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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione XI
7.
Martedì 7 ottobre 2008
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Saglia Stefano, Presidente ... 2

INDAGINE CONOSCITIVA SULL'ASSETTO DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI E SULLE PROSPETTIVE DI RIFORMA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

Audizione di esperti:

Saglia Stefano, Presidente ... 2 11 14 20
Berretta Giuseppe (PD) ... 11
Carinci Franco, Professore ordinario di diritto del lavoro presso l'Università di Bologna ... 4 8 11 14 15 17 19 20
Carrieri Mimmo, Professore ordinario di sociologia economica e del lavoro presso l'Università di Teramo ... 8 11 14 15
Cazzola Giuliano (PdL) ... 11 15 17 19
Damiano Cesare (PD) ... 12
Olivelli Paola, Professore ordinario di diritto del lavoro presso l'Università di Macerata ... 2 19 20
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-Repubblicani: Misto-LD-R.

COMMISSIONE XI
LAVORO PUBBLICO E PRIVATO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 7 ottobre 2008


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
STEFANO SAGLIA

La seduta comincia alle 14.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata, oltre che mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso, anche attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di esperti.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'assetto delle relazioni industriali e sulle prospettive di riforma della contrattazione collettiva, l'audizione di esperti.
Ringrazio per la disponibilità il professor Franco Carinci, la professoressa Paola Olivelli e il professor Mimmo Carrieri, ai quali, per la stima che i colleghi nutrono nei loro confronti, abbiamo chiesto di delinearci un quadro dell'importante appuntamento della riforma della contrattazione e in particolare degli avvenimenti e dei dibattiti succedutisi negli anni, evidenziando le esigenze che è opportuno rilevare nella discussione tra le parti, che vede impegnato anche il Parlamento con la sua indagine conoscitiva.
Do la parola agli auditi.

PAOLA OLIVELLI, Professore ordinario di diritto del lavoro presso l'Università di Macerata. Il mio contributo a questa indagine parte dal principio di sussidiarietà. Ho infatti cercato di vedere la questione della riforma della contrattazione collettiva sulla base del principio di sussidiarietà, che è importante a livello della riforma dello Stato e incide anche sulla concezione della contrattazione collettiva, sia per le modalità con cui si è sviluppata in questi anni, sia per il suo rapporto con la legge.
Il principio di sussidiarietà ha una valenza verticale nei rapporti tra Stato e autonomie locali e nella distribuzione delle competenze, ma ha anche una valenza orizzontale, perché stabilisce l'ordine nei rapporti tra Stato, formazioni sociali e individui.
Nella Costituzione del 1948, il principio di sussidiarietà non era menzionato espressamente come quello di uguaglianza e di solidarietà, ma più volte è stato affermato che esso traspare chiaramente dalla concezione della persona che emerge dal contesto: una persona che non è più l'individuo delle Costituzioni ottocentesche, ma un soggetto che trova la sua consistenza nei legami sociali. Con l'articolo 2 e l'articolo 5, infatti, gli si riconoscono e non gli si attribuiscono diritti.
La conferma più significativa dell'esistenza di questo principio della Costituzione repubblicana risiede proprio nella concezione dell'autonomia collettiva, nell'affermazione della libertà delle organizzazioni sindacali, nel comma 1 dell'articolo 39 (libertà dell'organizzazione, libertà nella costituzione e nella disciplina dei rapporti interni), e nasce come conseguenza appunto della libertà della persona umana e del suo autogovernarsi anche


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attraverso il riconoscimento di un interesse comune, che consiglia di associarsi e organizzarsi. Ritengo dunque importante affermare questo aspetto dell'autonomia collettiva riconosciuta nella Costituzione del 1948.
Nel corso degli anni, il pluralismo si è affermato nel sistema delle relazioni industriali. I motivi sono noti: la mancata attuazione dei commi 2, 3 e 4 dell'articolo 39, la tesi di Giugni sull'ordinamento intersindacale, fattori che sono serviti ad affermare il dispiegarsi dell'autonomia sindacale, che ha permesso un diffuso pluralismo.
In questo senso, da una parte il contratto collettivo nazionale ha rappresentato la base della contrattazione, riconosciuta imprescindibile per alcuni settori economici, come quelli dell'industria (metalmeccanici e chimici), mentre in altri settori, come quelli dell'artigianato, degli edili, dell'agricoltura, si è affermato il contratto territoriale, che si è diffuso anche a livello aziendale.
Già l'accordo del 1993, che riguardava l'industria e non tutti i settori, aveva previsto la necessità di una maggiore apertura verso la contrattazione aziendale e territoriale. Anche la Commissione Giugni nel 1997 aveva evidenziato l'esigenza di un sistema contrattuale più aperto, visto che la flessibilità richiede maggiore articolazioni.
Nel frattempo, sono cambiate le condizioni del sistema economico con la fine della grande impresa, la globalizzazione selvaggia del mercato, ma anche l'ordinamento istituzionale con la riforma del Titolo V e l'ipotesi federalista. Questo comporta la necessità di rivedere le modalità con cui si pone la contrattazione collettiva, anche in considerazione del fatto che sono cambiati il mercato e l'organizzazione del lavoro.
Se non vogliamo parlare di riforma, è necessaria una rivisitazione. Si tratta di un obiettivo complesso, di cui si parla da tanto tempo senza adottare interventi decisivi. Ritengo però che ci troviamo a un punto di svolta soprattutto perché appare necessaria una differenziazione dei mercati. Non si può nascondere infatti che l'Italia presenti diversità fra Nord e Sud che incidono sul costo del lavoro e della vita. È quindi necessaria una contrattazione che tenga conto anche delle differenze.
Alcuni aspetti non hanno fatto funzionare l'accordo del 1993. La contrattazione aziendale non era conveniente, sia per la centralità del contratto nazionale, che per il rifiuto da parte delle imprese di agevolare la contrattazione aziendale, rimanendo su una base forfettaria, senza legare i salari alla produttività e alla redditività.
Considero positivo il pluralismo alla luce del principio di sussidiarietà, perché rappresenta una questione che ci tiene legati ai bisogni effettivi delle categorie, dei settori, dei territori ed è più vicino alle esigenze concrete delle persone. Esso però necessita di regole, altrimenti la sussidiarietà rischia di trasformarsi in difesa degli interessi corporativi. A questo punto, quindi, la bilateralità potrebbe non essere sufficiente e potrebbe essere necessario un intervento non solo concertativo, che considero fondamentale, ma anche della legge.
I livelli di contrattazione sono dunque sempre esistiti. Considero necessario aumentare la flessibilità anche a livello di contrattazione collettiva. Questo non significa abbandonare il contratto collettivo nazionale, laddove molti temono che sia questo il risultato di un ampliamento della contrattazione. Il contratto collettivo nazionale, come il livello confederale, deve rimanere come punto di confronto con il decentramento della contrattazione collettiva, con la tutela dei livelli minimi di retribuzione, come un quadro di riferimento generale per tutto il livello normativo. La contrattazione di secondo livello crea invece opportunità di individuare la soluzione su materie specifiche senza automatismi, essendo più legata alla produttività e alla redditività.
Per quanto riguarda il problema della contrattazione territoriale o aziendale, ritengo inopportuno fissare tre livelli (nazionale, territoriale e aziendale) perché si rischia di irrigidire troppo il sistema. Potrebbe esserci invece un'alternatività con il


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contratto territoriale, che è necessario per le piccole e micro-imprese nell'ambito delle quali il contratto aziendale non è facile, anche se a mio parere preferibile.
Il pluralismo pone la questione della rappresentatività. Se infatti manca l'unità sindacale, il problema è quello della rappresentatività. Alcuni ritengono quindi ormai imprescindibile una legge, altri sono contrari. Personalmente, ritengo che, se la legge deve intervenire, debba farlo solo a sostegno della contrattazione, dell'autonomia collettiva. Negli ultimi tempi mi sembra molto attenuata la contrarietà della CISL ad un intervento in questo senso, sempre considerato però come un sostegno all'autonomia collettiva, laddove la legge serve per sostenere, ampliare e rendere conveniente la contrattazione aziendale attraverso i sistemi di defiscalizzazione, senza però intervenire totalmente.
Per quanto riguarda la legge, è necessario considerare i rapporti con le regioni, che hanno la competenza in certe materie. Una legge nazionale non può decidere su materie che sono di competenza delle regioni. Già oggi si preparano ricorsi delle regioni che hanno ad oggetto la legge n. 133 del 2008, che ha convertito il decreto-legge n. 122 del 2008; infatti, il legislatore nazionale, in questo caso, rinviando alla contrattazione collettiva, è intervenuto su materie come l'apprendistato, che sono di competenza delle regioni. È necessario dunque tener conto di questo problema in un ordinamento ormai quasi federale.
Le regioni intervengono sulle materie di loro competenza - per esempio sul mercato del lavoro - anche con atti amministrativi. Ciò pone un problema anche nei confronti della contrattazione collettiva. Se si parla di contrattazione aziendale o territoriale, è infatti necessario che i lavoratori e i sindacati siano a conoscenza delle dinamiche dell'impresa, perché le retribuzioni devono essere collegate alla produttività.
Occorre quindi promuovere maggiormente tutte le procedure di informazione e consultazione già esistenti, anche arrivando in prospettiva a forme di partecipazione alla gestione. L'Unione europea spinge su questo versante non solo attraverso le direttive riguardanti la società europea, ma anche con direttive come la n. 2002/14/CE sul potenziamento del quadro di riferimento delle procedure di consultazione e informazione.
Si tratta di un obiettivo da perseguire attraverso la concertazione e l'impostazione delle parti, ma che anche in questo caso la legge potrebbe essere di sostegno.

FRANCO CARINCI, Professore ordinario di diritto del lavoro presso l'Università di Bologna. Ringrazio la Commissione perché è sempre un onore essere ascoltati in una sede istituzionale.
Inizierò il mio intervento con una premessa metodologica, per cui assumerò come dato di partenza l'accordo interconfederale che sta prendendo forma. Ritengo infatti che il legislatore, a meno che non voglia intervenire con una legge sindacale che sostituisca o recepisca traducendolo in legge l'accordo interconfederale fra le parti, sarà piuttosto interessato a sapere in che modo eventualmente può fare da sponda.
Un punto da cui partire riguarda la cosiddetta crisi del protocollo del 1993, perché nei motivi che ne sono alla base si dovrebbero trovare le ragioni del suo aggiornamento. Credo che il punto centrale della crisi risieda nel fatto che il protocollo del 1993 era un accordo trilaterale, che individuava un chiaro metodo della politica dei redditi e soprattutto dei salari, che si doveva raggiungere tramite una concertazione sull'inflazione e un rispetto del tasso di inflazione nella contrattazione collettiva, che rappresentavano le gambe con cui il contenimento del tasso stesso avrebbe dovuto camminare.
Si parlava ovviamente di un'inflazione programmata, quindi certamente in partenza inferiore, e poi di un recupero, che avrebbe dovuto rimanere al di sotto dell'inflazione effettiva, altrimenti il meccanismo non avrebbe funzionato (certo, corretto con l'alibi di un recupero della


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produttività media del sistema, ma sostanzialmente si trattava di un recupero dell'inflazione).
La concertazione era resa possibile da un accordo sull'obiettivo, che era quello di contenere l'inflazione anche in una situazione di forte indebitamento. Tale contenimento scontava una contrattazione collettiva, che avrebbe giocato non in anticipo rispetto all'inflazione e comunque l'avrebbe inseguita senza peraltro ripromettersi di raggiungerla completamente, naturalmente in vista di una situazione di degenerazione dell'inflazione, che è il peggior nemico dei salari e delle retribuzioni.
Ora, è cambiato radicalmente proprio questo punto: non c'è concertazione, non solo perché il Governo non è più un Governo amico (è un Governo nemico o perlomeno neutro), ma perché non c'è più accordo su quale debba essere l'obiettivo perseguito. Alcuni ritengono che ci troveremo tra poco nella stessa identica situazione di stagflation, da cui deriverebbe l' obbligo di mirare al contenimento dell'inflazione, e quindi sono favorevoli al mantenimento del sistema precedente (inflazione programmata, recupero dell'effettiva inflazione depurata dei traumi internazionali e addirittura calcolata a punto unico, cioè non su una retribuzione convenzionale e non a percentuale sull'intera retribuzione), altri ritengono il contrario. Dietro la posizione della CGIL vi è la valutazione che il pericolo non sia l'inflazione, ma la domanda aggregata, cioè la scoperta keynesiana.
La crisi del protocollo è quindi innanzitutto la crisi del raccordo concertazione e contrattazione intorno all'obiettivo comune. Il nemico è l'inflazione, per cui non soltanto non deve essere recuperata automaticamente, perché il meccanismo negoziale non può garantirne il recupero, che deriva dai rapporti di forza, ma non è bene che lo sia in cambio di altre cose, come l'occupazione.
La crisi della concertazione non è solo crisi del quadro politico e quindi di un quadro sindacale di nuovo fortemente politicizzato, ma è crisi sul ruolo che si vuole assegnare a questo obiettivo una volta comune.
Si opera in una situazione di stagflation o in una situazione di povertà della domanda aggregata?
Non sono un economista e non sono in grado di rispondere, però ritengo che nella situazione attuale nessuno sia in grado di rispondere. Questo scontro dovrebbe quindi essere aggiornato al momento in cui la situazione si chiarirà.
La crisi ha finito per mettere in luce le crepe del sistema contrattuale, che si notavano anche prima, ma erano meno enfatizzate o enfatizzabili in una situazione di sostanziale accordo intorno a un obiettivo comune.
Certo, c'era un episodio, ma le patologie sono un sintomo della salute. A questo punto su questo sfondo, che considero fondamentale, emerge lo scontro principale intorno all'individuazione del tasso, che la Confindustria afferma determinato da una terza autorità, come se una cosa così spaventosamente conflittuale potesse essere determinata da un'autorità neutra, laddove in Italia non esiste nulla di neutro. È evidente che nel meccanismo pregresso la concertazione avrebbe dovuto dar vita a un tasso programmato, che avrebbe potuto essere speso all'interno di una certa politica economica.
Emerge quindi la proposta dei due livelli e noi ne prendiamo atto. In seguito, i livelli saranno tre, perché la crisi della concertazione finisce per rilanciare l'accordo interconfederale all'interno dei protocolli. Caduta la concertazione, si tende infatti ad assorbire dentro ai protocolli gli accordi interconfederali. Mentre l'accordo del 1993 era trilaterale, quindi c'era un intervento del Governo a garanzia del nuovo sistema contrattuale, questa volta il discorso avviene direttamente tra le due parti, per cui probabilmente sarà il classico accordo interconfederale senza intervento del Governo. Questo rende fisicamente lo stacco e quindi determina anche la ricerca di un tasso di inflazione determinato autonomamente, quindi non concordato


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con il Governo, anzi addirittura in opposizione a quello eventualmente indicato dal Governo.
Ci chiediamo quali siano i problemi del livello nazionale, che dovrebbero riguardare il recupero dell'inflazione effettiva. Questo si dovrebbe svolgere in due tempi, partendo come indicato da Confindustria con l'inflazione indicata dalla Banca europea o da una terza autorità. I sindacati parlano di un'inflazione ragionevolmente prevedibile, che vorrebbero più corposa. In seguito, ci dovrebbe essere il recupero nel contratto successivo e un regime normativo appena alleggerito.
Questo livello ripropone innanzitutto il problema dell'efficacia, che è affidata alla capacità di coperture. Non c'è alcuna intenzione di attuare l'articolo 39, ma ritengo assolutamente inutile operare una verifica del peso delle tre confederazioni. Nel campo pubblico, i voti sono rapportati alle deleghe. Nell'attuale situazione italiana per il settore privato, ritengo quindi che gli eventuali risultati di una faticosa opera di raccolta dei voti a livello nazionale non porterebbero a un mutamento del quadro esistente.
Naturalmente, esiste l'incentivazione, che è condizionata all'applicazione integrale dei contratti collettivi. Qui si potrebbe introdurre un po' di flessibilità, in modo che i soggetti non vincolati in quanto membri delle associazioni stipulanti - i datori di lavoro - per poter godere degli sconti o dei benefici statali siano tenuti non a rispettare alla lettera, ma a garantire trattamenti complessivi non inferiori a quelli dei contratti collettivi.
Un altro serio problema è rappresentato dalla famosa contrattazione collettiva delegata, per cui la legge prevede che per quanto riguarda l'attivazione o la disciplina di taluni istituti si debba far riferimento alla contrattazione collettiva. Questo è un problema molto delicato, perché la contrattazione collettiva cui la legge rinvia di per sé non ha efficacia e neppure la legge gliela conferisce. Un datore di lavoro, che non sia vincolato a quel contratto collettivo e intenda utilizzare un certo istituto, la cui disciplina è in quel contratto collettivo, non lo può fare. Il legislatore dovrebbe essere più chiaro su questo meccanismo di rinvio, che è dato dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative e che non significa niente. Questo è un punto delicato.
Nel momento in cui, come avviene sempre più spesso, la legge interviene prevedendo che i contratti collettivi possano modificare o integrare una certa disciplina, l'individuazione dei soggetti che possono farlo deve essere più precisa e è necessario risolvere il problema che si crea in caso di disaccordo che determina lo stallo conseguente. Infatti, nella più recente legislazione in supplenza si fa intervenire il Ministero del lavoro, come si fa con la Commissione di garanzia quando non vi è accordo sulla visibilità dello sciopero. Su questo punto, sarebbe possibile ipotizzare un'agenzia di relazione industriale, ma non voglio sovraccaricare il discorso.
Il punto centrale per garantire una copertura è la legislazione sui minimi, all'interno della quale non rientrano i contratti collettivi di lavoro, anche se si utilizza l'articolo 36, perché sono minimi categoriali e non intercategoriali, sono troppo dettagliati e troppo alti. Negli altri Paesi in cui esiste una simile legislazione, i minimi rispetto a quelli contrattuali sono circa la metà. I sindacati non sono favorevoli, ma la legislazione sui minimi è la sola che possa fare emergere il lavoro nero, perché i salari contrattuali sono troppo elevati e anche i contratti di riallineamento non funzionano; infatti, chi intenda riemergere in tre anni non riesce a pagare quei minimi contrattuali; si finisce, quindi, per beneficiare dell'estrema tolleranza che i servizi dello Stato dimostrano nei confronti di questa realtà, per evitare di produrre un profondo conflitto sociale.
Lascio stare le aggregazioni, i contenuti obsoleti e i rinnovi rinviati, per analizzare il livello decentrato. Qui emerge il discorso aziendale, territoriale, territoriale alternativo. Concordo con Confindustria sul fatto che il territoriale debba essere in agricoltura,


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edilizia e artigianato. Sarebbe assurdo pensare di utilizzarlo dall'alto, costringendo le piccole imprese ad entrare nella copertura del contratto di secondo livello. D'altro canto non si può intervenire dall'alto, perché si tratta di imprese con meno di 20 dipendenti, e, poiché il secondo livello è prevalentemente dedicato alla produttività, non si capisce come si possa applicare alla piccola impresa: come si misurino la produttività o la redditività e quale sia la controparte, visto che non c'è il sindacato. È necessario partire dal tentativo di creare aggregazioni industriali di servizi, che facciano da canale rispetto a un'espansione della disciplina collettiva.
Bisogna stare attenti, perché gli economisti ci insegnano che il tessuto delle piccole imprese assicura flessibilità al sistema. Questa mattina, leggevo che in Italia non si è creata la situazione di altri Paesi perché abbiamo numerose piccole imprese, che in questo tsunami finanziario galleggiano meglio delle grandi imprese. Prima di toccare queste realtà, è necessario riflettere molto.
I contratti aziendali hanno innanzitutto il problema dell'estensione. Essi si fanno non soltanto laddove c'è un vincolo associativo, ma anche attraverso il famoso rispetto delle prassi. Non esiste un obbligo legale di fare un contratto aziendale e neanche di contrattare. Può esistere un obbligo contrattuale a seguito del rinvio, però, se il contratto non si fa, non credo che si possa utilizzare l'articolo 28 dello Statuto dei lavoratori.
Il problema dell'estensione è stato risolto con l'elemento perequativo, ovvero prevedendo nel contratto collettivo nazionale che le aziende che non possono fare o non fanno contrattazione aziendale debbano riconoscere un'aggiunta, che dovrebbe essere collegata alla produttività. Alcuni contrattualisti sostengono che questo sia il modo più semplice per far saltare la contrattazione aziendale, perché un datore di lavoro, dinanzi all'alternativa tra un costo fisso calcolato al ribasso, che è quello dell'elemento perequativo previsto a livello nazionale, e un costo dovuto alla contrattazione, probabilmente opta per il costo fisso.
Il problema dell'efficacia è molto forte quando si fa un contratto aziendale. Se due lo firmano e uno si rifiuta, se uno lo firma e due non lo fanno, si crea un problema terribile, che vale per la contrattazione comune, per la contrattazione gestionale, quella per cui la soluzione deve valere per tutti (pensate, ad esempio, ad una materia come l'orario), per la contrattazione delegata, per cui la legge prevede contratti che disciplinino certi istituti.
Qui è necessario un atto di estremo coraggio con i voti che sono stati espressi prima nelle elezioni delle RSU o i voti dopo una consultazione dei lavoratori. Capisco che probabilmente i sindacati dissentano, però questo risponde a un'esigenza fisiologica e a un'esigenza di trasparenza e di chiarezza.
Il fatto che il contratto aziendale deroghi rispetto a quello nazionale è giuridicamente possibile anche adesso. La giurisprudenza considera uguali questi due contratti, poi bisogna valutare un eventuale rinvio rigido dall'alto al basso. Praticamente però non è possibile, perché, se un sindacato si oppone, si ricomincia dall'inizio.
Nel diritto sindacale, ci si muove in una logica di totale astensionismo legislativo. Le uniche leggi che sono passate sono leggi di promozione, compresa quella sullo sciopero, perché si è rinviata alla contrattazione la disciplina dell'esercizio del diritto.
Ritengo necessario istituire un'authority o comunque un supporto di questi processi nell'informazione dei fatti, nell'elaborazione dei dati utilizzando anche il CNEL, la Banca d'Italia, l'ISTAT, nell'informazione obiettiva al pubblico, nell'intervento nelle dispute giurisdizionali, in cui i vari sindacati rivendicano di essere i rappresentanti, e, come avviene in America, nella irrogazione di sanzioni per interventi sleali. Il giudice non è infatti la persona più adatta a svolgere questo ruolo.
Considerando come è affondato il progetto di legge Gasperoni, ritengo che non


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sia opportuno partire con grandi ambizioni. Una volta assestata la riforma contrattuale, si potrebbe partire invece con una ricognizione di quello che il Parlamento può e deve fare per rendere questa riforma veramente funzionale. Riceverete però numerosi rifiuti da parte di un movimento sindacale che ha fatto tanto, ma che sul mutuo riconoscimento probabilmente ha camminato troppo liberamente.

MIMMO CARRIERI, Professore ordinario di sociologia economica e del lavoro presso l'Università di Teramo. Ringrazio per l'invito, perché è sempre un onore e un piacere poter discutere in un consesso di questo tipo.
A mio avviso bisogna partire dall'oggetto che è quello della riformabilità dell'accordo triangolare del luglio del 1993, che ha definito le regole del gioco del sistema della contrattazione e della rappresentanza nel nostro Paese.
Oggi, qualcuno parla di crisi del funzionamento di quell'importante accordo, ma la maggioranza degli studiosi e degli osservatori individua la necessità di un suo aggiornamento, piuttosto che di un suo superamento. Su questa linea logica le parti sociali si stanno confrontando in questi mesi, perseguendo non uno stravolgimento delle regole fissate nel 1993, ma una loro possibile evoluzione, come ribadiscono entrambe le parti, ovvero le organizzazioni sindacali forse più continuiste e il recente documento di Confindustria.
Il nostro è probabilmente l'unico Paese dell'Europa occidentale in cui tutte e due le parti sociali concordano sul fatto che il sistema contrattuale si debba svolgere su due livelli distinti, mentre nella maggior parte dei Paesi europei c'è un solo livello di contrattazione.
È molto importante che anche gli imprenditori in Italia riconoscano l'esigenza di due livelli di contrattazione. I documenti delle due le parti sociali (un testo elaborato alcuni mesi fa da CGIL, CISL e UIL e uno più recente prodotto dalla Confindustria) si muovono lungo un asse molto simile, che gli studiosi di relazioni industriali definiscono il decentramento controllato od organizzato del sistema contrattuale. Le parti rilevano quindi l'esigenza di un maggiore decentramento della contrattazione, di un maggiore potere alla contrattazione decentrata di secondo livello, ma nello stesso tempo evidenziano come il ruolo di baricentro regolativo del sistema rimanga nelle mani del contratto nazionale. In questa fase, infatti, sia CGIL, CISL e UIL che la Confindustria attribuiscono un ruolo rilevante e regolativo al contratto nazionale.
Ci chiediamo dunque quali cambiamenti sia necessario apportare, tenuto conto che essi devono essere introdotti lungo il solco tracciato nel 1993 e non in una linea di marcata discontinuità. Il primo cambiamento, su cui tutti concordano pur litigando su come misurarlo, è sostituire l'inflazione programmata con un indice che viene definito «di inflazione attesa», che dovrebbe anticipare l'inflazione reale piuttosto che definire un tasso artificiale di inflazione a cui ancorare i salari.
Questa è una delle ragioni del contenzioso in atto, perché c'è il problema di come misurarlo e fare in modo che sia non troppo lontano dall'inflazione reale, ma neppure inadeguato a recuperare interamente l'inflazione effettiva.
Esiste però un accordo di massima. In periodi di inflazione crescente, sarei più cauto nell'abbandonare il meccanismo dell'inflazione programmata introdotto nel 1993.

FRANCO CARINCI, Professore ordinario di diritto del lavoro presso l'Università di Bologna. Anche io.

MIMMO CARRIERI, Professore ordinario di sociologia economica e del lavoro presso l'Università di Teramo. Sarei più prudente rispetto all'orientamento diffuso delle parti e anche degli analisti, soprattutto degli economisti, che negli ultimi 5-6 anni ci hanno detto che l'inflazione programmata non era più utile e funzionale.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, bisogna dare maggiore copertura alla contrattazione


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di secondo livello, che si fa in ambito decentrato aziendale o territoriale e che copre solo una minoranza dei lavoratori. Fa eccezione il settore pubblico, dove la contrattazione di secondo livello, che in parte è diversa perché regolata economicamente dal centro, ha una copertura pressoché universalistica. Questo evidenzia però che si può fare anche dal centro, se si utilizzano i vantaggi ovviando ai difetti
Soprattutto alcune organizzazioni sindacali ritengono che la copertura insufficiente possa essere almeno in parte colmata rafforzando la contrattazione territoriale, in alternativa alla contrattazione di ambito aziendale. Ritengo che questa sia una strada interessante, se accompagnata da patti per la produttività di ambito territoriale, che siano aiutati da sostegno economico, sgravi fiscali, incentivi di varia natura di livello nazionale. Qui intravediamo dunque una possibile linea di intervento dei soggetti pubblici e del legislatore.
Il terzo aspetto critico, già evidenziato nei lavori della Commissione Giugni, che per la prima volta radiografò le criticità del protocollo del 1993, riguarda la contrattazione integrativa dal punto di vista della profondità, ovvero della sua capacità di premiare in modo adeguato gli incrementi di produttività. Le cifre statistiche elaborate rispetto agli ultimi dieci anni dimostrano che questa capacità non c'è stata, perché gli incrementi di produttività non si sono tradotti in accordi aziendali diffusi e in benefici economici per i lavoratori dipendenti.
Rispetto a queste criticità, le parti stanno cercando di trovare un meccanismo in grado di determinare un equilibrio diverso tra un contratto nazionale importante ma alleggerito e contratti di secondo livello cresciuti dal punto di vista delle dimensioni regolative e della capacità di copertura.
Le parti hanno un'intesa di fatto anche per quanto riguarda la periodicità dell'attività contrattuale. Il protocollo del 1993 parlava di accordi sulla parte normativa della durata di quattro anni e di due anni per la parte economica, rispetto a cui il secondo biennio serviva da meccanismo di recupero. Non veniva comunque escluso un recupero integrale dei salari rispetto all'andamento effettivo del costo della vita, perché quel meccanismo aveva un'importante funzione di riequilibrio.
Sia la Confindustria che le principali confederazioni sindacali sono d'accordo che la periodicità dei contratti possa uniformare la parte normativa ed economica intorno ai tre anni di durata. I punti di accordo sulle criticità e sugli eventuali interventi sono dunque numerosi.
Un altro problema toccato dal collega Franco Carinci e rimasto fuori dai riflettori e dagli oggetti espliciti della trattativa tra le parti riguarda la riforma del sistema della rappresentatività, della misurazione della rappresentatività dei soggetti sindacali. Franco Carinci ha anche ricordato il tentato intervento legislativo che non andò a buon fine nel periodo 1997-2000 (progetto di legge Gasperoni).
Il problema si ripropone e questa volta lo citano nel loro documento preparatorio della trattativa le organizzazioni sindacali, sostenendo l'esigenza di adattare all'insieme del sistema produttivo il meccanismo di misurazione della rappresentatività già utilizzato con successo nel settore pubblico. Tale meccanismo seleziona i soggetti ammessi alla contrattazione in rapporto alla loro rappresentatività e garantisce anche l'applicazione generalizzata dei contratti, perché stabilisce una soglia del 50 per cento che i soggetti firmatari devono rispettare ai fini della validità collettiva.
In secondo luogo, in sintonia con le considerazioni della collega, le organizzazioni sindacali evidenziano come un eventuale intervento legislativo debba subentrare dopo una sperimentazione contrattuale tra le parti. Si pensa quindi a un accordo interconfederale tra CGIL, CISL e UIL e Confindustria e anche altri soggetti, sia datoriali che sindacali, per determinare i lineamenti di una sperimentazione che poi solo successivamente, mediante una legislazione di sostegno, possa essere tradotta in linee normative più definite. Considero


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importante questa strada, dinanzi alla quale, sebbene molto dipenda dall'orientamento delle parti, il legislatore non può rimanere indifferente, perché, in una fase di differenziazione e non ancora di rottura tra le organizzazioni sindacali, regole in materia di rappresentatività consentono di dirimere i conflitti. Sarebbe quindi importante che i sindacati fossero d'accordo su queste regole, laddove la loro definizione consentirebbe al sistema di funzionare con una più certa applicazione dei contratti ai lavoratori interessati.
Dal funzionamento del settore pubblico si può desumere anche come regole di questo genere aiutino le organizzazioni sindacali più a cooperare che a confliggere tra di loro, rendendo il sistema più ordinato. Nel settore pubblico, dove la soglia per la firma è del 50 per cento, che però un accordo interconfederale potrebbe alzare ai due terzi, non si rilevano casi di accordi separati, perché le organizzazioni sindacali non riescono a siglare individualmente il contratto, ma hanno bisogno di un raccordo unitario con le altre organizzazioni. Questo rende il sistema più coeso e più disciplinato.
Considero però necessario esprimere un'insoddisfazione verso la discussione e le proposte delle parti su un punto cruciale. Già il protocollo del 1993 voleva stabilire un rapporto più forte tra salari e produttività, che però è stato insoddisfacente. La spiegazione analitica manca sia nelle considerazioni di gran parte della stampa che nelle riflessioni scientifiche. Personalmente, ritengo che la previsione del 1993 fosse inadeguata, perché prevedeva semplicemente meccanismi di partecipazione economica dei lavoratori e non meccanismi di coinvolgimento più forte nei cambiamenti tecnico-organizzativi, nelle decisioni di innovazione relativa alle imprese e alle loro strategie. Si trattava quindi di un'incentivazione debole, che ha prodotto accordi spesso fittizi sui premi-risultato, in cui le parti si limitano a riprodurre premi standard in cui la misurazione dei risultati effettivamente conseguiti è solo parziale.
Il legislatore forse può aiutare a individuare una soluzione adeguata per incentivare le imprese all'innovazione tecnica e organizzativa. Il deficit di innovazione, che è alla base della scarsa produttività del nostro sistema, può essere imputato sia al lavoro che alle imprese, ma, come il rischio, devono essere condivisi anche i benefici e le soluzioni. Incentivazione alle imprese significa sgravi fiscali, premi alle imprese più innovative. È necessario inventare meccanismi premianti, adottando anche nel privato quelli del pubblico, perché nel privato non siamo di fronte a un dinamismo innovativo forsennato, che riguarda una minoranza del nostro sistema produttivo, il 20 per cento secondo gli economisti del lavoro, che rilevano l'esigenza di un patto per la produttività per far compiere un salto all'intero sistema.
Questo si deve tradurre anche in una chiara incentivazione di benefici per i lavoratori dipendenti. Nella logica del protocollo emergeva un equilibrio tra il dinamismo delle imprese che deve essere rafforzato, equità sociale e risultati retributivi, che devono essere innalzati e garantiti.
Ritengo che l'accordo non possa essere solo interconfederale, perché nel 1993 per arrivare a un'intesa fu decisivo il ruolo del Governo, allora presieduto da Ciampi, con il Ministro del lavoro Giugni, che aveva una grande autorevolezza tecnica. Tale ruolo fu decisivo per persuadere le parti a cooperare, mettendo sul tavolo forti elementi, risorse simboliche e materiali. Anche in questa fase, si deve fare lo stesso per giungere ad un accordo. Una partita riguarda gli sgravi fiscali a favore dei lavoratori dipendenti, un'altra riguarda incentivi a favore delle imprese. Questi aspetti possono essere cruciali per arrivare a un accordo più vantaggioso in chiave di equilibrio non statico, ma innovativo tra le parti, per raggiungere migliori risultati di performance per il nostro sistema produttivo, che rappresenta la vera posta in gioco.
Credo che questa sia la strada da seguire. Come studiosi, definiremo in seguito se si tratterà di un accordo di concertazione, di un patto debole; è comunque necessario il rafforzamento di un


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ruolo di expertise del soggetto pubblico istituzionale e del legislatore. Occorrono anche soggetti terzi più forti. Abbiamo già il CNEL che, probabilmente, è sottoutilizzato. CGIL, CISL e UIL propongono di affidare al CNEL la certificazione della rappresentatività.
L'ipotesi Carinci - un'authority in grado di diventare luogo di certificazione per dati, ai fini della contrattazione, ma anche per materie importanti come la rappresentanza - può essere comunque perseguibile, anche se le authority, va detto, non sono più tanto di moda.

FRANCO CARINCI, Professore ordinario di diritto del lavoro presso l'Università di Bologna. Se poi parliamo del CNEL...

MIMMO CARRIERI, Professore ordinario di diritto del lavoro presso l'Università di Bologna. Il CNEL forse è peggio! Cadiamo dalla padella nella brace.

PRESIDENTE. Prima di dare la parola ai deputati che intendano porre quesiti o formulare osservazioni, permettetemi di chiedere al professor Carinci (che potrà rispondermi dopo avere ascoltato le altre domande) se, quando si parla di authority e di agenzia, si corra il rischio di costituire una sorta di ARAN privata.

GIUSEPPE BERRETTA. Signor presidente, ricordo un articolo in cui il professor Carinci si è premurato di raccogliere tutte le norme nelle quali si rinvia, con le formule più disparate, alle organizzazioni sindacali. A partire dai sindacati comparativamente più rappresentativi, ne esiste una raccolta impressionante.
Quindi, quella dell'individuazione più chiara e netta dei soggetti ai quali conferire la funzione di andare a specificare il disposto normativo è sicuramente un'esigenza avvertita, ma la soluzione che mi sembra poi emerga anche dall'intervento del professor Carrieri è quella di andare a una specifica determinazione, sulla base del modello del settore pubblico.
La possibilità, però, di intraprendere questa strada va forse a incidere sulle note questioni di costituzionalità che si sono poste ogniqualvolta si è intrapresa una strada analoga, creando un problema di compatibilità. Tale sistema ipotetico è contenuto nell'articolo 39, che peraltro stabilisce un modello finora mai attuato. Con riferimento al settore pubblico, in qualche modo esiste una pronuncia che «dribbla» il problema, riconnettendo l'attuale sistema e la sua legittimità all'articolo 97 e a un'esigenza di interesse pubblico prevalente nell'individuazione dei soggetti della contrattazione.
Vorrei dunque capire meglio quale sia la proposta e se essa presupponga una Costituzione invariata o una sua modifica.
Mi sembrava, inoltre, opportuno sottolineare che un conto è l'astensionismo legislativo (che reputo vada, con prudenza, mantenuto), mentre un altro conto è l'astensionismo rispetto al percorso contrattuale. L'idea, cioè, che si possa oggi sostituire il protocollo del 1993 con un accordo interconfederale mi sembra poco convincente, a meno che non esista un retro pensiero del Governo.
Facilitare l'intesa potrebbe essere cosa utile e opportuna, mentre il tentativo di non intervenire e lasciar fare potrebbe essere strumentale ad acuire le situazioni di difficoltà che si stanno manifestando, in maniera tale che il sistema collassi autonomamente.
Credo che, invece, sussista l'esigenza di un intervento e le proposte che venivano dal professore mi sembrano molto convincenti.
Il Governo, in definitiva, potrebbe mettere sul tavolo strumenti e incentivi che consentano di superare il momento di difficoltà e di stallo che si è venuto a determinare.

GIULIANO CAZZOLA. Signor presidente, ringrazio innanzitutto gli amici professori che hanno aderito al nostro appello. Volevo svolgere brevemente qualche considerazione e porre alcune domande. Nutro all'incirca gli stessi dubbi appena espressi dall'onorevole Berretta, che poi sono anche le ragioni - oltre a quelle di carattere politico - per cui in parte è caduto il progetto di legge Gasperoni.


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Nessuno ha mai voluto rivisitare l'articolo 39 della Costituzione, anche perché, quando si afferma che la Costituzione può essere rivista, eccezion fatta per la prima parte, in qualche modo si legittima nuovamente anche l'articolo 39, che rientra in tale parte.
Mi domando in quale misura, restando questo «convitato di pietra», che individua una procedura sia per la rappresentanza che per la rappresentatività, sia possibile trovare soluzioni diverse.
Per esempio, penso ad un 66 per cento - come diceva il professor Carrieri - anziché un 51 per cento, o a un meccanismo basato sul voto, anziché sugli iscritti. Insomma, mi pare che questo sia un tema che merita di essere approfondito.
Sono abbastanza d'accordo con le considerazioni fatte dal professor Carrieri sul protocollo del 1993, proprio perché ritengo che la revisione biennale del contratto - nella quale si teneva conto dell'inflazione reale - in qualche modo aveva risolto il problema. Ovviamente, sull'inflazione programmata vigeva ormai una prassi che trovava ovunque, sia nel mondo del lavoro privato che pubblico, una soluzione ragionevole, pur tenendo conto del fatto che l'inflazione programmata rientrava in una strategia e in un disegno che 18 mesi fa potevamo ritenere superati, ma che oggi tornano d'attualità. La revisione biennale dei trattamenti economici aveva già in sé risolto il problema che oggi è aperto ed è ostativo alla risoluzione del contratto.
Sinceramente, ho rivalutato il protocollo del 1993, che tra l'altro ritengo abbia funzionato (e continui a funzionare) nella generalità dei casi, salvo alcuni incidenti di percorso.
Mi pare che esso avesse in sé anche la possibilità di evitare (con un po' di realismo nella fase di negoziato - realismo di cui si è sempre data prova - e con altrettanto realismo nella revisione biennale dei trattamenti normativi) di infilarsi nella strettoia in cui il confronto si è attualmente inoltrato, tra l'altro in una situazione per niente favorevole, visto che si è rimesso in discussione il rapporto tra gli aumenti contrattuali e le retribuzioni.
Vorrei sapere cosa pensino i nostri ospiti - credo che la professoressa Olivelli qualche lancia a favore l'abbia spezzata - riguardo a clausole derogatorie in peius introdotte nella contrattazione nazionale.

CESARE DAMIANO. Signor presidente, ringrazio i nostri ospiti per le relazioni, come sempre molto brillanti e piene di contenuto. Svolgerò alcune brevi osservazioni, anche legate all'attualità, per richiedere poi un'opinione su questi argomenti.
È in corso un confronto tra le parti sociali sulla modifica dell'attuale modello contrattuale. Sappiamo che esistono problemi e criticità, che potrebbero condurre ad un mancato accordo. Personalmente, ritengo che una mancata conclusione rappresenterebbe un fatto molto negativo, perché spingerebbe il sistema a una sorta di «impazzimento», in cui prevarrebbero le spinte corporative e individuali dei settori più forti, in una situazione nella quale, purtroppo, i dati dell'economia e dell'inflazione spingono tutti a tutelarsi.
Quanto sta capitando nelle Borse segnala un timore diffuso delle persone per il proprio futuro, il proprio destino e i propri risparmi. È chiaro, quindi, che una nuova regolamentazione sarebbe auspicabile.
Nella nuova regolazione si stanno affrontando argomenti che hanno trovato una certa composizione: mi pare che sul ruolo del contratto nazionale come centro regolatore del sistema non ci sia una grande discussione e non esistano differenze di fondo, così come sulla necessità di articolare il modello sui due livelli di contrattazione o sulla semplificazione delle aree contrattuali.
Esistono anche alcune novità interessanti, come, ad esempio, se non ho compreso male, la possibilità nel confronto delle parti che si fissi anche una decorrenza dei nuovi minimi salariali al momento della scadenza del vecchio contratto. Questa è una clausola che notoriamente ha un forte impatto redistributivo a


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vantaggio del lavoro, laddove un ritardo medio di 12 mesi nel rinnovo dei contratti - eventualità ormai certificata - pregiudica il potere d'acquisto con un'incidenza che possiamo calcolare in 1-2 punti in meno.
Sembra anche acquisito dalle parti il fatto di prevedere l'inserimento, oggi contenuto soltanto in alcuni contratti di lavoro (penso a quello dei metalmeccanici), di un elemento retributivo compensativo della mancata contrattazione decentrata. Tale elemento, trattato nel modo opportuno (ad esempio, depurato dalle erogazioni unilaterali delle aziende), potrebbe costituire effettivamente per le imprese una spinta verso la contrattazione, a determinate condizioni. Naturalmente, per arrivare a una conclusione in tal senso si deve percorrere ancora molta strada.
Un punto di contenzioso da voi ricordato è quello relativo alla nuova inflazione programmata. Anche chiamandola inflazione «attesa», o «previsionale», si tratta pur sempre di un indicatore che ha un forte tasso di convenzionalità, al di là del fatto che possa essere o meno depurato da alcuni elementi di inflazione importata, quali ad esempio i costi della spesa alimentare o quelli della spesa petrolifera. Attorno a questo problema, di fatto, esiste un forte contenzioso. Condivido l'affermazione di Giuliano Cazzola che, forse, occorrerebbe rivalutare il protocollo del 1993 e sono d'accordo con chi affermava - mi sembra il professor Carrieri - che questa revisione dovrebbe avvenire all'insegna della continuità e non della discontinuità a tutti costi.
Vorrei allora chiedere se - tenuto conto che appare molto difficile trovare un indicatore sostitutivo dell'inflazione programmata di natura convenzionale, in quanto le parti hanno su questo punto idee piuttosto diverse - non riteniate che un'indicazione della soluzione del problema potrebbe essere contenuta nella definizione di una modalità di efficace recupero dell'eventuale scostamento fra inflazione prevista e inflazione effettiva. Faccio un esempio: quando si parlò, alcuni anni fa, di passare da un modello di cadenza biennale all'attuale proposta di cadenza triennale, il ragionamento coesisteva con una tendenza dell'inflazione alla discesa (andavamo dal 2 per cento verso l'1 per cento, mentre oggi scopriamo che dal 2 andiamo verso il 4 per cento). È evidente che la questione del recupero dello scostamento acquista un sapore molto più pesante e significativo, soprattutto se l'indicatore di inflazione convenzionale è un indicatore non soddisfacente.
Domando quindi se un recupero trasparente, ad esempio su base annuale, dello scostamento eventuale fra inflazione attesa e inflazione reale, potrebbe offrire una soluzione almeno parziale al problema.
Vengo ad una seconda questione: si è parlato del ruolo del Governo. Si è scelta, nel rinnovo del modello contrattuale, la via del semplice confronto tra parti sociali. Il Governo pare defilato. Qualcuno suggeriva che il defilarsi del Governo, poiché risulta necessario un suo intervento-cornice in funzione di una diminuzione della pressione fiscale sulle retribuzioni (ad esempio, di recupero del drenaggio fiscale o di incentivo alla contrattazione di secondo livello) può essere parte di un disegno di fallimento, o almeno di depotenziamento, del negoziato.
Io la vedo un po' diversamente e penso che il Governo sia defilato solo apparentemente. Domando, infatti, se non riteniate che due scelte fatte dal Governo non solo non siano defilate, ma siano anzi di profonda ingerenza negativa sul senso del negoziato e sulla sua possibilità di conclusione.
Domando in primo luogo se non sia controproducente e invasivo, nei confronti dell'attuale negoziazione, la fissazione dell'inflazione programmata all'1,7 per cento (che chiediamo di cancellare, poiché nel caso in cui le parti sociali private dovessero stabilire un nuovo indice convenzionale avremmo il paradosso di due inflazioni).
In secondo luogo, chiedo se riteniate controproducente ai fini del potenziamento della contrattazione di produttività il fatto che il Governo, prima dell'estate,


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abbia deliberato un incentivo non a sostegno della tanto conclamata contrattazione decentrata, vale a dire del premio di risultato, bensì genericamente a vantaggio sia del premio di risultato, sia dell'erogazione unilaterale liberale da parte delle imprese. Vi chiedo se sia opportuno, da questo punto di vista, retrocedere da tale deliberazione.
Sono profondamente convinto che, al di là della technicality della negoziazione, si debba necessariamente arrivare a un modello universale pubblico-privato nel quale, a un certo punto, la congiunzione fra azione di Governo a tutela delle retribuzioni e azione delle parti sociali nella ridefinizione del modello si dovranno per forza incontrare se si vuole, in una logica di continuità, rivedere un modello e non passare, in assenza di accordo, a una situazione di anarchia proprio in un momento che tutti gli indicatori ci segnalano come il peggiore possibile.

PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospiti per la replica.

MIMMO CARRIERI, Professore ordinario di sociologia economica e del lavoro presso l'Università di Teramo. Mi pare che una parte delle questioni riguardi la riforma della rappresentanza. Sia l'onorevole Berretta che l'onorevole Cazzola hanno espresso la preoccupazione che si possa intervenire in modo incisivo, ridefinendo l'attuale quadro senza toccare l'articolo 39 della Costituzione. Non sono un giurista e devo dire che tendo a pormi il problema del cambiamento, anche costituzionale, solo dopo aver valutato se sussistano le condizioni di fatto per andare avanti. Quindi svolgo un ragionamento del tipo seguente, al termine dal quale si potrà poi pensare a un aggiustamento non solo normativo, ma anche costituzionale. Finora l'articolo 39 non è stato attuato, perché non lo hanno voluto le organizzazioni sindacali.

FRANCO CARINCI, Professore ordinario di diritto del lavoro presso l'Università di Bologna. Alcune!

MIMMO CARRIERI, Professore ordinario di Sociologia economica e del lavoro presso l'Università di Teramo. Sia pure: alcune organizzazioni sindacali. Mi pare che questo scenario di ostilità delle organizzazioni sindacali sia in fase di cambiamento e di evoluzione. Se quindi questo elemento davvero cambiasse, in senso positivo, non rimarrebbe alcun ostacolo alla modifica di norme anche di tipo costituzionale, dal momento che queste ultime sono state pensate per favorire la libera e pluralistica attività dei sindacati.
Chiedeva l'onorevole Cazzola quale potrebbe essere il criterio, dal momento che nella Costituzione si parla degli iscritti, ma in realtà la sperimentazione ormai consolidata dal settore pubblico usa il peso ponderato sia sugli iscritti, sia sui voti.
Credo che si tratti di un equilibrio complicato da realizzare, sul piano pratico, nei settori produttivi diversi da quello privato, ma anche che sia un equilibrio corretto, sul quale si può ragionare.
Esiste però un altro aspetto pratico, che precede l'intervento normativo e che ha impedito di portare in fondo il disegno di legge Gasperoni. Alludo alla posizione di Confindustria. Non basta l'assenso dei sindacati, ci vuole un punto di equilibrio con l'altra parte.
Sapete che Confindustria è sempre stata ostile ad una regolazione di questa disciplina, pensando che essa sarebbe diventata troppo costrittiva rispetto all'attività contrattuale, di fatto estendendola anche alle imprese più piccole.
Il vero nodo mi pare il seguente: garantire che sia possibile un esercizio di libertà democratica - la scelta dei rappresentanti da parte dei lavoratori interessati - senza che ciò produca costi incrementali per le imprese.
Questo è il tipo di esercitazione su cui, però, né i soggetti politici, né le parti si sono cimentati davvero, perché ciascuno ha rivendicato il proprio punto di vista. Trovare un punto di equilibrio tra compatibilità delle imprese e necessità di un'estensione all'insieme dei lavoratori dei diritti democratici che oggi sono solo di una minoranza sarebbe, io credo, un'interessante


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esercitazione collettiva, in grado di dare vita, successivamente, a cambiamenti normativi.
Ho fatto riferimento, in prima battuta, ad accordi interconfederali, che non richiedono modifiche della legge e della Costituzione, ma una volta che si fosse arrivati a una sperimentazione soddisfacente, si produrrebbe un problema ulteriore di definizione delle regole adatte. Il mestiere dei miei colleghi, a questo punto, deve sopperire.
La seconda parte del ragionamento che avete svolto ha riguardato soprattutto i meccanismi di adeguamento dei salari all'inflazione. Ricordiamo che, quando si stipulò l'accordo del 1993, l'inflazione programmata serviva ad abbattere l'inflazione che era molto alta (fino a tre volte maggiore di quella di Germania e Francia) e quindi per il nostro Paese esisteva il problema di un abbattimento molto forte dell'inflazione, nello stesso tempo però garantendo il mantenimento del potere di acquisto anche dopo il superamento della scala mobile, che questa garanzia determinava in modo automatico.
Nessuno vuole tornare - così dicono tutti, anche quelli che dichiarano qualche riserva mentale - a meccanismi di indicizzazione. Mi è sembrato che il vostro ragionamento e il ragionamento di tutti sia stato molto realistico.
In realtà, si era pensato di superare l'inflazione programmata per due ragioni. In primo luogo perché l'inflazione si era tendenzialmente abbassata fino a non rappresentare più una partita rilevante, essendo arrivati all'1,5 per cento, con una tendenza al ribasso.
La seconda ragione riguardava il fatto che la mancanza di dinamismo del secondo livello contrattuale poteva essere compensata da una definizione del recupero salariale fatta al primo livello.

GIULIANO CAZZOLA. Basato, addirittura, su una produttività media del sistema.

MIMMO CARRIERI, Professore ordinario di sociologia economica e del lavoro presso l'Università di Teramo. Diciamo pure con meccanismi che erano anche abbastanza «scivolosi», dal punto di vista realizzativo.
In effetti, penso che voi abbiate espresso un punto di vista di buon senso: in una situazione nella quale l'inflazione monta e inserisce un fattore nuovo di conflitto tra le parti, forse sarebbe preferibile mantenere l'inflazione programmata, affiancata però da una programmazione - questo era il punto critico degli anni scorsi - meno lontana dall'inflazione reale e, quindi, contrattata con le parti (come era previsto dall'accordo del 1993) attraverso tavoli di politica dei redditi.
Ecco perché parlo di accordo non solo interconfederale. Quello del 1993 era un accordo in cui contrattazione e politica dei redditi erano destinati a intrecciarsi e a sposarsi, non potevano prescindere l"uno dall'altro. A me suona strano che si possa operare una riforma della contrattazione che non sia in sintonia anche con la definizione della politica dei redditi.
Serve un indice che sia più realistico e programmato attraverso i confronti tra le parti, forse - lo sostiene anche l'onorevole Damiano - anche con un recupero annuale. Ma se l'indice è «realistico», il problema del recupero annuale viene depotenziato: il recupero può essere anche biennale, l'essenziale è che l'indice sia in qualche modo più vicino all'inflazione reale e all'orientamento delle parti sociali.
Era stata rivolta una domanda politica da parte dell'onorevole Damiano, che mi chiedeva se il Governo stia aiutando, o meno. Essendo uno studioso, non voglio dare una risposta politica.
Mi pare che il Governo abbia assunto provvedimenti che spingono ad avere più reddito senza produrre innovazione nelle imprese. Non trovo disdicevole che nelle tasche dei lavoratori entrino più soldi. Credo che serva, però, un salto di qualità: assumere provvedimenti che facilitino anche l'innovazione e non solo gli incrementi retributivi.

FRANCO CARINCI, Professore ordinario di diritto del lavoro presso l'Università di Bologna.


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Partiamo dal punto sostanzialmente più politico, cioè quello dell'inflazione. Bisogna mettersi d'accordo su una cosa: la scala mobile, alla fine di una decennale malattia terminale, venne sostituita da un sistema che aveva due caratteristiche.
La prima era quella di non far precedere, bensì far seguire l'adeguamento. Si tratta della famosa argomentazione di Tarantelli: lavoriamo sull'inflazione programmata, perché in questo modo deceleriamo, blocchiamo. La seconda era che, comunque, il recupero non era automatico, bensì legato ad un negoziato. Questo aspetto va tenuto presente.
Quindi, quand'anche vi fosse un accordo in cui si stabilisce che il contratto collettivo successivo recupera, ci vuole comunque il contratto collettivo successivo. Questo è un punto fondamentale. Non c'è soluzione se non si ritorna ad una scala mobile che, invece di essere anticipata, sia posticipata e su cui esistono dissensi.
Rimane comunque il problema se l'adeguamento debba essere fatto salvando la parametrazione, cioè in percentuale sulla retribuzione reale (torniamo alla storia del punto unico) oppure a punteggio.
Sono totalmente d'accordo con l'onorevole Damiano, e l'ho già detto: non ha senso generare due inflazioni, una programmata e una rimessa a un'autorità imparziale e neutra.
È evidente, infatti, che la cosa ha un senso in presenza di un coordinamento tra l'azione del Governo e i risultati della contrattazione, anche perché quest'ultima ha bisogno di sponde.
Se il Governo conforma la sua politica economica e legislativa all'1,7 per cento, non si capisce come la contrattazione possa andare avanti sul 2,5 per cento. Questo, per me, è il problema certo della crisi.
Si suggerisce di non fare una tragedia sull'inflazione programmata, anche se ovviamente è lì che dovrebbe valere il rapporto di forza fra parti sociali e Governo. Si può cercare di tenerla un po' più alta, si possono fare opportune valutazioni. Credo che fissare l'inflazione all'1,7 o 1,6 o 1,8 per cento non debba rappresentare un messaggio politico, o un fatto meramente psicologico.
Sul recupero integrale ci sono altre obiezioni. La prima è che esso è affidato a un negoziato. La seconda è che, se non si riesce a mettere d'accordo le parti sull'inflazione programmata, immaginiamoci su quella effettiva. Conoscete tutte le polemiche sul paniere ISTAT. Non esistono responsi sicuri sull'inflazione effettiva: esistono addirittura differenze di 1-1,5 punti.
Esiste poi un ulteriore problema, molto importante. Uno degli effetti dell'eliminazione del biennale a favore del triennale, significa che su quest'ultimo si addensa tutto: recupero inflazione, produttività media o parte della produttività media del comparto nonché tutta la parte normativa.
A questo punto diventa difficilissimo tenere le partite separate. In verità se guardiamo a come si svolgono le contrattazioni, il recupero dell'inflazione ha sempre portato a un confronto duro: l'inflazione da recuperare è 1,5 per una parte e 2,5 per l'altra; c'è da fissare l'aumento medio pur potendo confrontarsi solo a livello di argomentazione. Immaginare una contrattazione sovraccaricata, in grado effettivamente di svolgere un ruolo di recupero di un'inflazione effettiva su cui regna il disaccordo, a mio avviso è impossibile.
La fissazione dei salari è sempre un fatto politico, a meno che non sia automatico (come lo è la scala mobile). Sostanzialmente sono d'accordo che, alla fine, il tutto si trasforma in un discorso di politica sindacale. Certamente si intende elevare l'inflazione programmata, certamente si intende parlare di recupero, ma i sindacati sanno che poi ci si siede attorno a un tavolo e in quella sede si evocano tutte le argomentazioni a favore di un plafond. Il sindacato ritiene, molte volte, che ci sia bisogno di un aumento reale dei salari e gioca tale argomento al tavolo contrattuale nazionale.
Sono d'accordo, in questo senso, con quanto suggerito, ma è chiaro che, se la programmata è molto bassa, il recupero diventa utopico.


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La questione vera è se si riprende la contrattazione, o se non la si riprende. A mio avviso, se il Governo va per una strada e la contrattazione va per l'altra, non si ha quel minimo di coordinamento sul piano di una politica economica che, fra poco, diventerà effettivamente indispensabile, giacché, come diceva Schopenhauer, la libertà è l'accettazione della necessità.
Tutto dipende se il Governo interverrà, oppure no. Quando parliamo di Governo si deve parlare di Silvio Berlusconi, Presidente del Consiglio dei ministri.
Un primo aspetto, a tal riguardo, è quello dell'immagine politica. Credo che il Presidente del Consiglio dei ministri aspetterà almeno che cominci a suonare l'orchestra del Titanic, prima di mettere in mare le scialuppe di salvataggio. Il suo ruolo è quello del salvatore e, finora, non si è evidenziata una situazione di salvataggio.
Dal punto di vista della politica economica, chi parla è Giulio Tremonti, Ministro dell'economia e delle finanze. Da questo punto di vista, mi sembra che si sia adottato una specie di ragionamento secondo cui, sostanzialmente, la situazione sta diventando drammatica e si va avanti con chi ci sta. Il decisionismo del Governo non è mai stato così legittimato agli occhi dell'opinione pubblica come in questo momento.
Sarebbe opportuno che questo scenario venisse assorbito dal protocollo, ma è chiaro che in quest'ultimo dovrebbe essere esplicitato uno spirito di partecipazione al raggiungimento dell'obiettivo comune che - a mio avviso - il quadro politico sindacale non offre nella maniera più assoluta.
Venendo ai punti giuridici e all'articolo 39, occorre operare una distinzione fra il contratto nazionale e il contratto aziendale. Secondo la comune opinione, l'articolo 39 riguarda il contratto nazionale e non il contratto aziendale.
Per il contratto nazionale, non possiamo introdurre meccanismi di estensione dell'efficacia erga omnes, se non passando attraverso l'articolo 39, che di per sé rende impossibile qualsiasi modifica.
Sugli articoli 39 e 40, così come sono scritti, nella loro estrema leggerezza, è stato costruito tutto il diritto sindacale italiano. Girarci intorno rappresenta un'operazione micidiale. Si potrebbe riscrivere addirittura anche l'articolo 40 (che non dice niente); si potrebbe portare a livello costituzionale il problema della titolarità...

GIULIANO CAZZOLA. Bisognerebbe riscrivere tutti i rapporti economici...

FRANCO CARINCI, Professore ordinario di diritto del lavoro presso l'Università di Bologna. Certamente, sono d'accordo! Tenete presente che si è sempre detto che la prima parte della Costituzione non si tocca. Del resto, non si è riusciti a mettersi d'accordo nemmeno sulla seconda parte.
Bisogna stare molto attenti, perché in verità, quando si parla di articoli 39 e 40, si parla di due norme certamente obsolete, ma che - pur così amputate - sono state le basi su cui è costruito tutto il diritto del lavoro sindacale italiano. La tentazione di riscriverle, con una nuova regolamentazione, sarebbe terribile. Non è una cosa da poco!
Nel frattempo - a mio avviso - per ciò che riguarda il contratto nazionale, non si può fare niente, se non limitatamente al caso della contrattazione delegata. Infatti, dove il legislatore prevede per legge determinati poteri, è possibile chiedere la qualifica.
Per ciò che riguarda il contratto aziendale, invece, a mio parere possiamo tranquillamente operare come vogliamo, in quanto già oggi la giurisprudenza lo prevede.
Quindi, il problema vero non è che questa contrattazione aziendale non vincola tutti, ma che essa, portata avanti solo da alcuni, non vincola anche gli iscritti a un sindacato che non è d'accordo. Questo è il punto.
Se si fa un contratto collettivo unitario, esso vincola tutti. Se si stipula un contratto


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separato, no. Risolvere il problema significa, a mio avviso, prevedere un sistema di voto.
Personalmente non sono favorevole a contare le deleghe, poiché abbiamo una grande parte delle realtà italiane in cui il sindacato non c'è, nonostante l'articolo 19 dello Statuto.
Non mi piace l'idea del sindacato di entrare manu militari: quando il diritto mette a disposizione la possibilità di entrare, ebbene che entri. Non può essere paracadutato dall'alto, diversamente il comma 1 dell'articolo 39 verrebbe ad essere completamente disatteso.
Venendo alla questione delle clausole derogatorie, ritengo che esse vadano benissimo. Già oggi il contratto collettivo aziendale può derogare. Il problema è che, se non si mettono d'accordo, si ripete la stessa storia appena evocata. Ad esempio, la CISL difende il contratto nazionale e gli altri due sindacati fanno la deroga: a questo punto la situazione va in stallo (ho detto CISL per non dire CGIL, è stato un lapsus voluto, assolutamente volontario). Su questo piano, sono pienamente d'accordo con la necessità di una maggiore flessibilizzazione.
Tuttavia, se si introduce la deroga - questa è un'osservazione che volevo rimettere all'authority - non è possibile prevedere procedure terribili per cui si deve coinvolgere tutto il vertice nazionale; tutti devono essere d'accordo e quant'altro, solo per approvare una deroga in un'azienda di 80 dipendenti. Tutto ciò mi sembra, francamente, inaudito.
Chiudo col problema dell'ARAN e dell'authority. Ho avuto la fortuna di partecipare fin dall'inizio ai lavori sulla privatizzazione del pubblico impiego. L'ARAN non è assolutamente quella che pensavamo, non è un'authority neutra e indipendente. Forse non ne esiste alcuna in Italia, nessuna che lo sia o nessuna che sia creduta tale, e questo è un problema serio, di base.
Questo - se permettete, signori - è un problema politico: la politica, in molti casi, non permette la neutralità e l'indipendenza. Ciò vale per la Commissione di garanzia, vale per la stessa ARAN.
A giudizio degli esperti, è corretto valutare che questi organi non abbiano credibilità.
Il problema delle authority, nel nostro Paese, è anzitutto nella selezione delle persone chiamate a svolgere questo compito. Tutto qui. Non adottiamo processi selettivi tali da garantire la nomina di persone che siano - umanamente - al di sopra delle parti. Tuttavia, esistono alcune authority che funzionano seriamente. Probabilmente, essendo le authority più essenziali, il potere politico prende atto che sarebbe del tutto controproducente agire.
Tutto ciò premesso, il campo di intervento è molto grande. In questo senso, la Commissione di garanzia ha svolto un ottimo lavoro, quindi, a mio avviso, ci si potrebbe pensare. Ad esempio, in merito all'elaborazione dei dati, i sindacati o la Confindustria possono anche dichiararsi non interessati, però, intanto, i dati vengono messi di fronte all'opinione pubblica. Ci può essere un intervento sulla ricostruzione delle vicende, per esempio per quanto riguarda gli scioperi e l'informazione all'opinione pubblica, su quelli che ho chiamato i conflitti giurisdizionali, quando ci sono più sindacati in disaccordo. A tal proposito, la Commissione di garanzia è legittimata, in caso di disaccordo sulla legislazione delegata, ad emanare una direttiva che «faccia stato» fino a quando il disaccordo è superato e viene introdotto un regime transitorio.
Certo, non si tratta di un intervento da proporre immediatamente, ma se il Parlamento, il Governo, la maggioranza, o l'opposizione pensano di uscire da un atteggiamento di totale astensionismo (senza peraltro cadere in un interventismo che non verrebbe accettato), certo la costituzione di un'autorità che si faccia carico di tutta una serie di interventi «di sponda» a garanzia del funzionamento del sistema, sarebbe certamente un modo corretto di intervenire.
Non ci sarebbe un intervento hard, bensì un intervento soft, di accompagnamento.


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Naturalmente, una volta intrapresa questa strada bisognerebbe cominciare a pensarci, ma non credo che occorrerebbe molto tempo.

PAOLA OLIVELLI, Professore ordinario di diritto del lavoro presso l'Università di Macerata. Signor presidente, non mi dilungo più di tanto sulla questione dell'inflazione: mi pare che i miei colleghi abbiano approfondito il tema e, inoltre, non sono un'economista.
Mi sembra importante la questione dell'articolo 39. Nello scritto che avevo preparato affermo che, a mio giudizio, sarebbe ora di abrogarlo. Lo dico con estrema chiarezza. Non mi riferisco certamente all'intero articolo 39, bensì al secondo, terzo e quarto comma. È stata un'invenzione - lo dico ai miei studenti quando inizio le lezioni - intelligente dei costituenti che hanno voluto unire quella che era l'aspirazione delle nostre grandi confederazioni, cioè l'efficacia generale del contratto collettivo, con il pluralismo. Da una parte hanno affermato il pluralismo e dall'altra però hanno garantito l'efficacia soggettiva, cioè l'efficacia erga omnes. Il sindacato di impostazione marxista, che è sempre stato importante, teneva molto a questo punto.

GIULIANO CAZZOLA. Il legislatore aveva gli occhi rivolti indietro, alla situazione che ereditava.

PAOLA OLIVELLI, Professore ordinario di diritto del lavoro presso l'Università di Macerata. Certamente riaffermava il pluralismo. La storia è evidente: le confederazioni sindacali ne hanno chiesto l'attuazione fino agli anni '60. Sono state presentate alcune proposte di legge di attuazione di questa parte dell'articolo 39, con l'opposizione da parte di un'altra confederazione, ma ormai la storia ci dice che siamo andati avanti con un altro sistema, in un altro modo.
Non posso fare a meno di dire che la Costituzione italiana, nella prima parte, è una delle migliori che ci siano nel panorama attuale per quanto riguarda i diritti sociali e i diritti della persona. Però, la Costituzione non è un dogma. A mio parere, alcuni dettagli, come questa benedetta seconda parte dell'articolo 39, non è detto che non possano essere toccati.
Ha ragione il mio collega quando afferma che così facendo si butta all'aria tutto il diritto sindacale, però anche il diritto si può cambiare. Ci si aspetta da noi che ci muoviamo anche sui cambiamenti.

FRANCO CARINCI, Professore ordinario di diritto del lavoro presso l'Università di Bologna. Il problema è capire quale elemento si possa introdurre....

PAOLA OLIVELLI, Professore ordinario di diritto del lavoro presso l'Università di Macerata. Non si può fare il legislatore in cinque minuti! Tuttavia, purché si garantisca la prima parte, ossia la libertà delle organizzazioni sindacali, credo che bisognerebbe pensarci su. È vero ciò che è stato detto sul contratto aziendale, ma la Corte costituzionale, quando vuole, interviene e sentenzia che non si può modificare.

FRANCO CARINCI, Professore ordinario di diritto del lavoro presso l'Università di Bologna. Sull'aziendale no!

PAOLA OLIVELLI, Professore ordinario di diritto del lavoro presso l'Università di Macerata. Sull'aziendale si è pronunciata in senso positivo, così come sul pubblico impiego. Però è probabile che se qualcuno comincia a proporre qualche modifica sulla questione del pubblico impiego e trova una Corte costituzionale che in quel momento ha di fronte l'articolo 39, si senta rispondere che neanche nel pubblico impiego va bene. Sussiste questa spada di Damocle su ogni possibile intervento legislativo in materia.
Pertanto preferisco dire sinceramente: liberiamoci di questo articolo.
La seconda questione riguarda le clausole derogatorie: concordo sul fatto che già esistano e si possano fare. Tutto il dibattito che si sta svolgendo intorno al professor


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Ichino è, addirittura, sulla derogabilità rispetto ai contratti individuali. Figuriamoci, quindi, se non può parlarsi di derogabilità per il contratto di secondo livello. Del resto, pur mantenendo l'importanza del contratto nazionale, ritengo che si dovrebbe spostare il baricentro sulla parte territoriale, anche perché rimane il problema, già ricordato in precedenza, delle regioni. Non possiamo pensare che la contrattazione sia solo nazionale o aziendale. Abbiamo un problema di interventi regionali...

FRANCO CARINCI, Professore ordinario di diritto del lavoro presso l'Università di Bologna. Sulla formazione.

PAOLA OLIVELLI, Professore ordinario di diritto del lavoro presso l'Università di Macerata. Certo, su materie di quel tipo. Parliamo sempre dell'industria, di Confindustria, del protocollo del 1993, ma esistono anche il commercio, l'artigianato nonché altri settori importanti del sistema. Non c'è solo l'industria. Voi parlate di relazioni industriali, ma questo è un vecchio termine, che si basa su quello che ieri era il settore portante, ma che nel futuro, forse, non lo sarà più. Parto dalla realtà e vedo gli enormi cambiamenti in corso.
Mi interessava la domanda dell'onorevole Damiano in merito al ruolo del Governo. Non voglio entrare nel merito se l'attuale Governo sia defilato o meno. È una questione politica su cui, in questo momento, non mi sento di intervenire. Tuttavia, sono d'accordo sul fatto che il Governo debba avere un ruolo, come ha già specificato il dottor Carinci, se parliamo di politica dei redditi e di inflazione. Non esprimo giudizi, parlo di Governo in generale.
Per quanto riguarda la sussidiarietà, il problema è che abbiamo una società che va avanti, ma anche un Governo e uno Stato che in qualche modo possono intervenire, aiutare e sostenere.
Con la crisi dei mercati finanziari abbiamo addirittura visto il Governo federale americano intervenire sull'economia. Mi sembra che il mondo si stia ribaltando, su certi argomenti.

PRESIDENTE. È stata una giornata intensa, ma molto proficua per noi.
Ringrazio i professori Franco Carinci, Paola Olivelli e Mimmo Carrieri.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 16,10.

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