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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione X
2.
Mercoledì 30 novembre 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Manuela Dal Lago, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA CRISI DEL SETTORE DELLA RAFFINAZIONE IN ITALIA

Audizione di rappresentanti di Q8, API e SARAS:

Manuela Dal Lago, Presidente ... 3 5 7 10 13 15 16
Cimadoro Gabriele (IdV) ... 12 13
Fadda Paolo (PD) ... 11
Ferrara Pietro, Dirigente di Q8 ... 7 14
Scaffardi Dario, Direttore generale di SARAS ... 5 13 14
Scarimboli Umberto, Amministratore delegato di API ... 3 12 14 15
Vico Ludovico (PD) ... 10
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A; Misto-Noi per il Partito del Sud Lega Sud Ausonia (Grande Sud): Misto-NPSud; Misto-Fareitalia per la Costituente Popolare: Misto-FCP; Misto-Liberali per l'Italia-PLI: Misto-LI-PLI.

COMMISSIONE X
ATTIVITÀ PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 30 novembre 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE MANUELA DAL LAGO

La seduta comincia alle 14,45.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti di Q8, API e SARAS.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla crisi del settore della raffinazione in Italia, l'audizione di rappresentanti di Q8, API e SARAS.
La Commissione ha ritenuto di avviare questa indagine conoscitiva perché sollecitata a seguito delle segnalazioni ricevute sulla sorte di alcune raffinerie che sarebbero a rischio di chiusura.
Chiederei, pertanto, a ognuno di voi di illustrarci brevemente la situazione. Lascerei poi la parola ai parlamentari che intendano intervenire per porre alcune domande e, se avremo tempo, per alcune veloci risposte da parte vostra. In assenza di tempo, vi anticipo che chiederemo cortesemente di inviarci le risposte per iscritto.
Se avete preparato un documento scritto vi pregherei di consegnarlo alla presidenza perché possa essere messo in distribuzione per tutti i colleghi.
Do ora la parola all'amministratore delegato dell'API.

UMBERTO SCARIMBOLI, Amministratore delegato di API. Presidente, grazie mille per questo invito. Il documento che avete predisposto che riassume gli obiettivi dell'indagine conoscitiva è esaustivo e inquadra il problema nelle giuste dimensioni, ragion per cui evito di dilungarmi sulle cause principali della crisi nel settore della raffinazione.
Faccio presente che i fenomeni che sono stati delineati nel documento in queste ultime settimane si sono ulteriormente aggravati, sia per l'aumento di intensità nel calo dei consumi, sia per una maggiore pressione della overcapacity, ossia della capacità eccessiva di produzione afferente al nostro mercato. Non ultima questione è quella di una più ampia divaricazione fra le quotazioni del petrolio greggio, che in genere risentono di fattori geopolitici, di previsioni economiche e anche di sensazioni di rischio, nonché di eventi naturali - purtroppo, abbiamo avuto numerosi eventi, fra geopolitici e naturali, negli ultimi tempi - rispetto ai prodotti che risentono molto più seriamente del rapporto tra domanda e offerta nei diversi mercati. Il nostro mercato è particolarmente debole sul lato della domanda e, quindi, nella nostra area il margine si è ulteriormente aggravato.
Per quanto riguarda l'impatto sul nostro sito industriale e sulla realtà locale, rilevo che il sito di Falconara, pur essendo di dimensioni medio-piccole, è piuttosto strategico su tutta la dorsale adriatica: la raffineria più vicina è a Venezia, la nostra


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è ad Ancona e quella successiva è a Taranto, quindi, in termini di servizio all'hinterland è piuttosto importante. La nostra raffineria impiega fra i 1.500 e i 2 mila addetti direttamente dipendenti o coinvolti nei processi manutentivi di servizio ed è rilevantissima ai fini dell'economia della provincia di Ancona in termini di tassa portuale. Rappresenta, infatti, il 40 per cento delle tasse portuali incassate dal comune di Ancona, uno dei più marittimi in Italia, e il 21 per cento dei canoni demaniali. È una realtà veramente importante nell'area geografica ed è fortemente interessata dalla crisi descritta.
In termini di criticità, l'aspetto che grava maggiormente sulla nostra raffineria è quello delle politiche ambientali. È in atto una rincorsa europea a politiche sempre più severe, che in genere sono recepite in Italia con limiti più severi delle normative europee. Questo rappresenta, in termini politici, una seria questione, perché finiremo col chiudere le raffinerie italiane per dare spazio all'importazione di prodotti di Paesi che non hanno politiche sociali e ambientali così restrittive come in Italia.
La questione di politica ambientale che pongo a questa Commissione riguarda, in particolare, le sempre più gravose richieste di adempimenti relativi ai rischi ambientali: le raffinerie italiane saranno costrette a chiudere per andare ad acquistare prodotti che inquinano l'ambiente in maniera molto più drastica. Affronterò questo aspetto passaggio successivamente, quando esporrò rapidamente le soluzioni che proponiamo, sempre se avrò tempo a disposizione. Presidente, mi interrompa, se necessario.
Ci sono altri fattori di criticità rilevantissimi, come la fiscalità dei prodotti e le accise. Soprattutto dopo la concessione alle regioni del potere di introdurre addizionali, queste sono cresciute notevolmente, deprimendo ulteriormente la domanda. Deve essere considerata poi la discriminazione fra benzina e gasolio, la quale fa sì che si spinga molto sul gasolio, mentre il problema grosso della raffinazione europea è dove mettere la benzina.
La fiscalità delle imprese è ancora più severa: in tutti i 27 Paesi dell'Unione europea l'aliquota marginale di reddito di impresa sulle aziende italiane è la più alta e si va divaricando rispetto alla zona euro, quella più in crisi in questo momento, anche per altre ragioni, e in maniera esponenziale. Lo vedrete anche in alcune slide che vi lasceremo.
Passando rapidamente alle possibili soluzioni, ne abbiamo individuate alcune insieme al Ministero dello sviluppo economico, che ci ha supportato molto. Le abbiamo discusse in particolare con il Ministro Romani e con il Sottosegretario Saglia, il quale ci ha aiutato ad inquadrare questo problema, coinvolgendo anche le parti sociali. Ci rendiamo conto, infatti, che la soluzione non sarà priva di sacrifici. Su suggerimento dell'onorevole Saglia, quindi, abbiamo potuto portare avanti alcune proposte che riguardano i rapporti con l'Europa. Sono stati posti problemi di riequilibrio della concorrenza tra Paesi che hanno vincoli sociali e ambientali e altri che ne hanno di meno e un ridimensionamento richiesto della percentuale dei biocarburanti necessari perché, oltre a deprimere i consumi petroliferi, ha anche un costo improprio. Per quanto riguarda i biocarburanti di prima generazione, essi hanno un ciclo di valenza energetica molto dubbio. Non a caso, l'ONU lo ha dichiarato crimine contro l'umanità e la stessa Unione europea dovrebbe ripensare nel 2014 l'obiettivo del 10 per cento proposto nel Piano 20-20-20.
Anche la roadmap recentemente presentata in Europa è veramente preoccupante in termini di possibile sviluppo del consumo dei carburanti.
Voglio far presente, al di là delle soluzioni che saranno trovate che sicuramente, per quanto riguarda la normativa nazionale, sarebbe auspicabile uno spostamento al centro delle competenze, utilizzando la legge n. 239 e prevedendo un coordinamento in materia ambientale nel settore petrolifero. Elaborare 20 Piani regionali


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e oltre 100 Piani provinciali è veramente improponibile sia dal punto di vista dell'intesa sulle necessarie autorizzazioni, sia in termini di unitarietà di azione. Ci sarebbe anche il Titolo V da rivedere, in questo senso, ma non mi soffermo oltre perché ritengo di parlare di fatti ben noti.
Riterremmo opportuna anche la fissazione di termini temporali certi per il rilascio delle diverse autorizzazioni, sempre con il coordinamento del Ministero dello sviluppo economico, come anche per le autorizzazioni ambientali. L'attuale organizzazione amministrativa, per la diversa competenza attribuita ai diversi enti amministrativi, ha determinato il proliferare di contestazioni che oggi devono essere risolte necessariamente in sede amministrativa, al TAR o al Consiglio di Stato, con tempi e costi allucinanti. Forse la costituzione di un organo super partes - in realtà, l'abbiamo già ed è l'ISPRA - per dirimere le controversie tecniche potrebbe essere un notevole passo in avanti.
Dopodiché, bisognerebbe immaginare che, per mantenere un ruolo strategico alla raffinazione nazionale, qualunque soluzione dovrebbe passare per la concentrazione degli investimenti invece che su semplici raffinerie, su una decina di raffinerie, agevolando e favorendo la possibilità delle attuali presenze, in termini di aziende e di capacità di raffinazione, in aggregazioni di poli consortili che possano permettersi di compiere gli investimenti e di aumentare il livello di efficienza. Investire oggi su 16 raffinerie è assolutamente velleitario.
L'ultima considerazione che vorrei svolgere - che è molto importante - è di prestare attenzione, perché proprio in questi giorni, in sede europea, stiamo decidendo un embargo delle importazioni dall'Iran. Questo passo sarebbe drammatico per le raffinerie, in particolare per quelle italiane e del Mediterraneo in generale, perché l'embargo della Siria ha già sottratto una componente fondamentale delle qualità di greggio tipiche del nostro pattern di consumi. Se eliminiamo anche l'Iran, saremmo veramente in difficoltà molto più che il resto d'Europa, per non dire del mondo.
Ci chiediamo veramente, nell'attuale fase di crisi - per cui chiederemmo anche il riconoscimento in termini di agevolazioni, di mobilità lunga, di possibilità di compensare crediti contributivi - cui prodest una scelta di questo genere, che sarebbe devastante.
Analogamente giudichiamo assai penalizzante la nostra politica fiscale in termini di Robin tax, che incide, presidente, sul settore della raffinazione che non produce utili. Stiamo parlando di un miliardo di perdite l'anno, si tratta di un dato aggregato per settore, che però colpisce l'aumento di valore delle scorte detenute obbligatoriamente, che sono il 90 per cento delle scorte site presso le aziende. Ciò incide in maniera molto pesante su un aumento di valore per via dell'aumento delle quotazioni di queste scorte, che sono intangibili, non sono vendibili. Per noi è un esborso di cassa veramente drammatico. Il massimo dell'assurdità è che tale costo non sia compensabile a livello di gruppo. Se un'azienda utilizza questi prodotti petroliferi e guadagna, paga la Robin tax. L'azienda che produce quel prodotto, invece, ci perde.

PRESIDENTE. Do la parola al direttore generale di SARAS.

DARIO SCAFFARDI, Direttore generale di SARAS. Grazie, presidente, per l'opportunità di esporre la nostra situazione. Il dottor Scarimboli ha già illustrato molto bene, seppure in maniera veloce, quali sono le criticità del settore. Io vorrei porre l'accento su un aspetto particolare, ossia sul motivo per cui il settore della raffinazione si trova in crisi. Il settore della raffinazione non è tanto ben conosciuto, perché la maggior parte delle persone tende a immaginare petrolio e prodotti petroliferi come un'unica realtà. Il settore della raffinazione, che è piuttosto ben rappresentato in Italia, essendo l'unico Paese che ha tre imprenditori privati che


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svolgono un'attività di raffinazione, l'API, la SARAS e la ERG, oltre ad altri più piccoli, è un pezzo fondamentale della catena. C'è il petrolio, che tutti sanno valere molto perché ce n'è relativamente poco. Il petrolio può essere utilizzato solo ed esclusivamente in raffinerie che producono i prodotti petroliferi, essenzialmente benzina e gasolio.
L'Europa è deficitaria di prodotti petroliferi, ragion per cui ci si potrebbe domandare perché il settore sia in crisi. Nella relazione che vi lascio troverete un grafico: vi si legge che la capacità di raffinazione europea è di 12 milioni di barili al giorno e i consumi 14,5. A un primo esame, dunque, ci si potrebbe domandare perché il settore sia in crisi. Il settore si trova in crisi per via di alcune problematiche di natura strutturale. Forse in Italia abbiamo alcune raffinerie di troppo, forse ci sono strutture vecchie che vanno ammodernate, ma fondamentalmente incide un fatto: l'Europa è il mercato in cui il valore dei prodotti petroliferi è il più alto del mondo. Di conseguenza, i produttori cinesi prima, indiani poi e americani adesso cercano di vendere i loro prodotti.
Come riescono loro a vendere i loro prodotti in Europa? Lo fanno attraverso forme di sussidi diretti o indiretti, per i minori costi di produzione che loro possono avere, o perché non hanno vincoli ambientali come li abbiamo noi, o perché la manodopera costa di meno, non sono tali da compensare il costo del trasporto. Il nostro, cioè, è un business particolare. Parliamo di numeri totalmente diversi rispetto a una maglietta che viene prodotta in Cina, per trasportare la quale dalla Cina all'Europa il costo è di 2 centesimi e che viene venduta magari a pochi euro, ragion per cui il costo del trasporto è irrilevante. Trasportare petrolio dalla Cina all'Europa costa 6 dollari a barile. I nostri costi sono 4,5-5 dollari e, quindi, questo aspetto non compensa tale costo. Perché vige questa situazione? Perché la Cina si è resa conto di quanto fosse strategico il settore dalla raffinazione. Mi dilungo con alcuni dettagli, ma solo per aiutarvi a inquadrare meglio il fenomeno. Nel 2008, quando ha ospitato le Olimpiadi, la Cina ha usato moltissimo gasolio per produrre energia elettrica per evitare di inquinare, per una questione di immagine, e ha fatto salire a livello mondiale il prezzo del gasolio, importandone enormi quantità.
Molte critiche si possono muovere alla Cina, eccetto quella che non ha capacità di programmazione. I cinesi si sono resi conto, dunque, che avevano bisogno di raffinerie, ne hanno costruite moltissime e, per farle costruire ai privati, hanno dato loro alcuni incentivi, sostenendo che era sufficiente che lavorassero perché ricevessero soldi. In questo modo i cinesi hanno costruito raffinerie e, producendo un eccesso di prodotto rispetto a quello che serviva loro, hanno cominciato ad esportarlo. Naturalmente non è un business plan quello di realizzare un prodotto nel lunghissimo termine, ma i cinesi l'hanno fatto perché ritenevano che, come Paese, dovessero avere una «zona cuscinetto» di almeno il 20-25 per cento.
L'India ha compiuto un'operazione simile e così l'America, come spiegato nella relazione. Il petrolio in America dall'inizio del 2010 costa molto meno che nel resto d'Europa per un insieme di ragioni che provo a spiegare nella relazione allegata. Non voglio tediarvi, ma si tratta di questioni assai complesse. In sostanza, le raffinerie che si trovano nella parte centrale degli Stati Uniti riescono a comprare il petrolio americano WTI a 20 dollari in meno rispetto a quanto lo paga il resto del mondo per un motivo di natura logistica. Tutti questi fatti fanno sì che questi signori cerchino di far lavorare le loro raffinerie e guadagnino un mucchio di soldi. A 20 dollari di sconto sul grezzo, infatti, se ne possono aggiungere 4-5 di differenza di costo per portarlo in Europa, ragion per cui c'è una marginalità di 15 dollari. Questi sono i motivi per cui il settore si trova fondamentalmente in crisi, oltre che per altri motivi strutturali.
Le misure per cercare di fronteggiare questo tipo di situazione, oltre a quelle


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annunciate dal dottor Scarimboli, sono tutte condivisibili, ma si tratta problematiche comuni a tutta l'industria italiana: abbiamo troppe leggi, troppa burocrazia, situazioni che probabilmente tutti gli imprenditori di ogni settore vi avranno denunciato e che anche sono a voi ben presenti. Certamente si tratta di questioni su cui la Commissione sta già lavorando. Esiste questo mal comune di fare impresa in Italia. Per giunta, questo settore è stato considerato molto ricco, ragion per cui è stata introdotta anche la Robin tax. È un settore che ricco, purtroppo, non è più.
Io posso parlare per la mia azienda. Noi da tre anni non distribuiamo il dividendo agli azionisti. Una società quotata in borsa, che ha azionisti di riferimento, per il terzo anno consecutivo, con il 2011, non darà dividendi. Ovviamente, un disamoramento da parte degli azionisti di riferimento è inevitabile, perché nessuno fa impresa per non guadagnarci, ragion per cui la situazione da questo punto di vista è enormemente tesa.
Ci sono anche ulteriori problematiche che vanno considerate. Per esempio, la prospettiva delle grandi società petrolifere, molte delle quali hanno aziende di raffinazione, è diversa da quella dell'imprenditore privato. La maggior parte delle grandi aziende petrolifere, che siano Exxon o ENI, sta cercando di uscire dal settore dalla raffinazione, perché quello dell'esplorazione e produzione di petrolio è molto più remunerativo, soprattutto se si pensa che il prezzo continuerà presumibilmente ad aumentare. Nessuno prevede che il prezzo possa diminuire, posto che nessuno sa prevedere il futuro, ma i motivi che fanno pensare a un rialzo sono maggiori di quelli che fanno pensare a un ribasso.
Per tutti questi motivi quello del petrolio è un settore fortemente in difficoltà e la prima e più importante norma sarebbe quella di poter competere in maniera paritaria. Non abbiamo bisogno di sussidi, di denaro pubblico, ma solo di poter vendere i prodotti che produciamo alle stesse condizioni in cui le vende un americano, un indiano, o un cinese. Non vogliamo in alcuna maniera gravare ulteriormente sulle tasche dei contribuenti, ma non vogliamo neanche che il denaro pubblico finisca nelle tasche di cinesi, indiani o americani, che è quanto di fatto sta succedendo oggi.
Per concludere, quello della raffinazione è un settore che, da un punto di vista strategico è cruciale, ha la stessa importanza del settore dell'energia elettrica, delle infrastrutture pubbliche o di altri settori. Un Paese indipendente o ragionevolmente indipendente dal punto di vista dalla raffinazione di petrolio ne può trovare di diversi tipi, in diverse zone del mondo, a condizioni più o meno convenienti, naturalmente, però c'è modo di diversificare.
Porto l'esempio della Libia. Si è verificata la crisi libica, ma l'Italia non è rimasta a secco. Anziché comprare dalla Libia, si compra da un altro, magari a costo più alto, però vi è l'indipendenza del Paese che ha organizzato l'acquisto.
Se, invece, si dovesse dipendere non dal petrolio, ma dai prodotti, la dipendenza sarebbe molto più stretta. Vi posso assicurare che, se domani la Cina avesse bisogno di diesel in casa sua, smetterebbe di esportarlo oppure lo esporterebbe a un prezzo cui lo fa pagare.
Esiste una strategicità estremamente importante del settore della raffinazione, non è un settore dal quale si possa pensare di uscire a cuor leggero. Grazie.

PRESIDENTE. Do la parola al dottor Ferrara, dirigente di Q8.

PIETRO FERRARA, Dirigente di Q8. Buonasera a tutti. Se mi consentite, non vorrei investire altro tempo di quello che ci viene concesso per illustrare la nostra situazione e ripetere le questioni molto chiare, che condivido, che hanno esposto i miei colleghi dell'API e della SARAS, che, d'altra parte, sono già state ampiamente svolte e verranno ripetute ancora dalla nostra Associazione industriali e dall'Unione petrolifera.


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Lo scenario in cui si muove l'azienda che rappresento, la Kuwait Petroleum Italia Spa - Q8, è esattamente lo stesso; vorrei aggiungere qualche informazione ulteriore sull'esperienza degli ultimi anni e che presenta un quadro ancora più preoccupante rispetto a quello descritto dai colleghi che rappresentano le società con cui competiamo, i quali hanno anche illustrato i rischi che possono verificarsi in Italia, data la crisi della raffinazione ormai ampiamente riconosciuta.
La Kuwait Petroleum Italia è una società piuttosto giovane, come presenza in Italia, ha poco più di un quarto di secolo, mentre vi sono altri blasonati marchi che in Italia hanno una presenza molto più consolidata. In questi pochi anni di presenza, però, la Kuwait Petroleum Italia, che nel 1984 è arrivata in Italia, acquisendo la Gulf, ha già avuto l'esperienza di chiudere immediatamente e di dismettere la raffineria di Bertonico, in Lombardia.
Alcuni anni dopo, la Kuwait autorizza la nuova acquisizione della Mobil Oil italiana, nel 1990. Nell'arco di quattro anni, prima del 1993, viene chiuso il complesso petrolchimico di Napoli, mentre nel 1994 viene chiusa la raffineria di Napoli.
Nonostante la nostra giovane età, quindi, abbiamo vissuto esperienze relative a dismissioni di impianti importanti, con gestioni di criticità non piccole, e certamente ancora oggi non totalmente risolte dopo numerosi anni.
Nel 1996, dando valore al concetto già espresso prima dai colleghi delle altre società che lavorano sul mercato, decidiamo di investire nell'acquisizione del 50 per cento di una raffineria in Sicilia, a Milazzo, acquistando il 50 per cento di tale raffineria dall'ENI. Con gli investimenti compiuti congiuntamente tra Kuwait ed ENI la raffineria ha raggiunto elevate capacità di competizione sul mercato per la sua complessità e capacità di realizzare con efficienza prodotti raffinati dal greggio.
Tutte queste operazioni svolte dalla Kuwait sono sempre state improntate da due princìpi che riteniamo fondamentali: quello di ricercare sempre la massima efficienza nelle operazioni attraverso un'integrazione con il marketing e di trovare gli spazi per poter trasferire i vantaggi di tali efficienze al mercato.
Le cause della crisi, a questo punto, sono state ampiamente illustrate. Come uscirne? Con una razionalizzazione del sistema italiano, come hanno già anticipato i miei colleghi. Ciò significa che alcuni siti meno competitivi o efficienti probabilmente dovranno essere chiusi e ciò implica, sulla base di alcune esperienze, specialmente quella di Napoli, che noi abbiamo avuto e che ancora continuiamo a gestire, bisognerà mettere in piedi alcuni interventi dal punto di vista non solo sociale, ma anche di bonifica dei terreni e di razionalizzazione e magari della trasformazione di una raffineria probabilmente in un deposito.
Riteniamo infatti che molto spesso, dal punto di vista logistico tali trasformazioni possano convenire. Per esempio, il collega Scarimboli citava il caso di Falconara: se non può essere più una raffineria, sarebbe preziosissimo per il sistema avere un deposito al centro dell'Adriatico. A Napoli abbiamo avuto esattamente lo stesso problema, perché dalla Sicilia fino a Roma non esistevano altre possibilità di avere depositi e, quindi, l'obiettivo è stato quello di creare un deposito sulla base di Napoli.
Quanto a quella di Milazzo, è una raffineria su cui abbiamo investito tantissimo, insieme all'ENI, 650 milioni di euro negli ultimi anni. Nei piani degli azionisti sono già stati identificati progetti per spenderne altrettanti nei prossimi anni, con mille punti interrogativi su come debbano essere dovranno essere condotte le operazioni di gestione delle autorizzazioni e dei permessi, relative a costruzione, modifiche o miglioramenti degli impianti esistenti.
Entrando più in dettaglio sull'esperienza di Napoli - senza dilungarmi troppo - piuttosto che su quella di Milazzo, sono passati ormai più di quindici anni dalla chiusura della raffineria. I primi dieci anni, con piani industriali piuttosto chiari, sono per avere un quadro


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giuridico certo in cui realizzare il nostro progetto di conversione della raffineria in un terminale. Con il nuovo piano regolatore che è stato esaminato alternativamente tra comune e regione, sono passati più di dieci anni senza che avessimo la certezza di come poter spendere la prima lira. Una volta approvato il piano regolatore e ritrovato l'orizzonte verso cui poter lavorare, abbiamo avviato il progetto di bonifica, da cui sono derivate ancora lunghissime discussioni. Soltanto nel 2006, a partire dal 1994, anno di chiusura della raffineria, si è riusciti a definire un progetto definitivo, con il concorso di un elevato numero di autorità coinvolte, in assenza di un organismo centrale di coordinamento, che erano chiamate a dare la loro autorizzazione o il loro parere in merito.
I tempi certi comunque non si sono mai ottenuti e ancora oggi il processo di bonifica di Napoli, che è appena cominciato, non ha un orizzonte sicuro dal punto di vista normativo. Mentre dal punto di vista industriale il progetto sarebbe perfettamente immaginabile, non abbiamo ancora, nelle diverse aree in cui è stato analizzato, risposte definitive sullo stato del suolo della raffineria. Abbiamo ancora molte incertezze su tutti i fronti.
La raffineria di Milazzo rappresenta il cuore del processo di integrazione con le attività di distribuzione commerciale che abbiamo in Italia. Per l'esperienza di questi ultimi anni, posso dire che qualsiasi permesso, qualsiasi autorizzazione in merito ad una modifica, non a una costruzione, relativa ad un impianto esistente, comporta almeno tre o quattro anni di discussione per arrivare ad ottenere i permessi previsti. Ciò significa che i piani industriali, che vengono approvati dagli azionisti prima di andare a parlare con le autorità, hanno un'immobilizzazione finanziaria che inevitabilmente ci mette nella difficile situazione di dover render conto a chi si aspetta risultati dalla gestione operativa e finanziaria dell'azienda che non si è potuto ancora cominciare, il che vi assicuro pone l'azienda in una situazione di reale difficoltà.
Gli interlocutori sono davvero troppi. Ognuno applica i suoi regolamenti e ognuno ha bisogno di essere soddisfatto in alcune richieste e di chiarimenti, circostanza che dilata i tempi per la conclusione dei procedimenti autorizzativi veramente all'infinito.
Aggiungo alcune considerazioni finali. Gli effetti congiunturali, a questo punto, sono chiari. La competitività del sistema italiano è colpita pesantemente dalla crisi, la quale colpisce stranamente in percentuale maggiore le raffinerie più complesse, più competitive, che sono appiattite verso le raffinerie meno all'avanguardia.
La raffineria che noi gestiamo in joint venture con l'Agip e con l'ENI e su cui abbiamo approvato piani di ulteriori investimenti in questo momento ci sta dando grossi problemi decisionali. Non mi dilungo sull'inefficienza e sulla complessità degli iter burocratici. Ne ho già parlato prima.
Qual è la ricetta? I colleghi che mi hanno preceduto l'hanno esposta con dovizia di particolari: la soluzione sta negli aspetti sociali, di normativa, di organizzazione, di centralizzazione delle decisioni in sostanza nella necessità di cercare di razionalizzare il sistema. In Italia esiste una capacità in surplus, al di là del rapporto domanda-offerta. Visto in maniera globale, in Europa comunque c'è un surplus di prodotto. L'obiettivo è, quindi, quello di cercare un sistema, con il vostro supporto, per poter, da un lato, agevolare - non saprei quale altra parola trovare - la chiusura degli impianti meno competitivi sul territorio italiano e, dall'altro, per semplificare la normativa nazionale ed avere finalmente un interlocutore unico. Si ipotizzava prima potesse essere l'ISPRA, il che va benissimo, è un'ipotesi che mi trova assolutamente d'accordo. D'altra parte, però, occorre fondamentalmente avere tempi certi. Questo è ciò di cui abbiamo bisogno per poter continuare a investire e a portare ricchezza al Paese.


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PRESIDENTE. Se mi è concesso, pongo una domanda brevissima, da vecchia insegnante di matematica. Mi pare di capire che i problemi principali siano di due ordini. Il primo è un problema di regole, che riguarda regole europee e non italiane, nel senso che, quando voi parlate di regole uguali per tutti, in modo da rendere sufficientemente paritario l'acquisto dei prodotti raffinati, ciò passa obbligatoriamente oggi attraverso l'Europa. Il secondo punto rilevante, al di là del fatto che ci siano troppe raffinerie, come mi sembra di aver colto, è quello delle procedure in essere, siano esse di carattere centrale o locale, nel momento in cui ci si deve porre il problema della riqualificazione di aree che vengono chiuse. Sia sul primo punto sia sul secondo voi chiedete che siano approvate proposte di semplificazione delle procedure. Quando una pubblica amministrazione impiega dieci anni per dare una risposta relativa ad autorizzazioni urbanistiche, va anche bene. Non capita solo a Napoli, ma anche a Vicenza. È il dramma delle leggi attuali.
Io vi chiederei quindi di indicare più nel dettaglio quali siano le misure da adottare - eventualmente, se avete suggerimenti, potete anche successivamente inviarceli per iscritto - e quali le pressioni che noi possiamo esercitare e con quali regole, pur garantendo l'ambiente, nei riguardi dell'Europa, affinché siano portate avanti dal nostro Governo anche attraverso interventi normativi che assicurino una maggiore parità di condizioni fra le imprese del settore; vi chiediamo, infine, quali siano le procedure da modificare e come eventualmente le semplifichereste.
Do ora la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

LUDOVICO VICO. Grazie, presidente. Ringrazio gli ospiti per la documentazione che ci hanno fornito e anche per le relazioni svolte, che ci consentono di mettere a confronto le posizioni che la settimana scorsa ci sono state presentate dai sindacati che rappresentano i lavoratori nel settore dell'energia.
Vorrei svolgere due considerazioni per capire alcune proposte emerse, che forse sarà meglio nell'immediato futuro comprendere meglio. In ogni situazione c'è sempre un tempo buono e un tempo cattivo. Questo è il tempo cattivo. La storiella della formica e della cicala è sempre quella valida!
Negli ultimi vent'anni il vostro settore non ha compiuto molti investimenti. Non ce lo dicono i sindacati, anche se sarebbe ovvio, ma ci sembra un fatto obiettivo. Non avete compiuto molti investimenti, tanto che continuiamo a produrre molti oli combustibili e pochi gasoli. Ciò vale per voi, con le vostre dimensioni, e per grandi società, come l'ENI, che oggi è assente e che interverrà successivamente.
Questo potrebbe già essere un primo problema, per una serie di congiunture che tendono a incontrarsi tutte in un periodo e in un ciclo e che sono proprio quelle che descrivete voi, su cui siamo perfettamente d'accordo, poiché sono obiettive. Si prevede che nei prossimi anni avremo un eccesso di capacità di produzione delle raffinerie pari a 15-20 milioni su 106 di prodotto totali, quanti sono i milioni che oggi su 16 impianti produciamo a un tasso che è appena superiore all'80 per cento rispetto a cinque anni fa. Era allora del 97 per cento e nei tempi d'oro quasi come il debito pubblico italiano, cioè oltre il 100 per cento. Così descritta, è ovvio che la situazione ci preoccupi. Il punto è quali sono le misure da intraprendere. Ce ne sono alcune che noi dovremmo elaborare, nell'interesse della raffinazione in Italia, del suo know-how e dei suoi lavoratori e, inoltre, nell'interesse più generale del Paese e dell'Europa, sapendo che in questo Paese c'è una nuova locomotiva che si chiama gas, questione che porta con se tante altre questioni. Ovviamente, questo ci porta ad altri ragionamenti, ma veniamo al dunque.
Si pone un problema, ma non di barriere doganali. Il punto è che, se il nostro parametro di riferimento è quello che accade in Cina, noi stiamo tornando indietro di cinquant'anni. Si può osservare


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quello che accade in Cina e come ciò che accade in quel mercato finisce per interessare anche l'economia reale all'interno di un coacervo di tante situazioni diverse. Io, però, sarei accorto nel guardare alla Cina per imitarla. Non è proprio il caso.
La nostra sfida, almeno dal punto di vista culturale, era nota, per voi che siete i maggiori investitori, i petrolieri. Sapevamo da vent'anni che la sfida da questa parte, soprattutto sulla manifattura, per arrivare in alto era e non poteva che essere sulla qualità e sulla tracciabilità dei prodotti. Di conseguenza occorre alzare le barriere della qualità, non le barriere doganali in modo del tutto fine a se stesso, ed essere sostenuti da una legislazione sempre più europea e anche italiana, che ci consenta e consenta oggi al nostro Paese, quindi anche alla vostra ricchezza e a quella del lavoro, di competere.
Non arriverò certo a sostenere che 16 raffinerie ci sono e tante devono restare, ma vorrei capire se devono diventare di meno e in base a quali criteri. Anche il debito pubblico può far arricchire o impoverire un Paese: il punto è da che parte stare, né dall'una né dall'altra.
Chiedo scusa se faccio considerazioni molto dirette. Mi avvio, comunque, alle conclusioni. Abbiamo un problema con l'Unione europea. Il MiSE, in particolare alcuni suoi sottosegretari, uno dei quali è il Sottosegretario Saglia, ha affrontato questo problema e ritengo che tale problematica debba essere affrontata anche in Europa. Il problema è quello della tracciabilità del prodotto e degli investimenti nel settore del gasolio. Questo sostengono gli operatori del settore, così indicano gli studi americani e anche quelli occidentali, per avere un'idea di qual sia il livello del conflitto sul mercato delle produzioni reali.
Se è così, costruiamo - sembra facile! - il pacchetto delle misure da prendere in concreto, perché sul versante dei consumi interni e dell'export noi sappiamo quanto voi che il problema ha un unico titolo: le accise. Se le accise diventano addizionali regionali, persino per le calamità naturali, il meccanismo non funziona, perché di calamità ne abbiamo una al giorno. Se il punto è che il costo della calamità viene inserito nell'addizionale dell'accise regionale allo 0,5 per cento, che è il massimale, il meccanismo non funziona e non funziona neanche per le regioni che impiegano il petrolio italiano.
Concludo, e chiedo scusa al presidente se, come spesso capita, mi sono dilungato. Se il punto è questo, auspico che, anche grazie al dibattito svoltosi nell'audizione odierna, si riesca ad elaborare un pacchetto di misure il più possibile adeguato e condiviso dai parlamentari e dalla X Commissione, perché queste questioni siano affrontate, per evitare, come ci riferiscono, che il prezzo del grezzo a Venezia sia più alto di quello del prodotto raffinato. Faccio solo una battuta, ma, se fosse così, costituirebbe un problema. Grazie.

PAOLO FADDA. Interverrò Molto velocemente, seguendo la raccomandazione della nostra presidente. Ringrazio i rappresentanti delle società perché, sia sulla base dei contributi scritti, sia con gli interventi svolti oggi, hanno rappresentato uno spaccato della situazione della raffinazione veramente preoccupante.
Alcuni aspetti - lo evidenziavano anche il collega Vico e la stessa presidente - riguardano una dimensione europea. Non credo - anche se posso sbagliare - che in questo momento sia possibile decidere noi una razionalizzazione del sistema. Il sistema si può razionalizzare da solo, ma il rischio che stiamo correndo è che «ci razionalizzino» gli altri e non soltanto chi ha compiuto investimenti. Non credo che tutte le società si trovino allo stesso livello: c'è chi ha investito nell'ammodernamento degli impianti per essere competitivo sul piano europeo e mondiale e chi non ha compiuto investimenti. Credo che la razionalizzazione sia naturale, in questo caso. Sono molto più preoccupato di ciò che avverrà, se non ci saranno interventi seri sia sul piano normativo, sia a livello europeo. Penso che, da un lato, si debba


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avere la consapevolezza che il settore della raffinazione è veramente in crisi anche per le società che hanno investito e che rischiamo di uscire da un settore strategico, come quello della raffinazione, fatto che non ci possiamo permettere assolutamente; dall'altro lato, mi pongo però una domanda. Il fatto che noi stessi abbiamo deciso di svolgere questa indagine conoscitiva dimostra che siamo preoccupati. Fino a che punto deve arrivare la nostra preoccupazione? Rischiamo di arrivare troppo tardi, perché magari siamo impotenti? È soltanto un problema di investimenti? È un problema di burocrazia? In che modo rischiamo di arrivare tardi?
A proposito del rischio di chiusura di alcuni impianti, mi riferisco in modo particolare, perché conosco questa realtà, alla raffinazione in Sardegna, quindi alla SARAS. Si sta diffondendo nel territorio, con sempre più insistenza, la notizia che c'è il rischio di chiusura. È vero o non è vero? Lo sostengono le amministrazioni comunali e le organizzazioni sindacali. Una delle raffinerie più importanti d'Europa, anche da un punto di vista tecnologico, una delle raffinerie che sta sul mercato per i prezzi di raffinazione rischia la chiusura. Immagino che cosa può succedere a tutto il resto del sistema.
Vorrei ricordare che l'unico sito industriale che ancora dà un minimo di speranza alla Sardegna è quello di San Rocco, perché di Porto Torres, Ottana e Portovesme in questa Commissione abbiamo discusso altre volte. Chiedo se sia possibile tranquillizzare le popolazioni locali sul fatto che ci siano veramente questi rischi o se sono voci infondate, in modo tale che si possano prendere i provvedimenti necessari; chiedo anche quanto tempo abbiamo a disposizione. In queste situazione, se non si ha la capacità di intervenire tempestivamente, il rischio di un crollo del sistema è reale.

GABRIELE CIMADORO. Fino all'altro giorno pensavo che fossimo o che comunque rappresentassimo nel mondo e in Europa l'eccellenza della raffinazione. Lo siamo ancora, voglio sperare, nonostante la crisi del settore e dell'utile lordo dato, che ammonta, a quanto pare, a un miliardo o meno.

UMBERTO SCARIMBOLI, Amministratore delegato di API. Si tratta di un miliardo all'anno di perdite che va avanti da circa tre anni.

GABRIELE CIMADORO. Voi venite a raccontarci una realtà che ormai in tutti i settori riscontriamo. Mi pare che la burocrazia sia l'ombra, il peso più grande che avete sulle spalle perché, se si devono programmare investimenti, non si può riunire il Consiglio di amministrazione e annunciare che si presenteranno oggi le necessarie richieste di autorizzazioni amministrative e si avrà la risposta fra quattro, dieci o vent'anni. Aggiungo che questa eccessiva lungaggine nelle autorizzazioni non riguarda solo i nuovi impianti, ma anche una semplice modifica a quelli esistenti!
Questa è la battaglia che stiamo conducendo per poter decidere in autonomia. Le amministrazioni comunali, compreso il più piccolo dei comuni, possono mettere in crisi una grande azienda. Si riscontrano, quindi, ritardi che sono piuttosto normali in Italia. Se viene rilasciata una concessione nel giro di due o tre anni, si vanno a ringraziare i sindaci e tutti coloro che si devono ringraziare. Come va riconvertito, come va recuperato il settore? Il primo relatore che è interventuto affermava che non occorrono soldi dallo Stato. Da soli, con le vostre forze, vorreste uscire dalla crisi. In che modo, però? Non c'è una risposta a tutto ciò. Noi non siamo in grado di darla. Avete suggerimenti da darci in proposito? Togliamo la Robin tax, magari. Quale può essere la risposta? Fermo restando che noi dovremmo mantenere il livello qualitativo, e su questo ha ragione il collega Vico quando afferma che riusciamo a produrre l'eccellenza o comunque il prodotto migliore in casa nostra: Cina, India, Brasile o altri Paesi arrivano con prodotti magari di bassissimo o di scarso livello.


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Oppure si potrebbero chiudere, come alcuni di voi proponevano, alcune raffinerie e razionalizzare gli impianti che restano, ma come? Ci sono modelli da osservare o produttività da mettere in campo? Il grosso mangia il piccolo? Diventa difficile agire anche in questo campo. Bisogna capire come. Se questo è il suggerimento che ci date oggi, vorrei sapere da voi come attuarlo. Grazie.

PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospiti per la replica.

DARIO SCAFFARDI, Direttore generale di SARAS. Vorrei cercare di svolgere alcune precisazioni, perché mi rendo conto che il nostro è un settore particolare. Quello della raffinazione, per alcuni aspetti, è assimilabile al settore elettrico: il prodotto che noi andiamo a produrre è indifferenziato. Mentre su una sedia prodotta a Belluno o in Cina si può argomentare che sia di qualità migliore, peggiore o più bella, il gasolio o la benzina sono un prodotto indifferenziato, nel senso che è la legge italiana e europea che regola che il gasolio che va nelle macchine deve essere prodotto in una data maniera.
Quello che arriva in Italia, sia esso prodotto dai colleghi dell'API, della Q8 o da noi, sia che provenga dalla Cina, ottempera alle specifiche minime. Non è una questione che il loro prodotto è di qualità migliore o peggiore: il prodotto è uguale.

GABRIELE CIMADORO. Mi risulta che presso gli impianti di distribuzione siano disponibili tre o quattro tipi di gasolio.

DARIO SCAFFARDI, Direttore generale di SARAS. Sì, però sono differenziazioni volute da parte della società petrolifera. Se qualcuno sostiene di avere il gasolio extra che ha dentro gli additivi e che pulisce meglio il motore, non è regolamentato, mentre come deve essere il gasolio è stabilito dalla legge. Non posso sostenere che il nostro gasolio è migliore di quello degli altri, perché è uguale. Tra ingegneri ci si potrebbe mettere d'accordo e trovare le molecole diverse. L'unico elemento che differenzia i vari prodotti è il prezzo. È come generare elettricità. Il prezzo del petrolio grezzo è più o meno lo stesso per tutti, nel senso che tutti lo andiamo a comprare grossomodo in Golfo Persico, che sia indiano o cinese, allo stesso prezzo. Il costo varia poi per il trasporto e, dato che le nostre raffinerie in questi anni hanno investito molto... La nostra società nell'arco di dieci anni ha investito più di 1,5 miliardi di euro, quindi abbiamo investito moltissimo, e anche gli altri, chi più chi meno, hanno investito molto. Più o meno cooperiamo...

PRESIDENTE. Pongo io una domanda, così ci capiamo meglio: avete investito nelle raffinerie che intendete mantenere aperte?

DARIO SCAFFARDI, Direttore generale di SARAS. Noi abbiamo una raffineria e su quella investiamo e cercheremo di tenerla aperta con le unghie e con i denti, per rispondere all'onorevole Fadda. Cercheremo di tenerla aperta con le unghie e con i denti. Certo, però, se si continuano ad accumulare perdite, presto o tardi si dovrà arrivare a determinate conclusioni, purtroppo. Speriamo che il mercato riprenda a girare in positivo. Il nostro è un problema essenzialmente di mercato, perché il mercato della raffinazione, se tutti lavorano secondo le stesse regole, si autoregola. Si diceva correttamente che oggi le raffinerie italiane lavorano attorno all'84 per cento. Io lo considero un fatto moderatamente positivo, non negativo perché, se non ci fosse questa possibilità di poter incrementare, se domani si verifica un incremento di consumo, per qualsivoglia motivo, come si è verificato, non ci sarebbe un sistema industriale pronto a rispondere positivamente.
L'esempio più facile è quello dell'elettricità. L'elettricità non si può vendere a chi non la vuole. Io non posso costringere nessuno ad accendere una lampadina in più, così come non lo possono fare l'ENEL o tutti gli altri produttori di elettricità. A


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tanta domanda corrisponde tanta produzione.
Con il petrolio è leggermente più facile perché si può decidere di mettere in magazzino un po' di prodotto, ma è un aspetto relativamente piccolo. Il fatto che ci sia una capacità, che noi in gergo chiamiamo spare, è un fatto importante per poter calmierare il mercato. Quando la capacità spare non c'era, alcuni anni fa, i prezzi sono saliti alle stelle. Il fatto che sia l'80 per cento va bene, purché tutti siano all'80 per cento.
Il problema qual è? È che l'Europa ha l'80 per cento e l'India ha il 100 per cento, non perché gli indiani sono più bravi, ma perché hanno alcune sovvenzioni. Altrimenti, ci assesteremmo tutti su un livello pari alla domanda, perché purtroppo, se c'è calo della domanda per via della crisi economica e si va di meno in auto, non veniamo a chiedere l'aiuto di nessuno.
Posso ammettere che esistono oggi alcune raffinerie che hanno impianti più obsoleti, ma, contrariamente a ciò che pensano altri colleghi, non sono d'accordo sul fatto che si debba chiudere l'industria italiana perché, una volta che si chiudono determinati impianti, poi non si riaprono più. Se la risposta è chiudere una raffineria italiana per farne aprire una in Cina, secondo me, è una sciocchezza. È la mia personale opinione. Se si razionalizza, perché non nego che ci possa essere lo spazio per razionalizzare, è un altro paio di maniche, ma chiudere noi per far aprire un altro, secondo me, a livello di sistema Paese, è una follia.
Purtroppo, l'Europa si è incamminata su una strada, da questo punto di vista, fallimentare, nel senso che ha assunto una visione estremamente ideologica e non pratica. Tutta la politica sui biocarburanti, per esempio, non ha alcun vantaggio per l'ambiente, né per i consumatori. Ci costa un mucchio di soldi, che spediamo in Malesia, in Indonesia e in Argentina, Paesi da cui importiamo il biodiesel, rendendo ricchi coloro che radono al suolo le foreste, che piantano quelle che si chiamano «palme da olio» e raccolgono questi semi, che costano 100 dollari, vendono il loro olio a noi a 1.000 dollari e noi lo mettiamo nelle automobili. È una follia. L'anno scorso, nel 2010, i consumatori italiani hanno speso più di 400 milioni di euro per i biocombustibili, con un vantaggio per l'ambiente che è stato pari a tre ore di emissione di CO2 dalla Cina. Con 400 milioni di euro che abbiamo pagato tutti noi abbiamo ridotto le emissioni della Cina di tre ore.

UMBERTO SCARIMBOLI, Amministratore delegato di API. Per fare un litro di biodiesel ci vogliono 4 mila litri d'acqua e l'acqua è un bene prezioso.

DARIO SCAFFARDI, Direttore generale di SARAS. Ovviamente si può pensare che il petroliere vuole vendere la sua benzina. Certo, curiamo gli interessi della nostra società, ma, mi creda, questo non è nell'interesse di nessuno perché, se si fossero impiegati i soldi in maniera differente - in una maniera che io non so e non mi permetto di suggerire - secondo me, sarebbero stati impiegati molto meglio che non a rendere ricchi i produttori malesiani.

PIETRO FERRARA, Dirigente di Q8. Se possibile, vorrei solamente completare con ulteriori osservazioni ciò che è stato già detto in merito alla qualità delle rese delle raffinerie italiane e alla loro complessità. Si è parlato di elevate rese di olio combustibile o questioni del genere. Non voglio andare molto indietro negli anni, ma il mercato italiano è sempre stato, fino a 10-20 anni fa, appetito dai produttori di olio combustibile, fino a quando tutto il sistema delle centrali elettriche italiano consumava 20 milioni di tonnellate all'anno di olio combustibile. Oggi forse ne consuma due, ragion per cui è ovvio che un sistema italiano che un po' di anni fa aveva più di 30 raffinerie e oggi ne ha 16 si è trovato di fronte alla necessità di compiere una sorta di «autorazionalizzazione», che forse non è mai stata discussa in una Commissione parlamentare, che ci


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ha portato oggi ad avere 16 raffinerie con le rese migliori o su cui ogni società ha compiuto i suoi investimenti.
Voglio portare l'esempio di ciò che ha fatto la società che rappresento, la quale ha acquisito alcuni anni fa la partecipazione alla raffineria di Milazzo che, al momento dell'acquisizione, aveva una resa del 30 per cento di olio combustibile e oggi, con gli investimenti compiuti, ha una resa pari all'8 per cento di combustibile. Abbiamo, inoltre, altri programmi di investimento.
Torniamo ai due punti fondamentali che ho cercato di evidenziare. Da un lato, vi è la razionalizzazione del sistema: forse alcune raffinerie attualmente esistenti sono di troppo; dall'altro, vi è la necessità di un sistema più agile per compiere gli investimenti perché, per ridurre ulteriormente l'olio combustibile in eccesso, occorre compiere alcuni investimenti, richiedere permessi, fare tutto ciò che serve dal punto di vista sia della normativa locale, sia della normativa nazionale. È un'altra questione che forse non abbiamo approfondito in queste discussioni, ma che ci riguarda in modo particolare.

UMBERTO SCARIMBOLI, Amministratore delegato di API. Provo a svolgere alcune precisazioni per inquadrare meglio il discorso. Stiamo parlando di cinque minuti.

PRESIDENTE. Gliene concedo tre, perché purtroppo abbiamo già superato di cinque minuti il tempo che avevamo a disposizione.

UMBERTO SCARIMBOLI, Amministratore delegato di API. Va bene. Il settore è composto da 9 operatori e 16 raffinerie. L'ENI ne ha sei, la Esso ne ha due, di cui una consortile, e gli altri ne hanno una ciascuna. Il discorso delle aggregazioni, dunque, non va pilotato, ma soltanto favorito, perché oggi, tra Antitrust, autorizzazioni, complessità burocratiche e bonifiche, c'è una barriera incredibile alla riconversioni dei siti. Non stiamo chiedendo nulla, se non di avere le stesse regole che hanno gli altri Paesi d'Europa e del mondo per poter operare. Oggi siamo ingessati da un eccesso di regole.
Passiamo agli investimenti. L'avete scritto voi nel vostro documento: dal 1997 al 2009 il settore della raffinazione ha investito 17 miliardi di euro. Penso che sia una cifra in assoluto fra le più alte nel mondo industriale. Ne sarebbero pronti altri cinque da investire ma, fino a quando non c'è chiarezza, non si possono chiedere agli azionisti soldi da investire in presenza di tre anni - questo è il terzo anno - in cui il settore perde un miliardo di euro all'anno.
La situazione è veramente grave. Che cosa fare? Il Ministero ha elaborato, nell'ambito dei tavoli tecnici che ha coordinato, alcuni importanti suggerimenti per la razionalizzazione delle procedure burocratiche riguardo sia alla normativa comunitaria, sia al sistema previsto dalla legislazione italiana. Esiste un documento base, che è stato messo a punto.
Purtroppo, il 24 si è svolta una riunione europea in cui è stato mandato il documento che il Ministero, con il nostro contributo, aveva preparato per l'Europa che è estremamente scettica problema relativamente alla soluzione del problema perché, in questo momento, esso riguarda soprattutto l'Italia. È un problema europeo, come margini, ma per l'Italia è fondamentale, perché il Mediterraneo, sia per l'aumento del costo del grezzo, sia per il cambiamento dei flussi logistici di grezzo prodotto, è la zona che soffre di più. Poiché mi sembra che anche in altri settori, come quello finanziario, tutte le decisioni politiche che riguardano l'Italia, in particolare, e i Paesi del Mediterraneo, in generale, cercano di sfavorirci, anche questo drive fortissimo in termini ambientali mette in crisi alcuni Paesi più di altri.
Vi ricordo, peraltro, che i biocarburanti in quasi tutti gli altri Paesi godono di sostegni, o di incentivi indiretti attraverso la filiera produttiva o addirittura di incentivi diretti. Noi no. A parità di obblighi


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per le imprese, tale situazione aumenta la differenza del costo industriale rispetto all'Europa.
Presidente, vorrei ringraziare la Commissione non soltanto per aver chiesto il nostro parere sulla questione della crisi nel settore della raffinazione, ma anche solo per aver preso in considerazione il problema. Uno dei nostri problemi fondamentali è quello di comunicare. Il petroliere, non si sa perché, è ricco per definizione. L'unico petroliere buono è quello morto!

PRESIDENTE. Posso spiegarle perché? Glielo spiego da milanista: abbiamo Moratti che fa vincere l'Inter, perché investe un sacco di soldi! Mi scusi per la battuta.
Ringrazio i partecipanti e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,50.

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