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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione XI
23.
Martedì 24 febbraio 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Saglia Stefano, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULL'ASSETTO DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI E SULLE PROSPETTIVE DI RIFORMA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

Audizione di rappresentanti della CGIL:

Saglia Stefano, Presidente ... 3 9 13 16
Berretta Giuseppe (PD) ... 12
Cazzola Giuliano (PdL) ... 10
Damiano Cesare (PD) ... 11
Epifani Guglielmo, Segretario generale della CGIL ... 3 13
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-Repubblicani: Misto-LD-R.

COMMISSIONE XI
LAVORO PUBBLICO E PRIVATO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 24 febbraio 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE STEFANO SAGLIA

La seduta comincia alle 10,30.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti della CGIL.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'assetto delle relazioni industriali e sulle prospettive di riforma della contrattazione collettiva, l'audizione di rappresentanti della CGIL.
Desidero innanzitutto ringraziare il segretario Epifani e i suoi collaboratori per aver accolto il nostro invito. Abbiamo avviato la nostra indagine conoscitiva a inizio legislatura, l'abbiamo poi aggiornata all'indomani dell'accordo di Palazzo Chigi, per capire gli effetti di quest'ultimo, comprendere quali possano essere le attività che il Parlamento può svolgere - nel rispetto dell'autonomia delle parti sociali - nonché, più in generale, cogliere il dibattito sui temi della crisi, che si sta svolgendo in queste settimane.
Do la parola al segretario generale della CGIL, Guglielmo Epifani.

GUGLIELMO EPIFANI, Segretario generale della CGIL. Vorrei innanzitutto ringraziare il presidente e tutti i parlamentari che fanno parte della Commissione lavoro della Camera. Ho giudicato, anche alla luce di quello che ho letto e del materiale che mi è stato trasmesso, molto interessante il lavoro da voi svolto, che ha accompagnato la discussione che ha portato all'accordo quadro del 22 gennaio, quello che non abbiamo sottoscritto.
So bene che parlo a persone che conoscono i termini esatti della questione, avendola studiata. Oltretutto, una parte di esse proviene dai sindacati e, quindi, hanno anche un rapporto diretto con la materia. Pertanto, voglio provare ad argomentare - dal mio punto di vista - le ragioni per cui la CGIL non ha sottoscritto l'accordo e quali siano state le valutazioni che l'hanno spinta a questa scelta, pregando di considerare che i motivi sono esclusivamente e rigorosamente sindacali.
Personalmente avrei ritenuto di gran lunga preferibile, anche per la CGIL, trovarmi in condizione di sottoscrivere l'accordo. Tengo a sottolineare questo elemento, poiché, naturalmente, si possono sempre offrire letture politiche della scelta della CGIL. Vi assicuro che, invece, in questo caso la lettura è rigorosamente sindacale. A riprova di questa mia valutazione, chiarirò nella mia esposizione anche i tentativi estremi di mediazione che abbiamo fatto per cercare di arrivare a un accordo unitario.
Per quanto riguarda le caratteristiche del modello che si sta definendo (uso questa forma verbale perché è stato firmato un accordo quadro e sono in via di definizione gli accordi relativi di settore che nei prossimi giorni dovranno integrarlo), occorre tener presente che l'accordo


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quadro è un accordo di linee leggere, a cui poi corrisponderanno accordi specifici (soprattutto in alcuni settori, non credo in tutti). Lo stesso accordo sulle linee guida stipulato con Confindustria - da noi non sottoscritto - o quello realizzato con Confcommercio, dovranno entrambi diventare, per scelta delle controparti, accordi sindacali in senso stretto. Quindi, non si può esprimere il giudizio unicamente sull'accordo quadro, senza legarlo al giudizio sugli accordi di settore.
Vi porto come solo esempio la benedetta questione del valore della base di calcolo per gli aumenti retributivi: se ci si limita all'accordo quadro, non si capisce perché la CGIL affermi che quell'accordo in realtà comporta un abbassamento del valore di questa base di calcolo; lo si capisce, invece, se si tiene presente quanto è (e sarà) scritto nelle linee guida firmate con Confindustria.
In questa modalità si corre, ovviamente, qualche rischio, il più forte dei quali mi pare quello che si tenda a unire con le linee guida, per poi separare in una parte degli accordi quadro. Già nelle linee guida il rapporto tra pubblico e privato non è, secondo me, definito con un'omogeneità accettabile. Mentre è chiaro, infatti, quanto si prevede nel settore privato, per il settore pubblico si è visibilmente scritto qualcosa solo per suggerire l'idea che esistesse un accordo generale. Ma quando, nel settore pubblico, si scrive che «si può fare questo se...» , «si può fare in tal modo, ma...», «si può fare così, forse, se ci sono i soldi...» e il recupero avviene addirittura nel triennio successivo a quello in cui si sono persi i soldi, allora si capisce che si è cercato di comporre un accordo quadro perché era giusto e perché noi chiedevamo che fosse stipulato un accordo valido per tutti ma, in realtà, già nel rapporto tra settore pubblico e settore privato, il contenuto non contempla una scelta chiara ed omogenea.
La stessa cosa avviene all'interno del settore privato. Ad esempio - lo dirò meglio più avanti - se prendiamo l'accordo quadro firmato con Confindustria, non c'è dubbio che, per quanto riguarda il secondo livello, non sussiste alcuna estensione. Lo ripeto: nessuna estensione. In effetti, il testo definito è esattamente quello dell'accordo del 23 luglio 1993, secondo la prassi in atto. Abbiamo cercato disperatamente di cambiarlo, proponendo a Confindustria di sperimentare almeno l'allargamento della contrattazione a livello di sito, di filiera, di territorio. La risposta è stata, pertinacemente, negativa. Ci è stato risposto che il secondo livello di contrattazione si fa sulla base della prassi in atto, esattamente come era scritto nell'accordo del 1993. Perché mi arrabbio? Perché all'esterno è stato spiegato un accordo che non esiste! Magari ci fosse, l'allargamento del secondo livello! Si rileva, invece, esattamente la riproposizione dell'accordo del 1993, per scelta di Confindustria.
Ciò può creare un problema perché, invece, nel commercio il secondo livello si allarga, esistendo inoltre in quel settore prassi diverse. A Roma è stato stipulato un accordo territoriale del commercio, in cui sono stati fissati minimi e aumenti retributivi e normativi. Nel commercio funziona. Ma allora, anche da questo punto di vista, si comprende che le soluzioni settoriali trovate (intendo settoriali, non di categoria), nei grandi comparti, possono poi definire modelli fortemente differenziati.
Passando dalla cornice al merito, si è detto - ho letto anche le vostre discussioni - che l'accordo del 23 luglio non consentiva di recuperare pienamente l'inflazione e che, contemporaneamente, ha determinato uno schiacciamento verso il basso della produttività. Vero. Peccato che, secondo quanto risulta da resoconti stenografici delle audizioni, pochi hanno ricordato che ciò è iniziato a verificarsi soprattutto da quando l'inflazione programmata è stata decisa senza un minimo di raccordo con le organizzazioni sindacali. Non lo dico per polemica politica (che oggi voglio evitare ad ogni costo), ma se si esamina la storia delle inflazioni programmate degli ultimi quindici anni, si può notare che, stranamente, quando c'erano i governi di centro-destra, l'inflazione programmata


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era quasi la metà dell'inflazione reale - può essere avvenuto per scelta o per sfortuna; non sto dicendo che fosse una loro responsabilità, tuttavia basta consultare le statistiche per accertarsene - quando il centro-sinistra era al governo, mediamente l'inflazione programmata era vicinissima all'inflazione reale.
Lo ripeto: non faccio certe affermazioni per amor di polemica. Prendete i dati e vi renderete conto che così stanno le cose!
Quando l'inflazione programmata è la metà di quella reale, è chiaro che in quel periodo di due o tre anni si perde potere d'acquisto. Infatti, anche se si recupera alla fine quel periodo, la capienza si è abbassata. Ciò è realmente avvenuto e abbiamo rovesciato il meccanismo negli ultimi quattro anni, quando abbiamo deciso di non considerare più l'inflazione programmata, bensì quella realistica. Vedrete che l'accordo del 23 luglio, gestito con questa modalità, ha generato negli ultimi quattro anni, per la prima volta, una crescita della retribuzione nei settori privati.
Partendo da questo assunto, ci si domanda che cosa non vada nel meccanismo proposto dalle linee guida, che poi dovranno essere tradotte in accordi specifici. Non vanno due cose: in primo luogo il riferimento a questo indicatore IPCA, depurato dall'inflazione dei prodotti energetici; in secondo luogo che sia previsto contestualmente un abbassamento della base di calcolo di quasi tutti i contratti nazionali di categoria.
Siamo contrari a utilizzare un IPCA depurato dall'inflazione energetica importata non tanto perché non cogliamo il problema esistente, quanto piuttosto perché non possiamo ragionare come nel 1993. In quel periodo la situazione era molto più chiara e flessibile, giacché anche nel 1993 si parlava di tener conto dell'inflazione importata e delle ragioni di scambio, ma allora avevamo la lira e si rendeva necessario un ragionamento sui rapporti di cambio, in quanto il deprezzamento della lira importava inflazione. Oggi, con l'euro, non rientriamo più in quella definizione.
Soprattutto, esiste un punto in ordine al quale nessuno mi potrà convincere del contrario (questo è stato altro argomento di polemica con Confindustria): se si deve ragionare sull'inflazione importata dei prodotti energetici, posso capire quando Confindustria sostiene che non si possa pagare due volte l'aumento dei prezzi delle materie energetiche importate. Mi domando, però, perché lo debbano pagare due volte i lavoratori: una prima volta alla pompa di benzina e una seconda nel salario.
Ebbene, rispetto a questo ragionamento di assoluto buon senso, che reclamerebbe un'idea di politica dei redditi, la soluzione esisteva e l'abbiamo prospettata: un terzo lo pagano le imprese, un terzo lo paga il lavoro, un terzo lo paga lo Stato. Così si può far fronte a un problema se effettivamente si pone! Soprattutto, questo problema va essere affrontato se mai - proposta estrema avanzata - non in chiave di verifica ex post, ma in chiave di inflazione d'anticipo. Ho proposto a Confindustria di calcolare l'indice depurato in partenza, in modo che non avesse un effetto inflazionistico pieno all'inizio e che, una volta che si dovesse effettuare il recupero ex post, lo si calcolasse sull'inflazione reale. Mi è stato risposto che anche questo non si poteva fare.
Tenete presente, fra le altre demenzialità - scusate il termine - che un IPCA depurato dall'inflazione energetica rivela qualche riflesso curioso, per cui (come sapevamo e avevamo spiegato a Confindustria) nel 2009 avviene che l'IPCA depurato risulta maggiore dello 0,6 per cento, rispetto ai prezzi al consumo! Una vera assurdità! Ovviamente, infatti, se avviene un abbassamento drastico dei prezzi dei prodotti petroliferi, laddove non applico la depurazione ne risento, dove applico la depurazione, invece, non ne risento affatto. Così, nel pieno della crisi industriale più devastante della storia d'Italia e del mondo, se applicassimo oggi l'IPCA, avremmo l'1,6-1,7 per cento. Che capolavoro! Poi, quando riprenderà l'economia e l'inflazione, la gente ci perderà. Le aziende si trovano a dover dare di più quando


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stanno peggio e di meno quando stanno meglio! Non ci vuole uno scienziato per concludere che si tratta di una sciocchezza colossale. Vi prego di credermi quando dico che non scopriamo tutto ciò oggi e che abbiamo spiegato per tempo a Confindustria che, quando si superano i fattori reali (soprattutto nelle verifiche finali), si possono determinare questi effetti del tutto paradossali, che domani si possono ripetere - questo è il punto - nei momenti in cui si rilevano forti oscillazioni verso l'alto o verso il basso dei prezzi importati.
Insomma, in una logica di sistema - lascio perdere adesso il 2009, che pure rappresenta, a mio avviso, un nonsenso - è il modello a non funzionare.
Per quanto riguarda la base di calcolo, il significato dell'accordo, tanto per tradurlo in termini precisi, è che per i meccanici (la più grande categoria dell'industria), per i quali il valore di punto condiviso è pari a circa 19 euro, si abbassa di 1,5 euro il valore di calcolo di partenza. Vuol dire il 15 per cento in meno. Una percentuale del 5 per cento, per quel contratto, non significa il 5 per cento rispetto ad oggi, bensì il 5 per cento meno un ulteriore 15 per cento. La stessa cosa avviene nel commercio, nel pubblico, per gli edili, per i chimici.
Il combinato disposto tra l'IPCA strutturale e questa base di calcolo implica che, strutturalmente, il contratto nazionale non avrà mai la possibilità di recuperare il potere d'acquisto.
Non sto parlando di guadagnare quote di produttività col contratto nazionale. Sto affermando, più modestamente, che non si avrà mai, strutturalmente, una tale possibilità.
Abbiamo spiegato a Confindustria, infatti, che il valore punto e le basi di calcolo delle percentuali sono segnate dalla storia della contrattazione collettiva in Italia. Nessuno ci ha mai messo mano, neanche con l'accordo del 1993, perché si tratta di materie che si discutono nei tavoli nazionali di categoria. C'è chi ha sistemato in un modo il valore del punto, chi in un altro, chi con una convenzione, chi con un accordo: fa parte delle storie antiche. Mi domando perché lo si debba fissare centralmente, perché non lo si lasci come strumento di flessibilità, in ragione delle dinamiche diverse dei settori, in una fase come quella attuale.
Oggi abbiamo parlato della crisi, ma anche la crisi di oggi non è uguale per tutti i settori. Mentre - come dicevo prima, signor presidente - la crisi di oggi si connota come la prima vera crisi di tutto il comparto metalmeccanico (che colpisce, cioè, il cuore produttivo e industriale del Paese), allo stesso tempo non si tratta di una crisi che parla a tutti i settori nello stesso modo: oggi gli alimentari non soffrono la crisi dei meccanici. Ebbene, se ho bisogno di uno strumento di flessibilità, verso l'alto e verso il basso, me lo tengo stretto. Il sistema proposto da Confindustria è rigido e centralizzato, mentre noi avevamo chiesto a Confindustria di concedere ai tavoli negoziali un po' di margine, così come li concedeva l'accordo del 23 luglio.
Se esistono margini, si può anche alzare un po' il livello; se non ci sono, si può abbassarlo un poco. Magari, quell'indice IPCA nel 2009 è pesante per alcuni settori e se lo si rende quasi come se fosse una piccola scala mobile, con le caratteristiche che dicevo, si irrigidisce tutto il sistema negoziale, che finisce per bloccarsi. E questa è la prima considerazione di fondo che ci ha fatto dire di no.
Il secondo punto riguarda la mancata estensione della contrattazione di secondo livello. Vi prego di credermi: magari ci fosse un'estensione della contrattazione di secondo livello! Non c'è, perché Confindustria non la vuole: l'ha dichiarato in tutti i modi.
Non la vuole perché, se posso essere onesto, una parte di Confindustria non desidera un secondo livello forte, mentre un'altra parte vuole il contratto nazionale forte. In questa divisione, avviene una mediazione al ribasso.
Ma se la produttività - sono d'accordo su questo - si gioca al secondo livello e se questo livello non lo si estende, è inutile piangersi addosso perché la produttività non cresce!


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Da questo punto di vista, un fattore che poteva essere d'innovazione rispetto al 23 luglio resta esattamente com'era. Avevamo proposto - lo dicevo prima - anche opzioni minime: ad esempio, la sperimentazione governata fra le parti. Mi chiedo come sia possibile decidere di istituire il fisco di distretto e il fisco di filiera, per poi concludere che non si può fare la contrattazione di sito o di filiera.
Oggi le piccole e medie imprese possono fare una dichiarazione fiscale congiunta, quando sono tra loro collegate, per cui non vedo perché non si possa fare una contrattazione congiunta, soprattutto nei nostri distretti. Poteva essere questo un piccolo passo in avanti, visto che se ne è parlato tanto, e invece, niente: nessuna sperimentazione; niente al sito, niente al distretto, meno che niente a livello territoriale. Questa è la situazione che, onestamente, si determina.
Il terzo problema è rappresentato dalla bilateralità. Anche su questo punto voglio essere chiaro, perché questo è per noi un problema un po' delicato. Assisto con grande curiosità a tutti questi slanci di bilateralità esagerata, dai quali cerco di mettere in guardia sia il sistema delle imprese, sia il Paese. La bilateralità è sicuramente uno strumento importante, ma non può diventare il fine. Questo è un aspetto delicatissimo, su cui poi ritornerò quando esprimerò un giudizio finale.
Se la bilateralità diventa il fine, l'azione del sindacato non si esprimerà attraverso la contrattazione, bensì attraverso la gestione di servizi. Se si smarrisce il rapporto tra la contrattazione e la bilateralità, il rischio di scambiare lo strumento con il fine diventa più forte. La bilateralità, pertanto, va gestita con un po' di attenzione e nella trasparenza. Abbiamo scoperto che nel settore del commercio abbiamo ben duecento enti bilaterali, tra nazionali e territoriali. Scommetto che nessuno ve l'ha detto. Vi chiedo se vi sembri logico che esistano altrettanti elementi della bilateralità per il turismo di Confindustria, per il turismo di Confcommercio e per il turismo di Confesercenti. Vi domando se abbia qualche senso avere tre enti, tre presidenti, tre vicepresidenti, tre consigli di amministrazione per gestire le stesse cose, differenti solo in quanto ciascun attore, se stipula un contratto, vuole il proprio ente bilaterale. Non so se ci rendiamo conto di cosa stiamo creando. Parlo del commercio, perché è il settore dove la bilateralità è partita prima, dove esiste la dispersione delle imprese, dove la bilateralità ha un senso. Vi domando se dobbiamo davvero assecondare questa tendenza.
Vi informo che, quando poniamo il problema di collegare e concentrare, ci si risponde negativamente.
Bisogna stare attenti: esiste un problema, ripeto, di governance e di trasparenza. Vi domando se vi sembri logico, chiudendo su questo tema, che, se io e la controparte istituiamo un ente bilaterale, poi si decida, fra noi due, anche chi lo controlla. Dovremmo poter immaginare una governance in cui le parti istituiscono l'ente bilaterale e poi c'è un terzo che controlla. Diversamente, rimane opaco l'uso della bilateralità: dove vanno a finire i fondi che non vengono spesi, in che direzione, che cosa finanziano e quant'altro.
Abbiamo aperto una difficile discussione in CGIL, su questo tema. Noi diciamo che gli enti bilaterali non devono finanziare né i sindacati né le associazioni di imprese. Diversamente, si crea - allora sì - una nuova casta burocratica sulla quale, fra dieci anni, qualcuno scriverà un libro. Non vogliamo arrivare a quel punto, chiaramente, e se avanza una lira tra gli enti bilaterali, ebbene questa ritornerà ai lavoratori o alle imprese. Voglio essere estremamente chiaro: semmai una lira avanzasse, non va ai sindacati e non va alle associazioni di impresa. Diversamente, si creerebbe un meccanismo perverso, in cui si fa bilateralità per finanziare se stessi. La bilateralità non è questo, bensì un servizio ai lavoratori e alle imprese. Così deve essere, altrimenti abbiamo un'inversione tra fini e strumenti, che diventerebbe pericolosissima.
Bisogna stare attenti sulla bilateralità perché, mentre ci sono funzioni che solo la


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bilateralità può svolgere, altre funzioni non sono di pertinenza di quest'ultima, in quanto implicano conflitti d'interesse giganteschi. Occorre chiedersi, se si fa bilateralità gestendo congiuntamente il collocamento, o il brokeraggio assicurativo, che cosa si finisce per diventare, di quale libertà può godere l'impresa quando sia il sindacato a fornirle manodopera, assicurazione e quant'altro. Ho detto alla presidente Marcegaglia che sussiste un problema di libertà dell'impresa. Facciamo attenzione, perché se si crea uno strumento così pesante, la libertà dell'impresa si riduce a tal punto da impedire ogni scelta. Non sto esagerando.
In ragione di tutto ciò, dico di fare attenzione alla bilateralità, a corporativizzare in maniera eccessiva alcune funzioni.
Venendo agli ammortizzatori, ci siamo opposti all'impostazione del Ministro Sacconi. Infatti, anche nell'artigianato non si può dire che si dà la cassa integrazione in deroga, se l'ente bilaterale mette i soldi e mi fa accendere il diritto. No: il diritto esiste già e l'ente bilaterale aiuta l'impresa a pagare. Sono due meccanismi diversi: l'uno rende arbitro del diritto l'ente bilaterale; l'altro rende arbitri del diritto il lavoratore e l'impresa. Si tratta di due concetti diversi. A mio avviso, nel primo caso rileva anche un profilo di incostituzionalità.
L'abbiamo già detto al Ministro Sacconi: se lui non rivede questa parte della legge, la CGIL solleverà un'eccezione di incostituzionalità su questo punto, in quanto, a mio avviso, si arriva a fondare un diritto sulla corporativizzazione del rapporto e ciò non può essere.
Ebbene, lì è scritto che si può allargare, ma negli accordi sottostanti troveremo - man mano lo vedremo - le funzioni degli allargamenti. Siamo contrari a questa impostazione.
Per quanto riguarda il problema della derogabilità - altra questione per noi estremamente delicata - è evidente che parlarne in astratto è complicato. Dunque, vorrei affrontarla nel concreto. Oggi, quando una azienda è in crisi, le parti fanno tutto il possibile per salvare l'azienda e l'occupazione. Si è sempre fatto così. Se si doveva trovare un meccanismo per far costare meno il salario, o per far lavorare di più, lo si trovava. Ma se istituiamo un principio di derogabilità, soprattutto in alcuni settori, avviene che se si deroga su un punto, poi è necessario derogare anche su un secondo punto e poi su un terzo. Dopo tre o quattro deroghe, alla fine non c'è più un contratto nazionale.
Prendiamo un settore di servizi: il trasporto pubblico locale, dove non c'è praticamente un'azienda sana, poiché sono quasi tutte in crisi. Se tutti mi chiedessero di derogare qualcosa, del contratto nazionale non resterebbe più niente. Non sto parlando dei settori strutturati: il settore dei chimici, per come è fatto, non crea nessun problema anche se prevede l'unanimità e le modalità, essendo un settore strutturato e presidiato. La nostra preoccupazione e il nostro timore sono indirizzati al significato della derogabilità nella miriade dei piccoli e piccolissimi settori.
Infine, la rappresentatività - che pure è positiva - legata al diritto di sciopero ci crea qualche piccolo problema. Si tratta di un tema di discussione col Ministro.
Francamente, non riesco a capire perché il tema della rappresentatività non vada affrontato in quanto tale, senza timore che tramite esso si possa aprire un ragionamento sul diritto di sciopero: non è così. Il problema della rappresentatività ha una sua fondatezza e autonomia: va trovata una soluzione. Va bene l'accordo tra le parti; va bene un mix tra certificazione degli iscritti e voto. Anzi, il voto ci vuole: non basta solo la certificazione degli iscritti.
Non si capisce perché tutto ciò debba avere un rapporto con il diritto di proclamazione dello sciopero.
Fra l'altro - apro e chiudo una parentesi - immaginare una situazione in cui (questa è l'idea) col 51 per cento un sindacato (o coalizione di sindacati) possa proclamare lo sciopero, mentre col 49 per cento non lo si possa fare, farà sì che qualcuno non sciopererà mai. Non sto parlando di chi ha il 3 per cento, sto


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parlando del rapporto tra 51 e 49 per cento. Se questa è la logica che governa il diritto di proclamare uno sciopero nei settori sensibili, allora occorre fare molta attenzione: quando la gente non può scioperare ordinatamente, trova altre modalità per interrompere, creare intralci e problemi al servizio. Da questo punto di vista, sappiamo bene che esiste una fantasia italica straordinaria.
In ragione di tutte queste obiezioni, non abbiamo firmato. Come vi ho detto, abbiamo tentato fino all'ultimo di farlo.
Mi sono reso disponibile a dire che sarebbe stato più opportuno mettere da una parte la questione dello sciopero, che non c'entra col modello contrattuale. Sono d'accordo che sia materia che, se vuole, il Parlamento può prendere in mano, sentendo le parti. Non posso, invece, decidere io con la mia controparte chi abbia o meno il diritto di scioperare: non si è mai vista una cosa simile. Ho il diritto di poter decidere come scioperare, ma non ho il diritto di dire che io posso scioperare e un altro no, perché è più piccolo di me. Questo diritto non lo voglio: è un diritto corporativo, non mi piace. Se si parla di un diritto di libertà, allora decida il Parlamento, sentendo le parti sociali. L'esercizio, la modalità, invece, mi compete. Decido di non scioperare durante le festività, per rispettare gli utenti che viaggiano: lo posso e lo debbo fare, quindi lo faccio. Non posso, invece, dire che, da sindacato più grande, posso decidere di scioperare mentre chi è più piccolo di me non può farlo. Onestamente, credo che si tratti di uno straordinario errore politico, civile, culturale e morale.
Ho proposto di eliminare la derogabilità, di considerare l'inflazione importata soltanto in fase di partenza, annunciando la firma della CGIL a fronte della risoluzione di questi punti. Ci è stato risposto negativamente e, in ragione di questo, non abbiamo firmato.
Naturalmente ciò implica che non firmeremo neppure gli accordi sottostanti e si aprirà una situazione un po' complicata, poiché ciò implicherà, settore per settore, a seconda dei rapporti di forza, una piccola giungla.
Quando è stato detto che questo accordo darà certezza al Paese e alle aziende, si è detta una sciocchezza. Avrebbe dato certezza alle aziende se ci fosse stata la firma di tutti: se così non è, non ci sarà certezza. Infatti, ha problemi la CGIL - non ho motivi per nascondervelo - ma hanno problemi anche la CISL, la UIL e Confindustria, perché hanno tutti lo stesso problema di decidere come andare avanti, adesso. Naturalmente, elaboreremo piattaforme ispirate a ciò che noi pensiamo e, su quelle, andremo a chiedere il voto dei lavoratori. Dove ci sono stati accordi separati, siamo andati da soli al referendum. Potrà non incidere, perché non è effettivo, ma se nella scuola abbiamo portato quasi 400 mila insegnanti e personale amministrativo al voto in questi giorni e se il 95 per cento ha espresso un diniego nei confronti di quell'accordo, ciò significherà pur qualcosa e avrà pure un qualche peso e un qualche senso.
Se si vuole andare avanti così, lo si faccia. Ma si sappia che questa non è la nostra strada e che non si doveva seguirla. Credo sia stato un gravissimo errore farlo.
Avevo detto - anche su questo punto insisto - di prenderci del tempo, perché c'è la crisi che incombe e, dunque, è da matti dividerci, tra sindacati e imprese, in questo momento. Avevo detto di rimandare di un anno la situazione, anche perché non avevamo contratti in scadenza (i più grandi contratti scadono fra un anno e mezzo) e di affrontare questa fase. Non si è voluto fare, penso per ragioni politiche (questa è una mia valutazione, l'unica che faccio). Sussiste una responsabilità del Governo e del Ministro, senza i quali non avremmo avuto questo esito: di questo sono convinto!
Vi prego di scusarmi per la franchezza, ma è esattamente quello che penso, e credo di aver ragione a pensarla in questo modo.

PRESIDENTE. Ringrazio il segretario Epifani per la passione che ha messo in


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questo intervento. Le sue ragioni possono non convincere, ma sono certamente sentite.
Vorrei esprimere alcune brevissime considerazioni, perché il tempo è tiranno. Poi prego tutti di contenere i tempi dei propri interventi.
Mi trovo molto d'accordo con lei sul tema della contrattazione di distretto al quale ho creduto sin dall'inizio, quando nel 2006 facemmo quasi in maniera bipartisan una norma relativa alla legificazione del distretto, conferendo a quest'ultimo alcune peculiarità, tra cui anche il concordato fiscale. Da questo punto di vista, una responsabilità sulla contrattazione di distretto (o di filiera, che dir si voglia) in particolare, vista l'organizzazione delle nostre piccole e medie imprese, sarebbe oltremodo importante. Non capisco come mai la parte datoriale non la approvi. Lo posso immaginare, ma non ne condivido le ragioni.
Vorrei adesso porle alcuni brevi quesiti. Quest'anno l'inflazione programmata è stata indicata nel DPEF all'1,7 per cento. Abbiamo letto sul principale quotidiano economico del Paese che i salari erano aumentati del 3,8 per cento. Le chiedo se si tratti di un'informazione falsa, secondo lei, oppure se si rilevi uno sganciamento fra queste due realtà che, forse, fanno enfatizzare un po' di meno il tema relativo alla fissazione dell'inflazione.
Sulle rappresentanze, sono d'accordo che è esteticamente sconveniente far viaggiare in parallelo le questioni relative alle regole sugli scioperi nei servizi essenziali e alla rappresentatività. Però, io, che sono un apprendista di questa Commissione, ho letto che in tutte le legislature si è tentato di predisporre una norma su questo tema, ma poi difficilmente si è riusciti ad arrivare in fondo. Offriamo la nostra disponibilità di fronte ad un accordo fra le parti sociali, ma le domando se a suo parere sia un accordo vicino oppure lontano, praticabile o meno.
Un ultimo quesito è relativo ai contratti di solidarietà. Cominciamo a vederli applicati non più solo nel tessile, ma anche in altri settori. Ciò vuol dire che, comunque, esiste una legge che li consente. Ebbene, le chiedo se tale legge sia migliorabile, oppure se essa funzioni ma si renda necessario modificarla.
Do ora la parola ai colleghi deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

GIULIANO CAZZOLA. Il tempo è poco e il protagonista di questa nostra audizione è il segretario Epifani. Quindi, non credo sia opportuno sviluppare un dibattito. Piuttosto, lo sforzo che dobbiamo compiere è quello di capire il meglio possibile le posizioni della CGIL.
Vi confesso che ho trovato molta ragionevolezza nelle posizioni che sono state esposte e molte valutazioni su cui riflettere. Ovviamente, mi rendo conto che forse è difficile avere una risposta che possa essere ritenuta ferma e valida per noi tutti. Ma i dissensi che sono emersi con le altre organizzazioni sindacali, in fondo, non si registrano da pochi anni; in qualche modo appartengono anche alla cultura e, se si vuole, ai difetti che le organizzazioni sindacali si portano appresso. Potremmo qui ricordare, per esempio (Epifani se la ricorda sicuramente benissimo) la discussione all'origine sui fondi pensione. Potremmo ricordare come, in fondo, ci sia sempre stato un maggiore o minor rigore, ad esempio, su certe forme di partecipazione o anche di organizzazione dei servizi (personalmente, credo sia giusto tenere alta una linea di rigore). Però, in fondo, la mia domanda riflette anche un po' la convinzione che mi sono fatto: le chiedo se queste vicende, questi contrasti fra organizzazioni sindacali, questi dissensi con le controparti naturali non si sarebbero potuti gestire meglio all'interno di un accordo, di un rapporto unitario. Un accordo è comunque un processo in divenire e poteva dare spazio ad una serie di puntualizzazioni, di messa a fuoco di questioni che, nell'accordo quadro, erano rimaste irrisolte.
Non vedo perché concepire questo accordo quadro come una specie di giudizio di Dio, in una logica in cui fare compromessi fa parte della vita quotidiana dei


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sindacati. Ovviamente, questo non è un discorso che si può fare solo alla CGIL, ma anche alle altre organizzazioni sindacali e al Governo. Tuttavia, credo che sia giusto rivolgerlo anche alla CGIL. Mi domando perché ritenere che il 22 gennaio arrivi un momento in cui ci deve dire un «gran sì» oppure un «gran no», quando la vita è fatta anche di posizioni più sfumate. In realtà, si aprivano una serie di occasioni, di opportunità per far valere, negli accordi di settore e nella contrattazione a scalare, anche posizioni che potevano non aver trovato una soluzione, aver fatto intravedere anche alcuni rischi insiti nell'accordo quadro. Mi domando perché, a un certo punto, emerga questo grande bisogno di chiarezza, di affermare diritti nuovi che non si sono mai sperimentati: mi riferisco, ovviamente, alla questione dell'estensione della contrattazione articolata o a questi sospetti nei confronti delle clausole in deroga, perché al momento di farle sarebbe dovuta essere presente anche la CGIL.
Ecco, questo è l'interrogativo che mi pongo e svolgo due ultime brevissime considerazioni. Tutti ricordiamo la polemica che si è fatta sull'inflazione programmata dell'1,7 per cento. Nel 2008 l'inflazione reale si è attestata a un livello più basso dell'inflazione programmata. Sarà stata probabilmente una sfortuna, sarà stata probabilmente una disgrazia, però, se si fossero fatti i contratti sul 3,7 per cento, non avremmo reso un servizio al Paese. L'ultima cosa è questa: ho partecipato - negli ultimi giorni in questa Commissione e ieri ad un importante convegno del PD - ad un dibattito sulla rappresentanza e la rappresentatività. Ho trovato una disponibilità anche nelle organizzazioni sindacali, compresa la CGIL, che si sono espresse in quella sede. Mi piacerebbe capire - la domanda l'ha già fatta il presidente - se sul terreno della rappresentatività ci può essere un percorso che possa anche recuperare un rapporto unitario.

CESARE DAMIANO. Signor presidente, la Commissione lavoro sta continuando a svolgere queste audizioni, anche dopo il raggiungimento di un accordo quadro che non ha visto la CGIL concorde, proprio perché siamo interessati ad esaminare i problemi di merito che derivano da questa divisione sindacale.
È evidente che eravamo, già nelle audizioni passate, facili profeti quando abbiamo sostenuto che un accordo separato sul modello contrattuale correrà il rischio di avere un effetto controproducente rispetto all'affermazione sulla quale tutti scommettono, vale a dire «più regole, meno conflitto e più tranquillità nelle relazioni». È evidente che, trattandosi del modello contrattuale - del resto lei, signor segretario, l'ha confermato - nel momento della sua applicazione, non essendovi una condivisione di partenza, aumenteranno i conflitti, piuttosto che diminuire. Questo mi pare che sia un primo, enorme problema che va affrontato.
Seconda questione. Abbiamo un accordo quadro preceduto da linee guida, ed è evidente - condivido quanto lei ha detto - che si tratta di una cornice.
Ebbene, le chiedo, segretario Epifani, se tra questa cornice e la sua applicazione in intese di settore - che successivamente troveranno un'ulteriore applicazione, immagino, nei contratti di categoria, i quali dovranno recepire nelle loro prime parti, come accade al tempo del protocollo del 1993, queste intese quadro - la CGIL siederà al tavolo di questi negoziati. Le domando inoltre se non pensi che questi negoziati successivi possano chiarire alcune delle parti che sono oggi oggetto di contraddizione e di contrasto.
Sull'IPCA, concordo che sarebbe ragionevole una soluzione che prevedesse il recupero, nell'ambito del triennio, del valore reale dell'inflazione. Trovo la sua spiegazione convincente e ragionevole.
Vorrei porle una domanda sul valore punto, perché non mi è chiaro ancora il meccanismo: vorrei sapere se le intese, le linee guida e l'accordo quadro prevedano un valore punto universale oppure se mantengano il valore punto di categoria. Un valore punto universale, infatti, provocherebbe irrimediabilmente un arretramento nei contratti che hanno un valore


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punto al di sopra della media e un avanzamento degli altri contratti. Per quel che mi riguarda, credo che ciò sia irragionevole, in quanto è evidente che i valori punto, laddove sono stati definiti, sono il frutto di una contrattazione storica, categoria per categoria. Ebbene, le chiedo se, a suo avviso, si procederà all'individuazione, ancora una volta, di valori punto di categoria, vale a dire di «abiti su misura», oppure, se la tendenza che sottende all'accordo sarà quella di avere un valore punto universale.
Per quanto riguarda la contrattazione di secondo livello, è evidente che già nel 1993 la clausola che parlava delle prassi in atto era frutto di un contrasto tra organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro. Addirittura - al tempo ero segretario generale aggiunto dei metalmeccanici - la Federmeccanica, cioè l'associazione degli imprenditori metalmeccanici, scrisse un decalogo nel quale interpretava il protocollo del 1993 come un protocollo che sulla prassi in atto dava questa interpretazione: si contratta dove si è sempre contrattato; dove non si è mai contrattato non si deve contrattare. Più tutta un'altra serie di questioni. È evidente che c'è una resistenza degli imprenditori, al di là delle dichiarazioni a favore del secondo livello, ad applicarlo.
Così come è nota l'avversione di Confindustria, che personalmente ho combattuto, ad avere la contrattazione territoriale. Ebbene, le chiedo se lei non pensi che il Governo, nel momento in cui tutti affermano che la contrattazione di secondo livello andrebbe estesa, nel momento in cui rimane la formula delle prassi in atto, debba favorire queste estensioni, cancellando la norma che consente di detassare i salari di secondo livello anche quando ci sono erogazioni unilaterali.
Se queste norme sopravvivono, è evidente che ciò favorirà un'interpretazione riduttiva che, soprattutto in Confindustria, trova udienza.
Per quanto riguarda la questione del rapporto pubblico-privato, faccio un'osservazione che ho già fatto anche nelle precedenti audizioni: riscontro, nella definizione del protocollo di gennaio, due modelli contrattuali e non l'unificazione dei modelli contrattuali. Le chiedo se sia vero o meno che il recupero nell'ambito del triennio, per quanto riguarda lo scostamento nel settore privato, e il recupero nel pubblico impiego nel triennio successivo non divarichi il risultato retributivo fra pubblico e privato. Chiedo inoltre la sua opinione sulla necessità di unificare la modalità nelle applicazioni successive.
La CGIL fa della derogabilità un punto di critica, ma a me risulta che alcuni contratti la pratichino già. Penso ai contratti dei tessili o dei chimici. Le chiedo se secondo lei, un modello come ad esempio quello dei chimici, che consente una deroga sulle questioni salariali e dell'orario di lavoro, a condizione che la stessa sia ammessa sulla base di una valutazione unanime delle parti, possa essere il modello di riferimento, oppure se la questione della derogabilità debba essere espunta dalle applicazioni.
Infine, sulla questione della rappresentatività, come ricordava l'onorevole Cazzola, ieri si è svolto un seminario promosso dall'associazione Lavoro e Welfare nella sede del Partito Democratico, con relativa discussione. Le chiedo se, secondo lei, si potrebbe procedere, in tempi rapidi, a un'intesa fra le organizzazioni sindacali - che sono state, tra l'altro, firmatarie di un documento nel maggio scorso che contempla i temi della rappresentatività della democrazia sindacale - qualora si prevedesse il censimento della rappresentatività fondato sugli indicatori dei voti riportati nell'elezione delle rappresentanze sindacali unitarie e degli iscritti; se riterrebbe utile, contemporaneamente, fissare una soglia del 5 per cento, analogamente a quanto fatto per il pubblico impiego; infine, qualora questo accordo si producesse, se sarebbe utile o meno una legislazione di sostegno che recepisse gli orientamenti di questo accordo.

GIUSEPPE BERRETTA. Sarò estremamente sintetico, anche perché il tema è stato trattato. Riprendo, appunto, in


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estrema sintesi, la questione della rappresentatività, che mi sembra un tema emerso anche nella relazione svolta dal segretario. Anche il segretario Bonanni, quando è venuto qui in audizione, ha detto che uno degli assi portanti della politica CISL viene rimesso in discussione su questo punto e che esiste una disponibilità a marciare rapidamente. In uno slancio autocritico raro in questo momento, egli ha ritenuto di dire che probabilmente c'è l'esigenza di tornare rapidamente su questa materia.
La definizione di chi rappresenta e di chi contratta è sicuramente un tema storico, che è sempre difficilmente risolvibile; se, effettivamente, ci si mettesse nell'ottica di affrontarlo in maniera compiuta, daremmo un grande contributo. Però, la cosa che a me sempre stupisce quando si parla di questo tema, è che si limita l'attenzione alle organizzazioni sindacali, quasi che il problema sia solo quello di determinare chi rappresenta i lavoratori. Dalla Costituzione in poi, invece, non ci si occupa di chi rappresenta i datori di lavoro e di come si selezionano i soggetti e le organizzazioni datoriali che vanno a stipulare. Probabilmente, nella Costituzione ci si riferiva ad un modello economico taylorista, in cui era scontato che fosse Confindustria a rappresentare il mondo delle imprese, mentre oggi questo moloch non esiste più. Secondo me, sarebbe stato necessario definire questo punto in ogni caso, ma a maggior ragione nel momento in cui ci si instrada verso l'utilizzo spinto del bilateralismo, riguardo al quale è chiaro che questa problematica emerge anche nella sua potenziale drammaticità. Pensiamo a cosa può essere il bilateralismo messo nelle mani di organizzazioni datoriali e sindacali pirata. Credo sussista l'esigenza di affrontare questo tema con grande attenzione e cautela, a maggior ragione, viste le scelte che si stanno compiendo sul fronte del bilateralismo.

PRESIDENTE. Do ora la parola al nostro ospite per la replica.

GUGLIELMO EPIFANI, Segretario generale della CGIL. Vorrei cominciare col rispondere alle domande poste dal presidente Saglia. Lei, presidente, si chiedeva perché l'inflazione dell'1,7 per cento ha poi una dinamica del 3,8 per cento relativamente all'annualità 2008. Ebbene, quando compariamo le dinamiche dell'aumento delle retribuzioni e quelle degli indicatori (inflazione programmata o inflazione sostanzialmente reale), bisogna sempre sapere che c'è uno scostamento di tempi prodotto dall'affollamento dei contratti e dalla loro dislocazione nel tempo. Ad esempio, ci siamo accorti che basta che i rinnovi dei contratti pubblici avvengano tutti nel primo quadrimestre di un anno perché si determini sulla media degli incrementi retributivi una dinamica a salire molto più forte, in quanto portano il peso di questo aumento, contestualmente, tutto là dentro. Quindi, occorre sempre guardare questi dati su una base almeno quinquennale, perché soltanto questa è l'indicazione all'interno della quale possiamo depurare questa stagionalità dei contratti. Contratti che spesso si sono rinnovati con grande ritardo e magari si sono rinnovati tutti assieme, ragion per cui abbiamo avuto una curva un po' piatta negli anni precedenti e poi, effettivamente, un crescere dell'inflazione.
Tale questione, peraltro, ne proporrebbe una ulteriore, che a suo tempo affrontammo, vale a dire come scaglionare la scadenza dei contratti, per non rinnovarli tutti nello stesso momento e nello stesso giorno. Diversamente, si determinerebbero effetti un po' distorti, che credo non convengano né ai lavoratori, né alle imprese, né al Paese.
Per quanto riguarda la rappresentatività, è nostro interesse arrivare ad una definizione di questo tema storico per la CGIL, che ritengo ormai non ulteriormente rinviabile. È vero che siamo associazioni di diritto privato, però non possiamo immaginare un Paese in cui ognuno autodenuncia gli iscritti sulla base di niente.
Badate, se mettiamo assieme tutte le autodenunce degli iscritti di ogni organizzazione, arriviamo in qualche settore ad avere più iscritti che lavoratori. L'ho detto


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anche ai sindacati più piccoli: non conviene a nessuno. Conviene, piuttosto, che ognuno intanto sia misurato per quello che è, cosa che, peraltro, non chiude tutto il discorso. Altrimenti si corre il rischio di fare brutte figure.
Nel mondo dei pensionati, ad esempio, sappiamo grosso modo quante sono le deleghe. Poiché le trattenute le fa l'INPS, per la parte relativa all'INPS è tutto certificato. Se chiediamo quanti iscritti all'INPS risultano nelle organizzazioni sindacali, il dato ci viene fornito immediatamente. Dunque, se qualcuno dice di avere mezzo milione di iscritti tra i pensionati e invece ne ha trentamila, la situazione si complica: se un cronista volesse divertirsi, lo potrebbe fare tranquillamente. Allora conviene farlo, e questo per una questione di trasparenza e di correttezza.
Insomma, bisogna usare il duplice strumento: la verifica degli iscritti e il voto, così come avviene nel pubblico impiego.
Ci servirebbe una legge di sostegno perché avremmo bisogno di generalizzare anche nel settore privato le rappresentanze. Noi, contrariamente al comune sentire, nel pubblico impiego e nella scuola le abbiamo dappertutto, mentre nel settore privato, soprattutto in questi anni, ne abbiamo sempre meno. Non si rinnovano i delegati, non si fanno le elezioni, si burocratizza l'espressione, non si dà spazio ai giovani. Quindi, una legge di sostegno che aiutasse la generalizzazione delle elezioni in tutto il settore privato, a mio avviso, sarebbe un fattore anche di ammodernamento per il sindacato, dal momento che la legge può aiutare anche rispetto a quella pigrizia che proprio in quel settore potremmo avere.
La terza domanda del presidente era relativa ai contratti di solidarietà. Ebbene, di questi ultimi, in realtà, ne abbiamo sempre fatti pochi in Italia. La legge attuale apre due problemi, di cui il primo riguarda l'esclusione delle piccole e piccolissime imprese: al di sotto dei quindici dipendenti non si ha lo strumento per farli. Invece, tutto sommato, secondo me, se si pensa ad una solidarietà, essa vale sia nell'impresa più grande, sia nell'impresa più piccola. Se ci sono le condizioni, queste sussistono indipendentemente dal livello della soglia. Poi si tratta di vedere se si intende aggiungere qualche incentivazione. Questo si può fare: basterebbe aprire un tavolo fra Governo, Ministro e parti sociali, in modo tale che si veda esattamente, nella gestione della legge vigente e anche delle disposizioni contrattuali, che cosa può essere cambiato per favorire questo strumento.
Naturalmente non deve sfuggire a nessuno che il contratto di solidarietà ha un senso se l'impresa ha un futuro. Il contratto di solidarietà, che ci proviene dalla Germania, nasce da una cultura tedesca, che noi facciamo fatica ad importare, in base alla quale la gente che lavora, che è formata, conviene tenerla dentro, perché, una volta passata la crisi, la puoi riutilizzare. Non è solo un sistema di solidarietà, come spesso noi diciamo, bensì qualcosa di più. È il fatto che, oltre a fare solidarietà tra lavoratori, si conserva, nel rapporto di lavoro, una manodopera formata, qualificata, della quale si potrebbe aver bisogno al momento del cambio di ciclo. Gli accordi della Wolkswagen avevano tutti questo senso: anche nei peggiori momenti di crisi della Wolkswagen, sono stati sempre utilizzati i contratti di solidarietà e nessuno ha mai perso il lavoro. Si manteneva il personale, passava il ciclo negativo e poi si ripartiva: quella gente era pronta, non era necessario inventare altre formule perché era gente già addestrata, formata, si era speso e investito nella formazione. Per questo ci convince, però dobbiamo sapere che ha questa impostazione. È chiaro che, laddove c'è una crisi epocale, laddove l'azienda non ce la fa è diverso.
Da questo punto di vista, il contratto di solidarietà richiede un po' di politica industriale. Ci vorrebbe, accanto al contratto di solidarietà, qualche idea di politica industriale nei momenti di difficoltà, per sostenere i settori che sono più in crisi. Questo, secondo me, dovrebbe essere il completamento di questa scelta.
L'onorevole Cazzola ha posto il problema della gestione. Sì, anch'io penso che


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si poteva gestire meglio. Ne sono convinto, perché è sempre meglio prevenire i problemi piuttosto che poi affrontarli a divisioni intercorse.
Devo dirvi la verità, a volte anch'io ho visto qualche rigidità - naturalmente è il mio punto di vista -, della quale non mi sono saputo spiegare il senso. Prendiamo il valore del punto, di cui parlava anche l'onorevole Damiano. Se non è stato mai deciso un valore universale del punto, ci sarà un motivo! Non l'ha fatto l'accordo del 1993, non l'ha fatto nessun accordo. E ancora oggi abbiamo settori in cui il valore della base di calcolo è definito in modo diverso, usato convenzionalmente, e altri in cui viene di volta in volta stabilito. Volevo che fossero le parti, al tavolo del contratto, a fare come abbiamo fatto oggi: decidere loro qual è la base di calcolo. La base di calcolo, infatti, entra in relazione con tante altre cose e anche essa è variata nel tempo. Se si centralizza una base di calcolo uguale per tutti, si elide quel minimo di flessibilità negoziale della quale la logica settoriale ha bisogno.
L'altra grande differenza fra questo sistema e quello del 23 luglio è che, paradossalmente, quello del 23 luglio era un po' più flessibile. Attorno a un tavolo, le parti analizzavano gli andamenti e la produttività dei settori, le ragioni di scambio con l'estero, l'importazione delle materie prime (al tempo c'era la lira) e all'interno di questo scenario poi decidevano. Se un settore andava bene, si aveva un margine in più; in meno, se un settore andava male! Oggi questa flessibilità è stata eliminata, è anche per questo che poi mi arrabbio - come ha detto il presidente, ci metto un po' di passione - poiché non riesco neanche a capire alle imprese cosa convenga! Se la crisi prosegue, l'indicatore IPCA, forse, per qualche settore è perfino esagerato! È chiaro? Se, invece, la crisi riprende, magari è insufficiente! Insisto nel non capire perché si voglia togliere ai soggetti che trattano, che non sono Confindustria, CGIL, CISL e UIL, bensì le organizzazioni dei tessili (padronali e dei lavoratori), delle imprese e del lavoro dei chimici, delle imprese e del lavoro dei meccanici.
La verità è che Confindustria ha compiuto una scelta, a mio avviso sbagliata, di centralizzazione. E ciò è il contrario della flessibilità e del decentramento. Non so più come spiegarlo: quando mi sento dire che la CGIL non ha firmato perché c'è flessibilità, ciò non corrisponde al vero! È esattamente il contrario: questo è un accordo assolutamente rigido, troppo rigido. E vi prego di credermi. Magari ci rivedremo fra qualche anno e ragioneremo serenamente su quello che è accaduto, ma vi prego di credere che converrete alla fine che si tratta di un accordo che è troppo rigido in un sistema che, invece, ha bisogno di qualche flessibilità. Ripeto: flessibilità in alto e flessibilità in basso, a livello del contratto nazionale, perché le dinamiche dei settori, tanto più in una crisi come questa, non sono assolutamente omogenee (se mai lo sono state). Questa è la mia critica di fondo.
Signori deputati, forse non avete ben compreso come funzionerebbe il meccanismo: questo indicatore viene fatto da un soggetto terzo; una commissione dice qual è l'indicatore e lo trasmette alle categorie, le quali lo devono prendere. Finito! Non solo, ma non sono le categorie a decidere se esiste uno scarto significativo, come è stato fino ad oggi! Fino ad oggi, se si rilevava uno scarto, le categorie di impresa e sindacali si incontravano e, nel prenderne atto, decidevano se recuperarlo totalmente, se fare una franchigia, prevedere una flessibilità. Si faceva così! Oggi anche lo scarto lo decide la commissione, quello che io chiamo il politburo. Tant'è che ho parlato di impronta sovietica, e Bombassei si è arrabbiato. Eppure è così, una misura da piano centrale! È tutto deciso, fuori dai tavoli negoziali.
Badate, contrariamente a quello che dice Confindustria, ci sono settori industriali che non sono assolutamente d'accordo su questo modello. Non lo sono Federmeccanica, Federchimica né Federtessile. Non hanno la voce per dirlo, ma posso confermare tranquillamente che è


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così: lo vedrete! Sono espropriate anche le associazioni imprenditoriali, da questo minimo strumento di flessibilità. Per questo non riesco a darmi una ragione. Si tratta di un modello rigido, che per di più ha quei difetti di cui parlavo prima. Un poco di flessibilità, tanto più in un mondo in cui da un anno all'altro l'inflazione sale e scende, come abbiamo visto, a mio giudizio andava mantenuta.
Per quanto riguarda le domande poste dall'onorevole Damiano, posso rispondere che andremo a tutti i tavoli. Se Confindustria decide di aprire il tavolo per una riscrittura in termini di accordo, saremo ai tavoli. Fra l'altro, sussiste un problema di raccordo tra il nuovo modello e il vecchio, che è anche fonte di qualche discussione, perché il vecchio modello prevedeva un quadriennio, a cui poi seguiva a metà un biennio. Se c'è una categoria che ha rinnovato il quadriennio due anni fa, adesso dovrebbe rinnovare il biennio. Se tu fai saltare il biennio, in qualche misura fai saltare una pattuizione che avrebbe dovuto essere - e a mio avviso deve esserlo - portata a compimento. Diverso è per chi inizia il quadriennio che oggi diventa triennio. Anche questo sarà fonte di problemi.
Vi prego di credere che nel settore delle telecomunicazioni siamo già con due piattaforme uguali, UIL e CGIL, più una piattaforma diversa della CISL. Vi prego altresì di capire che, quando arriveremo ai tavoli, non ci sarà la CGIL e il resto del mondo, bensì ci sarà la CGIL che magari trova su un tavolo la UIL, su un altro tavolo la CISL e su un altro ancora l'UGL. Non è semplice, quando poi devi andare di fronte ai lavoratori per dire che, a fronte di quello che vogliamo, si chiede l'IPCA depurata dall'inflazione. Quindi, il caos - se posso dirlo in termini simpatici - è destinato a crescere. Diciamo che l'entropia del sistema contrattuale è destinata ad esplodere, ad un certo punto: questo si è voluto far capire.

PRESIDENTE. Ringrazio tutti, in particolare il segretario Epifani e i suoi collaboratori.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 11,35.

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