altri settori. Bisogna portare tutti gli altri settori strategici non dico a essere primi al mondo, ma ad avere effettivamente una qualità tale per cui possano evitare la crisi.
Concludo con un discorso sull'edilizia. Avete detto che, essendo un volano per l'economia italiana da sempre, essa presenta sicuramente grossi problemi di occupazione, una crisi fortissima. Stamattina è apparso un articolo sul quotidiano La Stampa di Torino, in cui si comunica che solo in Piemonte sono a rischio 15 mila posti di lavoro. Il Governo ha stipulato un accordo con le regioni sul cosiddetto Piano casa per riattivare questo settore: mi riferisco agli ampliamenti concessi del 20-35 per cento, lasciando campo libero alle regioni per attuare in ciascuna una legge ad hoc che consentisse l'applicazione di tale intesa. Ebbene, come intendete muovervi voi, per esempio nelle regioni come il Piemonte, dove, analizzando la legge, si va proprio in controtendenza a quello che il Governo si proponeva? Nessuno accederà alla possibilità di ampliamento perché sono state fissate regole talmente pesanti da rispettare, che non permetteranno sicuramente un rilancio. Tenete presente che, in base ad alcuni studi, i soggetti interessati a tali ampliamenti solo in Piemonte


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erano circa 700 mila, e capite dunque che si sarebbe potuto agire molto bene sul sistema dell'economia.

PRESIDENTE. Do la parola agli auditi per le repliche.

SALVATORE BARONE, Responsabile del dipartimento settori produttivi della CGIL. Rispondo all'onorevole Allasia di lasciar perdere la diatriba tra ottimisti e pessimisti. Dobbiamo guardare in faccia la realtà, che è pesante e molto preoccupante. Richiamo tutti ai possibili scenari dei prossimi mesi, soprattutto sul fronte dell'occupazione in senso lato. Sono d'accordo con l'onorevole Pezzotta: il tema in particolare più spinoso è quello dei giovani, che hanno perso il lavoro e sono senza tutele, e vedono chiuse le prospettive per avere un lavoro in futuro.
Parto da un punto che incrocia anche alcune questioni che sono state sollevate sia dall'onorevole Vico che dall'onorevole Allasia. Il Mezzogiorno può essere vittima due volte di questa situazione: un'ora di cassa integrazione al sud equivale a tre al nord, per il rapporto occupati e presenza industriale, presenza occupazionale, ma anche perché è in atto - e bisogna intervenire immediatamente - addirittura un processo di trasferimento di parti dell'apparato produttivo dal sud verso il nord. L'esempio più clamoroso è la Lasme di Melfi, un'azienda di componentistica auto, che chiude per riaccorpare le proprie attività in una provincia del nord. Ci sono aspetti specifici all'interno della storia di questa impresa, ma poco contano. Questo è il dato che abbiamo di fronte, e sul quale dobbiamo intervenire immediatamente.
Passo all'argomento banche. Io abito in provincia di Varese - credo che il presidente Gibelli conosca bene quella realtà - di fianco al paese in cui si è verificata la ribellione degli artigiani nei confronti, in particolare, del sistema creditizio. Anche su questo punto occorre assumere un doppio orientamento: il primo riguarda l'atteggiamento delle banche italiane nei confronti delle piccole imprese, per riattivare un circuito virtuoso di credito e investimenti riferiti soprattutto alla capacità di tali imprese di mettere in campo innovazione; il secondo è un intervento a livello europeo, perché, in effetti, dobbiamo considerare il fatto che i meccanismi di Basilea 2, i meccanismi automatici di verifica dell'attendibilità della situazione patrimoniale delle imprese, in questo contesto si inseriscono molto rigidamente e non vengono considerate opportunamente la realtà di impresa e le sue prospettive.
Pensiamo occorra trovare un punto di equilibrio, almeno per la durata della crisi, tra tali meccanismi automatici e la valutazione della realtà di impresa rispetto alle possibilità di sviluppo della stessa, per riattivare i canali del credito.
Sempre in campo europeo - e il nostro Paese su questo punto deve davvero fare la voce grossa - quella che proponiamo non è affatto una politica protezionistica. Bisogna chiedere che il marchio d'origine dei prodotti importati nella comunità sia adottato da tutti i Paesi, che siano fatte cadere le barriere tariffarie rispetto ai mercati in cui le possibilità di penetrazione da parte dei nostri prodotti sono ampiamente riconosciute e condurre una lotta senza quartiere alla contraffazione, che è uno degli elementi che penalizzano soprattutto l'industria del made in. Vi ricordo che avevamo un Alto commissario per la lotta alla contraffazione in Italia e l'abbiamo abolito. Il Ministero dello sviluppo economico avrebbe dovuto assumersi tali compiti e responsabilità, ma non vedo azioni in questo senso, quantomeno in termini di efficacia.
Sempre in campo europeo, vogliamo avanzare una proposta, e quindi adottare una politica industriale, per rilanciare, per esempio, la cantieristica? Parliamo di rottamazione delle navi oltre una certa soglia di età, per favorire un processo in tutti i Paesi, e riattivare gli investimenti in questo campo. È un'ipotesi da valutare e da sottoporre all'attenzione degli operatori economici e delle istituzioni, come esempio di politica virtuosa in campo europeo sul piano industriale.


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In materia di incentivi all'industria dell'auto, non abbiamo una posizione pregiudizialmente contraria. Bisogna, però, intendersi: se, da una parte, incentiviamo questo settore importante, dall'altra, dobbiamo verificare ciò che gli gira intorno. Pochi giorni fa eravamo intorno a un tavolo con i produttori di componenti del settore auto, che solo in minima parte agiscono in rapporto con la nostra grande impresa nazionale, ma sono invece grandi esportatori per altre case automobilistiche e determinano, proprio per le loro capacità innovative, una ricaduta di innovazione complessiva sul piano industriale. In tale ambito, rischiamo - e i dati sulla cassa integrazione ce lo dimostrano - una débâcle. Il tema è, dunque, vedere come riuscire a tenere assieme grandi imprese con i processi dell'indotto che si determinano e, quindi, garantire il sostegno alla piccola e media impresa coinvolta.
Passo alla questione della chimica. Due settimane fa abbiamo «sminato» una situazione sociale pesantissima a Livorno, perché l'ENI voleva vendere la raffineria a un fondo americano che non dava alcuna garanzia per quanto riguarda la prospettiva di quelle attività, in cui sono coinvolti oltre mille lavoratori, oltre all'indotto, con risvolti pesantissimi sul piano del PIL territoriale.
Raffinerie da una parte, Porto Torres dall'altra, il ciclo del cloro e via elencando: il Governo può chiamare a responsabilità l'ENI per chiedere che cosa fare di questa parte dell'industria italiana, visto che evidentemente lo Stato ha un peso nei confronti di questa grande impresa, che per fortuna determina risultati positivi per l'insieme dell'economia?
Credo che su queste questioni dobbiamo, non nei prossimi anni, ma nei prossimi giorni, determinare azioni concrete per ottenere risultati. Essi vanno perseguiti - ha ragione l'onorevole Vico - con una mobilitazione unitaria a livello nazionale, per mettere al centro dell'opinione pubblica il tema del lavoro, della prospettiva, dell'economia; inoltre, tali temi vanno messi in campo anche sullo scenario più ampio, ossia quello europeo, proprio per i risvolti che abbiamo visto. Noi opereremo in tal senso.
Vorrei chiudere con la domanda delle domande, che avanzava l'onorevole Pezzotta. Lo dico con estrema franchezza: in questa situazione, che può diventare esplosiva dal punto di vista sociale per le ricadute occupazionali che abbiamo illustrato. Ragionerei con grande cautela e attenzione prima di innescare un'ulteriore tensione rimettendo in discussione il sistema previdenziale italiano, anche perché gli ultimi dati che ci sono stati forniti da parte dell'Istituto nazionale di previdenza sociale dimostrano che il sistema regge e che tutte le riforme che fin qui si sono succedute hanno dato risultati.
So benissimo che quello delle risorse è un tema sul quale concentrare la nostra attenzione, perché da questo punto di vista credo che si debbano ottenere misure rapide. Se si parla di detassazione dei salari più bassi per favorire la domanda e i consumi, evidentemente c'è bisogno di risorse. Noi pensiamo, però, che sia necessario anche finalizzare alcune operazioni. Questo ci pare il punto. Occorre, quindi, vedere, nell'ambito delle capacità del sistema Paese, quali sono i margini da utilizzare per favorire determinate azioni. Se, invece, proseguiamo sulla strada dei condoni che non danno risultati, dell'abolizione dell'ICI o dell'incentivo degli straordinari, quando siamo in presenza di un livello di cassa integrazione come quello attestato, queste ci paiono francamente azioni del tutto fuori luogo e contraddittorie rispetto alle esigenze che abbiamo.
È vero, nessuno ha la ricetta pronta, ma noi pensiamo che, all'interno di una visione politica di finalizzazione, bisogna verificare le possibilità che il nostro Paese ha di affrontare alcuni problemi e priorità.

GIANNI BARATTA, Segretario confederale della CISL. Cercherò di essere il più conciso possibile rispetto ai problemi posti, che non sono solo ed esclusivamente relativi all'ordine dei lavori di oggi. Sono


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state, infatti, sollecitate anche altre risposte, che però mi sembrerebbe scorretto evadere.
Partiamo dall'Europa. All'onorevole Vico rispondo che il sindacalismo europeo è ancora oggi figlio della propria nazione. Abbiamo visto l'operato dei tedeschi rispetto alle vicende dell'auto, e dei francesi rispetto ai temi dell'energia, che hanno superato anche le logiche cosiddette protezionistiche, che sarebbero vietate, e hanno accompagnato, invece, processi di difesa delle proprie prerogative.
Il sindacalismo italiano unitario (CGIL, CISL e UIL) al Congresso europeo di Siviglia nel 2006 propose un percorso di contrattazione europea, perché già allora vedevamo alcuni pericoli. Questo è un problema che dovrei porre ai Esecutivi che, negli ultimi dieci anni, hanno governato l'Italia e anche i processi europei. Che cosa avete fatto in merito alla libera circolazione - lo dico a tutti - dei cittadini e delle merci rispetto a un lavoro che oggi vede ventisette nazioni in Europa con differenziali retributivi da 1 a 17 e, nell'ambito dell'Europa dell'euro, da 1 a 7? Onorevole Togni, decentrare in Romania oggi significa produrre in Italia, perché non ci sono barriere doganali. Come si dice a Roma «non si paga dazio». Oggi, in Europa ci sono 800 aziende multinazionali, di cui 720 sono a maggioranza capitale finanziario; significa che non ci sono più i piani industriali di una volta, ma sono le trimestrali di cassa a governare tali processi. Con quattro trimestrali negative, il management va a casa; con dodici si chiude l'azienda in Italia e ci si sposta in Polonia o in Romania, si produce lì a 500 euro al mese per operaio e si porta quanto prodotto in Italia senza pagare dazi. Questo è il vero problema dell'«euro globalizzazione», che nessuno sta affrontando e che nei prossimi anni sarà ancora peggiore, per quanto riguarda le democrazie più mature come la nostra. Il sindacato europeo, anche sotto la nostra spinta, ha organizzato alcune manifestazioni negli ultimi sette o otto mesi - i giornali ne hanno parlato poco - per la preoccupazione generale dell'occupazione, ma siamo molto lontani dalle iniziative che si dovrebbero e potrebbero prendere.
In Italia, poi, scontiamo ritardi ancora superiori: non abbiamo avuto la possibilità di parlare del tema dell'energia, se non di sfuggita, ma il nostro è il Paese che ha la maggiore dipendenza di importazione di materiale fossile (petrolio, gas e carbone). Importiamo l'85 per cento da fuori e, in più, compriamo dalla Francia il 15 per cento dell'energia prodotta, peraltro energia nucleare. Abbiamo 197 reattori nucleari in Europa, di cui almeno una decina sono situati a non più di cento chilometri dal nostro confine, ed è quindi come se li avessimo in casa.
Non abbiamo prodotto una catena energetica accettabile negli ultimi quindici anni, per via dei veti ideologici che hanno governato la politica in Italia. Non dico altro, perché credo che sia chiaro quello che intendo. Ci sono partiti che hanno vissuto di rendita su questa questione, dicendo sempre «no» a tutto e utilizzando anche il contrasto di interessi legislativo che governa tali processi fra centro e periferia per bloccare tutto. Ricordo che c'era un ministro del suo stesso partito nel precedente Governo il quale, di fronte alle nostre richieste di potenziare in house la generazione elettrica per questa o quell'azienda, a quattr'occhi ci diceva di rivolgerci a un altro ministro capace di maggiore insistenza. C'erano due Ministeri, una regione, una provincia e infine tutti i comuni interessati per dare il via. Bastava che uno dicesse di no, e la questione andava avanti per anni.
Abbiamo perso tantissime opportunità di renderci un po' più autonomi. In merito alla vicenda di Porto Torres, stiamo avanzando richieste al Governo e devo riconoscere che il Ministro Scajola non vi si è sottratto, e che anche il Governatore della regione ha preso posizioni abbastanza chiare. Il problema dell'ENI è di aver deciso di uscire dalla chimica. Un'azienda che porta 10 miliardi di utile l'anno, anche se ne perde ciclicamente qualcosa - peraltro attraverso una società che non è direttamente ENI e quindi senza perdere


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le tre stelle o le tre A nelle valutazioni delle società di rating - può andare avanti.
Noi abbiamo il piano industriale, perché abbiamo chiesto al Governatore della Sardegna di cominciare le opere di bonifica nella zona - ci sono decine e decine di ettari da bonificare - per trovare aziende che si occupino del secondo ciclo del cloro. Loro producono il cracking, cioè le palline di plastica, ma occorre trovare qualcuno che, invece che in Italia o all'estero, le lavori sul posto con semilavorati. Chiediamo che vengano portate avanti tali iniziative. Il problema non è che le cose non si fanno, ma che molto spesso si fa una fatica terribile a far parlare tutti degli stessi temi, perché in questo momento le pagine dei giornali sono piene di altre questioni, e non di problemi che riguardano il Paese.
Sul made in Italy ha ragione il collega che mi ha preceduto. Avevamo una commissione sulla contraffazione, che è stata eliminata perché presidente e vicepresidente litigavano. Avevano lavorato bene col vecchio Governo per tre anni, perché vi erano tutte le parti sociali e i partiti politici, per individuare le indicazioni per evitare la piaga delle contraffazioni, che vale miliardi e miliardi di euro l'anno, a danno delle imprese nazionali.
Esiste anche un problema di fisco, come lei ha ricordato. Io lo chiedo a tutti, al Governo in carica e a chi ha governato in passato: in merito ai 7-8 milioni di lavoratori autonomi, nessuno ha avuto il coraggio fino in fondo di approvare una legge? Perché né nel Governo né nell'opposizione, vi è qualcuno che abbia il coraggio di presentare un progetto di legge, per esempio, contro gli studi di settore, che sono «il pizzo di Stato»? È possibile che in Italia ci sia un gioielliere in una città di 250 mila abitanti che può dichiarare 24 mila euro ed essere considerato «congruo», ossia non correrà il rischio di essere visitato da nessuno, comprese le Fiamme gialle? Chi ci crede? Oppure c'è una pizzeria a Torino che dichiara 15 mila euro l'anno ed è «congrua», come il tassista di Roma che ne dichiara 11 mila, o quello del Molise, che ne dichiara 6 mila. È una presa in giro!
Ognuno ha avuto la possibilità di rimediare, ma l'unica cosa che non si è toccata sono stati gli studi di settore. Quando qualcuno, un ministro del suo partito, ha provato a dire non di toccarli, ma di rivederli, gli avvocati, i dentisti e via elencando sono scesi in piazza sostenendo che fosse una vergogna.
Quando si dice che bisogna pagare tutti le tasse per pagarne di meno, il problema è proprio quello. Ci sono 250 miliardi di evasione fiscale e 100 miliardi di evasione contributiva. La torta sta lì. O siamo in grado, con coerenza, con progressività e anche con attenzione, di puntare in quella direzione, oppure non riusciremo mai. Il fabbisogno italiano consiste di 850 miliardi, il bilancio complessivo di 1.700, ne paghiamo 75 sul debito pubblico, ma se non ricaviamo i soldi da quel settore, non capisco dove riusciremo a trovarli. Non si può, naturalmente, pompare ancora dal lavoro dipendente e dai pensionati, che ormai stanno non solo sulle aliquote marginali, ma anche sulla medie. In Italia, chi paga il 30 per cento è un lavoratore normale, mentre in America - al netto dei servizi, che sono completamente diversi - chi paga il 30 per cento è milionario.
Questi problemi vanno dunque affrontati coralmente, il sindacato ne ha parlato, noi ne abbiamo parlato unitariamente ed esiste un'intesa di massima. Ci sono in questo momento altre questioni su cui la pensiamo diversamente, ma sulla questione fisco abbiamo combattuto diverse battaglie. Il problema è che bisogna stare sempre attenti, perché sembra quasi che noi vogliamo attaccare altre categorie. Bisogna, invece, pensare a una redistribuzione più equa del reddito prodotto. Sia chi governa sia l'opposizione ci devono aiutare a combattere una buona battaglia, che è quella di realizzare un modo diverso di partecipare alla spesa pubblica e alla spesa generale.
Un aspetto mi ha molto colpito e, d'altronde, ne parlava alcuni anni fa l'onorevole Pezzotta: è vero che il tema dell'innovazione e della ricerca è uno dei temi


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cruciali della nostra prospettiva. Nel luglio 1993 stringemmo un accordo che toccò alcuni punti nodali, come l'inflazione, il rientro, l'abbassamento del debito, oltre al tema di una contrattazione di secondo livello, che doveva ridistribuire il salario in maniera diversa. Il contratto nazionale aveva un compito, con l'inflazione programmata e il PIL, e la contrattazione di secondo livello, che si fece poco e male, aveva il compito di ridistribuire.
Dal 1993 a oggi abbiamo avuto cinque cicli economici, tre positivi e due negativi; se portassimo in un asse cartesiano l'andamento degli utili del sistema Italia, avremmo una curva che va verso l'altro. I soldi, dunque, ci sono stati - non lo dico io, ma l'Associazione italiana degli economisti del lavoro - ma sono andati quasi tutti a capitale e poco al lavoro. Si potrebbe pensare che siano stati, quantomeno, investiti in ricerca. Invece no, il sistema non ha aumentato la produttività, ha mantenuto la produzione stabile, immettendo nel mercato del lavoro 3 milioni di lavoratori precari e despecializzati. Siamo passati così dal ventiquattresimo posto del 1993 al sessantacinquesimo della graduatoria della competitività.
Su questo, ovviamente, la colpa non è soltanto del sistema delle imprese, perché di ricerca e sviluppo si occupano non solo loro, ma anche il sistema pubblico in quanto tale. Tutti, in questi quindici anni, hanno operato tagli, pensando che qualcuno avesse realizzato qualcosa di eccellente, ma che il resto avesse perso. Questa è una nostra scommessa: se non recuperiamo spazi di competitività, il nostro sistema, che non può competere con i costi del lavoro della Cina, dell'India o con i loro mercati deregolarizzati, perde il poco vantaggio che ancora ha. A me pare - ripeto - che questa sia una delle scommesse più grosse che dobbiamo cercare di vincere e che ogni anno, però, le esigenze di finanza non premino questo problema, ma vengano ogni volta frustrate.
Non abbiamo la capacità di mettere insieme il sistema della ricerca pubblica con quello privato, ognuno procede per conto suo: qualcuno ha la possibilità di raggiungere alcuni obiettivi, molti se ne vanno all'estero. Scopriamo che abbiamo geni all'estero che in Italia potevano essere utili per molti scopi e che non lo sono stati. Ovviamente, ciò riguarda anche i tantissimi giovani che, se possono, se ne vanno. Stiamo perdendo la linfa vitale del futuro di una nazione: quando i ragazzi vanno via perché capiscono che devono studiare all'estero e poi vi rimangono a fare le loro esperienze, perdiamo vantaggi incredibili. Questo è uno degli altri aspetti che ci pesano moltissimo.
Un'ultima considerazione sulla questione delle gabbie salariali. Noi non siamo d'accordo perché riteniamo che il contratto nazionale sia ancora lo strumento di una solidarietà nazionale che non viene meno. La differenza del numero «n» di «Italie» esistenti - non sono neanche più due - è anche reddituale, perché al nord la famiglia media ha tre redditi, mentre al sud ne ha 0,80, neanche uno intero; inoltre, i costi di vita non sono più alti al nord - non è vero - poiché vanno rapportati ai tipi di servizi che vengono dati. Su questo aspetto il tema del federalismo aprirà sicuramente tante pentole e tanti coperchi e obbligherà tutti, eliminando la spesa storica e attuando la regola del benchmarking, a rendere conto meglio di quello che si fa. I servizi al sud costano di più e sono più scadenti. Non è, dunque, un problema di gabbie salariali.
Paradossalmente - come dicevo all'inizio - se dovessimo spostare il livello di contrattazione di tipo globale, lo dovremmo spostare in Europa, per evitare i problemi di cui parlavo. La vera scommessa è la contrattazione di secondo livello, quella capace di dare, oggi come oggi, al nord più soldi, perché si produce di più, e al sud magari stabilizzare l'occupazione, in questa fase. È lì che probabilmente si verificheranno le condizioni di una stabilità diversa, tutta però legata a un concetto di produzione, produttività, efficienza ed efficacia, di cui ogni azienda e ogni territorio potranno dotarsi, almeno rispetto al modello che noi abbiamo voluto adottare con la nostra firma.


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In questo momento, parlare di gabbie salariali non avrebbe veramente senso per noi, perché l'Italia non è in condizioni di subire un'ulteriore lacerazione e differenziazione, non ce ne sono le condizioni, mentre ci sono le condizioni di una contrattazione di secondo livello che possa premiare le differenze produttive di alcuni sistemi e di alcune aziende, ma anche di alcuni territori.

PRESIDENTE. Ringrazio gli intervenuti per aver toccato il tema dell'energia, che in realtà non era strettamente oggetto del nostro incontro di oggi, ma ha comunque animato il nostro dibattito. Ringrazio, quindi, di aver voluto allargare le questioni rispetto al tema dell'audizione.

PAOLO PIRANI, Segretario confederale della UIL. Partirò, molto brevemente, dalla questione del Mezzogiorno, perché ritengo che sarebbe un gravissimo errore proporla come un dato a se stante. Il problema che abbiamo, a mio avviso, è capire quale interesse possa avere l'industriale del nord a guardare verso il Mezzogiorno, ovverosia come la questione del Mezzogiorno sia nazionale ma, se presa a sé, abbia un destino che mi pare già ampiamente segnato.
Ciò significa, nell'analisi svolta sulla crisi, cogliere un aspetto: non cambierà solo il sistema produttivo italiano, la crisi ci consegna un assetto geopolitico mondiale profondamente mutato. La politica di Obama e quanto emerso da Pittsburgh alcuni giorni fa, ci permettono di capire che, tendenzialmente, da un lato c'è un'economia statunitense che sicuramente non rinuncerà a ricoprire tutti gli spazi che potrà, e, dall'altro, emergono aree subcontinentali nuove che cercano di allargare i propri spazi, ossia la Cina, il sud-est asiatico e il Brasile.
In questo contesto, lo spazio europeo tende a diminuire. Questo è il problema. Non è, quindi, indifferente, anche per il Mezzogiorno ma più in generale per il nostro Paese, capire quale sarà la scelta europea. Penso che, se dovesse maturare - come io auspico a livello europeo, e sicuramente a livello nazionale - l'idea che la nostra crescita possa svilupparsi prevalentemente scommettendo sull'area subcontinentale mediterranea (ossia la fascia adriatica e la zona del nord Africa) come occasione di sviluppo, di investimento, nella quale il posizionamento geografico del nostro Paese e, quindi, anche del Mezzogiorno, diviene un aspetto centrale, potremmo certamente guardare a un futuro più positivo. È una scelta. L'altra è quella della Germania e del rapporto con Putin e, in fin dei conti, con la Russia. Saremmo legati al carro della Germania, per molti versi, ma non avremmo, a mio avviso, le opportunità di sviluppo che ci sarebbero, se si puntasse con più decisione verso l'altra area cui ho fatto riferimento. Si tratta di una scelta che va compiuta, sapendo che, in ogni caso, il nostro problema è quello di essere competitivi. La questione della competitività non è eludibile.
Dopodiché, dobbiamo gestire una fase di trasformazione. Si è parlato di diversi settori e gli aspetti drammatici sono sufficientemente chiari. Dobbiamo sapere che, in prospettiva, il ciclo del cloro non durerà più di dieci anni, che la tecnologia del motore a scoppio ha due secoli di vita. Noi non possiamo accettare le idee di Scaroni di chiudere Porto Torres, o di Marchionne di chiudere Termini o Pomigliano d'Arco. Però, mentre dobbiamo adottare politiche che evitino il tracollo sociale e la perdita del posto di lavoro, dobbiamo guardare un po' più in là e compiere scelte precise.
L'aspetto energetico non è secondario in questo contesto, come non lo è quello della tecnologia legata alla banda larga, da considerarsi come un elemento di servizio universale - l'accesso a Internet da parte di tutti i cittadini italiani non è una questione secondaria - ma certamente, in quest'ambito, ci sono ulteriori iniziative che possono generare sviluppo. È stata ricordata la questione del Piano casa. Può essere, se progettato bene, una scelta intelligente, da un lato, per mobilitare il risparmio privato - i cittadini che hanno molto risparmio possono decidere di investire


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nel ristrutturare le proprie case, e ciò va favorito - dall'altro, probabilmente è in contrasto con le politiche delle immobiliari. Al settore immobiliare basta vendere il 20 per cento del costruito per rientrare nei costi.
Penso che, invece, puntare su un Piano casa legato proprio alla dimensione dell'abitazione possa essere un modo intelligente per far lavorare anche le piccole imprese, le imprese artigiane. Si potrebbero introdurre alcune norme a favore del risparmio energetico, per esempio.
Sulla politica degli incentivi, o si tratta di una politica europea, che deve essere quindi concordata a livello europeo, altrimenti facciamo l'incentivo per acquistare la Volkswagen o la Peugeot e per produrre auto in Polonia. Non siamo aprioristicamente contrari, ma tale politica va coordinata a livello europeo e legata ai risultati, da un lato, alle garanzie occupazionali sul territorio nazionale, dall'altro, ai nostri aspetti di qualità, quali il motore ecologico.
Oggi abbiamo il problema - l'ho già ricordato e lo ripeto - di garantire la cassa integrazione, che si è dimostrata uno strumento intelligente, perché flessibile rispetto ad altri strumenti di tutela esistenti a livello europeo, e ha impedito la crisi dei licenziamenti che si è verificata in Inghilterra e in altri Paesi. Il nostro problema è garantire l'afflusso di risorse sulla cassa integrazione almeno per il 2010, che sarà il periodo interessato. Non mi pongo oggi il problema della riforma degli ammortizzatori sociali: si paga di più l'indennità di disoccupazione, ma nel momento in cui si usufruisce di tale indennità, significa che si è perso il posto di lavoro. È preferibile pagare la cassa integrazione.
Su un punto ha ragione l'onorevole Pezzotta: siamo in una situazione in cui «pompiamo» risorse per tenere in piedi la baracca, cercando poi di guardare anche al futuro. Ci sarà un problema di spesa pubblica, che dovremo affrontare. Non credo che sia un problema dell'oggi, ma certamente, nella ridefinizione della qualità dello Stato attraverso il federalismo, dobbiamo andare a rivedere il nostro sistema di welfare nelle sue diverse dimensioni. Per quanto mi riguarda, penso a un sistema a tre fasce: una pubblica, una di tipo bilaterale e una privata, che siano flessibili e adeguate.
Analogamente, anche in merito alle politiche salariali, il problema non è la gabbia salariale, perché sicuramente il costo della vita a Torino rispetto a Ivrea è diverso, come pure tra città e campagna. La dimensione regionale non risolve il problema. Si tratta di avere politiche salariali flessibili e incentivi che consentano e favoriscano tale flessibilità, una volta garantito a tutti il minimo di tutela necessario del proprio reddito e della propria retribuzione. Significa certamente metterci un po' tutti in discussione.
Se guardiamo al futuro, se l'Italia vorrà uscire dalla crisi in maniera positiva - ci sono le condizioni, perché siamo un Paese che ha tante risorse umane e tanta capacità di lavoro - deve anche saper recuperare lo spirito per il quale negli anni Sessanta eravamo all'avanguardia. Avevamo una politica energetica, quella dell'ENI di Mattei, ed eravamo all'avanguardia nella politica del nucleare con l'ingegner Ippolito, avevamo brevetti importanti nella chimica con il Moplen e nella farmaceutica con gli antitumorali. Il Paese era al passo, poi le cose sono andate come sono andate.
Il problema non è, nel momento in cui scegliamo la via della qualità, la sola che possiamo seguire, finanziare i carrozzoni. La ricerca è promossa da alcuni grandi gruppi, ma anche da centinaia e centinaia di imprenditori che sono andati in giro per il mondo cercando di adattare i propri prodotti e le proprie aziende, di saper innovare, cambiare, ed essere competitivi sul mercato. Dovremmo puntare su di loro per pensare a una via di uscita del nostro Paese, metterli in rete nel fare sistema, cambiare un sistema universitario che non produce grandi risultati, per così dire, puntare sulla qualità di una pubblica amministrazione che sia al servizio dei cittadini e non della politica, lottare contro gli sprechi.


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Non so se si tratta di abolire le province o le comunità montane, ma credo che una scelta debba essere compiuta. Non sposo una tesi o un'altra, ma oggi vi è una pluralità di strutture che si sovrappongono, e ci aspetteremmo che, nel momento in cui ci si chiede giustamente un impegno nella razionalizzazione, nella riduzione dei costi, nel farci carico di un diverso welfare, altrettanto ci sia in termini di riduzione dei costi di tanti carrozzoni presenti nel nostro Paese.

CRISTINA RICCI, Segretario confederale della UGL. Partirei anche io dal discorso del Mezzogiorno. Innanzitutto, non credo che il sindacato lo abbia dimenticato, ma, se nel Mezzogiorno la crisi si sente forse in modo percentualmente inferiore rispetto ad alcuni settori del nord, la ragione è che c'era una grande difficoltà di trovare lavoro già prima della crisi. Se il lavoro non c'era, è chiaro che gli effetti della crisi sono inferiori. È drammatico, invece, il fatto che non si conosca il futuro di alcune aziende importanti che, se vengono a mancare in alcuni territori del meridione, comportano, a mio avviso, un problema di coesione sociale.
Si lega al Mezzogiorno anche il discorso delle gabbie salariali, su cui noi siamo sicuramente contrari, anche perché - come è stato già osservato - può esserci, al limite, un discorso di costo della vita più basso limitatamente a pochi settori, ma nel meridione vi è una carenza di servizi più ampia ed elevata e, quindi, un minor potere d'acquisto del salario. Peraltro, esiste un accordo importante, la riforma del modello contrattuale, che prevede già un salario differenziato rispetto ai risultati aziendali. Notoriamente, vi è una potenzialità più alta al nord di risultati migliori per le aziende, e quindi, di per sé, una differenziazione è già data dall'applicazione di tale modello.
Sul made in Italy, è ovvia la necessità di un controllo maggiore, anche attraverso le forze dell'ordine che vigilano sulla contraffazione, perché è importante, soprattutto in alcuni settori come il tessile, di cui si parlava, che venga salvaguardato il made in Italy, la qualità e il prodotto.
Sul problema degli immigrati, riteniamo innanzitutto, dal punto di vista etico, doveroso occuparci di chi vive la crisi come e peggio di noi, sia sul nostro territorio che fuori. Mi riferisco a un'immigrazione sana, che viene in Italia per bisogno, con necessità di lavoro e che è utile, per esempio, per il mantenimento di tanti anziani, o per la denatalità in Italia, e quindi non si può dimenticare in un momento di grave crisi per il Paese e per il mondo intero. Le fasce più deboli, forse la più debole della nostra società, come gli immigrati, vanno sicuramente tenute in considerazione.
Un settore forte, a mio avviso, è quello delle banche. Ripeto, come ho già affermato nella relazione iniziale, che esse devono fare il loro dovere, ossia sostenere il lavoro delle piccole e medie imprese che, paradossalmente, sono più penalizzate se hanno investito in innovazioni e in ricerca nella loro azienda già prima della crisi, invece di investire in altro modo, poiché le rendite finanziarie hanno una tassazione agevolata e sicuramente più bassa rispetto a quella del lavoro e del salario. Se le imprese sane non vengono sostenute dalle banche, che pure hanno avuto tutte le possibilità di essere aiutate dal Governo, sono doppiamente penalizzate, perché hanno investito, prima della crisi, nella loro azienda, e perché oggi non vengono sostenute dalle banche.
Sulle pensioni riteniamo che gli interventi effettuati siano più che sufficienti, perché non si può continuare sempre a penalizzare una fascia, anche se ciò pone interrogativi rispetto al lavoro dei giovani. Vi è necessità, a nostro avviso, di una lotta agli sprechi, ma anche di una proposta nuova di politiche industriali in Italia, che verta sui settori con potenziale sviluppo: abbiamo menzionato l'energia verde, per esempio, ma anche il no profit, di cui parlava l'onorevole Pezzotta, un settore in grande espansione, che può anche raccogliere l'entusiasmo giovanile, come in effetti avviene.


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Credo che, in questa fase di crisi, che non è ancora terminata, il sindacato abbia avuto e avrà ancora il dovere, e anche il diritto, di esercitare il suo ruolo con grande senso di responsabilità. Non è detto che un sindacato di lotta debba erigere sempre e solo barricate, ma può essere costruttivo, parlo in senso generale. Il sindacato ha stipulato accordi importanti, deve mantenere il suo ruolo accanto ai lavoratori e non perdere tale senso di appartenenza, che è poi il suo spirito essenziale.

PRESIDENTE. Ringrazio gli auditi e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 16,40.

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