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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione XI
4.
Mercoledì 16 luglio 2008
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Saglia Stefano, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULL'ASSETTO DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI E SULLE PROSPETTIVE DI RIFORMA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

Audizione di rappresentanti della Lega nazionale delle cooperative e delle mutue, e della Confcooperative:

Saglia Stefano, Presidente ... 3 5 7 8 11
Cazzola Giuliano (PdL) ... 7
Delfino Teresio (UdC) ... 8 9 10
Di Biagio Aldo (PdL) ... 7
Marignani Carlo, Rappresentante della Lega nazionale delle cooperative e delle mutue ... 3 8 9
Valentini Sabina, Rappresentante di Confcooperative ... 5 10
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

COMMISSIONE XI
LAVORO PUBBLICO E PRIVATO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 16 luglio 2008


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE STEFANO SAGLIA

La seduta comincia alle 14,20.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti della Lega nazionale delle cooperative e delle mutue, e della Confcooperative.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'assetto delle relazioni industriali e sulle prospettive di riforma della contrattazione collettiva, l'audizione di rappresentanti della Lega nazionale delle cooperative e delle mutue, e della Confcooperative.
Desidero informare la Commissione che, avendo avuto richieste anche da altre realtà associative che rappresentano il mondo della cooperazione, abbiamo ritenuto opportuno audire oggi le confederazioni più significative, cioè Confcooperative e Lega delle cooperative, e abbiamo chiesto alle altre confederazioni, che ci hanno chiesto di essere ascoltate, di consegnarci un loro documento scritto. Ne è già arrivato uno, che mettiamo in distribuzione.
Per quanto riguarda l'audizione di oggi sono presenti, in rappresentanza della Lega delle cooperative, Carlo Marignani e Claudio Riciputi e, in rappresentanza di Confcooperative, Sabina Valentini e Gianluca Maccarone.
Cedo volentieri la parola ai rappresentanti del mondo della cooperazione, che forniranno il loro contributo su un'indagine conoscitiva che la Commissione ritiene particolarmente rilevante in tema di contrattazione collettiva nazionale e territoriale.

CARLO MARIGNANI, Rappresentante della Lega nazionale delle cooperative e delle mutue. Sono Carlo Marignani, responsabile delle relazioni industriali della Lega delle cooperative.
Innanzitutto teniamo ad evidenziare che, a nostro parere, il protocollo del 23 luglio 1993 è stato il risultato di un grande accordo di scopo, che ha contribuito considerevolmente al raggiungimento di importanti obiettivi per il nostro Paese - basti ricordare l'ingresso nella moneta unica europea - ed ha fornito alle relazioni industriali un sistema di regole condivise per la contrattazione collettiva di lavoro. Tale accordo rispondeva ad un'esigenza che esisteva allora e che, secondo noi, è presente tuttora.
D'altra parte, se negli anni '90 la grande sfida era la lotta all'inflazione, non c'è dubbio che ora, senza peraltro abbassare la guardia nei confronti di questo rischio che tuttora permane - e negli ultimi tempi si è in qualche maniera evidenziato -, la sfida principale che il nostro Paese deve affrontare e vincere è quella della competitività e della crescita. Quindi, il nodo della produttività assume una rilevanza decisamente particolare. Lo stesso Governatore della Banca d'Italia lo


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ha sottolineato recentemente, come non ha mancato di ricordare anche un certo insoddisfacente andamento dei salari.
Noi pensiamo, dunque, che il patto del 1993 debba essere aggiornato con l'apporto di tutte le parti sociali effettivamente rappresentative e con un fattivo ruolo del Governo che, ovviamente, è detentore delle politiche fiscali e contributive. In virtù di tale ruolo, il Governo deve poter intervenire, anche con azioni normative - specialmente, anche se non esclusivamente, in materia di lavoro - coerentemente con questi obiettivi concorrenziali di sviluppo del Paese.
Nello specifico, sugli assetti della contrattazione collettiva, Legacoop propone molto schematicamente quanto segue. Andrebbero innanzitutto mantenuti due livelli contrattuali specializzati, il primo nazionale e il secondo aziendale o alternativamente territoriale (ovviamente quando diciamo «territoriale» ci riferiamo ad un termine piuttosto generico, che può avere varie effettive modulazioni sul territorio). Il contratto nazionale deve perseguire l'obiettivo di salvaguardare il potere d'acquisto dei lavoratori.
Da questo punto di vista, il problema che sta tanto appassionando la discussione tra le parti sociali è anche, a nostro avviso, quale indicatore previsionale individuare - ovviamente un indicatore inflattivo - per raggiungere questo obiettivo.
Noi crediamo che l'indicatore andrebbe individuato in maniera tale da costituire un riferimento programmatico di sistema ed essere definito in termini più realistici di quanto, in alcuni anni, specialmente nel nuovo millennio, talvolta è successo. Ovviamente si deve evitare che questo indicatore possa divenire fattore di dinamica inflattiva. Controllare l'inflazione rimane un obiettivo fondamentale per la stessa salvaguardia del potere d'acquisto dei lavoratori.
Per quanto riguarda, poi, il recupero di eventuali differenziali significativi a consuntivo del periodo contrattuale, a nostro parere andrebbe previsto un insieme di princìpi e di criteri tali da renderne poi poco problematica la gestione attuativa da parte degli attori sociali.
Relativamente alla durata contrattuale, noi crediamo che potrebbe ancora rimanere di quattro anni nel suo complesso, prevedendo una verifica retributiva intermedia sugli andamenti del primo biennio, grazie all'uso della strumentazione di cui ho appena parlato per il recupero di eventuali differenziali significativi.
In alternativa, però, si può anche procedere - e se ne parla molto ultimamente - a definire una durata complessiva triennale, ovviamente a questo punto senza verifica intermedia.
Sul piano normativo, il contratto nazionale dovrebbe definire gli aspetti principali che caratterizzano la normativa del settore. Faccio alcune esemplificazioni classiche: la classificazione dei lavoratori, gli orari contrattuali, le principali tutele. Crediamo, però, che il contratto nazionale dovrebbe risultare molto meno dispositivo per quanto riguarda le tematiche relative all'organizzazione del lavoro, dal momento che queste tematiche possono essere affrontate assai più efficacemente al secondo livello contrattuale.
Crediamo anche che debba essere snellita quella che noi chiamiamo la mole normativa di molti contratti nazionali. Abbiamo contratti nazionali spesso e volentieri con impianti molto ponderosi, poco chiari, che vanno invece snelliti e resi facilmente fruibili dalle imprese e dai lavoratori.
Per quanto riguarda un'ipotesi che a quanto ci risulta è in discussione, relativamente alla possibile riduzione del numero dei contratti nazionali, noi riteniamo che possa risultare interessante, naturalmente se viene attuata su base volontaria da parte dei titolari dei contratti in essere e ovviamente fatte salve le peculiarità tipologiche o settoriali che sono facilmente individuabili nel panorama imprenditoriale e produttivo italiano.
Passando al secondo livello contrattuale, crediamo che esso vada assolutamente e nettamente valorizzato e sviluppato. Si tratta del livello più titolato a


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perseguire le performance di impresa ed è la vera sede di distribuzione virtuosa degli incrementi di produttività realizzati, peraltro la sede con connotazioni meno inflattive.
Le prerogative di questo livello vanno dunque indirizzate essenzialmente a tali compiti, assicurando che il legame tra performance e retribuzione di quel livello sia effettivo, pertanto con esiti totalmente variabili. Ugualmente, è opportuno che questi meccanismi di legame performance-retribuzione siano legati a impianti premiali realizzabili e trasparenti.
Crediamo, quindi, che il secondo livello contrattuale vada fortemente incentivato, favorendone così anche la diffusione.
Riteniamo che gli incentivi debbano essere di natura sia contributiva che fiscale, e in tal senso riguardare entrambe le parti, consolidando strutturalmente - e possibilmente sviluppando - i recenti provvedimenti in tale direzione.
Sarebbe opportuno, tuttavia, che gli incentivi per il secondo livello contrattuale venissero anche dagli stessi contratti collettivi nazionali (pensiamo, dunque, a un'incentivazione endogena alla contrattazione collettiva stessa). Ad esempio, si può prevedere negli stessi contratti nazionali che, su un insieme di parti normativo-retributive, in presenza di condizioni e procedure predefinite dagli stessi, i contratti di secondo livello possano individuare delle soluzioni nel loro complesso diverse da quelle indicate a livello nazionale.
Crediamo dunque all'esigenza di un sistema di regole contrattuali precise e al tempo stesso flessibili e, soprattutto, praticate con convinzione e con continuità. Crediamo, altresì, che per un adeguato funzionamento di questo sistema di regole contrattuali, risulti molto importante la definizione anche di sedi e procedure di garanzia del loro concreto e corretto rispetto.
Altrettanto crediamo, però, che per un funzionamento ottimale sarà determinante il prevalere, nelle relazioni industriali italiane, di comportamenti di tipo - qui mi permetto di giocare anche un po' sulla parola - cooperativo, superando con convinzione atteggiamenti di tipo antagonistico.
Riteniamo anche - sto giungendo alla conclusione - che sia opportuno che vengano definiti sistemi di misurazione della rappresentatività delle parti sociali. In tal modo, da una parte, si potrebbe verificare il grado di adesione nelle varie sedi e occasioni di dialogo sociale, e dall'altra si potrà supportare sempre di più una necessaria azione di contrasto al fenomeno dei cosiddetti contratti pirata.
Infine, la cooperazione ha nei suoi caratteri identitari il coinvolgimento, la partecipazione dei lavoratori all'impresa. Basti ricordare che nella cooperazione di lavoro esiste la figura assolutamente atipica del socio lavoratore. Ribadiamo perciò come sia nostro interesse che i temi del coinvolgimento e della partecipazione all'impresa siano sviluppati insieme alle parti e alle istituzioni.

PRESIDENTE. Vorrei porre al dottor Marignani una domanda inerente alla questione dell'inflazione programmata, che egli ha citato e che sta occupando le pagine dei giornali in questi giorni e la trattativa tra le parti sociali.
Lei ha detto che serve un riferimento programmatico di sistema. Questo significa comunque mantenere come punto di riferimento, a prescindere dal giudizio che si vuole dare sulla cifra che è stata posta, il documento di programmazione economico-finanziaria, o ci possono essere altri strumenti, secondo voi, per fissare l'inflazione programmata?
Do la parola alla rappresentante della Confcooperative, Sabina Valentini.

SABINA VALENTINI, Rappresentante di Confcooperative. Sono Sabina Valentini, responsabile delle relazioni industriali nazionali di Confcooperative. Mi permetto di integrare in qualche modo ciò che ha detto il collega Marignani, anche perché, rappresentando le due maggiori cooperative, abbiamo certamente un modello di relazioni sindacali comune. Tant'è che noi siamo partiti addirittura con un accordo


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interconfederale del 1990, nel quale abbiamo individuato un assetto di relazioni sindacali e industriali tarato sulle specificità della cooperazione, insieme a CGIL, CISL e UIL. Noi condividiamo certamente questo modello, ma il tema che oggi è grandemente dibattuto merita comunque qualche ulteriore riflessione.
Al di là di quanto è stato già detto, mi premeva sottolineare che il protocollo del 1993 è derivato da una necessità (peraltro il processo è cominciato nel 1992 con altri accordi). Non dimentichiamo che quel protocollo non riguarda solo gli assetti negoziali, ma anche le politiche dei redditi. Questi due aspetti hanno viaggiato insieme e hanno prodotto un accordo di scopo che ha dato dei buoni risultati.
Se oggi siamo arrivati a riflettere su questo argomento è proprio perché il protocollo in questione ha servito il Paese nei modi che ci si aspettava.
È vero che la contrattazione di secondo livello, che era identificata come la contrattazione in base alla quale erogare salario legato alla produttività, non è riuscita ad esplicare tutti i suoi effetti, se non in una prima fase. Il problema, secondo noi, è il seguente: non era e non è possibile pensare, né lo sarà in futuro, a una sommatoria di livelli. Gli assetti negoziali prevedevano un contratto di primo livello come uno strumento che individuasse una cornice di riferimento e lasciasse il resto ai livelli territoriali. A noi piace definirli territoriali e non aziendali, perché non va dimenticato il distretto, la filiera di distretto e una geometria variabile che, secondo noi, rientra nel concetto di territoriale. È vero che, a livello di grandi aziende, la geometria variabile è già all'interno dell'azienda. È facile immaginare che in un'azienda di 2, 3, 4 mila lavoratori vi siano delle geometrie variabili; ma il tessuto economico italiano è formato in particolar modo da piccola e media impresa, che vive sul distretto, sulle filiere distrettuali, e non può essere pregiudicata per questo.
Rimane fermo che la sommatoria dei due livelli non era e non potrà essere proponibile. Quando noi parliamo di un accordo di livello nazionale che ha visto una scarsa contrattazione di secondo livello e ci domandiamo il perché, sappiamo che sommare aumenti salariali di primo e di secondo livello non è mai stato possibile per le imprese.
Se la semplificazione che viene invocata sul livello contrattuale deve servire a semplificare anche la rappresentanza, su questo siamo estremamente d'accordo. Intendo dire che la rappresentanza del diritto comune, del diritto pattizio, delle parti che si riconoscono per reciprocità a un tavolo, non può essere affidata solo ed esclusivamente, allo stato attuale, a regole che non ci sono o che non vengono identificate.
Sappiamo che l'argomento è delicato - se ne è dibattuto per lungo tempo - ma ci rendiamo anche conto che se 450 contratti di Italia non sono più sostenibili, non possiamo tuttavia sostenere una rappresentanza che sia garantita sempre e comunque.
Se la semplificazione del numero dei contratti porta a una semplificazione o a una migliore individuazione di chi rappresenta cosa, siamo assolutamente d'accordo. Ci sono delle peculiarità di settore, peculiarità negoziali che vanno salvaguardate.
Quanto alla citazione che faceva il mio collega rispetto alle peculiarità cooperative, vorrei ricordare che già nel Libro bianco del 2001 la formula cooperativa veniva individuata come all'avanguardia rispetto a un coinvolgimento e a una partecipazione del lavoro al capitale di cui oggi tanto si parla. Lo ricordo perché, forse in tempi non sospetti questa formula veniva identificata come all'avanguardia. Noi ribadiamo questo concetto.
La citazione contenuta nel Libro bianco invitava il Governo e le istituzioni a guardare alla formula cooperativa in questi termini. Siamo convinti che se l'attuale sistema negoziale non riuscirà ad evolversi da un'impostazione che presenta una metodologia fortemente manifatturiera, non usciremo dall'impasse nella quale siamo ormai da almeno quattro anni.


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L'impostazione degli attuali sistemi non è flessibile sulle geometrie variabili, ma ha un impianto metodologico industrialista. Considerato che il manifatturiero in Italia rappresenta circa il 20 per cento del PIL - in altri Paesi europei ancora meno - questa impostazione fortemente industrialista secondo noi non risponde più alle esigenze.

PRESIDENTE. Credo che questa sottolineatura sia molto importante, perché uno degli obiettivi dell'indagine è proprio quello di far comprendere che la natura del nostro sistema produttivo è molto diversa rispetto a quella rappresentata al tavolo dall'unica voce di fatto oggi presente. Infatti, leggendo i resoconti dell'incontro tra le parti sociali di ieri, si continua a riferire il secondo livello contrattuale al tema aziendale e non al tema territoriale. Credo che se il dibattito procederà in questi termini, il 90 per cento delle imprese sarà fuori da quella discussione. A maggior ragione, dunque, ritengo che la nostra attività sia utile e preziosa.
Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti e formulare osservazioni.

GIULIANO CAZZOLA. Sono emiliano, quindi sono portato naturalmente a guardare con molto interesse e molta attenzione al movimento cooperativo. Ringrazio i rappresentanti di Lega delle cooperative e della Confcooperative per l'esposizione, ma restano alcune perplessità che voglio manifestare in maniera molto aperta.
Ho avuto l'impressione che l'esposizione che abbiamo ascoltato abbia un'impostazione molto manifatturiera, molto industrialista. Mi domando fino a che punto le imprese del movimento cooperativo possano riconoscere questa impostazione. Me lo domando soprattutto in relazione al settore che probabilmente è destinato ad espandersi di più - tra l'altro, c'è anche una forte sottolineatura dell'Unione europea in questo senso -, il settore dei servizi (servizi alla persona, servizi sociali e via dicendo), nel quale il gigantismo della distribuzione e della produzione lavoro ovviamente non trova una formula adeguata.
Inoltre, non ho sentito nulla - se non un cenno nell'ultima parte dell'esposizione - su una problematica che interessa molto il movimento cooperativo; mi riferisco non solo al rapporto tra soci e lavoratori, anche ai fini delle stesse ricadute contrattuali, ma soprattutto al lavoratore socio e al modo con cui ci si rapporta con esso, anche dal punto di vista delle relazioni sindacali e delle relazioni contrattuali.
Alcune cooperative sono state oggetto della tassazione straordinaria che è stata chiamata Robin tax. Sinceramente pensavo che a questo riguardo - è vero però che il dibattito non si è ancora svolto - sarebbero state sollevate delle proteste, che le cooperative avrebbero trovato degli avvocati difensori e che qualcuno avrebbe obiettato che le cooperative vengono trattate come i petrolieri, le banche e le assicurazioni. Invece, ho riscontrato solo un silenzio assordante.
Questa circostanza mi ha un po' meravigliato, ma evidentemente ci sono delle ragioni, delle spiegazioni che si richiamano a una storia che ha riguardato il mondo cooperativo e un certo sistema politico.
Chiedo scusa ai colleghi e ai nostri ospiti per aver affrontato un tema che non è oggetto dell'audizione, ma come persona interessata e attenta al vostro mondo, volevo sottolineare questo aspetto.

ALDO DI BIAGIO. Signor presidente, svolgerò una breve riflessione più che una domanda. Sono anche io convinto che le cooperative siano una dimensione di grande sviluppo nel nostro Paese e meritino una giusta considerazione.
Ringrazio i rappresentanti degli enti intervenuti in questa assemblea per il loro contributo e le loro riflessioni. Voglio altresì richiamare l'attenzione dei presenti sul breve contributo trasmesso dall'Unicoop e dall'UNCI, che ufficialmente non hanno potuto partecipare a questo tavolo di discussione e di analisi. Ritengo che tale


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contributo sia un significativo supporto all'indagine conoscitiva che ci apprestiamo a svolgere.
Condivido pienamente la riflessione secondo la quale la buona cooperazione sia sinonimo di valorizzazione del capitale umano e di efficientamento economico ed organizzativo. Sulla base di tali aspetti, mi preme sottolineare che quello della cooperazione appare un modello economico che definisce una risposta concreta alle necessità di miglioramento delle politiche salariali sino ad ora poste in essere; un modello economico che tende a superare i conflitti tra capitale e lavoro e crea integrazione economica e sociale.
Affinché si definisca una ottimizzazione di tali prospettive, appare necessario che le associazioni cooperative riconosciute rivendichino il loro diritto di rappresentanza, la propria base associativa di fronte al Governo nelle scelte economiche più importanti per il Paese.
La buona cooperazione sul territorio deve configurarsi anche come uno strumento di governance territoriale, poiché non si presenta solo come una risposta ad esigenze occupazionali, ma anche come un aspetto di innovazione economica in grado di far fronte alle istanze di una promozione umana e di identità sociale di chi partecipa alla creazione della ricchezza.

TERESIO DELFINO. Signor presidente, credo che l'esposizione del dottor Marignani e della dottoressa Valentini sia stata molto serena ed equilibrata. Questo, tuttavia, non mi impedisce di raccogliere due sollecitazioni.
La prima riguarda la propensione - lo diceva il dottor Marignani, se non ho capito male - a che ci sia una grande valorizzazione del secondo livello contrattuale. Questo mi fa venire in mente, però, una serie di realtà cooperative presenti sul territorio e mi suggerisce il seguente quesito: non temete che si indeboliscano le condizioni generali di tutela generale del reddito dei lavoratori, in particolare qualora non prevalga o non venga fuori l'orientamento richiamato dalla dottoressa Valentini di dare soprattutto al secondo livello il carattere di contrattazione territoriale più che aziendale? Poi spetterà a noi cercare di capire come conciliare i due termini «aziendale» e «territoriale».
Chiedo innanzitutto se, considerato che la cooperazione ha sempre una grande attenzione e sensibilità anche per la parte «più debole», questo dato non indebolisca un po' le condizioni di tutela generale del reddito dei lavoratori, qualora si riducano di molto - è una tendenza che potrebbe anche emergere - i contenuti e i livelli base della contrattazione nazionale.
La seconda riflessione deriva da una sollecitazione della dottoressa Valentini, che io assolutamente condivido, di dare spazio alla contrattazione territoriale anche per superare, se ho capito bene, la logica più industrialista e manifatturiera che tendeva a privilegiare, anche in questo livello di contrattazione, il dato aziendale. Partendo dalla considerazione delle profonde modifiche che il nostro sistema produttivo ha subito, mi chiedo come possiamo conciliare l'esigenza di legare questa parte di contrattazione alla capacità produttiva, con le diversità espresse sul territorio da ogni singola realtà.

PRESIDENTE. Do la parola ai nostri interlocutori per la replica.

CARLO MARIGNANI, Rappresentante della Lega nazionale delle cooperative e delle mutue. Il primo quesito che ci ha posto il presidente è uno di quelli di maggiore attualità nella discussione fra le parti sociali e riguarda il riferimento per l'indicatore previsionale per i contratti nazionali. Ho citato la necessità di individuare un riferimento programmatico che sia tale per l'intero sistema. Ho anche sottolineato che questo riferimento programmatico dovrebbe essere definito in termini più realistici di quanto talvolta è successo.
Per noi questo è un fattore importante, perché darebbe ancora all'intero sistema delle relazioni industriali un ruolo chiaro, trasparente, interattivo con l'intero sistema economico e anche istituzionale del Paese, nel raggiungimento dell'obiettivo


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che non può che essere, come dicevo prima, quello della competitività.
Sul tavolo politico e sociale c'è un insieme di riforme da affrontare, tra le quali rientra anche quella delle relazioni industriali. Se non si riesce a trovare una soluzione che consenta il raggiungimento dell'obiettivo della salvaguardia del potere d'acquisto che sia in sintonia con gli obiettivi del Paese, può darsi che ci siano delle distonie.
Questo può voler dire una indicazione dell'inflazione programmata nell'ambito del DPEF, ma anche l'individuazione di altri indicatori alla cui definizione partecipino, nell'ambito del dialogo tra le parti sociali, il Governo e le istituzioni.
Non dimentichiamoci che siamo di fronte a indicatori che ormai travalicano anche i confini nazionali - in particolar modo stiamo parlando di indicatori di natura europea - che forse possono venire in soccorso alle parti sociali nell'individuare questo magico numero.
In riferimento alla natura del secondo livello e al rischio che una sua valorizzazione possa pregiudicare il raggiungimento dell'obiettivo di salvaguardia del potere d'acquisto da parte del contratto nazionale che prima ricordavo...

TERESIO DELFINO. È un obiettivo di coesione sociale...

CARLO MARIGNANI, Rappresentante della Lega nazionale delle cooperative e delle mutue. Certamente, non c'è dubbio. Non a caso abbiamo contratti nazionali, altrimenti forse non li avremmo neanche.
Noi crediamo che la valorizzazione del secondo livello contrattuale, in particolar modo tramite - anche se non esclusivamente - il metodo dell'incentivazione, sia molto importante. Questo potrebbe garantire, anche a livello contrattuale, quel giusto equilibrio tra una tutela nazionale, che mantiene quel compito, e uno strumento contrattuale di secondo livello che tenga conto degli incrementi di produttività laddove si realizzino, sia in azienda sia nel territorio.
L'ipotesi di prevedere un secondo livello, in alternativa, aziendale o territoriale, crediamo che sia l'unica possibile; l'alternativa va sciolta di volta in volta dalle parti sociali. Non vi è dubbio che, in relazione a caratteristiche settoriali/dimensionali, ci sono delle situazioni - in particolar modo nel settore dei servizi e laddove siamo di fronte a mercati fortemente caratterizzati ad esempio dal sistema degli appalti - che probabilmente ci convinceranno a preferire il livello contrattuale territoriale.
Ci sono alcune realtà settoriali e alcune significative realtà dimensionali, anche nella cooperazione, nelle quali il secondo livello contrattuale non può che essere quello aziendale, perché un secondo livello contrattuale di livello territoriale non saprebbe assolutamente cogliere le complessità di quelle imprese.
Non esiste un modello che vada bene, da questo punto di vista, dalle Alpi a Trapani, né in tutti i settori. Il modello deve essere definito in funzione precisa delle caratteristiche di quel settore.
Se noi guardiamo anche la tipologia contrattuale più diffusa in Europa, vedremo che le soluzioni sono molto diversificate, anche laddove l'economia sia sostanzialmente di tipo terziario, e spesso e volentieri di terziario avanzato. Ad esempio, possiamo notare che in Europa, nell'ambito di alcune realtà economiche quasi interamente post-industriali, le relazioni industriali si svolgono esclusivamente a livello aziendale.
Comprenderete, dunque, che non esiste una soluzione che vada bene comunque, ma essa va modulata in funzione delle esigenze effettive di quella realtà categoriale, di quella realtà dimensionale.
In questo le parti sociali devono essere in grado, anche loro, di dare un colpo d'ala per affrontare e risolvere i problemi.
Quanto al tema del socio lavoratore, noi siamo certamente molto interessati a questa figura assolutamente peculiare della nostra realtà; una figura che da tempo ha espresso, a nostro parere in maniera molto virtuosa, la combinazione di rapporto tra capitale e lavoro.
Abbiamo lottato, a suo tempo, per avere una legge - come sapete, esiste una


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legge sul socio lavoratore dal 2001, la n. 142 - e da allora abbiamo fatto tutti i nostri sforzi affinché venisse rispettata e offrisse tutte le tutele e le opportunità per questa figura.
Siamo consapevoli che dobbiamo svolgere un lavoro ulteriore, anche per favorire adeguati livelli di partecipazione, in tutte le imprese cooperative, di questo soggetto che qualcuno chiama coimprenditore e che comunque è un lavoratore associato nel gestire l'impresa. Quindi, siamo sicuri, come peraltro dice la stessa legge n. 142, che il riferimento alle tutele del lavoro tramite le leggi e la contrattazione collettiva è sostanzialmente assicurato.
L'onorevole Cazzola mi scuserà se non approfondirò più di tanto la risposta alla domanda sulla Robin tax anche perché non sono titolato in materia. Certamente, però, questo non è un intervento che ci vede entusiasti. Ovviamente ci sono attività e rapporti in corso per cercare di limitare al massimo un tipo di intervento che può essere interpretato come un tentativo di accomunarci ad altre realtà che nulla hanno a che fare con il ruolo e gli obiettivi che la cooperazione, in questo Paese, vuole raggiungere.

SABINA VALENTINI, Rappresentante di Confcooperative. Vorrei rispondere alla domanda dell'onorevole Delfino. Noi siamo convinti che il protocollo del 1993 avesse in teoria un'ottima impostazione: un modello ben impostato su due livelli che si dovevano integrare a vicenda. Abbiamo però visto quali sono stati i difetti di questo modello: scarsa integrazione e, spesso, sovrapposizione tra i livelli.
Non abbiamo difficoltà ad invocare un ruolo maggiore delle parti sociali locali, dove per «locali» intendo territoriali, di distretto piuttosto che di filiera o di settore. Noi immaginiamo una geometria variabile che dia quelle flessibilità, laddove in un sito territoriale è necessario un contratto scelto dagli attori che magari prenda in considerazione non solo un settore ma una filiera produttiva. Se queste regole che si basano sul diritto comune, sul diritto pattizio, devono avere un senso e un ruolo, è bene che le parti scelgano anche come far fronte alle difficoltà. Siamo convinti che la redistribuzione della produttività possa esserci un anno e possa non esserci un altro anno. Sappiamo bene che, a fronte di una maggiore produttività, è possibile chiedere e inserire nelle aziende una flessibilità. Sappiamo che la partecipazione dei lavoratori alla produttività aziendale corrisponde a un salario di livello superiore. Ma queste logiche, che sono in astratto sicuramente tutte condivisibili, devono trovare un'allocazione laddove vengono sperimentate.

TERESIO DELFINO. Chiedo scusa, ma la produttività e, quindi, il maggior reddito per i lavoratori è diverso nelle diverse realtà, da settore a settore. Nello stesso territorio ci sono delle disuguaglianze in relazione alla produttività delle aziende. Come possiamo far conciliare queste diverse esigenze, in relazione alla contrattazione di secondo livello?

SABINA VALENTINI, Rappresentante di Confcooperative. Nella sua domanda c'è la descrizione di un modello aziendale che è strutturato. La micro, piccola o media impresa potrebbe non avere le competenze né la forza di essere parte o controparte in una contrattazione di secondo livello.
La nostra preoccupazione è quella di individuare un modello che prenda in considerazione sia l'azienda strutturata, in grado di far fronte a un tema così delicato, sia quella dove non c'è questo tipo di forza, consentendo a quest'ultima di individuare una contrattazione di secondo livello realmente di distretto, realmente territoriale, che possa tener conto anche di queste variabili. Non è detto che la variabile produttività sia sempre e soltanto insita nell'azienda. La variabile produttività a volte è di settore, o meglio di settore locale, perché lo stesso settore in una regione o in un territorio può andare meglio rispetto a un altro. Quindi, la variabile produttività locale diventa indispensabile.
Tenga presente che abbiamo al 50 per cento, nelle nostre imprese, soci lavoratori.


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Il socio lavoratore, che è presente appunto al 50 per cento rispetto alla nostra rappresentanza del lavoro, è una figura che già oggi è in grado di fruire di produttività maggiore o minore rispetto all'andamento aziendale.
Questa sperimentazione che è stata avviata in relazione al regime fiscale sulla produttività o sui sistemi innovativi si ricollega a meccanismi già esistenti da tempo all'interno dell'impresa cooperativa sotto forma di ristorno.
A fine anno, laddove la produttività è stata di buon livello, abbiamo una distribuzione del ristorno: da tempo noi abbiamo regolamentato questo campo. Pertanto, ogni azienda cooperativa è in grado di distribuire la maggiore ricchezza sotto forma di ristorno, laddove vi sia stato un positivo andamento produttivo. Tanto è vero che l'introduzione in via sperimentale delle disposizioni che prevedono un regime fiscale agevolato per le prestazioni da lavoro connesse ai premi di produttività ci vede particolarmente contenti, rappresentando anche per noi l'occasione per fruire di una defiscalizzazione del ristorno, una delle voci da noi molto utilizzate. Questa è una sperimentazione che abbiamo già seguito, considerato che il 50 per cento dei nostri lavoratori sono soci.
Vorrei rispondere, in questo modo, anche all'onorevole Cazzola che sollevava il problema di come conciliare la figura del socio lavoratore con gli assetti negoziali o le relazioni industriali in quanto tali.
Probabilmente, con i soci coimprenditori o lavoratori associati, come li ha definiti il mio collega, noi abbiamo già sperimentato alcune strade che oggi vengono sperimentate anche su tutte le altre tipologie di imprese.

PRESIDENTE. Ringraziamo i rappresentanti del sistema cooperativo.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,10.

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