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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione XI
29.
Mercoledì 8 aprile 2009
INDICE

INDAGINE CONOSCITIVA SULL'ASSETTO DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI E SULLE PROSPETTIVE DI RIFORMA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

Seguito dell'esame e approvazione del documento conclusivo:

Saglia Stefano, Presidente ... 3 4
Cazzola Giuliano (PdL) ... 3
Damiano Cesare (PD) ... 4
Miglioli Ivano (PD) ... 3

ALLEGATO: Documento conclusivo approvato dalla Commissione ... 6
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-Repubblicani: Misto-LD-R.

COMMISSIONE XI
LAVORO PUBBLICO E PRIVATO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 8 aprile 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE STEFANO SAGLIA

La seduta comincia alle 14,50.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Seguito dell'esame del documento conclusivo.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'assetto delle relazioni industriali e sulle prospettive di riforma della contrattazione collettiva, il seguito dell'esame del documento conclusivo.
Avverto che, in esito al dibattito svoltosi nelle precedenti sedute e accogliendo spunti e suggerimenti formulati dai gruppi, è stata predisposta una nuova versione della proposta di documento conclusivo.
Pertanto, mi auguro che su tale ulteriore nuova versione della proposta si possa finalmente registrare una condivisione da parte dei gruppi in Commissione.
Mi permetto di ringraziare l'onorevole Giuliano Cazzola, l'onorevole Cesare Damiano e tutti i parlamentari che hanno contribuito alla predisposizione di questo documento, che credo sia significativo anche come punto di riferimento per le parti sociali, nel rispetto della loro autonomia.
Inoltre, desidero ringraziare i professori che hanno offerto il loro contributo per la stesura del documento conclusivo dell'indagine conoscitiva. In particolare, vorrei rimanesse agli atti il mio ringraziamento al professor Carinci, che ho consultato più volte e che è stato sicuramente un punto di riferimento in questa vicenda.
Il documento conclusivo è in distribuzione, quindi passerei alle dichiarazioni di voto.

IVANO MIGLIOLI. Intendo intervenire, più che sul documento conclusivo, sul quale si soffermerà più diffusamente il mio capogruppo, su quanto è avvenuto in relazione al punto precedente dell'ordine del giorno della seduta odierna.
Veniamo da una giornata particolarmente impegnativa per il nostro Parlamento, nella quale la maggioranza è uscita sconfitta in una votazione in Assemblea e il provvedimento sulla sicurezza è risultato sostanzialmente modificato.
Voglio far notare che abbiamo votato a favore della proposta di relazione sul disegno di legge comunitaria, apprezzando il lavoro che ha svolto il relatore. Tuttavia, voglio sottolineare che anche in questo caso non c'è stata la presenza dei rappresentanti della Lega e che è stato approvato un emendamento al disegno di legge comunitaria con cui l'opposizione ha segnato un altro punto a suo favore. Segnalo ciò come dato politico.

GIULIANO CAZZOLA. Preannuncio il voto favorevole sul documento conclusivo. Credo che abbiamo svolto un buon lavoro che si deve soprattutto all'impegno che lei, presidente, ha voluto mettere in questa prima prova della Commissione nei suoi primi mesi di vita.
Purtroppo, abbiamo lavorato in concomitanza all'evolversi della situazione, rispetto alla quale si sono registrati risvolti che non sono stati quelli auspicati all'inizio dalla Commissione, nella sua interezza. Comunque, dal momento che il percorso intrapreso al di fuori di quest'aula non è concluso, auspico che il lavoro svolto possa


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servire come riflessione sull'andamento delle relazioni industriali negli ultimi anni, anche al fine di trovare percorsi unitari in futuro.
Posso solo dire che nel documento si è tenuto conto delle osservazioni esposte nel corso della discussione.
Inoltre, per quanto riguarda i punti più controversi, gli spunti emersi nel dibattito sono stati tradotti sapientemente nel documento conclusivo - per la cui stesura siamo grati anche agli uffici - che dà conto delle diverse posizioni espresse, in modo che ognuno si possa riconoscere in esse, senza per questo «consolidarle» con un voto.
Dunque, in considerazione del buon lavoro svolto in tempi politici difficili, ritengo sia giusto esprimere un voto favorevole a questo documento conclusivo.

CESARE DAMIANO. Personalmente, a nome del mio gruppo, preannuncio un voto di astensione sul documento. Tale voto è accompagnato da un apprezzamento importante per il lavoro che abbiamo svolto.
Vorrei ringraziare il presidente che ha voluto prevedere una nuova sessione di audizioni, anche dopo il raggiungimento dell'accordo non sottoscritto dalla CGIL. Devo anche ringraziare l'onorevole Cazzola, con il quale abbiamo avuto uno scambio molto intenso sui contenuti.
Nessuno vuole sottacere il fatto che tra di noi esistano sull'argomento valutazioni diverse; tuttavia, ciò non ci ha impedito di svolgere un lavoro costruttivo, cercando di superare gli steccati che la situazione corre il rischio di determinare, anche perché siamo profondamente consapevoli della necessità di recuperare sul terreno del modello contrattuale una visione unitaria, proprio per l'efficacia del modello stesso.
Quindi, è molto importante lavorare, come abbiamo fatto, per tentare di recuperare un terreno comune relativamente al modello contrattuale. Infatti, consapevole della difficoltà di applicare un modello che nasce come non condiviso, credo che sarebbe molto saggio trovare una strada unitaria nel momento della sua concreta attuazione.
Sicuramente, questo documento è ispirato - grazie al lavoro di tutti - al tentativo di una ricomposizione unitaria e ritengo che questo sia molto importante anche per il momento che il Paese sta attraversando.
Ciononostante, ci sono valutazioni diverse - l'abbiamo detto più volte - che riguardano la questione del nuovo indice previsionale, la distanza o la vicinanza fra il modello pubblico e quello privato e soprattutto l'annosa questione del valore punto, che può sembrare una questione di lana caprina, ma non lo è.
Infatti, come hanno rilevato anche importanti organizzazioni, come quelle dei metalmeccanici della CISL, l'adozione di un modello definito confederalmente per quanto riguarda il valore punto - ovvero che affida alle confederazioni (alla Confindustria in questo caso), l'individuazione delle voci retributive che compongono tale valore - abbasserà il valore punto precedente della categoria dei metalmeccanici (da 18 euro a 15,50 euro). Ciò è controproducente rispetto all'obiettivo che il modello contrattuale e l'indice IPCA si pongono, ossia recuperare maggiore potere d'acquisto delle retribuzioni.
Quindi, è evidente che ci sono delle contraddizioni. Ugualmente, nella scrittura della parte relativa al diritto di sciopero, l'eccesso di apprezzamento rispetto alle iniziative che il Governo svolge su questo argomento per quanto ci riguarda rappresenta un elemento di criticità.
Ciò detto, abbiamo voluto assolutamente privilegiare la parte propositiva e costruttiva e crediamo che sia stato svolto un buon lavoro.
In sostanza, in un momento come questo, avere degli elementi anche minimi di convergenza rappresenta un punto sicuramente importante che aiuta il lavoro di questa Commissione. Pertanto, ribadisco che ci asterremo sul documento conclusivo, preannunciando l'intenzione di esprimere apprezzamenti, anche in un contesto pubblico, per il lavoro svolto.

PRESIDENTE. Desidero ribadire il ringraziamento alla maggioranza e all'opposizione


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per il contributo offerto - rispetto al lavoro marginale svolto dal presidente - nella stesura di un documento che credo possa essere un punto di riferimento, anche per il dibattito che seguirà nei prossimi giorni, quando si convocheranno i tavoli interconfederali. Vi sarà la necessità - credo avvertita da tutti - di modernizzare le relazioni industriali e a tale riguardo esprimiamo l'auspicio che le parti sociali possano tornare a svolgere riflessioni unitarie al fine di venire incontro alle necessità delle imprese e dei lavoratori, pur nel rispetto delle diverse sensibilità.
Pongo in votazione l'ulteriore nuova versione della proposta di documento conclusivo (vedi allegato).
(È approvata).

Questo voto favorevole ci dà particolare soddisfazione, considerato l'impegno non indifferente profuso dalla Commissione.
Dichiaro conclusa la seduta.

La seduta termina alle 15.


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ALLEGATO

Indagine conoscitiva sull'assetto delle relazioni industriali e sulle prospettive di riforma della contrattazione collettiva.

DOCUMENTO CONCLUSIVO APPROVATO DALLA COMMISSIONE

1. Programma e obiettivi dell'indagine.

Nella prospettiva di modernizzazione e adeguamento del complessivo sistema delle relazioni sindacali, la XI Commissione (Lavoro pubblico e privato) ha avviato, in coincidenza con l'inizio della XVI legislatura, una indagine conoscitiva diretta a comprendere - partendo dalla valutazione dei risultati prodotti dal Protocollo tra le parti sociali del 1993 (e delle sue possibili prospettive di revisione) - quale possa essere, alle soglie del secondo decennio del secolo, il nuovo assetto delle relazioni industriali e del sistema della contrattazione nel Paese, anche al fine di rispondere con efficacia alle esigenze delle aziende e dei lavoratori e, più in generale, di un sistema produttivo nazionale che ogni giorno deve confrontarsi con le sfide derivanti dall'apertura dei mercati e dalla globalizzazione. Nel pieno rispetto dell'autonomia delle parti sociali, la Commissione ha quindi inteso compiere un approfondimento su una pluralità di aspetti legati alle dinamiche contrattuali, che - anche a seguito del complesso sviluppo della crisi economica innescatasi, nella parte finale del 2008, a livello mondiale - finiscono per incidere in misura rilevante sulle politiche che l'Italia potrà e dovrà attivare per rispondere con efficacia alla attuale situazione congiunturale.
In particolare, la Commissione si è proposta di comprendere quale possa essere l'evoluzione del sistema delle relazioni industriali e della contrattazione in Italia e, in questo ambito, quali debbano essere - considerati sia singolarmente, sia in interazione reciproca - gli obiettivi di un possibile nuovo sistema, in termini di tutela dei diritti dei lavoratori, di competitività del sistema produttivo nazionale, di politiche dei redditi e di sviluppo. La stessa Commissione, peraltro, si è riservata di verificare gli strumenti attraverso i quali perseguire tali obiettivi, approfondendo alcune questioni di particolare rilevanza legate al sistema dei contratti collettivi, nell'ottica di acquisire utili elementi per una possibile evoluzione della realtà italiana.
Le audizioni svolte dalla Commissione nel corso dell'indagine in un periodo di nove mesi (dal 25 giugno al 25 febbraio 2009) si sono articolate in due cicli. Al termine del primo ciclo di audizioni (25 novembre 2008), nelle more dell'esame parlamentare di una prima proposta di documento conclusivo dell'indagine (formalizzata dalla presidenza nella seduta dell'8 gennaio 2009), è intervenuto un fatto nuovo di grande rilievo, costituito dalla sottoscrizione dell'Accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali, del 22 gennaio 2009. Attesa la rilevanza dei contenuti dell'Accordo e del nuovo scenario che esso inevitabilmente prefigura (considerato anche che l'intesa originariamente non è stata firmata da tutte le organizzazioni e, dopo la firma apposta - con qualche giorno di ritardo - dalle associazioni mancanti, non è stata sottoscritta dalla sola CGIL), la Commissione ha quindi convenuto sull'opportunità di sospendere l'esame del documento conclusivo, al fine di svolgere un ulteriore (e breve) ciclo di audizioni con talune parti sociali, individuate per il loro particolare ruolo.
Nel complesso, le audizioni hanno assicurato un confronto molto approfondito con i soggetti coinvolti e hanno consentito


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di tracciare un quadro piuttosto completo delle problematiche esistenti, mettendo in luce il positivo contributo che le istituzioni rappresentative, in primo luogo il Parlamento, possono dare ad una riforma del sistema delle relazioni industriali e della contrattazione, in particolare attraverso forme di legislazione di sostegno. In questo senso, il presente documento è strutturato in tre parti essenziali: con le prime due si intende illustrare i principali elementi di valutazione e di conoscenza forniti nel corso, rispettivamente, del primo ciclo e del secondo ciclo di audizioni; con la terza, invece, ci si propone di evidenziare talune proposte conclusive, anche in vista della possibile adozione di specifiche iniziative in materia.

2. I principali elementi emersi dal primo ciclo di audizioni (25 giugno-25 novembre 2008).

Nel corso del primo ciclo di audizioni dell'indagine sono emersi numerosi spunti di riflessione ed elementi di conoscenza, che hanno fornito alla Commissione un significativo quadro d'insieme della situazione, sicuramente utile all'individuazione di adeguate soluzioni.
Per tali ragioni, nel rinviare per il dettaglio ai resoconti delle audizioni effettuate, si riportano di seguito le principali questioni analizzate, articolate in una descrizione che si propone di aggregare i punti più qualificanti dei singoli contributi forniti.

2.1. Il protocollo del 23 luglio 1993.
Il fatto che il Protocollo del 23 luglio 1993 («Protocollo») abbia rappresentato uno spartiacque nell'evoluzione delle relazioni industriali del Paese è stato ampiamente riconosciuto da parte di tutti i soggetti intervenuti: esso ha portato alla definizione di nuovi rapporti tra le parti sociali e tra queste e il Governo, segnando l'avvio della stagione della concertazione e della politica dei redditi. Al giudizio quasi unanime sul suo rilievo, si accompagnano, tuttavia, valutazioni differenziate sugli sviluppi che ha avuto e sugli effetti che ha prodotto nel corso del quindicennio dal 1993 al 2008.
Un'articolata disamina della sua ricaduta sull'economia è stata fornita dalla Banca d'Italia. Fino al 1993, l'operare del meccanismo di indicizzazione, la mancanza di coordinamento tra i vari livelli di contrattazione e l'esperienza fortemente conflittuale delle relazioni industriali avevano reso difficile controllare la dinamica retributiva. Dopo, in virtù del nuovo sistema, c'è stato un abbattimento del tasso d'inflazione: almeno per gli anni '90, proprio il tasso d'inflazione programmata (TIP), perno del processo concertativo-contrattuale, ha concorso ad indirizzare la dinamica salariale lungo un sentiero compatibile con la stabilità dei prezzi, contribuendo a frenarne le aspettative di rialzo. Grazie anche a questo ancoraggio, le pressioni inflazionistiche provenienti dalla svalutazione del 1994-1995 e dal rialzo del prezzo del petrolio nel 2000-2001 non si sono trasferite alla dinamica dei salari e quindi dei costi di produzione, evitando così ulteriori aumenti dei prezzi al consumo (second round effects).
Questo è avvenuto con una sostanziale stazionarietà delle retribuzioni contrattuali medie del settore privato, che, tra il dicembre 1993 e il settembre 2008, registrano un aumento complessivo dell'1,4 per cento. A questa si accompagna un'insoddisfacente crescita della produttività del lavoro, misurata dal valore aggiunto a prezzi costanti per unità di lavoro occupata. Essa è aumentata nell'industria di appena lo 0,5 per cento all'anno dal 1995 al 2007, contro il 3,3 nel decennio precedente; un andamento analogo si è registrato nel complesso del settore privato, con tassi di crescita, rispettivamente, dello 0,5 per il 1995-2007 e del 2,3 per cento per il 1985-1995.
La stagnazione della produttività ha inciso negativamente sul costo del lavoro per unità di prodotto (Clup), dato dal rapporto tra il costo unitario e la produttività del lavoro, aumentato di oltre il 30 per cento tra il 1994 e il 2007 e di oltre


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il 20 per cento tra il 2000 e il 2007. L'aumento è risultato assai più marcato di quello registrato in Francia e in Germania, proprio a causa della dinamica più lenta della produttività del lavoro nel Paese.
Non si è diffusa, come auspicato dalle parti sociali, la contrattazione integrativa. Sempre secondo la Banca d'Italia, dal 2002 al 2007, nelle imprese industriali con almeno venti addetti (che nel 2006 rappresentavano il 70 per cento dell'occupazione dipendente nell'industria) circa la metà dei dipendenti avrebbe ricevuto premi aziendali aggiuntivi, contrattati o concessi unilateralmente; mentre, nelle imprese di servizi privati non finanziari con almeno venti addetti (che rappresentano oltre la metà dell'occupazione dipendente del settore) la copertura dei premi aziendali avrebbe interessato circa un terzo dei dipendenti. Gli incrementi medi corrisposti in azienda avrebbero contribuito per circa 0,5-0,8 punti percentuali alla dinamica annua delle retribuzioni, risultando maggiori nelle imprese dell'industria, in quelle più grandi e in quelle del Centro-Nord. Anche in presenza di un contratto aziendale, l'incidenza delle voci stipendiali legate alla performance dell'impresa è risultata limitata e discontinua.
Il ministro Sacconi, dopo aver richiamato le condizioni assai particolari nelle quali maturò l'accordo del 1993, evidenzia come esso avrebbe avuto un significato in un certo senso «risarcitorio» per il sindacato rispetto agli accordi precedenti. Si sarebbe trattato di un accordo con un fortissimo impianto burocratico e con una rigida procedimentalizzazione, tanto del dialogo tripartito, quanto delle relazioni industriali dirette tra le parti, tale da produrre bassi salari, bassa produttività e scarsa efficienza nelle pubbliche amministrazioni.
Complessivamente positivo, invece, il giudizio delle parti sociali. Secondo Confindustria, il Protocollo del 1993 avrebbe risposto in modo efficace ai problemi che intendeva affrontare. Tale confederazione ritiene, però, che negli ultimi anni le regole sull'adeguamento dei salari siano state ampiamente disattese, ove si consideri che buona parte dei rinnovi contrattuali sono stati fatti disconoscendo l'inflazione programmata; e conclude, quindi, che la principale lacuna dell'accordo sia stata la mancanza di regole chiare circa le conseguenze dell'inosservanza delle procedure codificate, sì da giustificare l'attenzione prioritaria accordata nelle Linee guida del 10 ottobre 2008.
Anche la CGIL ritiene che il Protocollo del 1993 abbia funzionato bene per alcuni anni, ma successivamente abbia creato problemi soprattutto nei settori più deboli dove si è riscontrato un ritardo cronico nella conclusione delle tornate contrattuali: nel settore del terziario, del commercio e del turismo, almeno un rinnovo su due è avvenuto nei tempi previsti; analogo fenomeno ha riguardato il settore pubblico privatizzato; c'è stato, inoltre, il mancato decollo della contrattazione di secondo livello, rimasta confinata a poche settori ed imprese. Il tutto ha determinato la perdita di una significativa copertura delle retribuzioni dei lavoratori, sia sul piano della difesa che della crescita del loro potere d'acquisto in base e relazione alla dinamica della produttività in certi settori.
La CISL ha enfatizzato proprio la scarsa diffusione della contrattazione decentrata, in particolare quella aziendale, riconducibile anzitutto ad un'eccessiva centralizzazione tutta imperniata sulla dimensione nazionale; scarsa diffusione, questa, che avrebbe finito per penalizzare la stessa crescita della produttività, non debitamente incentivata e premiata.
Secondo la Lega nazionale delle cooperative e delle mutue, il Protocollo è stato il risultato di un grande accordo di scopo, ha fornito alle relazioni industriali un sistema di regole condivise per la contrattazione collettiva, contribuendo considerevolmente al raggiungimento di importanti obiettivi per il Paese, a cominciare da quello prioritario costituito dall'ingresso nella moneta unica europea.
Anche Confapi ritiene che il Protocollo abbia avuto un ruolo importante nel controllo dell'inflazione, impedendo la rincorsa perversa tra prezzi e retribuzioni e


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determinando le condizioni per l'ingresso dell'Italia nell'area dell'euro. Ricorda, tuttavia, che esso prevedeva una sua possibile revisione dopo una fase sperimentale, al fine di adeguarlo alle esigenze di un mondo dell'economia e del lavoro in costante evoluzione. Essendo ormai trascorsi quindici anni dalla sua adozione, è arrivato il momento di una sua revisione complessiva.
Del tutto negativo è, invece, il bilancio che ne trae Rifondazione Comunista. Per effetto di quell'accordo, ad avviso dei rappresentati di quel partito, le retribuzioni da lavoro dipendente hanno perso oltre dieci punti percentuali a favore di profitti e rendite. Inoltre, i propositi redistributivi insiti nella contrattazione aziendale, mai decollata in misura adeguata, sono miseramente falliti.

2.2. Il ruolo delle istituzioni pubbliche.
Numerosi interventi si sono soffermati sul possibile ruolo delle istituzioni pubbliche nel sistema delle relazioni industriali.
A giudizio del ministro Sacconi, il confronto tra le parti sociali dovrebbe svolgersi all'interno di un quadro fondato su libertà e responsabilità, non burocratizzato o irrigidito da discipline pubblicistiche. Nel dichiararsi contrario all'introduzione di una legislazione sulla rappresentatività degli attori sociali, osserva che l'unico ruolo che le istituzioni potrebbero utilmente svolgere per favorire la dialettica tra le parti è di tipo informativo. Si dichiara, quindi, contrario anche ad un obbligo legislativo di presentazione dei bilanci, in quanto ciò contrasterebbe con la dimensione privatistica che deve caratterizzare attori sociali liberi e responsabili. Ciò non toglie, tuttavia, che sarebbe opportuno prevedere un obbligo di contabilità separata, in relazione alle funzioni di pubblico interesse svolte per conto dello Stato (si pensi ai patronati, ai centri di assistenza fiscale e all'attività formativa finanziata con risorse pubbliche).
Ripercorrendo brevemente la storia delle relazioni industriali degli ultimi decenni, passate dalla fase della «conflittualità» (fino al 1993) a quella della «apatia» (dal 1993 ad oggi), vede la necessità di aprire una nuova stagione di «complicità» tra capitale e lavoro, imperniata sulla dimensione aziendale e territoriale. A livello aziendale occorre una condivisione degli obiettivi, dei risultati e, quindi, degli utili, da realizzare anche attraverso piani finanziari partecipativi; prospettiva, questa, a cui sono state ispirate le recenti misure legislative di detassazione e decontribuzione, destinata a promuovere una maggiore connessione fra salari ed utili; al contempo, a livello territoriale è urgente un potenziamento delle forme di cogestione di tutti i servizi che promuovano la persona nel lavoro e nella società.
Ritiene, infine, che le poche funzioni che sarebbe utile assegnare alle istituzioni pubbliche potrebbero essere devolute ad una autorità pubblica indipendente per le relazioni industriali, da innestare eventualmente sulla già esistente Commissione di garanzia per il diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali.
La Confindustria sottolinea l'importanza di incrementare e rendere strutturali le misure di decontribuzione e detassazione stabilite con il Protocollo per il Welfare del luglio 2007, nonché le analoghe misure sperimentali volte a incentivare la contrattazione di secondo livello introdotte dal decreto-legge n. 93 del 2008.
La CGIL ritiene essenziale che continui a sussistere un rapporto assai stretto tra modello contrattuale e politica dei redditi, secondo i principi che stanno alla base del Protocollo. Dopo aver ricordato che esso non si limitava a definire un quadro di regole per le relazioni industriali, ma estendeva il proprio ambito di intervento alle politiche del lavoro e al sostegno del sistema produttivo, definendo una cornice complessiva entro la quale era chiamata a svolgersi la politica dei redditi, osserva che l'attuale Governo non ha purtroppo ritenuto di aprire un serio tavolo di discussione e confronto sulle misure indispensabili per la gestione della grave crisi attuale in vista del rilancio dell'economia.


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Riguardo alle recenti misure legislative sulla detassazione di alcune componenti del salario, giudica che sia stato errato considerare lo straordinario uno strumento di redistribuzione del reddito; inoltre, afferma che sarebbe stato opportuno distinguere tra premi unilaterali e premi contrattati, nonché estendere la portata delle misure anche alla contrattazione territoriale.
La CISL, al pari della Lega delle cooperative e delle mutue, della Confcooperative e della Confapi, ritiene essenziale, in linea generale, il ruolo del Governo, a partire dalla incentivazione dei premi di produttività, che costituisce uno strumento irrinunciabile per promuovere lo sviluppo della contrattazione di secondo livello. Occorre, tuttavia, anche affrontare i problemi delle tariffe e dei prezzi, in una logica coerente ed unitaria.
Analoghe considerazioni sono avanzate dalla UIL e dalla CIDA, che ritengono in particolare urgente ampliare la platea dei beneficiari delle recenti misure di detassazione.
La UIL, in particolare, ha rappresentato con chiarezza l'esigenza di un sistema fiscale equo, che preveda una forte riduzione della pressione fiscale sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti e sulle pensioni, al pari del rafforzamento dei premi di risultato e della decontribuzione del salario variabile.
L'Unione Generale del Lavoro (UGL), intervenendo sui provvedimenti di detassazione adottati dal Governo, riterrebbe opportuno legare in qualche modo le misure relative alla parte variabile del salario con la partecipazione dei lavoratori agli utili e alle decisioni aziendali. Inoltre, andrebbero studiati meccanismi per estenderne l'operatività anche ai lavoratori atipici.
La Confederazione Nazionale dell'Artigianato (CNA) ha sottolineato il ruolo essenziale che può svolgere il Governo nel sostegno e nella promozione della bilateralità, anche mediante interventi legislativi volti a conferire formale veste giuridica agli accordi raggiunti dalle parti.
A giudizio della Banca d'Italia, una riduzione del prelievo fiscale sul lavoro evita distorsioni e incentiva la crescita, ma andrebbe applicata alla platea più vasta possibile. Misure selettive che stimolino la contrattazione integrativa potrebbero favorire un riequilibrio tra il livello nazionale e quello aziendale; ma, poiché introdotte in deroga ai principi di neutralità del prelievo, si giustificherebbero solo se contribuissero ad innalzare la produttività. Il che, peraltro, deve tener conto del rischio che una quota significativa delle agevolazioni vada a beneficio di imprese che avrebbero comunque registrato guadagni di produttività, con effetti redistributivi regressivi.
Sempre stando alla Banca d'Italia, per il buon funzionamento del mercato del lavoro appare essenziale perseguire una riforma sistematica degli ammortizzatori sociali, volta soprattutto ad affermare l'universalità della copertura assicurativa, che ora varia tra settori e tipi di occupazione, escludendo ampie fasce di lavoratori. Una struttura adeguata può consentire non solo di attutire i costi sociali del processo di ristrutturazione delle imprese e di riallocazione del lavoro; ma può anche migliorarne gli esiti in termini di efficienza, prevedendo per le persone che perdono il lavoro strumenti di riqualificazione e per l'impiego, volti ad accompagnarle nella ricerca di una nuova occupazione.
Il CNEL, infine, ha rimarcato il ruolo fondamentale che può avere il Governo, attraverso la leva fiscale, nella definizione del nuovo modello contrattuale.

2.3. La tutela del potere d'acquisto.
La questione della tutela del potere d'acquisto dei salari e quella degli strumenti più idonei a garantirla in un quadro di sostenibilità economica sono stati temi ampiamente affrontati da parte di tutti i soggetti auditi. Gli interventi si sono soffermati, in particolare, sui pregi e sui difetti dei meccanismi attuali, discendenti dal Protocollo del 1993, nonché sull'ipotesi contenuta nelle Linee guida del 12 settembre 2008 («Linee guida»).
Il Protocollo del 1993 prevede, come è noto, che la dinamica degli effetti economici


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dei contratti sia coerente con il tasso di inflazione programmata (TIP), assunto come obiettivo comune del Governo e delle parti sociali. Riguardo al funzionamento di tale sistema e agli effetti che ne sono derivati sulle dinamiche salariali, alcuni tra i soggetti auditi hanno evidenziato lo scostamento frequente tra inflazione programmata e inflazione reale e la perdita di potere d'acquisto dei salari, cumulata nel tempo, che ne è derivata.
La Confindustria rileva preliminarmente che nel contesto dell'Unione monetaria europea l'indice di riferimento non può prescindere dal tasso di inflazione desumibile dall'obiettivo di stabilità dei prezzi perseguito dalla Banca centrale europea, che negli ultimi 10 anni ha mostrato una grande credibilità. Fa presente, quindi, che il nuovo indice previsionale, proposto nelle 'Linee Guida' del 10 ottobre 2008, ha il vantaggio di determinare un meccanismo chiaro, prevenendo il contenzioso. Ribadita l'importanza di tenere fuori la componente inflattiva importata per i beni energetici, osserva che il sistema, in caso di scostamenti significativi tra inflazione prevista e inflazione reale, contempla, a beneficio dei lavoratori, il recupero del differenziale con l'incremento dei minimi contrattuali relativi al terzo anno di vigenza del contratto. Quanto alla base di calcolo, il nuovo indice previsionale dovrebbe essere applicato ad un valore retributivo medio, assunto quale base di computo, composto dai minimi tabellari, dal valore degli aumenti periodi di anzianità (considerata l'anzianità media del settore) e dalle altre eventuali indennità in cifra fissa stabilite dal contratto nazionale. Si tratta, a differenza di quanto viene erroneamente affermato, di un meccanismo che coglie le diversità esistenti fra i vari settori produttivi, essendo per sua natura differenziate. Richiamando, infine, i risultati di una elaborazione del proprio centro studi, fa presente che le nuove disposizioni configurerebbero una situazione di sicuro guadagno per i lavoratori. Nel triennio 2009-2011 le retribuzioni effettive aumenterebbero del 9,4 per cento, salendo nella media del sistema economico italiano e portando la retribuzione media lorda annua da 26.768 euro a 29.180 euro, con un incremento di 2.503 euro nei tre anni. L'aumento delle retribuzioni reali, al netto cioè dell'inflazione, sarebbe quindi del 2,9 per cento, pari a 766 euro lordi annui, a prezzi costanti del 2008.
Sul meccanismo di adeguamento retributivo proposto da Confindustria nelle Linee guida si è espressa, in termini assai critici, la CGIL, la quale ha evidenziato, in particolare, che l'idea di utilizzare un indicatore che depuri l'inflazione da quella importata per i beni energetici determina un abbassamento della copertura rispetto all'inflazione reale. Nell'ipotesi contenute nelle linee guida, inoltre, viene prospettata una base di calcolo su cui esercitare l'aumento che è quantificabile, per una categoria come quella dei metalmeccanici, in una diminuzione di quello che viene definito «valore punto» pari a 2,20 euro, ciò da cui discenderebbe una perdita reale intorno al 10 per cento.
L'UGL sottolinea che depurare l'indice previsionale, come ipotizzato nelle linee guida, dall'inflazione importata, significa disconoscere la dinamica effettiva dei prezzi di molti beni di largo consumo, con gravi ripercussioni dei bilanci familiari.
Considerazioni analoghe sono state avanzate da Confedir-MIT, la quale si è peraltro dichiarata favorevole a individuare nell'IPCA il nuovo indicatore al quale fare riferimento nella contrattazione.
L'UGL ha sottolineato, inoltre, l'esigenza di un'azione strutturale sulla rilevazione del costo della vita, al fine di costruire un paniere effettivamente rappresentativo dei consumi familiari. A tale riguardo ha ricordato la positiva esperienza, troppo precocemente abbandonata, della partecipazione delle parti sociali ad una apposita commissione presso l'ISTAT. Quanto al meccanismo di adeguamento delle retribuzioni previsto dalle linee guida, osserva che esso si basa (contrariamente al tasso di inflazione programmato) su modalità quasi automatiche di definizione degli incrementi retributivi stabiliti dal contratto nazionale di settore. Gli


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aumenti retributivi stabiliti dal contratto nazionale, a cadenza triennale, sarebbero commisurati a una previsione di un tasso di variazione dei prezzi depurato dalle voci di inflazione importata relative ai beni energetici. Questa sarebbe applicata ad una retribuzione convenzionale comprendente le componenti salariali stabilite a livello nazionale (minimi retributivi, valore medio degli scatti di anzianità e altre componenti in cifra fissa stabiliti nei contratti di categoria). La previsione dell'indice sarebbe affidata ad un istituto terzo e basata su metodologie certe e condivise. Non sarebbero previsti meccanismi automatici per il recupero di eventuali scostamenti tra la dinamica anticipata dell'indice di riferimento e quella effettivamente realizzata. Il sistema, in particolare, si fonda su un indice previsionale triennale basato sul IPCA, ossia l'indice dei prezzi al consumo armonizzato elaborato dall'Eurostat per l'Italia, depurato della componente di inflazione importata dall'Europa relativamente ai beni energetici.
La CISL ritiene che il nuovo meccanismo di indicizzazione sia, nel suo complesso, apprezzabile, soprattutto per quanto concerne l'affidamento ad un soggetto terzo del compito di individuare l'indice previsionale sulla base di uno stesso modello matematico e la previsione di un elemento di garanzia per cui, durante la vigenza del contratto, ma con una valutazione ex post, l'eventuale scostamento (al netto dell'inflazione importata per i beni energetici) potrà essere recuperato nei minimi contrattuali. Meritevole di ulteriori approfondimenti appare, invece, la questione della base di calcolo, essendo preferibile applicare quella esistente nei contratti nazionali che la prevedono e, in mancanza, una base omogenea costituita dai minimi tabellari, dalla contingenza conglobata e da eventuali scatti medi di settore.
La Lega nazionale delle Cooperative e delle mutue ritiene che l'indicatore deve continuare a rappresentare un riferimento programmatico, posto che il controllo dell'inflazione rimane un obiettivo fondamentale per la stessa salvaguardia del potere d'acquisto dei lavoratori. Occorre, però, che il riferimento venga individuato in termini più realistici di quanto non sia avvenuto in alcune occasioni del recente passato (e per ovviare a ciò può essere utile fare riferimento a valori europei) e che si addivenga alla definizione di un insieme di principi e criteri tali da rendere meno problematico e conflittuale il recupero di eventuali significativi scostamenti rispetto alla dinamica reale dei prezzi.
Il partito della Rifondazione comunista esprime una valutazione fortemente negativa del meccanismo basato sul tasso di inflazione programmata, evidenziando che dalla sua applicazione è derivata una perdita di 10 punti percentuali, dal 1993 ad oggi, delle retribuzioni da lavoro dipendente, a favore di profitti e rendite.
La Banca d'Italia osserva che la proposta in discussione tra le parti sociali (Linee guida) eliminerebbe i margini di incertezza circa l'indice di riferimento e rafforzerebbe il principio, presente in modo solo generico nell'accordo del 1993, secondo il quale l'indice deve essere depurato dall'inflazione importata. Il fatto di isolare le dinamiche salariali da shock di origine esterna rappresenta un aspetto assolutamente significativo e necessario di ogni ipotesi di accordo. L'utilizzo di un indice previsivo triennale affidato ad un istituto terzo permetterebbe di superare i contrasti che sorgono nella definizione del tasso di inflazione programmata, ma predetermina la crescita delle retribuzioni contrattuali per un triennio alla dinamica di un indice che, come ogni previsione, è incerto e può variare anche considerevolmente. Una possibile ancora per le aspettative di inflazione è costituita dall'obiettivo implicito della Banca centrale europea, quale si desume dalla definizione di stabilità monetaria, coerente con una variazione dell'indice armonizzato dei prezzi al consumo nell'area dell'euro intorno al 2 per cento annuo nel medio termine. L'obiettivo di legare gli aumenti nominali delle retribuzioni contrattuali con quelli di un indice dei prezzi che non includa fattori esterni indipendenti dalle scelte degli attori nazionali, che non risenta della


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inevitabile incertezza e variabilità delle previsioni economiche, che preservi il perseguimento della competitività media del sistema produttivo nel confronto con i principali paesi concorrenti, suggerirebbe quindi di orientare l'adeguamento nominale verso l'obiettivo implicito della Banca centrale europea.
A favore di una soluzione di tale tipo si è espresso, peraltro, anche il CNEL.
Infine, gli esperti intervenuti sul tema hanno evidenziato, tra l'altro, i rischi dell'abbandono del tasso di inflazione programmato in un periodo di inflazione crescente. È stata, altresì, sottolineata l'esigenza che l'indice sia «realistico», in quanto solo in questo modo si stempera il problema del recupero successivo in caso di scostamento. Inoltre, è stata ribadita l'importanza del fatto che l'eventuale recupero non sia automatico ma oggetto di negoziato tra le parti. Tra gli esperti auditi, inoltre, il professor Franco Carinci ha evidenziato la stretta correlazione tra obiettivo inflazionistico (sistema basato sull'inflazione programmata) e concertazione, sottolineando come la crisi di quest'ultima sia in realtà il frutto di una visione che intende rimettere le decisioni sugli incrementi retributivi salariali a meccanismi decisionali esterni alla sfera politica.

2.4. La contrattazione di secondo livello.
La questione dei livelli di contrattazione è stata oggetto di grande attenzione da parte di tutti i soggetti intervenuti.
In primo luogo, dall'audizione di Walter Cerfeda in rappresentanza della Confederazione europea dei sindacati è stato possibile acquisire un inquadramento di carattere generale delle principali tendenze in atto nei paesi europei: vi sono, infatti, grandi diversità nei 27 Paesi che compongono l'Unione europea, se è vero che ogni storia economica e sociale di un Paese produce una struttura di contrattazione diversa. Come emerso dall'audizione citata, non esiste un tratto comune europeo di contrattazione; si può rinvenire, piuttosto, un aspetto molto specifico e dettagliato nelle storie dei diversi Paesi che compongono la comunità europea, sebbene, ovviamente, vi siano dei elementi comuni. Ad esempio, è emerso che nei 12 Paesi che sono entrati a partire dal 2003 - ad eccezione della Slovenia - a seguito del loro specifico percorso storico, la contrattazione avviene essenzialmente a un solo livello, molto ridotto da un punto di vista aziendale, ed è praticata nelle filiali dei gruppi multinazionali. Per il resto, il tasso di copertura contrattuale nei nuovi Stati membri è assolutamente insufficiente. I contratti di categoria praticamente non esistono, se non in alcune strutture che derivano dalla storia di questi Paesi.
Esistono, invece, precisi tratti che si riferiscono ai punti fondamentali della contrattazione nella vecchia Europa, dove tale struttura è più solida e più continua, con l'eccezione dei Paesi anglosassoni: infatti, in Inghilterra esiste soltanto il livello aziendale di contrattazione come livello fondamentale in cui si esplicano le relazioni industriali e i rinnovi contrattuali.
Dati particolarmente interessanti sull'evoluzione del fenomeno - in particolare nella realtà italiana - sono quindi stati forniti dal CNEL, il quale ha evidenziato una generale flessione del ricorso alla contrattazione di secondo livello negli ultimi anni. Nel periodo 1998-2006, in particolare, si è passati da una frequenza del 40-60 per cento del biennio 1999-2000, ad una frequenza del solo 10 per cento nel 2006. La contrattazione aziendale ha riguardato soltanto alcuni settori e soprattutto le grandi imprese.
Le ragioni di tale tendenza sono da ricercare nella difficoltà di definire, in molti casi, la controparte sindacale a livello aziendale, nonché nella sfavorevole dinamica della produttività negli ultimi anni; inoltre, occorre tenere conto anche del fatto che molte imprese sono entrate nel mercato successivamente al 1993, quindi con vincoli più limitati dal punto di vista della contrattazione.
La necessità di sviluppare il secondo livello di contrattazione è stata condivisa, sebbene con accenni e toni in parte diversi, praticamente da tutti i soggetti intervenuti.


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In particolare, da più parti è stato sottolineato che solo un maggiore ricorso alla contrattazione decentrata potrà consentire di ottenere significativi aumenti retributivi, in base alla produttività specifica dei diversi contesti produttivi, nonché di sostenere e sviluppare la competitività delle imprese e l'occupazione complessiva.
Un aspetto critico ampiamente rilevato è stato quello dell'eccessivo numero dei contratti collettivi, sul quale occorrerebbe intervenire - pur nella consapevolezza delle difficoltà e delle resistenze che un tale processo inevitabilmente incontrerebbe - per realizzare una reale semplificazione. Sempre secondo dati del CNEL (cui è affidato il compito di censire e classificare i contratti collettivi) i contratti esistenti sono circa 400 (di cui 67 nazionali), alcuni dei quali riguardano solo poche migliaia di lavoratori. Tale dato rappresenta un formidabile elemento di appesantimento burocratico, che rende difficile la gestione delle relazioni industriali e lo sviluppo di una organica contrattazione di secondo livello.
Posizioni anche molto diversificate si sono registrate sul problema del livello al quale collocare la contrattazione decentrata.
Il Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali - nei suoi interventi - ha evidenziato, in primo luogo, che il Governo non può entrare nel merito della dimensione territoriale dei contratti collettivi, trattandosi di una questione di esclusiva pertinenza delle parti sociali. Ciò nondimeno, il Governo ritiene che nella definizione dei livelli salariali il tradizionale rapporto tra contrattazione nazionale e contrattazione decentrata andrebbe invertito a vantaggio di quest'ultima. Al riguardo fa presente, in particolare, che occorre abbandonare l'idea che il salario definito a livello nazionale svolga una funzione di solidarietà, ricordando come in molti Paesi la componente salariale finalizzata a tale obiettivo (peraltro definita per legge) non superi il 40-50 per cento del salario complessivo. A giudizio del Governo, infatti, la definizione del salario dovrebbe avvenire, assai più di quanto non si registri attualmente, a livello aziendale e - per le piccole imprese operanti nei settori economicamente più polverizzati (artigianato, edilizia, agricoltura) - nella dimensione territoriale.
Per quanto concerne le parti sociali, numerosi interventi hanno preso a riferimento i contenuti delle Linee guida del 12 settembre 2008. Tale documento, su cui hanno espresso un orientamento di massima favorevole CISL e UIL, tiene fermo il sistema contrattuale sostanzialmente centralizzato risalente al Protocollo del 1993, ma vi introduce alcuni correttivi volti a valorizzare la contrattazione di secondo livello, partendo dal presupposto che il conseguimento di retribuzioni più elevate è possibile solo dal collegamento con livelli di maggiore efficienza e con la redditività, produttività e competitività dell'impresa (con un chiaro favor, quindi, per la contrattazione aziendale in luogo di quella territoriale, che dovrebbe restare limitata ai settori che tradizionalmente se ne avvalgono).
In primo luogo, le parti stipulanti i contratti nazionali sono chiamate a fissare le linee guida a cui devono attenersi i contratti aziendali. Inoltre, viene introdotto - mutuando il meccanismo previsto dal CCNL dei metalmeccanici - un elemento di garanzia retributiva, in base al quale i contratti nazionali possono riconoscere un importo a favore dei lavoratori che in sede aziendale non percepiscano nessun trattamento economico in aggiunta a quanto previsto dal contratto collettivo nazionale di categoria. Tale meccanismo dovrebbe indurre, nelle intenzioni dei proponenti, allo sviluppo della contrattazione aziendale, poiché svolgerebbe una importante funzione di stimolo per il datore di lavoro. Inoltre, viene introdotto il principio della derogabilità del contratto collettivo nazionale, nei soli casi da questo espressamente previsti, da parte della contrattazione territoriale. Tale derogabilità è peraltro prevista al solo scopo di favorire condizioni idonee allo sviluppo economico ed occupazionale, o per governare situazioni di crisi aziendale e può essere disposta,


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anche in via sperimentale e temporanea, solo nel caso in cui vi sia l'accordo tra le parti sociali operanti sul territorio.
La CGIL ha espresso una posizione complessivamente critica sui contenuti delle linee guida in materia di contrattazione decentrata. In primo luogo, la CGIL non condivide l'ipotesi di un'ampia derogabilità del contratto nazionale; inoltre, ritiene che la contrattazione di secondo livello dovrebbe valorizzare non solo la dimensione aziendale, ma debba estendersi in misure significativa anche ai territori e alle filiere. Infine, evidenzia che il sistema di relazioni industriali che emerge dal documento pecca di eccessiva rigidità e centralismo, contrastando di fatto con il proclamato obiettivo di valorizzare il livello decentrato e con le esigenze di flessibilità proprie di un periodo di grave crisi economica come quella attuale.
Perplessità sul modello di contrattazione decentrata definite dalle linee guida sono state espresse anche dall'UGL, la quale ha insistito, in particolare, sull'opportunità di collocare la contrattazione al livello di filiera per le realtà produttive ove non si svolge la contrattazione decentrata.
La Lega nazionale delle cooperative e delle mutue, nel dichiararsi convintamente favorevole allo sviluppo del secondo livello di contrattazione, osserva che incentivi in tal senso dovrebbero venire dagli stessi contratti nazionali in un quadro di regole contrattuali preciso ma allo stesso tempo flessibile. Quanto al livello al quale collocare tale contrattazione, ritiene fondamentale la capacità di adattamento ai diversi contesti economici soprattutto al fine di includervi (con contratti territoriali o di filiera) le piccole e medie imprese.
Il partito della Rifondazione comunista ha evidenziato la necessità che la contrattazione aziendale sia effettivamente esigibile, richiamando la positiva esperienza del CCNL dei metalmeccanici, ove è previsto un incremento retributivo definito a livello nazionale nelle aziende ove non si attua la contrattazione collettiva.
La Banca d'Italia ha evidenziato i positivi effetti che una riduzione degli automatismi degli incrementi retributivi fissati dal contratto nazionale potrebbe avere nell'ampliamento dei margini di intervento della contrattazione integrativa.
Il CNEL ritiene che la contrattazione debba prendere a riferimento, in via generale, il livello aziendale, evidenziando come la contrattazione territoriale finirebbe per penalizzare le aree dove la produttività e i prezzi dei beni sono più bassi (come nel Mezzogiorno) mentre la contrattazione settoriale danneggerebbe le imprese più efficienti a beneficio di quelle che, all'interno di un medesimo settore, abbiano realizzato incrementi di produttività inferiori alla media.
Un discorso a parte merita il contributo delle organizzazioni dell'artigianato (CNA e Confartigianato), le cui proposte si inseriscono nel solco dell'esperienza - assai significativa nella sua peculiarità - consolidatasi nel settore artigiano nel corso degli ultimi anni. La contrattazione del settore artigiano si caratterizza per una marcata territorialità, discendente dal fatto che tale settore si compone di un elevato numero di piccole e piccolissime imprese ampiamente diffuse nel territorio. Si tratta di un modello di «federalismo contrattuale» ove il secondo livello, negli spazi delegati dal livello nazionale (ma non solo), ha la caratteristica di essere cogente. È stata sottolineata, quindi, l'importanza di poter disporre di indicatori di produttività su base regionale (che l'ISTAT starebbe approntando), nonché evidenziato lo stretto legame esistente tra il secondo livello territoriale e l'ampio sviluppo della bilateralità che tradizionalmente caratterizza il settore artigiano.
Importanti contributi di riflessione sul tema dei livelli di contrattazione sono stati forniti dagli esperti auditi dalla Commissione. In particolare, sono stati rilevati gli aspetti problematici connessi alla misurazione degli incrementi di produttività ai quali agganciare gli incrementi retributivi a livello aziendale, soprattutto al fine di individuare la componente ascrivibile al fattore lavoro. Al fine di accrescere la capacità della contrattazione aziendale di


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premiare effettivamente gli incrementi di produttività, traducendosi in benefici economici per i lavoratori, è stata profilata la possibilità di un intervento legislativo volto a definire adeguati incentivi. È stato sottolineato, poi, lo stretto legame tra il problema della rappresentanza sindacale aziendale e lo sviluppo della contrattazione a tale livello. In alcuni interventi, inoltre, è stato evidenziato lo stretto legame esistente tra la struttura distrettuale di ampia parte del tessuto produttivo del nostro paese (ricordando che nel nostro ordinamento è presente una legislazione specifica, che prevede vari benefici a favore dei distretti) e la contrattazione a livello territoriale.
Tutti gli auditi hanno concordato, infine, sull'importanza della leva fiscale per la promozione della contrattazione aziendale. In tale ottica, un giudizio sostanzialmente positivo è stato espresso sulle recenti misure di detassazione e decontribuzione introdotte dal Governo, sebbene non siano mancati spunti critici sulla limitata portata complessiva degli interventi (in termini sia di platea di fruitori, sia dei entità dei benefici), sull'opportunità di estendere i benefici al lavoro straordinario (considerando che il lavoro straordinario è fruibile a discrezione del datore di lavoro, è meno accessibile alle donne ed è scarsamente significativo in un periodo di contrazione dell'attività produttiva come quello attuale), sulla necessità di distinguere tra le elargizioni unilaterali (cosiddetto «modello Della Valle») e aumenti retributivi concordati dalle parti (cosiddetto «modello Marchionne») e sull'ammontare delle risorse disponibili.

2.5. Rappresentanza e rappresentatività sindacale.
La questione delle regole per la misurazione della rappresentanza delle parti sociali è stata oggetto di vari interventi, soprattutto da parte sindacale. In particolare, è stato ampiamente sottolineato come il tema assuma nuova pregnanza nella prospettiva di un ampliamento della contrattazione decentrata, il cui buon funzionamento, soprattutto a livello aziendale, richiede regole chiare per la misurazione del peso dei vari soggetti rappresentativi dei lavoratori.
Una posizione assai netta nel senso della contrarietà a una legge sulla rappresentanza degli attori sociali è stata espressa dal ministro Sacconi, il quale ritiene necessario che il tema venga definito attraverso criteri determinati pattiziamente. Nulla esclude, peraltro, che la soluzione concordata dalle parti possa essere successivamente assunta da un soggetto istituzionale terzo, con compiti di pubblicità e certificazione.
La CISL ricorda che nella piattaforma messa a punto con CGIL e UIL è stato raggiunto un accordo sulla rappresentanza e sulla rappresentatività che si ispira al modello già utilizzato con successo nel settore pubblico e che un analogo sistema è tuttora oggetto del confronto con le organizzazioni datoriali. A tale ultimo riguardo ritiene essenziale il consenso prestato da Confindustria a rilevare i lavoratori iscritti ai sindacati e a trasferire i relativi dati a soggetti in possesso dei requisiti tecnici per trattarli e gestirli, come potrebbero essere l'INPS (con il quale potrebbe essere attivata un'apposita convenzione) o, nei settori ove esistono e sono sufficientemente strutturati, gli enti bilaterali.
L'UGL sottolinea che meccanismi certi di verifica della rappresentatività, fondati su indicatori inequivocabili e condivisi, costituiscono uno strumento essenziale per garantire la democrazia dei luoghi di lavoro. Al riguardo non esclude che tali indicatori, una volta definiti dalle parti, possano successivamente essere recepiti attraverso una legge. Ritiene, quindi, che occorra superare l'accordo del 1993 nella parte in cui, per la costituzione delle r.s.u. a livello aziendale, riserva un terzo dei seggi disponibili alle organizzazioni firmatarie del CCNL. Nel sostenere che l'unico indicatore da considerare dovrebbe essere il voto, osserva, infine, che la normativa che attualmente disciplina le elezioni dei


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rappresentanti sindacali non garantisce condizioni di parità per tutte le organizzazioni sindacali.
La Lega nazionale delle Cooperative e delle mutue ritiene che la definizione di sistemi di misurazione della rappresentatività delle parti sociali è essenziale per contrastare il fenomeno dei contratti-pirata.
La Confcooperative sottolinea che le regole sulla rappresentanza costituiscono la premessa indispensabile per qualsiasi processo di semplificazione contrattuale.
La CIDA giudica essenziale che i parametri da applicare per la rappresentatività, certificati sulla base di dati verificabili, vengano definiti non soltanto con il criterio quantitativo, ovvero in base alla consistenza numerica degli iscritti, ma anche con criteri qualitativi, desumibili dai modi, dagli strumenti, dagli spazi occupati, dai livelli e dalla significatività concreta degli atti dell'agire sindacale.
Richiamando le competenze costituzionalmente definite del CNEL, il presidente Marzano ritiene che l'organo da lui presieduto rappresenti la sede ideale per la raccolta e la documentazione dei dati associativi e di consenso elettorale dei sindacati nonché, per la certificazione ufficiale della rappresentanza degli attori sociali.
Tra gli esperti auditi, la professoressa Paola Olivelli osserva che è il pluralismo delle organizzazioni sindacali a porre il problema della rappresentatività. Il professor Carrieri ritiene opportuno che il legislatore intervenga con norme di legge solo una volta che le regole della rappresentanza siano state definite in modo concordato tra le parti. Infine, il professor Franco Carinci, ricordando il tentativo di riforma costituito dal cosiddetto «progetto di legge Gasperoni» (con cui nel corso della XIII legislatura si avviò, senza peraltro giungere a conclusione, un dibattito parlamentare su una possibile disciplina legislativa della rappresentanza e rappresentatività sindacale), invita a considerare il contributo che il legislatore può fornire in tale ambito (mettendo in conto le prevedibili resistenze sindacali), una volta che le parti sociali abbiano raggiunto un accordo sulla riforma degli assetti contrattuali.

2.6. Il fenomeno degli enti bilaterali.
Il ruolo cruciale che gli enti bilaterali possono volgere nel processo di modernizzazione delle relazioni industriali in Italia è stato ampiamente riconosciuto nel corso delle audizioni.
Il Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali ritiene che gli enti bilaterali costituiscono uno strumento essenziale per il passaggio a una stagione fondata su una nuova «complicità» tra capitale e lavoro, nonché una delle forme più significative attraverso le quali si concretizza l'idea del welfare complementare. Osserva che alla condivisione, nella dimensione aziendale, degli obiettivi e dei risultati dell'impresa da parte dei lavoratori (che potrebbe spingersi fino alla partecipazione agli utili), dovrebbe corrispondere, a livello territoriale, la cogestione di tutti i servizi di promozione e sostegno della persona nel lavoro e nella società. In particolare, i settori nei quali gli enti bilaterali potrebbero agire - e in certa misura già agiscono - sono quelli della salute e della sicurezza, del collocamento, del sostegno al reddito in caso di disoccupazione involontaria o di sospensione dal lavoro, della formazione professionale e della cosiddetta long term care (ossia il sostegno nel caso di non autosufficienza del lavoratore o di persone del suo nucleo familiare). A tale ultimo riguardo ricorda l'esperienza dei dipendenti delle compagnie di assicurazione, i quali, sulla base di un accordo fra ANIA (Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici) e organizzazioni sindacali, beneficiano di una forma assicurativa per cui al formarsi, a qualunque età, di una condizione di non autosufficienza, i lavoratori ricevono dall'assicurazione un'indennità di mille euro al mese. Gli organismi bilaterali possono inoltre trattare la sanità complementare (che non è più riservata soltanto ai dirigenti, ma la si trova anche nel contratto dei metalmeccanici), la previdenza complementare e persino la risoluzione delle controversie di lavoro. Ferma restando la natura privatistica degli enti bilaterali - il che esclude forme invasive di intervento


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normativo pubblico - auspica tuttavia che si possa giungere, per via contrattuale, ad una efficacia erga omnes di fatto delle prestazioni fornite a beneficio dei lavoratori, attraverso strumenti che incentivino le imprese ad aderire (ad esempio prevedendo che il lavoratore il quale non può beneficiare delle prestazioni dell'ente debba essere ristorato con una quota aggiuntiva di salario da parte del datore).
Com'è noto il fenomeno degli enti bilaterali ha trovato particolare sviluppo, nel nostro Paese, nel settore dell'artigianato, che vanta una ventennale tradizione in materia. Di grande interesse, pertanto, è stato il contributo dei rappresentanti delle maggiori organizzazioni artigianali.
La Confartigianato, ricorda che il fenomeno della bilateralità si è inserito all'interno di un modello di relazioni industriali autonomo e differenziato rispetto agli altri comparti, in quanto caratterizzato da atteggiamenti più partecipativi e meno conflittuali, nonché dalla marcata dimensione territoriale delle dinamiche contrattuali. La bilateralità nel settore artigianale si è sviluppata, in particolare, nel settore della formazione professionale, ove opera un Fondo che vanta un elevatissimo numero di aderenti. Nel settore della sicurezza del lavoro, grazie agli accordi bilaterali risalenti al 1996, si è riusciti - come testimoniano i dati INAIL relativi al 2007 - a contenere considerevolmente la dinamica degli infortuni (ridotti nel 2007 del 4,2 per cento, a fronte di una media di tutti i settori dell'industria dell'1,2 per cento). A livello locale, grazie agli enti bilaterali (diffusi soprattutto nelle regioni del Centro-nord) è stato possibile fare fronte autonomamente e in modo efficace a situazioni di crisi e sospensione dell'attività. Sono da tempo in corso trattative, anche con i sindacati confederali, per estendere il metodo bilaterale al settore sanitario e previdenziale.
La Confederazione nazionale dell'artigianato e della piccola e media impresa (CNA), evidenzia che la bilateralità e la territorialità sono aspetti essenziali di una realtà economica - quale quella artigiana - caratterizzata da imprese di piccole e piccolissime dimensioni (con una media di 3,4 dipendenti per impresa).
Entrambe le organizzazioni del settore artigiano evidenziano, poi, l'importanza di un sostegno legislativo della bilateralità, che si è sviluppato nel corso degli anni '90 ma non ha ancora trovato una piena ed adeguata sistemazione dal punto di vita normativo. Ciò che viene sollecitato, in particolare, non è un intervento legislativo volto a prevedere l'efficacia erga omnes dei contratti, bensì la loro applicazione integrale. Esperienze positive a cui fare riferimento sono, ad esempio, quella del Fondo per la formazione continua, la quale trova fondamento in una normativa che impone un costo anche alle imprese che decidono di non aderire al sistema bilaterale, imponendogli un corrispondente versamento all'INPS da devolvere successivamente al finanziamento dell'attività formativa delle regioni. Un aspetto da non sottovalutare, in tale contesto, è anche quello della riconduzione di simili meccanismi di contribuzione alternativa (a carico dei datori non aderenti agli enti) all'interno della parte economica dei contratti, ciò che faciliterebbe anche la successiva redistribuzione su base regionale delle adesioni. Infine, altro profilo di grande rilievo è quello relativo alla disciplina dei controlli sull'erogazione delle prestazioni.
CONFAPI ritiene che tutte le politiche attive e passive del lavoro possano trovare nella bilateralità una risposta efficace. Ricorda, poi, che nel settore delle piccole e medie imprese (oltre 50.000) che fanno capo a Confapi, sono state realizzate numerose esperienze positive di bilateralità, in particolare nel settore della sicurezza, della formazione permanente continua e della previdenza integrativa. È in fase di valutazione, inoltre, l'ipotesi di istituire un ente bilaterale per la regolazione del rapporto di lavoro, che si estenda fino alla gestione del contenzioso.
L'UGL lamenta come la partecipazione al sistema della bilateralità sia di fatto preclusa ad alcune categorie di lavoratori, posto che questa si sviluppa prevalentemente


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a livello territoriale, dove l'accesso di alcune organizzazioni sindacali non sempre è garantito.
La CLAAI osserva innanzitutto che gli enti bilaterali, in quanto prodotto della società civile ed espressione di democrazia, devono essere garantiti nella loro autonomia. L'ammontare spesso enorme delle risorse che gli enti bilaterali gestiscono e il rilievo pubblicistico delle funzioni da essi svolte, tuttavia, non escludono a priori la possibilità di un intervento pubblico, volto a valorizzare il ruolo di tali organismi e a garantirne - anche attraverso puntuali regole gestionali e deontologiche - trasparenza ed efficienza. Ovviamente tale regolamentazione deve essere demandata, in prima battuta, alla contrattazione collettiva; tuttavia, laddove il sistema non sia in grado di darsi autonomamente regole condivise ed efficaci, l'intervento del legislatore sarebbe giustificato ed opportuno. Al riguardo fa presente che manca, ad esempio, una normativa che regoli incompatibilità e possibili conflitti di interesse tra amministratori e funzionari. Richiamando l'esigenza di introdurre regole per la gestione dei bilanci, ricorda che attualmente la legge detta norme chiare ed efficaci per la gestione delle risorse del Fondo interprofessionale per la formazione continua (istituito nel 2001, il Fondo si alimenta con una trattenuta dello 0,30 per cento), prevedendo che le spese di funzionamento non possano superare l'8 per cento del totale.

3. Il secondo ciclo di audizioni (10-25 febbraio 2009).

Come detto, la sottoscrizione dell'Accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio ha indotto la Commissione a programmare un nuovo e rapido ciclo di audizioni, prima di procedere all'approvazione del documento conclusivo. Nel corso di questa fase sono stati ascoltati l'ARAN, talune delle organizzazioni dei datori di lavoro e dell'impresa (Confindustria e Confapi), le maggiori organizzazioni sindacali (CGIL, CISL, UIL e UGL) e l'ABI, con l'obiettivo di analizzare i contenuti salienti dell'accordo, individuarne eventuali aspetti problematici e definire i possibili sviluppi connessi alla sua progressiva implementazione.
Il Presidente dell'ARAN, Massimo Massella Ducci Teri, esprime una valutazione complessivamente positiva dell'Accordo del 22 gennaio, in primo luogo, in quanto esso afferma con chiarezza l'unicità del modello contrattuale nel settore pubblico e privato. In via generale, ritiene che l'Accordo costituisca un tassello della più ampia riforma del lavoro pubblico, attualmente all'esame del Parlamento, da cui discenderanno - una volta tradotta in legge tale riforma - i contenuti necessari all'implementazione dell'Accordo.
Venendo ai profili di maggiore interesse per il settore pubblico, osserva innanzitutto che la durata triennale dei contratti comporterà evidenti effetti di semplificazione del sistema. In tale quadro, anche la previsione nei contratti collettivi di un meccanismo che consenta di definire ex ante la copertura economica per la vacanza contrattuale costituisce un indubbio elemento di razionalizzazione. Per quanto concerne la dinamica degli effetti salariali, auspicando che la fase pre-negoziale volta all'individuazione delle risorse destinate alla contrattazione non comporti i ritardi registrati sovente in passato, giudica positivamente il fatto che la verifica di eventuali scostamenti tra inflazione prevista e inflazione reale avvenga alla scadenza del triennio contrattuale, essendo una scelta coerente con i meccanismi di appostamento delle risorse proprie dei bilanci pubblici.
Quanto alla contrattazione di secondo livello, ricorda che nel lavoro pubblico essa è ampiamente diffusa, interessando il 95 per cento delle pubbliche amministrazioni. Peraltro, laddove essa non è stata sempre praticata (come nel caso degli enti locali), ciò è dovuto non ad una mancanza di volontà di contrattare, bensì unicamente al fatto che le condizioni economiche dell'ente non lo consentono.
Pertanto, l'elemento di garanzia previsto nell'Accordo dovrebbe essere riconosciuto


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solo a condizione che vi sia l'indisponibilità dell'amministrazione a sedersi al tavolo delle trattative, senza mettere in discussione i limiti propri dei bilanci di ciascun ente.
Ritiene tuttavia essenziale agire sull'aspetto qualitativo della contrattazione di secondo livello, evitando elargizioni «a pioggia» o progressioni di carriera basate solo sull'anzianità, al fine di legare i benefici economici a meccanismi di valutazione dei risultati, in linea con quanto già previsto, del resto, dagli ultimi contratti di settore.
Sul versante della bilateralità, dopo aver spiegato le ragioni strutturali - legate al fatto che la contrattazione non può incidere sui bilanci degli enti pubblici - che ne impediscono la diffusione come nel settore privato, ricorda il grande esempio di bilateralità costituito dai fondi di previdenza complementare, che sono stati realizzati tramite la contrattazione e che stanno progressivamente interessando tutti i comparti. Ritiene, peraltro, che il campo dove sicuramente gli strumenti della bilateralità potrebbero dare grandi risultati nel settore pubblico è quello della mobilità guidata del personale. Infine, per quanto attiene alla questione della rappresentanza, compiacendosi del fatto che il sistema realizzato dall'ARAN nel settore pubblico sia stato da molti valutato positivamente, osserva tuttavia che esso appare poco adatto a piccole realtà aziendali private, ove sarebbe necessario individuare meccanismi che consentano di collegare il sistema del voto a realtà dimensionali - anche a carattere territoriale - più ampie.
Paolo Luigi Maria Galassi, presidente della CONFAPI, giudica molto positivamente l'intesa raggiunta con l'Accordo quadro del 22 gennaio, che rappresenta la base di partenza, non solo per una revisione del sistema di relazioni industriali (che dovrà consentire di pervenire a modelli contrattuali più adeguati alle esigenze delle PMI), ma anche per analizzare, nell'attuale situazione di crisi ormai generalizzata, le difficoltà proprie del mondo del lavoro in ciascun settore produttivo.
Quanto all'IPCA (l'indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo per l'Italia, assunto dall'Accordo stesso a nuovo elemento di recupero dell'inflazione), osserva che le preoccupazioni di alcuni sull'effettiva idoneità di tale meccanismo ad assicurare la tutela del potere d'acquisto dei lavoratori paiono infondate, ove si consideri che il soggetto terzo a cui sarà affidato il compito di elaborarlo verrà individuato con la partecipazione di tutte le parti sociali, le quali giocheranno un ruolo fondamentale anche al momento della verifica di eventuali scostamenti rispetto all'inflazione reale.
Venendo agli effetti della grave crisi economica in atto ed agli strumenti per fronteggiarla, osserva in primo luogo che le PMI con meno di 15 dipendenti (circa l'80 per cento del totale), costrette in questi mesi a ridurre il proprio personale, soffrono in realtà un danno aggiuntivo assai grave, costituito dal fatto che vengono a privarsi di un patrimonio di know how faticosamente accumulato: sarà dunque difficoltoso ripartire - con costi aggiuntivi non indifferenti - una volta che, superata crisi, sarà necessario ricostituire i precedenti organici. Il sistema delle PMI ha quindi tutto l'interesse a rafforzare il sistema di garanzie esistenti per i lavoratori e a produrre uno sforzo, anche economico, per contenere gli effetti più deleteri della crisi stessa. A tale proposito, dopo aver sottolineato l'importante ruolo della bilateralità, ricorda che la CONFAPI si è espressa a favore di un prelievo contributivo aggiuntivo finalizzato a consentire alle PMI un più ampio accesso agli ammortizzatori sociali.
Alberto Bombassei, vicepresidente per le relazioni industriali, affari sociali e previdenza della Confindustria, esprime in primo luogo soddisfazione per la firma di un accordo che, dopo lunghi anni di trattative, consentirà di avvicinare le relazioni industriali nel Paese agli standard dei paesi più evoluti. Deve invece prendere atto con rammarico del rifiuto della CGIL di firmare l'accordo, nonostante il grande sforzo di mediazione messo in atto proprio per andare incontro alle richieste che


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da tale organizzazione sindacale provenivano. Si augura che ci siano margini di recupero, a partire dalla stipula degli accordi interconfederali, ai cui tavoli verrà ovviamente invitata anche la CGIL.
Entrando nel merito dell'Accordo del 22 gennaio, osserva che i punti più qualificanti riguardano la durata dei contratti, l'IPCA, il doppio livello di contrattazione e il connesso elemento di garanzia, nonché la disciplina delle clausole di uscita.
Per quanto concerne la durata dei contratti, ritiene che un rinnovo ogni tre anni sia una soluzione adeguata, soprattutto se si determinerà un effettivo intervallo temporale di tale durata fra un rinnovo e l'altro, consentendo così ad imprese e lavoratori di avere un significativo periodo di stabilità e certezze in ordine ai reciproci diritti e doveri.
Con riferimento all'IPCA, ricorda che i sindacati avevano posto una questione pregiudiziale, consistente nell'abbandono del criterio dell'inflazione programmata e nell'introduzione di un indice di carattere previsionale. Dopo un lungo confronto è stata accettata l'idea di costruire l'IPCA, ossia un indice previsionale triennale depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati, costruito sulla base di un parametro europeo. Si tratta di una innovazione sostanziale che garantisce una maggiore salvaguardia del potere d'acquisto e che consentirà di uscire dalle polemiche che negli ultimi anni hanno reso ingestibili i rinnovi dei contratti nazionali. Nel momento in cui è stato superato il meccanismo dell'inflazione programmata a favore di un'inflazione prevista, è stato necessario precisare anche come si determina l'incremento dei minimi tabellari. È stato stabilito, quindi, che il dato di inflazione prevista per il triennio sarà applicato ad una base di calcolo formata da alcune voci determinate a livello interconfederale, ma, ovviamente, da valorizzare nell'ambito delle singole categorie.
Per quanto riguarda il doppio livello di contrattazione, sono stati introdotti importanti elementi di novità (tra cui l'attivazione di un «elemento di garanzia», nella misura ed alle condizioni concordate nei contratti nazionali, a favore dei lavoratori dipendenti da aziende nelle quali non si esercita la contrattazione di secondo livello e che non percepiscono altri trattamenti economici individuali o collettivi rispetto a quanto previsto dal contratto nazionale), i quali, unitamente ad adeguate politiche di defiscalizzazione e decontribuzione, contribuiranno a promuovere la contrattazione decentrata, garantendo maggiore aderenza tra aumenti di produttività e incrementi salariali.
Quanto alle «clausole di uscita», ossia la possibilità di derogare il contratto collettivo nazionale, osserva che si tratta di un principio di cui il Fondo Monetario Internazionale, la BCE e la Commissione Europea stanno da tempo proponendo l'introduzione. Considerato, poi, che il principio è già stato condiviso anche da organizzazioni della CGIL in contratti nazionali di categoria, l'unico vero elemento di novità è dato dalla possibilità che siano i contratti stessi a definire modalità per la stipula di accordi in deroga. Va considerato, inoltre, che la soluzione delle clausole di uscita era il perno attorno al quale ruota la proposta della «Commissione Giugni» del 1997.
Osserva, poi, che nuove regole in materia di rappresentanza delle parti nella contrattazione collettiva, così come procedure di conciliazione ed arbitrato definite dall'autonomia collettiva, costituiscono l'essenziale corollario dell'impianto di riforma definito dall'Accordo del 22 gennaio. Si tratta, peraltro, di due elementi che vanno ad intrecciarsi con i contenuti del disegno di legge governativo sugli scioperi nel settore dei trasporti pubblici di recente presentato dal Governo.
Al riguardo ritiene che un corretto equilibrio tra iniziative legislative ed esercizio dell'autonomia collettiva sia in grado, se pienamente sviluppato, di realizzare un sistema di relazioni sindacali moderno ed adeguato alle esigenze produttive del Paese.
Infine, per quanto concerne il dibattito sugli strumenti da mettere in campo per affrontare la crisi economica in atto, auspica l'estensione degli ammortizzatori sociali


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alle categorie di lavoratori che ne sono prive, anche se non può negarsi che il problema vero è quello di reperire le risorse per finanziare una tale operazione. Al riguardo, dopo avere ricordato che la spesa previdenziale italiana è assai più elevata della media europea, invita a riflettere sull'opportunità di rimettere seriamente in agenda la questione dell'innalzamento dell'età pensionabile.
Luigi Angeletti, segretario generale della UIL, dopo aver ricordato che la sua organizzazione sindacale già da molti anni ha posto il problema del superamento dell'Accordo del 1993, spiega i motivi che hanno indotto la UIL a firmare l'Accordo del 22 gennaio. In primo luogo, la conferma di un doppio livello di contrattazione (che non rappresenta certo un dato scontato, come dimostra l'esperienza di altri paesi dove c'è solo il livello nazionale e aziendale) appare essenziale in una realtà produttiva frammentata come quella italiana. Accanto alla contrattazione aziendale, tuttavia, è opportuno valorizzare anche quella territoriale, ma - non essendo possibile imporle entrambe in modo perentorio - la scelta di compromesso è stata quella di confermarne la praticabilità e di auspicarne l'incentivazione fiscale e contributiva.
Quanto all'IPCA, ritiene che si tratti di una scelta condivisibile, che segna il necessario superamento di un meccanismo - quello dell'inflazione programmata definito dal Governo - che soprattutto negli ultimi anni non ha dato buona prova di sé. L'inflazione programmata, oltretutto, implica una precisa scelta politica e si lega all'esigenza di disinflazionare l'economia, che ha senso in un contesto nel quale le autorità pubbliche abbiano realmente il potere di determinare prezzi e tariffe e, quindi, di realizzare una effettiva politica dei redditi. Il fatto, poi, che l'IPCA sia un indicatore unico applicabile, a determinate condizioni, anche al settore pubblico, implica che il Governo rinuncia in parte al controllo dell'andamento retributivo nel pubblico impiego. Rispetto alla previsione per cui l'IPCA viene depurato dell'inflazione energetica importata, ritiene che si tratti di una scelta obbligata, poiché ciò da cui occorre proteggersi sono gli aumenti di prezzo improvvisi dell'energia. Rimane, tuttavia, sul tappeto il problema da risolvere in tempi brevi del soggetto a cui affidare il compito di determinazione dell'IPCA. Al riguardo, ricorda che in un primo momento si è pensato di affidare il compito alla Banca d'Italia o all'ISTAT, ma per ragioni diverse entrambi gli enti non si sono, al momento, dichiarati disponibili.
Grande importanza la UIL annette alla parte dell'Accordo del 22 gennaio relativo agli enti bilaterali, soprattutto ove si consideri che il sistema di protezione sociale italiano non è né universale, né omogeneo. L'obiettivo verso il quale tendere deve essere, quindi, quello di estendere la bilateralità anche all'interno di realtà produttive di piccole dimensioni, facendo leva sulle forme associative dei lavoratori e delle imprese operanti a livello territoriale.
Quanto, infine, allo sciopero nei servizi pubblici essenziali, ritiene necessario regolamentare non già il diritto dei singoli lavoratori di scioperare, bensì la prerogativa delle organizzazioni sindacali di proclamarlo, introducendo una norma volta a prevedere che solo le organizzazioni sindacali che rappresentano almeno il 51 per cento dei lavoratori coinvolti possano farlo. In alternativa, si dovrebbe stabilire la necessità di un referendum tra i lavoratori. In settori molto delicati, caratterizzati da una estrema esiguità delle unità lavorative indicate (si pensi ai controllori di volo), bisognerebbe invece considerare l'ipotesi di consentire unicamente scioperi «virtuali», tali da limitare le ricadute del conflitto alle sole parti interessate e di garantire una piena tutela dell'utenza.
Raffaele Bonanni, segretario generale della CISL, ritiene che l'Accordo del 22 gennaio rappresenti un passo avanti importante, che raccoglie molte delle rivendicazioni storiche della sua organizzazione sindacale. Fa presente che all'Accordo si è giunti, dopo numerosi tentativi purtroppo andati a vuoto negli anni passati, a seguito di un lungo e laborioso sforzo di confronto e mediazione con tutte le parti sociali.


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Rammaricandosi per la mancata sottoscrizione da parte della CGIL, auspica che nei prossimi mesi, a partire dagli imminenti rinnovi contrattuali e dai numerosi adempimenti previsti per l'implementazione per l'accordo medesimo (soprattutto per quanto attiene alla definizione delle regole sulla rappresentanza e rappresentatività sindacale), si concretizzino le condizioni per una ricomposizione del dissenso, affinché si possa riprendere a marciare uniti nell'interesse del Paese e dei lavoratori, in un momento di grande difficoltà per tutti. Venendo al merito dell'accordo, sottolinea in primo luogo l'importanza di aver previsto un doppio livello di contrattazione, ricordando come si tratti di un dato (che rappresenta una peculiarità del sistema italiano di relazioni industriali) niente affatto scontato, ove si consideri che fino a quattro anni fa la posizione di Confindustria e delle altre organizzazioni datoriali era quella dell'alternatività dei due livelli.
Altro aspetto di grande rilievo è il nuovo indicatore di inflazione previsionale triennale (IPCA), più elevato e credibile del tasso di inflazione programmata fissato dal Governo, con un meccanismo di recupero certo alla fine del triennio contrattuale degli scostamenti tra l'inflazione prevista e quella effettiva e la previsione della copertura dei nuovi contratti dalla data di scadenza dei precedenti.
Fa presente che con il nuovo indicatore previsionale per l'inflazione i salari aumenterebbero del 2,1 per cento in più nel triennio 2009-2011 rispetto al tasso di inflazione programmata del Governo per lo stesso periodo, mentre la copertura economica dei nuovi contratti dalla data di scadenza dei precedenti e il nuovo meccanismo di recupero degli scostamenti, renderanno più rapida e sicura la difesa del potere d'acquisto dei lavoratori.
Per quanto concerne il fondamentale tema della rappresentanza, la CISL si dichiara disponibile, al fine di dare prontamente seguito a quanto previsto dall'accordo, a cercare un'intesa sui criteri di misurazione della rappresentatività, a partire dal sistema adottato, con buoni risultati, del pubblico impiego. Si tratta di un tema che si intreccia inevitabilmente con quello dello sciopero nei servizi pubblici essenziali, che necessita anch'esso di una disciplina adeguata al fine di evitare - fermo restando il diritto individuale di astensione dal lavoro sancito dall'articolo 40 della Costituzione - le degenerazioni che troppo spesso si verificano a danno degli utenti e degli stessi lavoratori non aderenti. Sulla base di un'intesa raggiunta dalle parti, poi, sarebbe opportuno che il Parlamento ne recepisse i criteri essenziali, traducendoli in legge ai fini di un'applicazione generalizzata.
Infine, ricordando le peculiarità del settore edile, caratterizzato da una forte dispersione aziendale, sottolinea l'importanza di sviluppare la contrattazione decentrata anche a livello territoriale, nonché di promuovere lo sviluppo della bilateralità, soprattutto nei settori caratterizzati da precarietà e da più bassi livelli di tutele.
Guglielmo Epifani, segretario generale della CGIL, chiarisce in primo luogo che i motivi della mancata sottoscrizione da parte della CGIL dell'Accordo quadro del 22 gennaio - al di là delle letture che ne sono state data in chiave politica - sono esclusivamente di carattere sindacale e vanno ricondotti al fatto che numerosi aspetti dell'Accordo, sui quali si è tentata fino all'ultimo una mediazione, non possono essere condivisi. In primo luogo, il documento non definisce con una omogeneità accettabile il rapporto tra lavoro pubblico e privato, come dimostra, in particolare, il fatto che il recupero degli eventuali scostamenti tra inflazione prevista e inflazione reale avverrà in tempi diversi. Per quanto concerne la contrattazione di secondo livello, poi, l'Accordo non innova in alcun modo il Protocollo del 1993, limitandosi a prevedere la contrattazione aziendale, senza alcuna possibilità di diffondere realmente la contrattazione a livello di sito, filiera o territorio.
Venendo al sistema definito per la dinamica degli effetti economici, basato su un nuovo indica previsionale (IPCA), osserva preliminarmente che - se è vero che il meccanismo dell'inflazione programmata


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introdotto dal Protocollo del 1993 non ha consentito di recuperare pienamente l'inflazione e ha contribuito a schiacciare la produttività verso il basso - è altresì innegabile che tali effetti si sono resi più evidenti soprattutto da quando si è affermata la pratica di definire l'inflazione programmata senza il contributo delle organizzazioni sindacali. L'analisi dei dati degli ultimi anni dimostra inequivocabilmente che con i Governi di centro-destra l'inflazione programmata si è attestata a circa la metà di quella reale, mentre con i Governi di centro-sinistra lo scarto è sempre stato assai ridotto.
Ritiene, altresì, che il nuovo sistema basato sull'IPCA sia inaccettabile per un duplice ordine di motivi.
In primo luogo, depurare l'IPCA dall'inflazione energetica importata significa accollarne il relativo costo interamente sui lavoratori. Peraltro, se è vero che l'effetto inflazionistico dei beni energetici importati rappresenta un problema di cui tenere conto, è altresì vero che rispetto al Protocollo del 1993 - che prevedeva un'analoga depurazione - la situazione è enormemente cambiata, in quanto l'euro ha sostituito la lira e non si pone più, pertanto, il problema del deprezzamento della divisa nazionale e del mutamento delle ragioni di scambio, che esisteva allora. Al riguardo ricorda che la proposta della CGIL, che ha visto la totale indisponibilità delle controparti, era quella di far pagare l'inflazione energetica importata per un terzo allo Stato, per un terzo ai datori di lavoro e per un terzo ai lavoratori. Infine, invita a considerare che nel 2009 l'IPCA, depurato dall'inflazione energetica importata, risulterebbe maggiore dello 0,6 rispetto ai prezzi al consumo, con effetti paradossali ove si consideri che ci si trova in un periodo di forte crisi economica.
In secondo luogo, il meccanismo definito per l'individuazione della base di calcolo impedisce di per sé il pieno recupero del potere di acquisto dei salari. In quanto operante a livello centrale, il meccanismo in questione non consente di tenere conto del «valore punto» e delle basi di calcolo come storicamente definite dai vari contratti collettivi, precludendo quella flessibilità settoriale che invece è di fondamentale importanza anche in un momento di crisi economica come l'attuale (si consideri, ad esempio, che mentre tutto il comparto metalmeccanico è già in grave sofferenza, lo stesso non può dirsi per il settore alimentare).
Altro punto critico dell'Accordo quadro è, ad avviso della CGIL, la derogabilità dei contratti nazionali. L'avere introdotto formalmente tale principio in termini generali significa che, d'ora innanzi, nessun reale argine potrà essere posto a una ampia diffusione delle clausole di uscita, con pericolose ripercussioni sulla stessa «tenuta» del contratto nazionale ed effetti deleteri soprattutto nei settori meno strutturati (nel trasporto pubblico locale, ad esempio, la situazione di crisi generalizzata autorizzerebbe una pratica assai ampia di tali clausole).
Questione delicata è anche quella della bilateralità. Si tratta certamente di un fenomeno importante, che va sostenuto e sviluppato. Tuttavia, occorre guardarsi dal rischio di eccessi e degenerazioni, sempre possibile in assenza di una governance chiara e condivisa. Occorre escludere - ad avviso del segretario Epifani - conflitti di interesse, stabilire che gli enti bilaterali non possono in alcun caso finanziare sindacati e associazioni di imprese e, in particolare, escludere che diritti fondamentali dei lavoratori (si pensi alla cassa integrazione) possano essere condizionati (come previsto da norme recenti, la cui costituzionalità appare assai dubbia) al previo intervento finanziario degli enti bilaterali.
Quanto al tema della rappresentatività sindacale, ritiene che vada affrontato separatamente rispetto alle questione del diritto di sciopero. Anche su tale ultimo aspetto, desta perplessità l'ipotesi delineata dal Governo di consentire la proclamazione degli scioperi solo ad organizzazioni sindacali che rappresentino più del 50 per cento dei lavoratori del settore. In ogni caso, su entrambe le questioni sarebbe opportuno che una soluzione concordata tra le parti (che


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mutui ad esempio il sistema misto iscritti/voti del pubblico impiego) preceda una eventuale disciplina legislativa.
Invita, poi, a considerare l'opportunità di aprire un discorso sui contratti di solidarietà, che possono rappresentare - attraverso adeguate incentivazioni - uno strumento aggiuntivo utile in un momento di crisi come quello attuale. Come dimostra l'esperienza tedesca, infatti, tali contratti consentono alle imprese, in periodi di momentanea contrazione dell'attività produttiva, di evitare licenziamenti e, quindi, di perdere manodopera formata.
Conclusivamente, ritiene che l'Accordo quadro del 22 gennaio delinei un sistema molto accentrato e burocratizzato, che non lascia spazio alla flessibilità che sarebbe necessaria per una gestione moderna delle relazioni industriali. Diversamente da quanto è stato sostenuto da alcuni, il fatto che su di esso non sia stato trovato l'accordo di tutte le parti sociali non renderà certo agevole il prosieguo delle relazioni sindacali; la CGIL, in ogni caso, ha fatto la sua parte, con proposte di mediazione di assoluto buon senso, che non sono state tuttavia accolte. La stessa opportunità di rinviare la sottoscrizione dell'Accordo di alcuni mesi - considerando il periodo di crisi e la mancanza di rinnovi contrattuali a breve - non è stata presa in considerazione. In ogni caso, la CGIL non si sottrarrà al suo ruolo in futuro, dichiarandosi disponibile a sedere a tutti i tavoli ai quali verrà invitata, valutando nel merito le proposte che verranno formulate.
Renata Polverini, segretario generale dell'UGL, giudica importante l'Accordo quadro - sottoscritto dalla sua organizzazione con l'assunzione di una precisa responsabilità di politica sindacale - che punta ad una valorizzazione del contratto collettivo nazionale e ad un pieno riconoscimento del ruolo delle rappresentanze sindacali unitarie e aziendali. In particolare, ritiene che l'implementazione del secondo livello di contrattazione renda possibile - anche attraverso forme di sgravi ed incentivi fiscali - legare gli aumenti retributivi dei lavoratori alla produttività, conciliando gli interessi delle imprese con quelli dei lavoratori e fornendo a questi ultimi (e alle organizzazioni sindacali) maggiori opportunità di partecipazione nell'azienda.
Esprime, poi, apprezzamento per le nuove modalità di calcolo dell'inflazione attesa, che prevedono il coinvolgimento di un organo terzo nella definizione dell'indice previsionale, il cosiddetto IPCA. Ritiene infatti che tale nuovo sistema possa consentire l'individuazione di un indice previsionale più vicino all'inflazione reale e, rimettendo all'autonomia delle parti sociali la valutazione dell'effettivo scostamento, permetta ai lavoratori di recuperare potere di acquisto a far data dalla scadenza dei contratti collettivi nazionali, ponendo fine al meccanismo delle erogazioni una tantum, necessariamente legato al ritardo nei rinnovi contrattuali. Giudica, infine, l'accordo non particolarmente stringente sulla questione della definizione del «valore punto» - ovvero il valore economico attribuito ad ogni punto di inflazione ai fini del calcolo delle retribuzioni - lasciando un certo margine affinché esso sia individuato dai vari settori.
In merito alla questione della tassazione dei redditi da lavoro dipendente, fa notare che l'Accordo quadro segna un momento importante nel processo di convergenza tra lavoro privato e lavoro pubblico, prevedendo la possibilità che gli incentivi fiscali previsti nell'ambito della contrattazione privata di secondo livello si estendano anche al comparto pubblico, pur nel rispetto dei vincoli imposti dal bilancio statale. Su tale aspetto, in particolare, osserva che l'impegno del Governo a rendere strutturali gli sgravi contributivi e fiscali legati ai premi aziendali e di risultato permette di stimare una maggiore disponibilità reddituale che, nel caso di premio di 500 euro, varia da 111 a 184 euro, mentre, nel caso di premio di 1500 euro (con reddito compreso tra 20.000 e 35.000 euro), sale a 496 euro.
In tema di bilateralità, sottolinea l'esigenza di sottoporre gli enti ad un sistema di garanzie che ne assicuri la trasparenza e consenta la partecipazione di tutti i


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soggetti muniti di adeguata rappresentatività, rilevando comunque la necessità di salvaguardare la centralità della competenza pubblica, soprattutto in materia di ammortizzatori sociali. Su questo ultimo tema auspica la messa in campo di tutti gli strumenti possibili da parte dell'Esecutivo - soprattutto per le categorie che ne sono allo stato escluse - agendo anche per favorire l'erogazione del credito alle piccole e medie imprese.
Sull'argomento della rappresentatività e della rappresentanza della parti sociali, che giudica strettamente connesso alla valorizzazione degli enti bilaterali e della contrattazione di secondo livello, richiama l'attenzione sulla necessità di raggiungere un'intesa tra le parti - eventualmente accompagnata da una legislazione di sostegno - su un sistema di regole che prenda in considerazione anche la capacità di contrattare delle rappresentanze imprenditoriali e che tenga conto di criteri di valutazione ulteriori rispetto a quelli attuali. Inoltre, in merito ad un possibile intervento legislativo del Governo sul diritto di sciopero nel servizio pubblico di trasporto, sul quale si dichiara disponibile ad avviare una discussione con l'Esecutivo, richiama la necessità di contemperare il diritto dei cittadini alla mobilità con il diritto allo sciopero dei lavoratori, riconosciuto come diritto individuale dalla Costituzione, auspicando comunque sull'argomento il raggiungimento di una preventiva intesa tra le parti sociali.
Infine, esprime rammarico per la mancata menzione, all'interno dell'accordo, del contratto di distretto e di filiera, che avrebbe potuto costituire un elemento di ulteriore garanzia nei confronti dei lavoratori, soprattutto in quella realtà aziendali dove la contrattazione di secondo livello risulta di più difficile attuazione. Al contrario, giudica il sistema della contrattazione territoriale non idoneo a coprire il fabbisogno della realtà imprenditoriale italiana, considerate le caratteristiche complesse e variegate del sistema produttivo, che non sarebbero in quel caso tenute in debito conto - soprattutto per quanto concerne talune zone del Mezzogiorno - comportando inoltre quel tipo di negoziazione un rischio molto più elevato di centralizzazione della decisione.
Corrado Faissola, presidente dell'ABI, dopo aver sottolineato che l'Accordo quadro del 22 gennaio è stato sottoscritto in un clima di solidarietà tra i diversi sindacati del settore, ha rivendicato la capacità del sistema bancario italiano di operare processi di riorganizzazione e di concentrazione, che gli hanno consentito di competere con i più grandi gruppi bancari a livello mondiale. Si è così provveduto, con proprie risorse, a rinnovare e qualificare le dotazioni organiche di personale, nonché a smaltire in forma consensuale le procedure di esubero, stipulando una quantità rilevante di accordi a livello nazionale, aziendale, interaziendale e territoriale, che hanno consentito di gestire la ristrutturazione del sistema senza gravi tensioni sociali. Sottolinea, quindi, l'alta percentuale di giovani laureati occupati presso le imprese bancarie, nonché l'aumento del tasso di occupazione femminile.
Ritiene che, in un contesto di crisi globale, il settore bancario italiano, nonostante si siano registrate delle inevitabili perdite, abbia saputo mantenere un buon livello di stabilità nella fornitura dei servizi, senza gravare sul bilancio pubblico, pur dovendo scontare una posizione di minor favore rispetto agli altri Paesi dell'Unione europea, determinata da un maggior costo del lavoro e da un trattamento meno vantaggioso in materia fiscale.
In tema di detassazione dei premi della parte di salario correlata ai risultati aziendali, che ritiene costituisca uno dei punti qualificanti dell'Accordo del 22 gennaio, pone in evidenza la farraginosa normativa che disciplina le modalità con cui le banche possono accedere a tali forme di incentivo fiscale, sollecitando un intervento normativo che semplifichi le procedure e faciliti la verifica dei requisiti d'accesso. Auspica inoltre un'estensione più generale al sistema bancario di quelle agevolazioni fiscali e contributive di cui già beneficiava alla fine degli anni '90, considerata


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l'attuale situazione di ricavi fortemente in calo e valutate le rilevanti perdite sui crediti.
Dopo aver rinviato ai prossimi mesi per una valutazione più complessiva dell'effettivo impatto della crisi economica sul versante occupazionale, che ritiene tuttavia abbia già inciso notevolmente sulle piccole imprese, dichiara la propria disponibilità a promuovere la stipula di un accordo di carattere generale, che riguardi tutto il settore bancario, al fine di attivare meccanismi per l'anticipazione dei trattamenti di cassa integrazione ai lavoratori che ne abbiano diritto. Al riguardo, in particolare, ricorda che importanti intese in merito sono state già raggiunte a livello locale, con la predisposizione anche di una apposita modulistica.

4. Conclusioni e proposte.

Come anticipato in precedenza, con il presente documento conclusivo si è ritenuto opportuno far seguire, ad una prima parte ricognitiva (sufficiente ad offrire una sintesi delle posizioni emerse nel corso dei due cicli di audizioni), una seconda parte di natura più direttamente propositiva, che si pone l'obiettivo di verificare ed orientare le eventuali iniziative che possono provenire dal versante parlamentare.
Prima di avviarsi in questa riflessione, peraltro, appare opportuno svolgere compiutamente una premessa, che fa riferimento alla piena e incondizionata accettazione di quel diritto sindacale «vivente», emerso nel vuoto attuativo dell'articolo 39, secondo comma e seguenti, della Costituzione, e che risulta consolidato da tutto un coerente indirizzo legislativo a partire dallo Statuto dei diritti dei lavoratori e consacrato dalla stessa giurisprudenza costituzionale: diritto sindacale fondato sul primato dell'autonomia collettiva, riconosciuta come capace di organizzarsi e di agire liberamente.
In questo senso, non vi sono dubbi sul fatto che dall'indagine conoscitiva emerga un'effettiva volontà di «auto-riforma», nonché una tendenziale convergenza di posizioni, all'insegna di una sostanziale continuità rispetto al passato: non un rovesciamento, ma un aggiornamento del sistema esistente, che tenga conto al tempo stesso del cambio avvenuto nel contesto socio-economico e di qualche «difetto» o, addirittura, «effetto perverso» venuto alla luce nel corso di oltre un quindicennio, da 1993 ad oggi. Nessuno dubita, infatti, che nell'attuale fase di crisi economico-produttiva (che nel 2009 genererà, con ogni probabilità, i suoi maggiori e più pericolosi effetti) le priorità assolute siano quelle della difesa dei posti di lavoro e del sostegno ai redditi. In questo ambito, spetterebbe al sistema delle relazioni industriali (in primis, imprese e sindacati) lavorare all'attuazione di una riforma condivisa dei meccanismi contrattuali, la quale - come previsto anche dall'Accordo-quadro del 22 gennaio scorso - punti con forza su modelli partecipativi basati sull'assunzione di idonee responsabilità nelle scelte strategiche di sviluppo. Pertanto, non è detto né auspicabile che l'accordo del 22 gennaio costituisca l'atto fondativo di un nuovo modello di relazioni industriali non condiviso da tutti i principali attori e protagonisti. Tutti i soggetti auditi nella seconda parte dell'indagine hanno posto l'accento sul proseguimento del processo negoziale - tramite gli accordi interconfederali, prima, i contratti collettivi, poi - da portare avanti senza esclusioni pregiudiziali, essendo il documento del 22 gennaio un accordo di principi da tradurre in intese negoziali.
Nei paragrafi seguenti si tenterà, quindi, di esporre le osservazioni e proposte in modo organico, partendo da quanto acquisito nel corso dell'indagine e immaginando come dar vita - attraverso un'azione sui punti centrali del problema e trattando anche argomenti sviluppati in misura più marginale dagli stessi soggetti auditi - alle prospettive di riforma del sistema vigente, tenendo ovviamente presente quanto delineato nell'Accordo sulla riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009 e degli sviluppi che esso prefigura.


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4.1. Il raffronto tra modelli.
Se è stato chiarito, anche nella precedente sezione ricostruttiva, quali siano i principali punti di interesse nell'odierno dibattito sulle prospettive di riforma del sistema (tra cui va concordemente segnalata l'opportuna finalità di pervenire ad una riduzione del numero dei contratti, contenuta nell'Accordo-quadro), è altrettanto essenziale ricordare che - per il passato - dato che il punto di partenza è costituito dal Protocollo del 23 luglio 1993, da questo è necessario partire, tenendo conto sia del testo di verifica del Protocollo del 23 luglio 1993, elaborato nel 1997 dalla «Commissione Giugni», sia dal cosiddetto «Patto di Natale» del 1998.
A prima vista, anche dagli atti dell'indagine emerge un duplice elemento di discontinuità del citato documento rispetto al confronto attuale, che attiene al contesto istituzionale complessivo in cui si collocava il sistema di contrattazione collettiva: dato, il primo, dallo stretto ed inscindibile collegamento - allora previsto - fra l'obiettivo del contenimento della crescita dei prezzi, cui era finalizzata una politica dei redditi costruita su un'inflazione programmata e attuata per via della concertazione e di una contrattazione altamente centralizzata; costituito, il secondo, dal tentativo - allora effettuato - di una regolamentazione retributiva tendenzialmente comune dell'intero universo del lavoro subordinato - privato o pubblico che fosse il datore - cui era funzionale la cosiddetta «privatizzazione del pubblico impiego».
Il primo elemento di discontinuità è ora dato dal cambio di obiettivo e di meccanismo: non più il contenimento della crescita dei prezzi, perseguito per mezzo di un tasso di inflazione programmato, definito in sede «politica» come quello «auspicato» e consegnato alla concertazione e ad una contrattazione fortemente centralizzata e sovraccaricata; bensì il mantenimento del potere d'acquisto, per il tramite di un tasso di inflazione «previsto», individuato in sede «tecnica».
Tale circostanza, come emerso nel corso del secondo ciclo di audizioni, ha trovato traduzione nell'Accordo del 22 gennaio 2009 con il nuovo indice previsionale costruito sulla base dell'IPCA (l'indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo per l'Italia), depurato della dinamica dei prezzi dei beni energetici importati (di cui vi era un esplicito riferimento anche nel Protocollo del 1993), la cui previsione sarà affidata a un soggetto terzo: sotto questo profilo, peraltro, occorrerà tenere conto della possibilità della creazione di una diversa dinamica fra una politica economica generale di iniziativa del Governo (basata, in primo luogo, sui dati macroeconomici contenuti nel DPEF), che resterà ancorata ad un tasso di inflazione programmata, e una contrattazione collettiva pubblica e privata, che sarà condotta all'insegna di un tasso di inflazione «prevista», con una relativa autonomia reciproca. In tal senso, taluni dei soggetti intervenuti nel secondo ciclo di audizioni hanno avanzato il dubbio che, alla fine, il nuovo indice dei prezzi risulti meno flessibile e crei maggiori problemi di quelli derivanti dall'applicazione del protocollo del 1993, quando, al momento della verifica biennale, era previsto un aggiustamento delle tabelle retributive che tenesse conto, se del caso, dell'andamento dell'inflazione reale.
Per converso, i principali sostenitori dell'Accordo hanno fatto presente che è, questa, una valutazione che va tuttavia commisurata ad un preciso dato di fatto: la revisione degli indicatori da prendere a riferimento per le dinamiche retributive costituiva il cuore di un confronto aperto da anni, essendo comune la richiesta di tutte le organizzazioni sindacali - richiesta poi accolta in via di principio dalla Confindustria nel documento del 10 ottobre 2008 - di superare il meccanismo dell'inflazione programmata, contenuto nel Protocollo del 1993, che pure aveva garantito, non senza problemi, una certa stabilità delle relazioni industriali. Le parti che si sono schierate a favore dell'intesa hanno altresì ricordato, a questo proposito, che anche nell'Accordo quadro di


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gennaio è previsto un momento, «nel corso della vigenza del contratto», in cui le parti saranno chiamate a verificare gli eventuali scostamenti fra inflazione «prevista» ed inflazione «reale», allo scopo di erogare le eventuali differenze.
In questo senso, occorre anche considerare che il problema è esploso, in passato, per il sensibile divario fra tasso di inflazione programmata - fissato unilateralmente dal Governo - e tasso di inflazione «prevista», ritenuto condivisibile dalle parti sociali, sia pure con qualche essenziale distinguo. Questo divario ha dato luogo, soprattutto nel corso del 2008, a un acceso dibattito che ha finito per influenzare non solo l'atteggiamento delle organizzazioni sindacali al tavolo delle trattative, ma anche la ricerca stessa di un nuovo indicatore per gli incrementi retributivi. Coloro che hanno siglato l'Accordo, pertanto, sostengono che tale problema dovrebbe, dunque, essere destinato a ridimensionarsi, perché, nel tempo presente di recessione internazionale ed interna, il tasso di inflazione programmato ha finito per avvicinarsi a quelle reale, mentre la preoccupazione anti-inflattiva cede necessariamente il passo alla difesa e alla crescita del potere d'acquisto, ponendo la questione di una politica capace di coniugare solidarietà e ripresa economica trainata dalla domanda.
Da altri interlocutori auditi (in particolare, dal segretario generale della CGIL) è stato osservato che il nuovo impianto pecca di eccessiva centralizzazione e burocratizzazione, soprattutto laddove individua un'unica base di calcolo ai fini dell'applicazione dell'indicatore e un unico valore-punto, sottraendo alle categorie quelle scelte che storicamente hanno trovato forma nella contrattazione collettiva nazionale e ad esse appartengono, mentre occorrerebbe, invece, realizzare ogni possibile sforzo per far sì che non vi sia, soprattutto nell'ambito degli accordi interconfederali, alcun elemento in grado di creare problemi o produrre un funzionamento non corretto del meccanismo del «valore-punto».
Tale considerazione non viene condivisa da quanti ritengono che vi fosse l'esigenza di superare la precedente situazione in cui la base di calcolo degli incrementi retributivi era, nei fatti, concordata volta per volta sulla base di criteri non oggettivi. A loro avviso, infatti, una lettura puntuale dell'accordo mette in evidenza che non è previsto un unico «valore-punto», la cui definizione resta affidata alle scelte dei CCNL, sulla base delle voci retributive che i successivi accordi interconfederali stabiliranno.
Conclusivamente, è il caso di ribadire che un sistema che opera sulla base di meccanismi unitari rappresenti un vantaggio in termini applicativi e di contenimento del conflitto; parimenti, tuttavia, non vanno trascurate le esigenze di flessibilità - esigenze riconosciute da tutte le parti sociali e quindi recuperabili nel prosieguo del negoziato - proprie di un sistema produttivo fortemente differenziato ed articolato al suo interno, che soprattutto in una situazione di crisi come quella attuale richiederebbe elasticità e capacità di adattamento delle regole contrattuali alle differenti situazioni economiche settoriali.
Ciò che, peraltro, resta ancora da decidere - ma si tratta di una valutazione da rimettere alle parti - è l'individuazione dell'organismo che sarà chiamato a fornire i «dati ufficiali» per la determinazione dell'indice dei prezzi, auspicandosi, in tal senso, il ricorso al contributo dei principali istituti pubblici operanti nell'ordinamento (in primis, la Banca d'Italia).
Sotto un profilo più generale, poi, occorre rimarcare anche l'assoluta opportunità della scelta di una durata triennale dei contratti, considerato che quella biennale - come emerso da parte di numerosi interlocutori della Commissione - è sostanzialmente fallita o, quanto meno, superata.
Passando, poi, al secondo elemento di discontinuità rispetto al passato, si osserva che esso è costituito dal diverso approccio che i diversi interlocutori hanno avuto nei confronti del processo di omogeneizzazione tra lavoro pubblico e lavoro privato, inaugurato dalla legge n. 422 del 1992 e


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sancito nel Protocollo del 1993 ed ora assunto come obiettivo anche dall'Accordo del 22 gennaio. Taluni dei soggetti auditi hanno espresso la convinzione che il processo di omogeneizzazione abbia compiuto un deciso passo in avanti, mentre per altri le residue differenze (in particolare per quanto riguarda gli indicatori per le dinamiche retributive) finiranno per rendere più apparente che sostanziale l'omogeneizzazione tra i due grandi settori del lavoro dipendente. In questo ambito, anche per le dinamiche che caratterizzano l'attuazione dei princìpi posti in materia di lavoro pubblico dall'Accordo del 22 gennaio, risulta quanto mai opportuno evitare che l'attenzione sia limitata al solo settore privato, lavorando quindi - anche nella fase attuativa - affinché sia possibile dare piena applicazione al processo di omogeneizzazione delle regole contrattuali fra settore privato e pubblico privatizzato. Visto che il Governo, su delega conferita dal Parlamento con l'approvazione della cosiddetta «legge Brunetta», dovrebbe ora modificare ampiamente il testo unico n. 165 del 2001, appare opportuno che l'eventuale aggiornamento di quel sistema contrattuale inaugurato dal Protocollo del 1993, come condiviso dal settore privato e dal settore pubblico privatizzato, venga tenuto ben presente nella decretazione delegata destinata alla riforma della legislazione vigente. A tal fine, peraltro, potrebbe essere utile fare anche riferimento a quanto contenuto - sul versante dei rapporti tra lavoro pubblico e privato - nella relazione finale di valutazione del Protocollo del 1993, prodotta dalla cosiddetta «Commissione Giugni» alla fine del 1997.
In termini riassuntivi, non può non rilevarsi che da un raffronto con il passato emerge l'opportunità - nel contesto della complessiva revisione del sistema come configurata dal più volte citato Accordo tra le parti e nel quadro di una crisi economica come quella attuale - di affrontare i problemi esistenti con un approccio innovativo, anche e soprattutto nella fase di attuazione concreta della riforma.
Per un verso, infatti, è importante tornare a richiedere alle parti sociali di valutare la revisione degli assetti delle relazioni sindacali considerando anche nuovi strumenti operativi, mirati in primo luogo alla salvaguardia dei posti di lavoro: si tratta, in questa direzione, di capire come favorire l'assunzione collettiva di responsabilità, ridistribuire i carichi di lavoro anche al fine di scongiurare la delocalizzazione delle imprese, verificare i margini per una riduzione contrattata degli orari, rafforzando ed estendendo la contrattazione nei territori e nelle aziende.
Ugualmente, al fine di conseguire i risultati per cui esse sono state previste in termini di creazione e/o difesa dell'occupazione, l'Accordo del 22 gennaio ha previsto la possibilità di introdurre consensualmente le cosiddette «clausole d'uscita», che consentono, entro certi limiti e a precise condizioni, di derogare a livello aziendale e/o territoriale alla disciplina negoziata a livello nazionale. Tali clausole dovrebbero comportare, comunque, sempre la consensualità della deroga, verificata e validata dalle stesse organizzazioni firmatarie dei contratti collettivi derogati, tanto che si parla di «derogabilità presidiata» dalle parti sociali stipulanti. Ad esse, inoltre, dovrebbe spettare il potere di autorizzare le suddette clausole, sia per le materie oggetto della deroga, sia per i limiti di contenuto e di operatività temporale della deroga stessa, come definito nell'esperienza italiana dalla contrattazione collettiva del settore chimico.
Peraltro, per contribuire - anche nel breve periodo - a fronteggiare l'emergenza occupazionale, oltre ad una valida politica degli ammortizzatori sociali, è anche auspicabile un'accelerazione dei tempi di erogazione degli strumenti di sostegno, per la quale appare essenziale l'intervento del sistema bancario (sul modello di quanto realizzato dalle banche di credito cooperativo), di modo che gli accordi raggiunti in talune realtà locali (in base ai quali gli istituti di credito anticipano, senza oneri e costi a carico di lavoratori e imprese, la cassa integrazione guadagni ai dipendenti delle imprese che ne richiedono


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il pagamento diretto da parte dell'INPS) possano essere consolidati e generalizzati.
Nel quadro degli interventi di natura contrattuale che la crisi in atto richiede, poi, si dovrebbe valutare adeguatamente anche la possibilità di ampliare il ricorso a uno strumento - quale quello dei contratti di solidarietà (pur con tutti i limiti propri dell'istituto nell'ordinamento italiano) - che in altri contesti europei (si pensi alla Germania e al suo ripetuto utilizzo da parte della Wolkswagen) ha prodotto risultati di indubbio rilievo nella difesa dell'occupazione e nella riduzione dei costi sociali connessi alle crisi d'impresa.
Si tratta, in sostanza, di individuare una nozione più articolata di relazioni sindacali, che ponga in essere ogni possibile intervento finalizzato a dotare il Paese di un sistema moderno e utile ad affrontare con più certezza anche il futuro sviluppo sociale.

4.2. La natura dei contratti collettivi e il problema della rappresentanza (ragionare su una Authority per le relazioni collettive).
La continuità fra vecchio e nuovo sistema contrattuale è data in primis dalla riconferma, nel settore privato, del principio del reciproco riconoscimento, quale unico titolo di ammissione al tavolo contrattuale. Il che è assolutamente in linea con un ordinamento intersindacale che si ritiene legittimato ad una libera auto-organizzazione ed auto-gestione, ma ripropone inevitabilmente gli stessi problemi già anticipati nel Protocollo e considerati nella relazione finale della «Commissione Giugni» del 1997. Senza considerare, peraltro, che la mancata firma dell'Accordo del 22 gennaio scorso da parte della maggiore organizzazione sindacale come numero di iscritti è avvertita, da tutti i soggetti intervenuti in audizione dopo il raggiungimento dell'intesa, come un elemento assolutamente significativo e da valutare con la massima cautela nel momento in cui si passerà a tradurre in atti concreti i termini dell'intesa stessa.
Per tali ragioni, il primo problema aperto - in un contesto simile - è (e rimane) quello dell'efficacia del contratto collettivo, con una differenza di fondo: per il contratto categoriale, la via diretta ed automatica di un'estensione erga omnes resta bloccata dalla mancata attuazione dell'articolo 39 della Costituzione, secondo una consolidata giurisprudenza costituzionale, che ha conosciuto due sole eccezioni sostanziali (peraltro argomentate in maniera da non sembrare tali), cioè la contrattazione di comparto nel pubblico impiego privatizzato e la contrattazione relativa all'individuazione delle prestazioni indispensabili e delle misure idonee a garantirle in caso di scioperi nei servizi pubblici essenziali.
Pertanto, la sola via rimasta aperta è stata quella, indiretta e mediata emblematicamente, rappresentata - da un lato - dall'articolo 36 della Costituzione, che la giurisprudenza ha utilizzato per definire la retribuzione proporzionata e, comunque, sufficiente, facendo riferimento proprio alla contrattazione collettiva di categoria; e, dall'altro, dall'articolo 36 dello Statuto dei lavoratori, che rappresenta l'esempio classico di una legislazione che promuove l'estensione dell'efficacia della stessa contrattazione collettiva, subordinando alla sua osservanza la percezione di benefici fiscali e contributivi o l'instaurazione di rapporti di concessione e di appalto con le pubbliche amministrazioni.
Per il contratto aziendale, invece, non pare porsi il problema costituzionale rappresentato dall'articolo 39, quarto comma, della Costituzione, in quanto esplicitamente riferito al solo contratto categoriale; sicché rimarrebbe nel potere del legislatore ordinario un eventuale intervento che gli conferisse quella efficacia generalizzata di cui la giurisprudenza lo ritiene attualmente privo.
Se questi sono i punti dirimenti della natura dei contratti, va peraltro rilevato che, sia pure in termini e modi diversi, il problema dell'efficacia rinvia a quello della rappresentanza/rappresentatività degli agenti contrattuali; cioè ad un ulteriore problema che rileva particolarmente nella


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sempre più frequente casistica di contrattazione delegata, cioè prevista dalla legge, in deroga, sostituzione, integrazione della disciplina legale, nella prospettiva di una gestione consensuale del mercato del lavoro. Rinviata sine die una modifica dell'articolo 39, quarto comma, che restituisca al legislatore una discrezionalità oggi preclusagli in materia di estensione dell'efficacia della contrattazione collettiva condotta da associazioni sindacali legittimate in base ad una data rappresentanza e/o rappresentatività (e svuotata dal referendum abrogativo la portata dell'articolo 19 dello Statuto con riguardo alla maggiore rappresentatività), non resta ora che confidare sulla capacità di auto-regolamentazione delle stesse parti sociali, cui potrebbe essere offerta una sponda istituzionale, eventualmente per via di una apposita authority, cioè di un'Autorità indipendente per le relazioni collettive. Tale Autorità - la cui natura potrebbe anche essere valutata in sede di riforma dell'attuale «Commissione di garanzia», come prefigurata dal recente disegno di legge governativo sullo sciopero nei servizi pubblici di mobilità (di cui si parlerà in seguito) - dovrebbe essere composta da figure di alta professionalità ed effettiva indipendenza - anche con riguardo alle organizzazioni espresse dalle parti sociali - e dotate di curricula di elevatissimo profilo, in modo da escludere i rischi di una composizione non propriamente adeguata, che talvolta si sono verificati in occasione della nomina di altri organismi indipendenti. Si pensa, dunque, ad un'Autorità non di stretta emanazione governativa, caratterizzata da forti profili di garanzia per le parti, che potrebbe farsi carico, direttamente od indirettamente:
a) di costruire una «banca dati» delle deleghe sindacali e delle consultazioni per la nomina delle r.s.u., la quale serva da referente nella selezione degli agenti contrattuali;
b) di indire e gestire forme di consultazione fra i lavoratori interessati, nel caso di una perdurante divisione fra le stesse organizzazioni sindacali, tale da poter portare o aver già portato ad accordi separati.

4.3. Le ipotesi di un nuovo modello per il «doppio livello» di contrattazione.
Sulla base di una riflessione come quella sviluppata nei paragrafi precedenti, che appare pienamente coerente anche con l'Accordo-quadro siglato tra le parti sociali, è evidente l'apertura di un processo - nel nuovo sistema contrattuale sempre costruito sul «doppio livello» - orientato ad un maggior decentramento: un contratto categoriale più «leggero» nella parte normativa, ristretta quantitativamente (istituti essenziali) e qualitativamente (principi e criteri a scapito dei dettagli) e più «asciutto» nella parte economica (difesa del potere d'acquisto). Questo, però, sempre nell'ambito di un sistema fortemente articolato, secondo quanto previsto al centro, con il coordinamento affidato ad elementi soggettivi (l'esistenza di una relazione fra gli agenti negoziali dell'uno e dell'altro livello) ed oggettivi (la presenza di clausole di rinvio dall'uno all'altro livello).
Il grado di un tale spostamento - che, come detto in precedenza, evoca una transizione delle relazioni sindacali e dei contratti verso territorio ed azienda, secondo un principio che è stato definito di «sussidiarietà sociale» - è evidentemente condizionato dal fatto che il contratto nazionale ha un ambito di applicazione assai più ampio, essendo la contrattazione aziendale svolta in non più di un terzo delle aziende interessate, anche se, poi, trattandosi di quelle grandi e medio-grandi, in quel «terzo» è occupato qualcosa come i due terzi dei lavoratori. Anche ammesso che fosse stato introdotto nel contratto di categoria un obbligo a trattare a livello aziendale esteso a tutte le aziende associate, e non solo a quelle che già riconoscano tale livello, si tratterebbe pur sempre di un mero obbligo a «sedersi al tavolo», ma non a concludere un accordo. Il che dà ragione del progetto sindacale di valorizzare la contrattazione territoriale, che potrebbe essere superato solo praticando la contrattazione aziendale (la quale, tuttavia, contrasta con l'esperienza a tutt'oggi fatta dalla stessa contrattazione


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territoriale, destinata a trovare fortuna solo con riguardo a particolari e specifici settori, come quelli agricolo, dell'edilizia e dell'artigianato).
In questo senso, va sottolineata l'importanza di quanto stabilito al punto 15 dell'Accordo (nei medesimi termini già individuati dalle Linee guida del 10 ottobre 2008), relativamente all'istituzione di una voce retributiva, definita a livello nazionale, da liquidare, quale elemento economico di garanzia, a favore dei lavoratori dipendenti da aziende prive di contrattazione di secondo livello.
Va, peraltro, rilevato che lo spostamento di peso verso il livello decentrato, in particolare aziendale, richiede non solo il mantenimento, ma anche il rafforzamento, di un sistema fortemente coordinato, specie in materia retributiva. È bene ricordare che già il modello previsto dal Protocollo del '93 contemplava una divisione di ruoli fra un contratto categoriale preposto alla difesa del potere d'acquisto ed un contratto aziendale centrato sulla distribuzione della maggiore produttività o redditività. Eppure, come è emerso da numerosi interventi svolti nel corso delle audizioni, l'esperienza è stata tutt'altro che esaltante, a conferma di una tendenza quasi invincibile a privilegiare aumenti «a pioggia» ed a consolidare tali aumenti una volta acquisiti.
Deve essere sottolineata, inoltre, l'esigenza dell'estensione di una variabile retributiva collegata alla produttività. È evidente che la questione riguarda in primis le organizzazioni sindacali, da cui ci si deve aspettare una più dettagliata regolamentazione della contrattazione aziendale con riguardo: alla necessità di una presenza congiunta istanze territoriali-r.s.u., alla procedura decisionale interna delle stesse r.s.u., alla composizione di eventuali divergenze fra le diverse istanze territoriali, fra queste e le r.s.u., e fra diverse componenti delle r.s.u. Di qui l'importanza di quanto stabilito nel Protocollo sul welfare del 2007, riguardante l'innalzamento dal 3 per cento al 5 per cento della quota del premio soggetto a sgravio contributivo e al conseguente regime di contribuzione figurativa applicato alle somme esonerate dal prelievo.
Lo stesso Accordo del 22 gennaio, del resto, quando stabilisce che la contrattazione decentrata si svolga «laddove previsto, secondo l'attuale prassi, nell'ambito di specifici settori», tende a confermare un equilibrio tra contratto collettivo nazionale e contrattazione decentrata e la previsione di una precisa linea di confine da tracciare tra l'uno e l'altra, anche se si propone dei valorizzare la contrattazione decentrata.
Quanto al livello ove collocare la contrattazione decentrata, appare auspicabile che negli spazi aperti dall'Accordo del 22 gennaio (il quale per concretizzazione della contrattazione di secondo livello, di cui non fornisce alcuna definizione, si limita a rinviare a «specifiche intese») trovi adeguato sviluppo la sperimentazione di forme contrattuali articolate a livello territoriale e distrettuale, al fine di dare risposta alle esigenze proprie di quei settori - caratterizzati da una forte dispersione - ove una dimensione contrattuale aziendale risulta poco praticabile e limitativa.
Ma, detto questo, resta fondamentale che sia promossa una grande campagna formativa ed orientativa - di cui si potrebbe affidare la regia alla stessa Autorità per le relazioni collettive, evocata in precedenza, ovvero agli organismi esistenti a legislazione vigente - da condurre su un piano concordato con le parti sociali e con le istituzioni aventi competenze in materia, a cominciare dalle regioni.

4.4. Un campo da esplorare: la revisione dei meccanismi partecipativi.
Una equilibrata definizione del problema della rappresentanza e rappresentatività sindacale appare essenziale al buon funzionamento di un sistema moderno di relazioni industriali. Il tema, ampiamente trattato nel corso del secondo ciclo di audizioni dell'indagine, si lega all'impegno assunto dalle parti sociali con l'Accordo del 22 gennaio, che rimette a


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successivi accordi (cui pervenire entro tre mesi) l'introduzione di nuove regole in materia di rappresentanza e rappresentatività delle parti nella contrattazione, valutando anche l'ipotesi di fare riferimento alla certificazione INPS dei dati di iscrizione sindacale.
Si tratta di un tema delicato e cruciale, che rimane inequivocabilmente affidato all'autonomia delle parti sociali, mentre il legislatore - assicurando il pieno rispetto dell'articolo 39 della Costituzione - si riserva, se richiesto, l'eventuale traduzione legislativa dei principi individuati pattiziamente.
In proposito, peraltro, occorre ricordare che è venuto prendendo piede un ulteriore momento «partecipativo» che investe il livello aziendale, creando un problema di rapporto con le stesse r.s.a./r.s.u. Al riguardo c'è, anzitutto, da considerare il nuovo testo unico sulla salute e la sicurezza dei lavoratori, che, agli articoli 47-49, prevede una gestione decentrata della prevenzione, tramite il rappresentante della sicurezza, eletto o designato a livello aziendale, territoriale, di comparto e di sito: un recupero potenziato dell'articolo 9 dello Statuto dei lavoratori, con un significativo tratto differenziale e cioè che, là, le «rappresentanze» erano previste come possibili, rimesse ad una non meglio precisata iniziativa dei lavoratori, mentre qui sono necessarie, promosse dallo stesso potere pubblico, se pur sempre nel contesto di un sistema imperniato su un'ampia valorizzazione delle contrattazione collettiva condotta dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Ma non è affatto chiaro se il rappresentante della sicurezza aziendale - che può essere individuale o collettivo, variando da uno a sei in ragione delle dimensioni dell'azienda - debba essere articolazione interna delle r.s.a.-r.s.u. ovvero, come sembra preferibile, dati i compiti ed i poteri riconosciutegli, una struttura esterna alle istanze sindacali, sia pur sempre raccordata alle r.s.a.-r.s.u.
Più chiaro sembrerebbe il testo del decreto legislativo 6 febbraio 1997, n. 25, attuativo della Direttiva 2002/14/CE in materia di informazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori, perché i «rappresentanti dei lavoratori» titolari dei diritti relativi sono individuati esplicitamente nelle r.s.a. e r.s.u., con ampio rinvio alla contrattazione collettiva svolta sempre dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Come si vede, una riconferma di una politica legislativa di promozione senza regolamentazione, che, peraltro, sconta qui più che altrove la debolezza intrinseca della contrattazione collettiva rispetto alla legge; si tratta, altresì, di una riconferma dell'assoluta continuità nell'opzione, tutta italiana, a favore di un canale unico di rappresentanza a livello di base, cioè titolato a svolgere sia il ruolo rivendicativo sia quello partecipativo. È, con tutta chiarezza, un dato che espone al rischio di un prevalere del ruolo rivendicativo su quello partecipativo, curvando e distorcendo all'uopo i diritti di informazione, consultazione e partecipazione funzionali ad un coinvolgimento cooperativo.
Nel corso degli anni '70 si era parlato di un prolungamento dello Statuto dei lavoratori, con la legificazione dei diritti sindacali di seconda generazione, cosa che la Direttiva avrebbe non solo permesso ma anche implicitamente preferito, con un indubbio ritorno in termini di chiarezza, trasparenza e, soprattutto, effettività. Una volta che la «lezione dei fatti» dimostrasse che l'alternativa della via contrattuale è scarsamente effettiva, ben potrebbe il legislatore riprendere in mano l'iniziativa; ed in tale occasione riconsiderare la possibilità di introdurre quel doppio canale (uno sindacale, l'altro rappresentativo della comunità dei lavoratori), che è privilegiato a livello europeo, in quanto più rispondente al prevedibile sviluppo delle relazioni collettive in azienda.
Contestualmente a tali interventi, si dovrebbe altresì valutare il rafforzamento degli strumenti diretti alla partecipazione dei lavoratori ai risultati di impresa, anche attraverso la partecipazione ad appositi fondi. L'idea di base è quella contenuta in diverse proposte di legge pendenti alla Camera, che - nel prendere atto che le


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esperienze di azionariato dei dipendenti in Italia si risolvono attraverso strumenti ordinari del diritto societario, che risultano piuttosto inadeguati - promuovono un modello evoluto di relazioni industriali: un modello in cui si possano conciliare collaborazione, partecipazione e rappresentanza dei lavoratori al fianco degli imprenditori, nel comune obiettivo di porre al centro la persona, in una logica di fidelizzazione e di promozione dell'occupabilità.
L'obiettivo è, in particolare, favorire l'adozione di piani di partecipazione azionaria dei dipendenti, anche sulla base di contratti e accordi collettivi stipulati a livello aziendale, diretti a conferire le risorse azionarie ad un fondo comune d'impresa appositamente costituito in forma di società d'investimento a capitale variabile, che emetterebbe in contropartita quote da assegnare agli aderenti ai piani, in proporzione alla loro partecipazione al fondo medesimo.
Di certo, un eventuale intervento normativo sulla materia rappresenterebbe un tradizionale tema di natura parlamentare, sul quale occorre riflettere pacatamente, per verificare i possibili spazi del legislatore sull'argomento. Su tale punto, un significativo contributo potrebbe provenire anche dalle organizzazioni che - allo stato - non hanno ritenuto di siglare l'Accordo-quadro del 22 gennaio 2009: si tratterebbe, in questo caso, di avviare un confronto istituzionale con il Parlamento - sul modello sperimentato con il secondo ciclo di audizioni svolte nel corso dell'indagine - finalizzato proprio ad aprire la strada ad una riforma della legislazione in materia di rappresentanza e rappresentatività sindacale, da considerare anche come possibile iniziativa per un loro riavvicinamento alle problematiche sottese all'Accordo-quadro, oltre che a quelle relative alla sua attuazione concreta.

4.5. Contrattazione collettiva e diritto di sciopero.
Come emerge chiaramente anche dal dibattito apertosi nel Paese negli ultimi giorni, assai delicato rimane il problema del rapporto fra contrattazione collettiva, criteri della rappresentanza/rappresentatività ed esercizio del diritto di sciopero, perché, mentre la titolarità della contrattazione collettiva è riservata, a livello nazionale, alle organizzazioni sindacali categoriali - nelle ipotesi di contrattazione delegata spesso, se pur non sempre, a quelle maggiormente rappresentative - nonché, a livello aziendale, alle istanze territoriali delle organizzazioni sindacali firmatarie dei contratti collettivi di categoria congiuntamente alle r.s.u., viceversa, la titolarità del diritto di sciopero è attribuita a ciascun singolo lavoratore, seppure a condizione di un suo esercizio a tutela di un interesse collettivo, fatto che, di per sé, richiede che tale esercizio sia effettuato non da uno solo, ma da più soggetti, dal momento che la proclamazione è sempre una questione di carattere collettivo. È vero che la contrattazione collettiva può prevedere clausole di raffreddamento e di tregua, ma per consolidata interpretazione dottrinale e giurisprudenziale, esse vincolano solo le organizzazioni sindacali stipulanti, tenute, quindi, a non proclamare, patrocinare, favorire astensioni dal lavoro nei periodi esclusi, ma non i singoli scioperanti. Sicché, nell'ipotesi di inosservanza di tali clausole, nei confronti delle organizzazioni sindacali è ipotizzabile una responsabilità, peraltro ben difficilmente praticabile con successo; ma nei rispetti dei singoli lavoratori è solo configurabile una inadempienza vis-à-vis delle loro organizzazioni sindacali, cioè di quelle e solo di quelle di cui siano soci.
Così stando le cose, l'eventuale previsione di periodi dedicati ai rinnovi contrattuali o ai procedimenti conciliativi, articolati per gradi ascendenti, nel corso dei quali sia vietato prendere iniziative unilaterali, sembrerebbe destinata a rimanere priva di qualsiasi effettiva sanzione: per esser più precisi, se è la parte datoriale a modificare la situazione, c'è la possibilità di far ricorso all'articolo 28 dello Statuto dei lavoratori per comportamento anti-sindacale; ma se è la parte sindacale a far ricorso allo sciopero, allora


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vale quanto già detto sopra. Un intervento radicale, ripreso dall'esperienza statunitense, sarebbe quello di duplicare il citato articolo 28, prevedendo anche delle unfair practices a capo e a carico dei sindacati; ma uno meno radicale, e più praticabile, potrebbe essere quello di mutuare dalla legislazione sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali (ispirata al criterio di contemperare l'esercizio di tale diritto con la tutela dei diritti dei cittadini utenti, tanto da modificare il tradizionale quadro giuridico prima descritto e prevedere persino provvedimenti in capo ai lavoratori che prendessero parte ad un'astensione dal lavoro sanzionata come illegittima) le penalities previste per le organizzazioni sindacali, particolarmente quelle economiche relative al mancato versamento dei contributi raccolti in base alle deleghe, affidandone la gestione all'Autorità per le relazioni collettive, che avrebbe in tal modo anche un ruolo - per così dire - di affiancamento (se non assorbente) rispetto alla vigente Commissione di garanzia.
Certo, un tale intervento riguarderebbe solo le organizzazioni sindacali «interne» al sistema, che, cioè, contano su contributi raccolti in base alle deleghe; ma per andar oltre bisognerebbe affrontare il problema di una regolamentazione generale dell'esercizio del diritto di sciopero, che l'articolo 40 della Costituzione, così come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale, permetterebbe entro determinati limiti.
In tale situazione, quello appena delineato costituisce un approccio che sconta l'estrema delicatezza costituzionale e politico-sindacale di qualsiasi legislazione in tema di esercizio di diritto di sciopero, ma occorre dire che è venuto prendendo forza, negli ultimi periodi, un profilo più chiaramente delineato, come anticipato da due significativi documenti:
la clausola dell'Accordo del 22 gennaio 2009, che rimanda alla regolazione pattizia la possibilità che la proclamazione degli scioperi nelle aziende dei servizi pubblici locali sia limitata ai soli sindacati rappresentativi della maggioranza dei lavoratori;
il recente disegno di legge governativo per la regolamentazione dei conflitti collettivi nel settore dei trasporti, che fissa i requisiti della rappresentatività sindacale per la proclamazione degli scioperi, introduce la possibilità di «scioperi virtuali», aggiorna ed inasprisce il quadro sanzionatorio a carico dei soggetti inadempienti e, in particolare, amplia e ridefinisce le competenze della Commissione di garanzia sullo sciopero (conseguentemente ridenominata «Commissione per le relazioni di lavoro»), al fine di farne un soggetto di garanzia e verifica complessiva dello svolgimento dei conflitti nel settore dei servizi pubblici essenziali.
È evidente, infatti, che soprattutto la proposta governativa ha aperto un versante nuovo, che va valutato e affrontato senza pregiudizi, anche verificando la possibilità di recepire, nel corso dell'esame in sede parlamentare sia del provvedimento in sé, sia dei decreti delegati, talune delle ipotesi e delle idee, anche molto innovative, che sono emerse dall'indagine svolta dalla Commissione.

4.6. Relazioni industriali e federalismo.
L'avvio del federalismo quale profondo riordino dell'ordinamento dello Stato repubblicano è destinato ad incidere anche sugli assetti delle relazioni industriali. Il problema si porrà non solo sul piano istituzionale, dal momento che le istanze regionali saranno dotate di poteri propri, concorrenti o delegati anche in materia di lavoro. Saranno soprattutto gli aspetti di carattere politico e sociale ad imporre la ricerca di ruoli e di iniziative a livello regionale, perché nessun soggetto istituzionale potrà mai esercitare in maniera adeguata le sue funzioni di governo, se non sarà in grado di confrontarsi e di dialogare con le organizzazioni della società civile e con i protagonisti dell'economia e del lavoro. Soprattutto nelle materie in cui la competenza dei nuovi governi regionali sarà esclusiva si porrà il problema di una più marcata autonomia regionale.
Se questa nuova configurazione comporterà delle modifiche anche per quanto


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riguarda gli assetti della contrattazione collettiva saranno i processi reali a porlo in evidenza. Fin d'ora, però, appare evidente che, soprattutto nell'ambito delle pubbliche amministrazioni, aumenterà il ruolo delle istanze decentrate, in primis delle regioni, nella definizione di parte delle regole contrattuali riferite al personale, a partire dalle quote di retribuzione accessorie, variabili o collegate agli andamenti produttivi. È una tendenza, questa, in larga misura già in atto e sempre più rivendicata dalle regioni, che sembra destinata ad ampliarsi nel nuovo contesto istituzionale.

4.7. Una proposta operativa per la semplificazione e la razionalizzazione degli organismi.
Nelle precedenti parti del documento si è accennato all'ipotesi di costituire un'Autorità per le relazioni collettive, come contributo che anche il legislatore statale potrebbe portare alla costruzione di un nuovo modello di relazioni sindacali. Ora, questa ipotesi deve basarsi sul presupposto dell'esistenza di una convergenza sui compiti e sui poteri che si intenderebbe affidarle, perché, se il tutto dovesse risolversi nella mera tenuta di «banche dati» e nella fornitura di consulenza alle parti sociali, non ne varrebbe di certo la pena; al contempo, non si può non tenere conto dell'esistenza di altre strutture operanti in materia, a cominciare dall'ARAN e dalla stessa Commissione di garanzia prevista dalla legge sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali.
In proposito, va anzitutto considerato che ad oggi vi è un elemento di forte novità, costituito dall'ipotesi di procedere alla riforma della Commissione di garanzia, contenuta nel disegno di legge di iniziativa governativa in materia di sciopero nei servizi di mobilità: il provvedimento, infatti, sembra prospettare la nascita di un organismo con competenze di natura arbitrale e conciliativa, che avrà anche il compito di verificare l'effettivo grado di partecipazione agli scioperi e scambierà informazioni con le autorità amministrative competenti per l'adozione della ordinanza di precettazione.
Se si conviene sulla semplificazione del quadro organizzativo esistente, quindi, andrebbe verificata, in primo luogo, la possibilità di ampliare le competenze di detta Commissione, trasformandola in una vera e propria Autorità di settore (per l'appunto, l'Autorità per la relazioni collettive). In tal modo, infatti, le relative competenze potrebbero essere estese ad ogni regolazione dell'astensione del lavoro, non solo di origine legale ma anche pattizia, se e in quanto così esplicitamente previsto e convenuto dalle stesse parti sociali, anche con possibili sanzioni collettive consistenti nella perdita dei contributi su delega.
È difficile pensare, tuttavia, che la Commissione di garanzia possa essere trasformata in modo automatico in un'Autorità per le relazioni collettive con competenze relative al funzionamento della contrattazione collettiva, se non affrontando anche un secondo passaggio, evocato nei precedenti paragrafi, che consiste nel comprendere se sia possibile - in tal modo assecondando il percorso di avvicinamento tra negoziazione nel pubblico e nel privato - alleggerire la stessa ARAN, a vantaggio della nuova Autorità per le relazioni collettive, di quelle competenze che non la riguardino strettamente come agente fornito della rappresentanza legale di tutte le pubbliche amministrazioni assoggettate alla privatizzazione dei loro rapporti di impiego.
Alla luce degli elementi emersi dall'indagine, quindi, esistono ampi spazi di intervento a disposizione del legislatore per contribuire - pur nel pieno rispetto delle volontà delle parti - ad un nuovo assetto delle relazioni industriali e del sistema della contrattazione in Italia: è da questi dati, dunque, che appare utile partire per affrontare con determinazione non soltanto l'attuale fase congiunturale dell'economia, ma anche le prospettive future di sviluppo sociale del Paese.
Sotto questo profilo la Commissione, nell'auspicare una ripresa del dialogo tra tutti i soggetti in campo (anche coloro che,


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al momento, hanno motivato le ragioni del proprio legittimo dissenso), si dichiara disponibile a costituire una sede permanente di confronto istituzionale, alla quale le stesse parti sociali potranno - se lo riterranno opportuno - fare riferimento, nella prospettiva di accompagnare con coerenti iniziative di revisione legislativa e di indirizzo politico le più opportune riforme in materia di relazioni sindacali e di contrattazione collettiva, alcune delle quali già avviate sul versante pattizio.

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