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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione XI
9.
Giovedì 14 luglio 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Moffa Silvano, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUL MERCATO DEL LAVORO TRA DINAMICHE DI ACCESSO E FATTORI DI SVILUPPO

Audizione di rappresentanti del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro:

Moffa Silvano, Presidente ... 3 6 9
Cazzola Giuliano (PdL) ... 7
Damiano Cesare (PD) ... 6
D'Angelo Giuseppe, Membro del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro ... 9
Gatti Maria Grazia (PD) ... 8
Silvestri Vincenzo, Segretario nazionale del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro ... 3 6 8

ALLEGATO: Documentazione presentata dai rappresentanti del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro ... 10
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A.

[Avanti]
COMMISSIONE XI
LAVORO PUBBLICO E PRIVATO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 14 luglio 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SILVANO MOFFA

La seduta comincia alle 14,25.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul mercato del lavoro tra dinamiche di accesso e fattori di sviluppo, l'audizione di rappresentanti del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro.
Sono presenti il dottor Vincenzo Silvestri, segretario nazionale, il dottor Giuseppe D'Angelo, membro del Consiglio nazionale, e il dottor Salvatore Malfitano, presidente del consiglio provinciale di Siracusa.
Avverto che i rappresentanti del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro hanno messo a disposizione della Commissione una documentazione, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato).
Nel ringraziare ancora una volta i nostri ospiti per la loro presenza, do loro la parola.

VINCENZO SILVESTRI, Segretario nazionale del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro. Sono molto stimolanti il dibattito e l'indagine conoscitiva che avete avviato. Peraltro, noi consulenti del lavoro, come è noto, siamo una categoria professionale che si inserisce perfettamente nel solco della cosiddetta intermediazione del mondo del lavoro. Pertanto, riteniamo di essere un sensore privilegiato che può offrire alcune indicazioni e valutazioni sul problema da voi indicato nell'indagine conoscitiva.
I consulenti del lavoro sono, appunto, professionisti che curano tutti gli aspetti relativi alla gestione delle risorse umane, un'interfaccia tra le aziende e i lavoratori. Gestiamo circa 8 milioni di lavoro l'anno, per cui attraverso i nostri studi, in buona sostanza, si può realizzare una vera a propria radiografia del mercato del lavoro italiano attivo.
Peraltro, proprio questa conoscenza del mercato del lavoro ha fatto sì che il legislatore in qualche modo riconoscesse questo ruolo della professione in materia di intermediazione e con la legge Biagi ha riconosciuto un'apposita Fondazione per i consulenti del lavoro, che si occupa in maniera specializzata di intermediazione alla manodopera.
Da diverso tempo abbiamo avviato una serie di studi in ordine, appunto, alle problematiche relative al nostro mercato del lavoro. È recente la seconda edizione del Festival del lavoro, che si organizza ogni anno a Treia.
Va tenuto presente che siamo circa 28.000 sparsi in tutto il territorio nazionale, per cui abbiamo sensori distribuiti equamente in tutta la penisola. Abbiamo avviato un'indagine, i cui risultati, che potete leggere nell'allegato, sono stati presentati al festival, sulla difficoltà delle aziende nella ricerca di determinate figure


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professionali. Il paradosso italiano, infatti, in questo momento è che, a fronte di circa 2.300.000 disoccupati che si registrano nel nostro Paese, all'interno dei quali, purtroppo, si deve registrare che la fanno da padrone donne e giovani, che continuano a rappresentare la parte ancora più debole del nostro mercato del lavoro, di contro le aziende hanno un'enorme difficoltà nella ricerca di determinati profili professionali.
Abbiamo stimato alcune categorie professionali sulle quali difficilmente le aziende riescono a trovare personale: informatici, idraulici, ingegneri meccanici, camerieri, conduttori di macchine, un paradosso se relazionato al grossissimo bacino di disoccupati. Questo la dice lunga sul fatto che, evidentemente, nel nostro sistema del mercato del lavoro c'è una sorta di difficoltà di comunicazione tra chi cerca lavoro e chi lo offre.
Credo che sia uno degli aspetti nevralgici del problema occupazionale italiano. Il sistema del collocamento pubblico, purtroppo, da tempo o da sempre non funziona e ancora oggi, dalle nostre indagini risulta che il 90 per cento delle aziende reperisce manodopera attraverso il canale delle conoscenze personali. Non c'è, quindi, mai una ricerca attraverso canali specializzati, che dovrebbero essere dedicati a questo tipo di attività, che culturalmente le aziende siano abituate a utilizzare.
L'altro problema che abbiamo riscontrato nella nostra ricerca è che diventa sempre più complicato trovare manodopera disposta a lavorare nelle cosiddette attività faticosa e manuali. Le aziende recuperano in qualche modo attraverso l'utilizzo della manodopera extracomunitaria, che quindi va a coprire questa fascia di attività che, nonostante tutto, continua a essere molto importante, coprendo una percentuale ancora consistente (gli italiani, tuttavia, si rifiutano di svolgere tali lavori).
Le motivazioni possono essere molteplici, anche di carattere sociale: la famiglia italiana è un grande ammortizzatore sociale, forse il più grande ammortizzatore sociale, e quindi i giovani abbandonano più tardi possibile il focolare domestico e a quel punto non intendono affrontare lavori faticosi e pericolosi.
Il dato è forse legato anche a un'eccessiva scolarizzazione: la nota dolente è che la famiglia che fa tanti sacrifici per far laureare il proprio ragazzo alla fine del percorso cerca o ha aspirazioni per attività lavorative che non possono coniugarsi con la manualità o la fatica. Si tratta di una contraddizione anche culturale che va sicuramente superata.
Ovviamente, tornando alla difficoltà di reperimento di determinati profili professionali, non si può non entrare nell'altro grande tema che voi stessi nell'indagine state affrontando, ossia quello relativo alla formazione professionale, sparare sulla quale è come sparare sulla Croce Rossa. Inevitabilmente, il sistema della formazione professionale ha fallito. Io vengo da una terra, la Sicilia, che purtroppo ha generato precariato proprio attraverso la formazione professionale in maniera specifica e scientifica, creando lavoro per i formatori piuttosto che assolvere al compito di creare il matching tra offerta e domanda di lavoro.
Il sistema universitario italiano, il tre più due - l'indagine della Corte dei conti dell'aprile dell'anno scorso è stato impietosa - in questo tentativo di allargare il più possibile gli studi superiori ha generato la proliferazione dei diplomi di laurea che, come sapete, non hanno nessun contatto con la realtà e col mondo del lavoro. Assistiamo così a uno scollamento tra università e mondo del lavoro e tra formazione professionale e mondo del lavoro.
L'anno scorso col Ministro Sacconi sono state elaborate le linee guida sulla formazione professionale. Crediamo che vi siano delle indicazioni utili per una riforma del sistema complessivo. In fondo, il sistema della formazione professionale è una sorta di dialogo tra sordi anche quello. Essendo, infatti, l'attività di formazione progettata in funzione non del matching, ma del maggior numero di corsi possibile in modo da finanziare il sistema, evidentemente questo non può funzionare. Dovremmo interrompere questo circuito


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dei sordi e far parlare allo stesso tavolo i soggetti sensibili che hanno capacità e possibilità di individuare gli skill, i profili professionali e le esigenze reali del mercato del lavoro.
Credo che la cabina di regia delle linee guida sulla formazione del 2010, che prevede associazioni di categoria, centri per l'impiego e gli stessi consulenti del lavoro in quanto, appunto, soggetti privilegiati, o che comunque sicuramente possono offrire il loro apporto in termini di indirizzo, rappresenti finalmente un aspetto estremamente importante. Fondamentalmente, in Italia non si è mai fatto in modo che sedessero a uno stesso tavolo i soggetti che devono fornire le indicazioni per orientare la formazione stessa.
Crediamo che avere finalmente pensato all'attività formativa spostata sull'azienda sia un altro degli aspetti importanti per cercare di offrire un servizio e dare finalmente ruolo alla formazione professionale per quello che deve, di orientamento e incontro delle esigenze dei lavoratori e delle aziende.
Relativamente all'entrata e alla flessibilità del rapporto di lavoro, anche questo è un dibattito ancora apertissimo. C'è chi sostiene che il nostro sistema del lavoro sia troppo flessibilizzato dopo la legge Biagi; chi, al contrario, che si debba fare ancora di più. Credo che anche a questo proposito la nostra categoria possa portare un'esperienza interessante, ossia quella relativa ai tirocini professionali.
I tirocini formativi sono previsti dalla legge Treu del 1997 e possono essere dei formidabili sistemi di collegamento tra scuola, mondo universitario e aziende. Oggi le università si stanno finalmente adeguando con l'obbligo, peraltro recente, di riversare i curricula in un'unica banca dati al fine di individuare e intercettare dei profili professionali per le aziende. Questo, tuttavia, non è sufficiente, serve un collegamento.
Quando parliamo di flessibilizzazione del mercato lavoro, noi riteniamo che il rapporto sia già adeguatamente flessibile. Forse, uno degli aspetti interessanti potrebbe essere rappresentato dalla possibilità per le aziende di «provare» i dipendenti prima di un effettivo inserimento nel mercato del lavoro. Oggi il rapporto di lavoro inizia attraverso un periodo di prova disciplinato dal contratto collettivo, ma i tempi sono troppo brevi perché siano considerati probanti perché l'azienda valuti le caratteristiche del futuro dipendente.
Le esperienze maturate con i tirocini formativi - abbiamo inserito nell'arco di poco più di un anno circa 10.000 tirocini formativi, 5.000 nel 2010 e a oggi sono quasi altri 5.000 - ci parlano di un più del 50 per cento di conferme in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, per cui il risultato è estremamente positivo in termini di conferma in servizio e di prospettiva futura per il lavoratore.
Questo potrebbe essere un elemento estremamente interessante, fermo restando il controllo degli abusi. Abbiamo, infatti, un comitato scientifico per la valutazione del progetto formativo in base alle normative nazionali, ma soprattutto in base alle normative regionali perché, come sapete, per il tirocinio formativo la competenza, molto spesso anche concorrente, resta comunque prevalentemente di pertinenza delle regioni. Con la giusta valutazione in termini di adeguatezza del tirocinio formativo, questo può, dunque, rappresentare un'arma formidabile di collegamento tra aziende, mondo del lavoro e mondo degli inoccupati, anticamera di un futuro rapporto di lavoro.
La nostra esperienza ci conferma che il capitale umano è in assoluto tra i migliori elementi all'interno di un'azienda se non la risorsa principale dell'imprenditore. Oggi, al di là della crisi, dei problemi contingenti, un imprenditore che valuta un proprio dipendente in maniera positiva non ha nessun motivo di mandarlo via se ne riscontra caratteristiche confacenti al proprio processo produttivo. Più matching, quindi, riusciamo organizzare, maggiore è la probabilità che questo ragionamento possa radicarsi all'interno delle aziende.
Infine, presidente, oggi il tirocinio formativo può essere fatto per chi sta frequentando la scuola dell'obbligo, ma anche


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per chi sta frequentando l'università o in questo momento si trova in stato di disoccupazione.
Tra le percentuali di tirocini avviati in queste aziende, prevale nettamente come tipologia il disoccupato o l'inoccupato; molto basse, invece, sono le percentuali degli universitari inseriti in azienda. Questo illustra come lo strumento, soprattutto all'interno del sistema universitario, non sia conosciuto, vitalizzato.
Tuttavia, per molti ordini, compreso quello dei consulenti del lavoro, contemporaneamente al percorso universitario può essere avviata l'esperienza di tirocinio formativo presso uno studio, in modo che al termine degli studi saranno stati completati anche gli anni di praticantato, utili per l'iscrizione all'ordine. Sarebbe quanto mai importante per uno studente cominciare un'esperienza lavorativa che addirittura potrebbe tradursi in un'esperienza probante e definitiva con la trasformazione in un lavoro a tempo indeterminato.

PRESIDENTE. La ringrazio per il contributo davvero articolato che ha dato ai nostri lavori.
Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

CESARE DAMIANO. Ringrazio i rappresentanti dei consulenti del lavoro, che hanno recentemente svolto il loro appuntamento annuale a Treia.
Stiamo facendo molte audizioni e abbiamo in molti casi delle opinioni non collimanti: c'è chi sostiene che mancano profili professionali prevalentemente riferibili alle attività manuali; chi che mancano profili professionali di maggiore specializzazione e formazione scolastica e quant'altro.
Relativamente al collocamento pubblico, ho sentito, se non sbaglio, dare una valutazione prevalentemente negativa sul ruolo che può essere svolto dai servizi per l'impiego e il collocamento. Avendo una rete territoriale molto importante, vi sentite di dare un giudizio sui servizi per l'impiego uniforme oppure riscontrate situazioni - neanche poche, come io ritengo - di eccellenza per quanto riguarda i servizi pubblici per l'impiego? Parlo dell'attività di favorire l'incontro tra domanda e offerta di lavoro, ma soprattutto di intervenire sulle situazioni maggiormente critiche.
Io non credo che i centri per l'impiego debbano svolgere un'attività di monopolio. Penso che, quando si tratta del 10 o del 15 per cento degli incontri tra domanda e offerta, siamo già a degli standard qualitativamente molto significativi. Questo non vuol dire oscurare il ruolo delle agenzie interinali, né quello diretto delle imprese, né non considerare il fatto che, attraverso, come lei ricordava, il passaparola, ci sono tradizionalmente delle collocazioni al lavoro, che non sempre sono clientelari.
Tuttavia, sento ripetere spesso che questi centri per l'impiego non funzionano, eppure la mia esperienza di ministro è stata di valorizzazione, di risorse messe a disposizione, cosa che non è più avvenuta: voi non avete mai riscontrato situazioni di eccellenza che, a mio giudizio, soprattutto nel centro nord, esistono per quanto riguarda questi servizi per l'impiego?
Per quanto riguarda il tema delle assunzioni, mi risulta che per 2009 e 2010 le tipologie dei nuovi assunti - parlo del flusso, non dello stop occupazionale, che va chiaramente distinto - abbiano un andamento che vede di anno in anno progressivamente aumentare l'utilizzo delle forme di impiego a tempo determinato, interinale, a progetto e così via, a scapito del lavoro a tempo indeterminato. Questo fenomeno si è accentuato soprattutto negli ultimi anni: voi non pensate che con una politica che incentivi troppo le forme di impiego flessibili, nella loro moltiplicazione, si corra il rischio di avvantaggiare non la buona flessibilità, sulla quale tutti concordano, ma la precarizzazione del lavoro, come si è visto nell'attuale situazione nel mercato del lavoro?

VINCENZO SILVESTRI, Segretario nazionale del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro. Per quanto attiene alla prima domanda, come lei ben sa, onorevole,


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il collocamento pubblico già con la famosa legge n. 56 del 1987 doveva cessare la sua funzione notarile per svolgere attività di incontro e offerta domanda, quindi effettivamente gli strumenti per il collocamento pubblico per avviare un percorso verso una funzione nuova, che doveva essere quella del matching, sicuramente li ha avuti.
Neanche a noi piacciono le generalizzazioni, per cui effettivamente ci risulta che esistano, e credo di avere sicuramente constatato personalmente delle esperienze in Piemonte e mi pare anche in Lombardia, situazioni nelle quali il collocamento pubblico è riuscito a sposare finalmente la sua funzione non di ora, ma che il legislatore in realtà gli aveva già dato da diverso tempo.
Per quanto ci riguarda, quindi, ferma restando la liberalizzazione del collocamento, investire e potenziare il meccanismo dei centri per l'impiego è sicuramente una strada che andrebbe perseguita e potenziata. Oltretutto, questo vale anche in funzione della precarizzazione del rapporto di lavoro, della gestione della flessibilità soprattutto del lavoratore che oramai deve far conto che non avrà più un solo rapporto di lavoro, ma diversi, e che questi diversi rapporti saranno spezzoni che avranno anche bisogno di periodi di riqualificazione professionale. In quest'ottica, ritengo che questa nuova funzione, nell'ambito di un flexicurity, se vuole, del ruolo dei centri per l'impiego debba essere rivalutata e ripotenziata alla luce anche, come diceva, di alcune esperienze che funzionano.
Certo, l'Italia è divisa in due anche qui: neanche a noi risultano al sud le eccellenze di cui parlava. Non si sono affrancati dalla funzione, ma è anche vero che il precariato, la disoccupazione alligna maggiormente al sud, e quindi probabilmente questo impedisce a questi centri per l'impiego di affrancarsi da questa mansione di gestori di anzianità o di pratiche notarili.
Per quanto attiene alla seconda domanda, se mi chiede quanti contratti a chiamata o quanti job sharing sono stati realizzati all'interno delle aziende, conosce la risposta, pressoché nessuno. Possono, però, essere utili per risolvere situazioni concrete per le quali è difficile trovare una collocazione giuridica e lì anche il contratto a chiamata, il lavoro accessorio o il voucher può sposare la fattispecie.
Questo, però, non mi farebbe dire che si è precarizzato il rapporto di lavoro. I contratti a termine, cui lei rimandava, non sono figli di una normativa recentissima o comunque ci sono sempre stati.
Se, e qui condivido la sua analisi, dobbiamo parlare di ricerca di flessibilità all'interno del rapporto di lavoro utilizzato dalle aziende, sicuramente la fa da padrone il contratto a termine. Credo, però, che l'utilizzo del contratto a termine rappresenti una difesa da parte delle imprese evidentemente nei confronti di una strategia di costi che deve essere affrontata e verso la quale l'unica difesa è quella di arrivare a non sposarsi con il dipendente. Certo, giustamente, se si potesse arrivare a una possibilità da parte dell'azienda di un allentamento dei vincoli in uscita, probabilmente l'utilizzo del lavoro a termine troverebbe una sua giusta compensazione.

GIULIANO CAZZOLA. Sono venuto a Treia per il secondo incontro perché ero inserito in una tavola rotonda in cui ho trovavo conferma alle mie convinzioni sul legame tra lavoro degli stranieri e lavoro rifiutato degli italiani.
Alla mia età, tuttavia, faccio fatica, in buona sostanza, ad attaccarmi a dimostrare delle tesi magari senza avere completamente dei riscontri oggettivi. C'è sempre, infatti, un elemento poco onesto nel forzare i dati e le situazioni per dimostrare le proprie convinzioni, anche se io resto assolutamente convinto che esista un rapporto spesso dimenticato tra lavoro degli stranieri e lavoro rifiutato dagli italiani.
Anche seguendo quest'indagine, e lo stesso discorso vale anche per l'incontro che abbiamo avuto ieri con l'ISFOL, trovo sempre trascurato questo elemento. Tuttavia, i conti fanno fatica a quadrare perché abbiamo il forte incremento del lavoro degli stranieri in posizioni di lavoro


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manuale, rifiutate dagli italiani; d'altra parte, però, abbiamo una disoccupazione italiana spesso fortemente scolarizzata, per cui quindi diventa difficile far quadrare il cerchio e dire a un laureato in scienze politiche magari che deve andare a fare l'idraulico.
Probabilmente, il giorno in cui saremo in condizione di portare avanti la riforma dell'apprendistato, come si sta facendo in queste ore, positivamente peraltro, anche con una condivisione di forze sociali, credo che saremo in condizione di arricchire di lavoro la formazione scolastica e professionale e, nello stesso tempo, anche di arricchire di contenuti formativi la stessa attività lavorativa.
Come resistiamo, tuttavia, a questa fase di transizione? La pubblica amministrazione non assorbe più e, a mio avviso, è anche giusto che non lo faccia. Non si può regalare posti pubblici per risolvere il problema dell'occupazione.
Noi abbiamo avuto tra il 2008 e il 2010 863.000 italiani usciti dal mercato del lavoro e 330.000 stranieri entrati, con un saldo, quindi, di disoccupazione di 533.000 lavoratori in meno. Di questi 330.000 lavoratori stranieri, 304.000 sono dipendenti; 264.000 di questi dipendenti sono assunti a tempo indeterminato. Sembra di aver trovato la pietra filosofale perché si sarebbe portati a dire che le aziende assumono a tempo indeterminato gli stranieri, quindi c'è qualcosa che non va negli italiani. Tuttavia, di questi 264.000, 237.000 sono badanti.
C'è comunque una difficoltà a reggere questa situazione. C'è comunque una domanda di un certo tipo di lavoro con un'offerta che va da un'altra parte e noi facciamo fatica, a mio avviso, e siamo disonesti se promettiamo a questi giovani i posti a cui aspirano; però, nello stesso tempo, siamo anche un pochino disonesti se diciamo che il lavoro c'è, perché è anche normale che le famiglie proteggano i figli.

ALMALAUREA ci diceva che i laureati italiani per il 75 per cento delle famiglie sono i primi laureati. Il discorso, quindi, è complesso e io sono convinto che non esistano soluzioni normative. Non si può, infatti, imporre con delle norme che le aziende stabilizzino: i posti di lavoro li fa l'economia.
Io sono nato nel 1941, mi sono sposato nel 1966, laureato nel 1967, ho avuto un figlio nel 1968 e lo Statuto dei lavoratori non c'era. Quando ho cominciato a lavorare, nel 1966, c'era l'articolo 2118 del codice civile, per cui che si possa formare una famiglia, fare figli, comprare casa sono tutte esagerazioni, con la grande differenza che allora c'era tanto lavoro.
Non credo, dunque, che le norme risolvano questo problema, ma allo stesso tempo il problema esiste anche per chi, come noi, vuole essere un pochino meno indulgente nei confronti dei giovani.

MARIA GRAZIA GATTI. Relativamente all'intervento dell'onorevole Cazzola, vorrei rivolgervi una domanda: vi stupireste molto nello scoprire che la maggior parte di lavoratori assunti con contratto a termine o comunque atipico è assunto in aziende sotto i quindici dipendenti, dove non funziona l'articolo 18?

VINCENZO SILVESTRI, Segretario nazionale del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro. Onorevole Cazzola, è vero, il problema è estremamente complesso e forse bisognerebbe ripensare a un sistema di sviluppo diverso, ma non possiamo affrontare discorsi troppo complicati.
Tuttavia, se è vero che il rapporto a tempo indeterminato non deve diventare un feticcio, è anche vero che, allora, il sistema deve dotarsi di un meccanismo di rete che permetta a chi questo feticcio non riesce a raggiungerlo di spendersi nel mercato del lavoro. Faccio riferimento, naturalmente, all'annoso problema dei nostri ammortizzatori sociali, che abbiamo risolto in questo momento con la deroga, ma che di fatto sappiamo rimanere un problema.
So che il modello danese per l'Italia e per l'Europa sarebbe troppo costoso, ma in ogni caso si deve trovare un meccanismo. Se non riesco più a garantire, e può


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anche succedere culturalmente, il rapporto a tempo indeterminato in un mercato globalizzato, dove ovviamente c'è bisogno di maggiore flessibilità, di maggiore aggressione dei mercati eccetera, di contro, posso provare a costruire una rete alternativa in termini di qualificazione degli ammortizzatori sociali che permetta comunque una facile ricollocazione.
In fondo, sappiamo tutti che l'articolo 18, visto che l'abbiamo evocato, non ha fatto altro che fungere da tampone alla mancanza italiana di un sistema di reti e così la giurisprudenza ha utilizzato come supplenza l'articolo 18 per garantire il posto di lavoro. Forse questo feticcio verrebbe meno se riuscissimo a creare un sistema molto più elastico.

GIUSEPPE D'ANGELO, Membro del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro. Come consulenti del lavoro abbiamo sviluppato questo lavoro interessante, ne abbiamo parlato finora, ma è un lavoro, come richiesto da questa Commissione, che fotografa la situazione attuale del mercato. A nostro avviso, tuttavia, e come abbiamo già fatto in occasione dell'audizione sul precariato, vanno evidenziati alcuni elementi del mercato del lavoro da tenere sempre presenti.
Come giustamente diceva l'onorevole Cazzola, non è la norma che risolve il problema dell'occupazione, ma ciò che lo risolverebbe è un'analisi oggettiva e reale del mercato del lavoro.
Noi abbiamo, nel nostro Paese in particolare, e in relazione agli effetti dei mercati globali, una fluttuazione del mercato del lavoro molto repentina. Questo è il motivo per cui prima sentivo dire, forse proprio dall'onorevole Damiano, che ci sono operazioni contrastanti rispetto a un momento in cui serve una qualifica mentre il momento successivo ne serve un'altra. Questo è dovuto agli effetti della globalizzazione: se i mercati mondiali si spostano e, conseguentemente, un certo prodotto non è più trattato, nel termine di due o tre mesi serve un'altra qualifica.
Come giustamente diceva anche il collega, dunque, è importante una riqualificazione professionale assolutamente repentina ed efficace, che non sia un'occasione di business per i formatori professionali e vi assicuro che il fenomeno esiste e va controllato e combattuto.
Non dimentichiamo un altro aspetto importante del nostro Paese: l'80 per cento del tessuto economico e produttivo è dato da piccole e piccolissime aziende. È inutile che ci nascondiamo dietro un dito. È solo la grossa impresa che produce un rapporto a tempo indeterminato. La piccola e piccolissima impresa non lo produrrà mai, non c'è dubbio. Allo stesso modo, per effetto della globalizzazione, anche la grossa impresa potrebbe creare disoccupazione.
Dunque, l'incertezza del mercato, la situazione economico-produttiva del Paese, purtroppo, non ci danno certezze dal punto di vista del mercato del lavoro. Ecco la conferma dell'assunzione a tempo determinato e dell'estremo utilizzo dello strumento di questo istituto contrattuale, che è l'unico a offrire la possibilità di maggiore flessibilità e di avere, all'interno delle imprese, figure professionali diverse a seconda delle esigenze del mercato.
Tenevo a queste piccole precisazioni, che mi sembravano doverose.

PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,05.

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