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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione XIII
18.
Mercoledì 20 luglio 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Russo Paolo, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUL FENOMENO DEI DANNI CAUSATI DALLA FAUNA SELVATICA ALLE PRODUZIONI AGRICOLE E ZOOTECNICHE

Seguito dell'esame e approvazione del documento conclusivo:

Paolo Russo, Presidente ... 3 4 5
Cenni Susanna (PD) ... 4
Delfino Teresio (UdCpTP) ... 4
Di Giuseppe Anita (IdV) ... 5
Faenzi Monica (PdL) ... 3

ALLEGATO: Documento conclusivo approvato dalla Commissione ... 6
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A.

COMMISSIONE XIII
AGRICOLTURA

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 20 luglio 2011


Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE PAOLO RUSSO

La seduta comincia alle 14,40.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Seguito dell'esame del documento conclusivo.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul fenomeno dei danni causati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole e zootecniche, il seguito dell'esame del documento conclusivo, ai sensi dell'articolo 144 del Regolamento.
Ricordo che nella seduta del 25 maggio scorso l'onorevole Faenzi ha illustrato una proposta di documento conclusivo che si è successivamente riservata di formulare alla luce delle osservazioni pervenute.
Do la parola all'onorevole Faenzi.

MONICA FAENZI. Ad integrazione delle conclusioni già formulate e discusse, e recependo anche le istanze della collega Cenni e del collega Nola, abbiamo inserito alcune precisazioni.
Innanzitutto, in linea generale, abbiamo aggiunto che l'operazione di abbattimento debba essere sempre sottoposta al controllo e all'organizzazione degli enti pubblici, laddove sono competenti (si riconosce, dunque, anche la competenza attualmente esercitata dalle Province).
Per quanto riguarda il reperimento delle risorse finanziarie, abbiamo inserito la precisazione che le risorse derivanti dal pagamento della tassa delle concessioni governative pagata dai cacciatori siano destinate per il 50 per cento alle operazioni che abbiamo indicato nella relazione medesima.
Inoltre, abbiamo inserito - questa era una richiesta avanzata dalla Coldiretti - che si applichi anche in questo settore la possibilità di ottenere un risarcimento tramite polizze assicurative destinando un'apposita sezione del fondo di solidarietà nazionale anche all'assicurazione per i danni prodotti dalla fauna selvatica, che costituiscono un fenomeno importante. Tra le novità introdotte, vi è quella di attuare una collaborazione anche con gli agricoltori, oltre che con i cacciatori, creando appositi operatori specializzati per gli abbattimenti, i coadiutori, come si è sperimentato in altre regioni.
Riprendendo la Convenzione di Berna, un'altra precisazione che abbiamo inserito riguarda la problematica dei danni prodotti dai lupi, con riferimento alla possibilità di considerare questi ultimi specie non protetta nella misura in cui producano danni, qualora si accerti che vi è un soprannumero della specie medesima.
Inoltre, abbiamo preso in considerazione anche il problema degli ibridi, che spesso determinano difficoltà per ottenere il risarcimento.
In premessa, come punto più importante condiviso sin dall'inizio, vi era la richiesta di effettuare un monitoraggio,


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con metodi scientifici, per ottenere a livello nazionale una situazione certa circa la presenza di animali in grado di produrre danni all'agricoltura.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendono intervenire.

SUSANNA CENNI. Esprimerò alcune brevissime considerazioni intanto per ringraziare l'onorevole Faenzi per il lavoro che è stato svolto e anche per la disponibilità dimostrata nel lavorare insieme per l'inserimento di alcune precisazioni.
Noi abbiamo ritenuto importante correggere alcuni punti che erano nella prima bozza presentata dal relatore, perché sappiamo quanto questo tema sia stato oggetto anche di discussione appassionata in sede di Assemblea, creando anche qualche confusione. Qui stiamo parlando di danni provocati all'agricoltura, quindi di un fenomeno da governare, ma molto spesso, anche perché la fonte legislativa sulla base della quale intervenire è la legge n. 157 del 1992, si è inserito nella discussione in Assemblea qualche elemento di confusione.
Ho apprezzato il fatto che sia stato accolto, tra gli altri, un punto relativamente al tema degli osservatori regionali. Nella prima stesura questo tema poteva essere interpretato un po' ambiguamente, prevedendo la possibilità di forme di autonomia rispetto all'ISPRA, l'unico organismo che oggi ha competenze tecniche per dare indicazioni in materia di deroghe e via dicendo.
Altri elementi, che non riprendo, sono stati accolti. L'ultima considerazione riguarda la conclusione della relazione, che credo ponga a noi tutti una riflessione politica. Alla fine di questo lungo lavoro di audizioni, che anche il presidente aveva sollecitato quando abbiamo iniziato a parlare di danni alla fauna selvatica, abbiamo in mano un'opinione diffusa ma anche una richiesta di disciplinare e di attivare alcuni strumenti in questo campo.
Voglio ricordare che noi siamo nell'impossibilità, ad oggi, di fare qualsiasi cosa poiché al Senato è aperta la discussione sulla legge n. 157 del 1992. Voglio chiedere, dunque, al presidente della Commissione e a noi tutti cosa possiamo tentare di fare, anche approfondendo spazi di natura tecnico-giuridica e visti i Regolamenti di Camera e Senato, per dare attuazione a quanto concludiamo con questo documento.

PRESIDENTE. Prima di passare al voto, comprendendo che lo stesso sarà sostanzialmente unitario, mi permetterei di suggerire - lo farò poi in ufficio di presidenza - di presentare a breve questo lavoro in una conferenza stampa, invitando a tal fine un rappresentante per gruppo.
Oltre a questo, non solo per la sollecitazione della collega Cenni, ma per il lavoro in sé che è stato svolto, credo che tale sollecitazione sia rivolta al legislatore.
Credo che esista un profilo dell'indagine conoscitiva sul quale possiamo cimentarci anche sul piano legislativo, sapendo che al Senato hanno affrontato altra questione e, devo dire, l'hanno riposta in un cassetto, non consentendo alla Camera di lavorare a tutto tondo su questa materia. È evidente che il profilo che interessa specificamente il lavoro che abbiamo fatto non è la caccia, ma è l'attenzione che possiamo porre per evitare i danni agli agricoltori.
Credo che ci sia tutto il margine per poterci muovere. Ovviamente, mi auguro che possa essere esaminata da questa Commissione la proposta normativa più condivisa possibile già nella fase della presentazione.

TERESIO DELFINO. Intendo fare una dichiarazione di voto per unirmi al lavoro, al quale non ho partecipato, ma che ritengo assolutamente pregevole. Soprattutto, intendo sottolineare una questione che è affrontata e, per la verità, sostanzialmente rinviata, quella dei danni derivanti dal lupo e dagli ibridi.
Ritengo che proprio su questo tema - che nella nostra zona, cioè in provincia di Cuneo e in altre zone del Piemonte, imperversa non poco - si tratterebbe, raccogliendo


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anche la stimolante - come sempre - riflessione conclusiva del presidente, di adottare un indirizzo largo. Non vorrei, da un lato, avviare o vedere avviate soluzioni drastiche che non tengono presenti, come dovrebbe essere nell'assetto normativo che auspico, tutti gli aspetti, ma che certamente non possono penalizzare i nostri produttori agricoli e allevatori.

ANITA DI GIUSEPPE. Intervengo per ringraziare innanzitutto la relatrice, sebbene questo lavoro abbia visto impegnata tutta la Commissione. Come giustamente sostiene il presidente, questo è un provvedimento teso a tutelare gli agricoltori, non a causare danni alla fauna selvatica (semmai a proteggerla).
La dichiarazione di voto mia e dell'Italia dei Valori è dunque favorevole.

PRESIDENTE. Nessun altro chiedendo di intervenire, pongo in votazione la proposta di documento conclusivo nel testo riformulato (vedi allegato).
(È approvata).

La seduta termina alle 14,50.


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ALLEGATO

Indagine conoscitiva sul fenomeno dei danni causati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole e zootecniche.

DOCUMENTO CONCLUSIVO APPROVATO DALLA COMMISSIONE

1. Oggetto e svolgimento dell'indagine.

L'indagine conoscitiva svolta dalla XIII Commissione è stata rivolta ad acquisire una completa informazione sul fenomeno dei danni causati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole e zootecniche, sulla tipologia, sulla localizzazione geografica e sulla quantificazione economica dei danni denunciati, sulle colture danneggiate e sulle specie animali interessate, nonché sull'attività svolta dalle amministrazioni competenti e sull'insieme degli strumenti di cui si sono avvalse, con riferimento agli indennizzi richiesti ed erogati.
Nel corso dell'indagine sono stati auditi i seguenti soggetti:
rappresentanti di WWF Italia;
rappresentanti della Coldiretti;
rappresentanti dell'Associazione nazionale ARCI Caccia;
rappresentanti della Legambiente;
rappresentanti del Movimento Fare Ambiente;
rappresentanti della Federazione italiana della caccia (Federcaccia);
rappresentanti dell'Ente nazionale protezione animali;
rappresentanti dell'Ente produttori selvaggina;
rappresentanti delle associazioni di protezione ambientale Ambiente e/è vita, Fare verde, Italia nostra e Lega italiana protezione uccelli (LIPU);
rappresentanti delle associazioni venatorie Associazione nazionale libera caccia (ANLC), Associazione italiana della caccia (Italcaccia), Associazione dei migratoristi italiani (ANUU) e Unione nazionale Enalcaccia, pesca e tiro;
sindaco di Semproniano (Grosseto) e rappresentanti del Gruppo di interesse economico (GIE) pastorizia di Grosseto, della CIA di Grosseto e della Coldiretti di Grosseto;
rappresentanti della provincia di Siena e degli ambiti territoriali di caccia ATC 17 e ATC 19 di Siena;
rappresentanti delle organizzazioni professionali agricole Confagricoltura e CIA e delle organizzazioni cooperative agricole Agci-Agrital, Fedagri-Confcooperative, Legacoop-Agroalimentare e Unci-Ascat;
rappresentanti della Federazione italiana parchi e riserve naturali (Federparchi);
rappresentanti dell'Agenzia della regione Toscana per lo sviluppo e l'innovazione nel settore agricolo forestale (ARSIA);


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rappresentanti dell'Unione delle province d'Italia (UPI);
rappresentanti dell'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA);
rappresentanti del Comitato tecnico faunistico-venatorio nazionale;
rappresentanti dell'Associazione nazionale comuni d'Italia (ANCI);
rappresentanti della Conferenza delle regioni e delle province autonome.

Dalle audizioni svolte nel corso dell'indagine è emerso innanzi tutto un quadro generale di analisi che ha messo in evidenza la dimensione allarmante assunta dalla questione dei danni all'agricoltura da fauna selvatica e l'evidente impatto delle implicazioni della stessa sull'attività economica delle imprese agricole.
Da più parti è stata sottolineata l'esigenza di una nuova e più efficace politica di gestione e controllo della fauna selvatica da parte delle competenti istituzioni, cambiando l'approccio sino ad oggi adottato: non si tratta più, infatti, solo di gestire la fauna ai fini prettamente faunistico - venatori, ma piuttosto di trovare un modo per riequilibrarne la presenza in funzione di esigenze di carattere sociale ed economico.
L'indagine viene dunque a costituire un importante luogo di confronto su agricoltura, caccia e tutela dell'ambiente, attività che possono tra loro interagire positivamente per la gestione del territorio. Pur nella diversità delle posizioni espresse dai soggetti auditi, portatori di interessi spesso contrapposti, è risultata evidente la comune volontà di rinnovare alcuni principi della pianificazione faunistico-venatoria del territorio e della programmazione dell'attività venatoria, adeguandoli ai recenti orientamenti di politica agricola comunitaria, tenendo conto dei nuovi strumenti di tutela dell'ambiente previsti dall'Unione europea e valorizzando la multifunzionalità delle imprese agricole.
In relazione alle tematiche individuate, sono state altresì avanzate dai soggetti auditi una serie di proposte e suggerimenti puntuali.

2. Le tematiche emerse nel corso dell'indagine.

2.1. La questione delle informazioni.

Un'analisi quantitativa seria ed attendibile basata su dati certi, che permetta di ricostruire il quadro preciso del fenomeno (tipologia dei danni, quantificazione, tipo di colture danneggiate e specie animali interessate) è considerata da tutti i soggetti auditi la premessa indispensabile per affrontare la questione; eppure, la maggior parte degli stessi ha sottolineato la difficoltà di disporre di dati esaustivi circa la consistenza dei danni arrecati all'agricoltura dalla fauna selvatica (Coldiretti) nonché dei dati utili alla gestione programmata per il futuro (Federcaccia).
Si è dunque posto l'accento sulla necessità di riorganizzare la filiera delle informazioni sui danni, dando indicazioni di uniformità, anche nella formazione dei rilevatori, per la pluralità di soggetti che se ne occupano, nella prospettiva della creazione di una banca dati nazionale (Legambiente).
Anche il WWF, lamentando la quasi totale mancanza di informazioni sul tema, ha ribadito la necessità di disporre di un flusso unitario di informazioni mirate, al posto di quello attuale frammentato e contraddittorio, che dovrebbe essere agevolato con la previsione di procedure snelle per la denuncia dei danni.
L'ISPRA ha posto in evidenza la difficoltà di ottenere informazioni da parte delle amministrazioni che gestiscono l'avifauna e soprattutto di reperire dati omogenei ed esaustivi che consentano di valutare gli interventi. Dati significativi potrebbero essere l'entità dei danni e, soprattutto, la loro connessione con le diverse specie e la distribuzione nelle varie aree geografiche. L'Istituto sta producendo un manuale, diretto proprio alla raccolta


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di dati omogenei per qualità e quantità, destinati alla creazione di una banca dati su base regionale e nazionale.
Al riguardo, l'Ente nazionale protezione animali ha sottolineato altresì l'inaffidabilità dei dati attualmente raccolti sulla cui base vengono decisi gli interventi: la rilevazione è spesso affidata alle stesse associazioni venatorie, e non a un istituto qualificato come l'ISPRA, che solo può disporre del personale e degli strumenti scientifici adatti ai censimenti. L'inaffidabilità dei dati è ampliata peraltro dalla circostanza che i coltivatori non denunciano i danni alle greggi provocati dai lupi e dai canidi randagi, perché a fronte di risarcimenti incerti avrebbero dei costi certi e gravosi per lo smaltimento delle carcasse tramite inceneritore. Analoghi problemi, che hanno pesanti ricadute ambientali, si pongono per lo smaltimento delle carcasse dei cinghiali.
Con riguardo al problema del difficile reperimento delle informazioni, Federcaccia propone di investire una struttura del Dicastero dell'agricoltura del compito di accentrare i dati oggi in possesso dei vari soggetti: regioni, enti locali, ambiti territoriali di caccia (ATC), gestori dei parchi.
In tal senso assumono particolare rilevanza i dati contenuti nel documento approvato dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome. Tali dati evidenziano che i danni causati dalla fauna selvatica alle coltivazioni agricole sono ingenti e presenti in tutte le regioni, ancorché differenziati in ragione del territorio, delle colture presenti e delle specie che li causano. Oltre ai danni alle colture sono ingenti anche i danni alla zootecnia, mentre le specie responsabili sono non solo specie cacciabili, ma anche specie protette, come ad esempio lo storno e il lupo.
È dunque segnalata da più parti la necessità che la raccolta e l'organizzazione di tali dati avvenga secondo protocolli condivisi e standardizzati e che possa essere organizzata una trasmissione regolare degli stessi alla regione (così come all'ISPRA), per consentire l'organizzazione e l'implementazione di un'apposita banca dati a valenza regionale.

2.2. I danni prodotti da specie oggetto di attività venatoria. «L'emergenza cinghiale».

2.2.1. Il quadro di analisi.

Emerge in modo inequivocabile dai dati prodotti dalle regioni, ma anche da tutte le testimonianze dei soggetti auditi che, tra le specie oggetto di attività venatoria, quelle che generalmente producono la maggior parte dei danni sono gli ungulati, in particolare il cinghiale, ma anche il capriolo, il cervo e il daino. Tali dati evidenziano che le popolazioni di ungulati sono in aumento esponenziale non solo in Italia, ma anche in Europa. Le colture maggiormente danneggiate dagli ungulati sono le erbacee e i seminativi, ma non si può non evidenziare anche i danni alle strutture produttive (recinti, muretti ed altro). Ingenti sono anche i danni al bosco e alla biodiversità.
Secondo i dati ISPRA, come in altri Paesi europei, anche in Italia negli ultimi decenni il cinghiale ha notevolmente ampliato il proprio areale, dimostrando una grande adattabilità alle condizioni ecologiche più varie. Tra gli ungulati italiani esso riveste un ruolo del tutto peculiare, sia per alcune intrinseche caratteristiche biologiche sia perché è indubbiamente la specie più manipolata e quella che desta maggiori preoccupazioni per l'impatto negativo esercitato nei confronti di importanti attività economiche.
Nel giro di pochi decenni, infatti, l'areale si è più che quintuplicato, interessando interi settori geografici (ad esempio, l'arco alpino) ove il cinghiale mancava da molti decenni e creando una serie di conseguenze, dirette ed indotte, dagli effetti contraddittori sul piano ecologico, gestionale e sociale. Ad un crescente interesse venatorio per la specie si contrappongo i danni alle colture, spesso considerevoli, e il conflitto sociale che fisiologicamente ne consegue.
Le cause che hanno favorito l'espansione e la crescita delle popolazioni sono legate a molteplici fattori sulla cui importanza relativa le opinioni non sono univoche. Tra questi, le immissioni a scopo


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venatorio, iniziate negli anni '50, hanno sicuramente giocato un ruolo fondamentale. Effettuate dapprima con cinghiali importati dall'estero, in un secondo tempo i rilasci sono proseguiti soprattutto con soggetti prodotti in cattività in allevamenti nazionali.
Tali attività di allevamento ed immissione sono state condotte, secondo l'analisi dell'ISPRA, in maniera non programmata e senza tener conto dei principi basilari della pianificazione faunistica e della profilassi sanitaria e, attualmente, il fenomeno sembra interessare costantemente nuove aree con immissioni più o meno abusive. Ancora oggi, secondo l'indagine effettuata dall'ISPRA, diverse amministrazioni provinciali, soprattutto nella parte meridionale del Paese, acquistano direttamente cinghiali per il ripopolamento o autorizzano altri enti gestori (ambiti territoriali di caccia, aziende faunistico-venatorie, eccetera) a rilasciare regolarmente in natura animali prodotti in allevamenti.
I problemi di carattere ecologico ed economico posti attualmente dalla presenza del cinghiale deriverebbero, secondo l'ISPRA, anche dalla rigida suddivisione del territorio in istituti di gestione faunistica con differenti finalità: da una parte quelli in cui è prevista l'attività venatoria (ambiti territoriali di caccia, comprensori alpini, aziende faunistico venatorie, aziende agri-turistico-venatorie) e dall'altra quelli in cui la caccia è del tutto vietata in funzione del dispositivo della legge n. 394 del 1991 (parchi nazionali e regionali) e della legge n. 157 del 1992 (oasi di protezione, zone di ripopolamento e cattura, centri pubblici e privati di riproduzione della fauna selvatica, foreste demaniali).
L'assenza di un coordinamento delle attività gestionali risulta determinante per la maggioranza delle aree protette italiane che, caratterizzate da dimensioni molto limitate, finiscono per risultare fortemente disperse all'interno del territorio cacciabile. I cinghiali, a causa della pressione venatoria cui sono sottoposti, tendono a concentrarsi in queste aree di rifugio durante la stagione di caccia e a ridistribuirsi sul territorio nel rimanente periodo dell'anno.
Per quanto attiene le cause del fenomeno, anche il WWF ha in particolare sottolineato che il cinghiale ha una popolazione oggettivamente squilibrata e fortemente alterata dal punto di vista del patrimonio genetico, soprattutto a causa di immissioni effettuate in maniera discutibile dal punto di vista tecnico-scientifico.
Secondo l'ARCI Caccia, nel caso del cinghiale l'entità dei danni non sarebbe legata tanto alle dimensioni della popolazione, quanto alla composizione della stessa: popolazioni sbilanciate verso gli elementi giovani avrebbero un impatto sugli ecosistemi agrari tre volte maggiore rispetto ad una popolazione distribuita in modo ottimale tra le fasce di età. In particolare, la pratica dei foraggiamenti, nata in ambito venatorio, ha aumentato le popolazioni e le ha legate a certe aree, con concentrazione dei danni a carico di determinate produzioni agricole.
La Coldiretti ha ricordato che l'impatto provocato dalle popolazioni di cinghiale sull'ambiente naturale ed agro-silvo-pastorale è fonte di notevoli controversie tra le diverse categorie sociali ed economiche presenti sul territorio. Ciò è dovuto principalmente al fatto che il cinghiale è specie molto prolifica ed in grado di adattarsi molto bene ai cambiamenti ambientali, ma anche in conseguenza delle immissioni di tale specie selvatica operate in spregio allo specifico divieto previsto dalla normativa regionale in materia faunistico-venatoria.

2.2.2. Gli interventi volti a fronteggiare il problema.

Come è emerso dalle audizioni effettuate, gli interventi che risultano essere maggiormente adottati consistono essenzialmente nella pratica degli abbattimenti finalizzati alla riduzione numerica degli animali delle popolazioni appartenenti a specie già oggetto di attività venatoria nei periodi previsti dai calendari venatori redatti in base alle disposizioni normative vigenti.
Gli abbattimenti sono generalmente affidati a privati muniti di licenza di caccia,


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in alcuni casi sono effettuati da personale dipendente degli enti pubblici competenti per territorio nella gestione faunistica.
Secondo le associazioni ambientaliste, la pratica degli abbattimenti risulta essere in ogni caso adottata al di fuori di un sistema di conservazione e gestione della fauna selvatica, ma piuttosto come principale risposta delle amministrazioni pubbliche alle pressioni esercitate da alcune limitate componenti del mondo venatorio, in particolare da coloro che esercitano la caccia agli ungulati.
Nella pratica l'esercizio degli abbattimenti, ampiamente adottata dalla maggior parte delle amministrazioni pubbliche, non avrebbe risolto completamente il problema, limitandosi in alcuni casi solo ad un contenimento del danno limitato nel tempo e nello spazio e di fatto limitato altresì dalla normale dinamica delle popolazioni delle specie di fauna selvatica oggetto dei prelievi.
La soluzione proposta dalle suddette associazioni consiste nel ricorso alla pratica dei trappolamenti e al successivo abbattimento degli esemplari catturati, che risulterebbe essere la soluzione tecnica in ogni caso più efficace degli abbattimenti esercitati attraverso il solo prelievo venatorio.
Allestire e gestire i diversi sistemi di cattura (recinti o trappole a cassetta) comporta chiaramente un investimento economico che risulta essere invece assente o comunque molto limitato nel caso degli abbattimenti affidati direttamente ai privati muniti di licenza di caccia.
Secondo tale impostazione, la pratica delle catture/abbattimenti, pur comportando un investimento iniziale, si traduce, proprio in virtù della sua maggiore efficacia nel contenimento numerico degli animali, in un sostanziale risparmio nel medio e lungo termine della spesa pubblica attraverso una oggettiva e documentabile riduzione della spesa per gli indennizzi dei danni denunciati dalle imprese.
In particolare, secondo il WWF, le soluzioni adottate sino ad oggi si sarebbero sostanzialmente limitate a diverse tecniche di abbattimento, rivelatesi tutte inefficaci per il limitato prelievo e in qualche caso anche fonte di disturbo per altre specie. Tale associazione sottolinea il fallimento della politica di contenimento degli ungulati, affidata nella sostanza a privati muniti di permesso di caccia, ai quali è stato consentito di ricorrere ad un più ampio ventaglio di tecniche di abbattimento (dalla caccia in battuta, a quella di selezione da appostamento con carabina), consentendo anche la caccia a squadre, particolarmente discutibile per il disturbo che reca ad altre specie protette particolarmente sensibili, come l'orso bruno dell'Appennino centrale.
In questa ottica andrebbe sollecitata la collaborazione con gli agricoltori, oltre a quella con i cacciatori. Con gli agricoltori si potrebbe costituire anche una filiera integrata (si pensi alla macellazione).
Per il coinvolgimento degli agricoltori, le pubbliche amministrazioni potrebbero già avvalersi dell'articolo 14 del decreto legislativo n. 228 del 2001 (legge di orientamento in agricoltura), che consente di stipulare convenzioni con le aziende agricole, singole o associate, per la realizzazione di interventi finalizzati anche alla conservazione della biodiversità. Il coinvolgimento delle aziende agricole dovrebbe in questo caso configurarsi come una prestazione di servizi alla pubblica amministrazione competente nella gestione faunistica e prevedere un adeguato compenso economico, che può realisticamente essere recuperato dalla riduzione della spesa per gli indennizzi dei danni o comunque previsto nell'ambito del bilancio ordinario destinato agli interventi per la gestione della fauna e dell'attività venatoria.

2.2.3. Il controllo tramite prelievo venatorio.

Secondo la Conferenza delle regioni e delle province autonome, tali enti in vario modo hanno cercato di contenere le popolazioni e di arginare il continuo proliferare dei danni che sempre più ha generato malcontento tra le parti sociali coinvolte.
Le regioni hanno, infatti, cercato di risolvere il problema gestionale degli ungulati


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con proprie leggi e regolamenti regionali, ma secondo la Conferenza sarebbe necessario rimuovere alcuni ostacoli dovuti principalmente all'attuale assetto della normativa nazionale vigente come, per esempio, il divieto di esercizio venatorio in presenza di neve. In tale ottica, i principi cui dovrebbe essere ispirata una riforma degli istituti in questione concernono:
la gestione e/o il controllo delle popolazioni di ungulati su tutto il territorio agroforestale (anche quello precluso all'attività venatoria), per garantire il mantenimento di densità definite e compatibili con le coltivazioni agricole presenti e le altre attività antropiche;
l'autonomia gestionale delle regioni, per poter valutare ed implementare le strategie più opportune e funzionali al proprio assetto socio-economico e territoriale e per poter sempre più rivalutare tale patrimonio faunistico che dovrebbe costituire una risorsa del territorio anziché un problema.
La posizione della Coldiretti, al riguardo, si incentra sulla necessità di effettuare interventi volti ad eliminare o ridurre al minimo le popolazioni di cinghiali nelle aree non vocate a queste presenze faunistiche, al fine di prevenire danni alle persone e cose nonché alle attività agro-silvo-pastorali che risultano essere quelle maggiormente colpite, limitandole solo in quelle zone ove sia loro possibile esprimersi naturalmente senza risultare dannose. Bisognerebbe, quindi, procedere all'individuazione delle aree da ritenersi vocate e di quelle, invece, ove la presenza delle attività agro-silvo-pastorali impone la riduzione al minimo del numero di cinghiali, eliminando a qualunque costo e con i mezzi più opportuni i danni che essi sono in grado di provocare e che non risultano più sostenibili.
Secondo tale impostazione, il cinghiale è una specie che richiede una nuova e più efficace politica di gestione articolata su tre elementi cardine:
il controllo delle popolazioni;
la prevenzione dei danni;
il risarcimento dei danni.

Controllo, prevenzione e risarcimento dei danni necessariamente devono essere assicurati sia nelle aree a gestione programmata della caccia sia all'interno delle aree ove l'esercizio venatorio è vietato (zone di ripopolamento, oasi di protezione, parchi e riserve naturali).
Ciò impone la necessità anche di un maggior coordinamento tra le diverse realtà istituzionali preposte alla gestione della pianificazione faunistico-venatoria e delle aree protette (provincia, enti parco, eccetera) e quelle invece preposte alla gestione dell'attività venatoria e del territorio a caccia programmata (associazioni venatorie, ambiti territoriali di caccia e comprensori alpini di caccia).
Coldiretti avanza quindi le seguenti proposte operative:
definire, di concerto con le rappresentanze di tutte le componenti interessate, le aree territoriali da considerarsi non vocate alla presenza del cinghiale a causa della rilevante presenza di attività agro-silvo-pastorali e dei piani di controllo delle popolazioni di cinghiale da attuarsi in dette aree, anche qualora fossero precluse all'esercizio dell'attività venatoria, di concerto con i rispettivi enti gestori, con catture e abbattimenti volti all'obiettivo irrinunciabile di limitare al minimo, tendendo a zero, il numero di cinghiali ivi presenti, assicurando poi nel tempo il mantenimento dei risultati ottenuti;
potenziare e sviluppare operativamente i soggetti abilitati alle azioni di controllo tramite catture ed abbattimento;
intensificare l'attività di vigilanza allo scopo di impedire immissioni illegali di esemplari di cinghiale;
intensificare i prelievi effettuabili anche nelle zone ritenute vocate, adottando criteri di mantenimento e non di aumento ulteriore delle popolazioni presenti;
definire progetti mirati - anche a carattere sperimentale - di prevenzione dei danni da realizzare con il finanziamento


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da parte di regioni, province, enti parco e ambiti territoriali di caccia interessati;
supportare e favorire una modifica legislativa a livello nazionale, e quindi regionale, che preveda la possibilità per regioni e provincie, nell'ambito dei piani faunistico-venatori, di stabilire in modo progressivo: misure di prevenzione; misure ordinarie di controllo; misure straordinarie di controllo, qualora gli interventi di prevenzione dei danni e le misure ordinarie di controllo della fauna selvatica si rivelino inefficaci a limitare i danni.

Nell'ambito della tematica del controllo faunistico, assume dunque rilevanza la controversa questione della riorganizzazione del prelievo venatorio.
Secondo Arci Caccia, premessa l'importanza di riorganizzare il prelievo secondo le indicazioni a suo tempo formulate dall'INFS (ora ISPRA) ed in termini di concertazione con il mondo agricolo, il contributo del legislatore potrebbe in tempi rapidi affrontare alcune questioni, quali l'individuazione di parametri di emergenza, valutando l'impatto per grandi aree dove il cinghiale è incompatibile con l'agricoltura, con interventi mirati che rifuggano la logica della sola caccia e consentano alle regioni di intervenire in tempi dati, senza i limiti di intervento previsti dalle leggi sulla caccia e sui parchi, potendo usare anche i cacciatori per una azione di riequilibrio.
Federcaccia ritiene che vadano in primo luogo risolte le seguenti questioni: debbono essere nettamente distinti, come peraltro avviene in Europa, esercizio dell'attività venatoria e controllo faunistico; devono essere le norme statali a disciplinare in maniera omogenea per tutto il territorio sia l'attività venatoria sia il controllo faunistico attraverso l'utilizzo dell'attività.
Fra le soluzioni suggerite:
consentire ad altri soggetti il prelievo delle specie in esubero, come è stato fatto in Emilia-Romagna con la istituzione dei «coadiutori», cacciatori che, sottoposti a successivi esami, possono accedere al prelievo nelle aree protette ex lege n.157, anche al di fuori del periodo di caccia;
«destagionalizzare» il prelievo degli ungulati, prestando grande attenzione a che il prelievo sia fortemente «selettivo», ovvero (come ormai ribadito nella letteratura scientifica) diretto verso gli esemplari più giovani (i rossi), i più dannosi;
elaborare un piano per la gestione complessiva degli ungulati, che coinvolga Stato e regioni;
distinguere nettamente il calendario per il prelievo venatorio da quello del prelievo per il contenimento.

L'Ente nazionale protezione animali ha affermato in premessa la necessità di tenere distinte la questione dei danni all'agricoltura ed alla zootecnia provocati dalla fauna e quella dell'attività venatoria, sulla base della constatazione che la commistione che invece si è determinata in Italia non ha risolto i problemi dei danni all'agricoltura ed ha invece causato danni ambientali e un inasprimento dei rapporti con le associazioni ambientaliste ed animaliste. Secondo tale prospettiva, occorrerebbe invece in primo luogo chiudere i ripopolamenti e adottare misure come i censimenti, l'applicazione dei metodi incruenti ecologici, la ricerca scientifica, l'aumento dei fondi, l'erogazione rapida degli indennizzi agli agricoltori. Tutto ciò si sarebbe già potuto fare applicando correttamente la legge n. 157 del 1992; solo in particolarissime e documentate circostanze si potrebbe ipotizzare il ricorso a misure da parte dei prefetti, evitando in ogni caso di dare poteri straordinari ai sindaci.
Nel medesimo senso le posizioni della LIPU, per la quale sarebbe opportuno stralciare il tema dei danni e procedere, sulla base dell'indagine in corso, con un provvedimento legislativo ad hoc che contenga norme che promuovano attività di conservazione (management ambientale) di alta qualità, indichino strumenti ecologici di dissuasione e di contenimento,


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affrontino il tema del risarcimento del danno e prevedano strumenti straordinari per casi straordinari, nel rispetto delle normative comunitarie.
Un'opposta impostazione è, evidentemente, quella espressa dall'Associazione nazionale libera caccia (ANLC), secondo la quale la cultura del divieto che è stata imposta ai cacciatori non avrebbe dato frutti. La legge n. 157 del 1992 prevede per il controllo della fauna selvatica solo abbattimenti selettivi, che risulterebbero insufficienti: si dovrebbero aumentare le specie cacciabili dando ai proprietari e conduttori di fondi la possibilità di abbattere determinate specie che sono oggettivamente dannose. Tale modifica dovrebbe procedere di pari passo con la creazione di istituti che affianchino l'ISPRA e che siano dislocati nelle regioni, in modo da monitorare costantemente la fauna ed elaborare dati tecnico-scientifici utili a trovare una soluzione per i danni causati dalla fauna selvatica.
La Federparchi propone di modificare l'articolo 19, comma 2, della legge n. 157, che prevede il ricorso ai cosiddetti «metodi ecologici» per il contenimento delle specie. I metodi ecologici presupporrebbero un intervento sull'ecosistema - introducendo animali, piante, eccetera - per cambiare i rapporti ecologici e limitare la presenza delle specie invasive; con tale termine, più probabilmente invece, il legislatore intendeva fare riferimento a metodi non cruenti. L'articolo, più congruamente, dovrebbe richiamare i «metodi selettivi», ovvero metodi che pur contemplando anche l'abbattimento non devono creare nocumento ad altre specie.
Anche per Federparchi occorrerebbe consentire almeno a taluni soggetti, come agli agenti della polizia provinciale e ai guardaparco, di fare ricorso a metodi oggi vietati, come l'uso di silenziatori in luogo dell'attuale carabina che consente l'abbattimento di un solo esemplare.
Il Comitato tecnico faunistico-venatorio nazionale propone misure che possono essere così riassunte:
predisposizione di piani di controllo numerico delle popolazioni in esubero;
contenimento delle specie - si pensi a quelle che recano i maggiori danni economici come cinghiali, nutrie e cormorani - da parte di regioni e province con la messa a punto di piani di controllo selettivo, meglio se con coordinamento interregionale;
ampliamento dei soggetti abilitati alle operazioni di contenimento (la legge prevede la partecipazione dei soli agenti di polizia venatoria coadiuvati da dipendenti di amministrazioni pubbliche o, in alcuni casi, da cacciatori che abbiano frequentato appositi corsi di abilitazione);
predisposizione di una normativa specifica per il controllo delle specie, che è cosa diversa dall'attività di caccia e non può pertanto essere inclusa nella legge n. 157 del 1992.

2.2.4. Il divieto di immissioni.

È emersa dalla maggior parte delle audizioni la questione relativa al divieto di immissioni di esemplari di specie che comportano danni alle produzioni agricole.
Secondo il WWF, nell'ambito della riforma della normativa nazionale quadro che regolamenta la gestione faunistica e l'attività venatoria, dovrebbe essere riconosciuto come danno patrimoniale alla pubblica amministrazione l'immissione sul territorio di esemplari di fauna per le specie di cui è stato accertato uno squilibrio delle popolazioni che determina un danno grave alle produzioni agricole, per il cui contenimento sono adottati interventi straordinari di cattura e abbattimento o di abbattimento selettivo al di fuori dell'ordinario svolgimento dell'attività venatoria. Per tale ragione non si deve escludere la necessità di prevedere, in via preventiva, anche un divieto di immissione.
L'Ente produttori selvaggina sottolinea che il grosso handicap, relativamente alla situazione dei danni da fauna selvatica, consiste nella mancanza di una gestione faunistica compatibile con l'obiettivo di evitare i danni. I piani di controllo previsti dalla legge vigente possono essere di aiuto


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ma, per quanto riguarda il cinghiale, non essendo selettivi, creano sbilanciamenti nelle popolazioni tali da aumentare talvolta i danni all'agricoltura a causa di questa destrutturazione della classi di animali.
Anche per l'ARCI Caccia occorrono misure di maggiore rigore per evitare il ripopolamento dei cinghiali, individuando con precisione il campo dell'allevamento a scopo alimentare e di quello a scopi ludico-venatori.
Federcaccia sostiene che per il cinghiale occorre un piano di gestione complessiva a livello nazionale, evitando nell'immediato che alcune regioni continuino a devolvere fondi pubblici per l'immissione dei cinghiali.
L'Ente nazionale protezione animali ha sottolineato la necessità di affrontare il problema partendo dalla cessazione delle immissioni. Nello stesso senso si è espressa la LIPU, secondo la quale il problema principale resta quello del cinghiale, determinato dall'abnorme attività di allevamento e immissione sul territorio, che va bloccata. Ciò si inserisce nella prospettiva di una più oculata politica di immissione della fauna. In tal senso è considerata paradossale la possibilità del ripopolamento di talune specie, come il cinghiale.
Federparchi ha invece suggerito, con riferimento al problema degli ungulati, una serie di modifiche normative che potrebbero contribuire al contenimento dei danni:
introdurre il divieto di immissione di cinghiali in natura, accompagnato dall'ulteriore divieto del loro allevamento che, finalizzato alla produzione di carne, frequentemente maschera un mercato per la fraudolenta immissione in natura a scopi di caccia;
introdurre il divieto di fornire alimentazione a terra destinata ai cinghiali, se non per motivi zootecnici oppure di censimento, cattura o abbattimento selettivo, con autorizzazione espressa degli enti gestori. Una deroga per fornire la cosiddetta alimentazione dissuasiva può essere concessa, da parte delle regioni, dal primo marzo al quindici ottobre, ossia in presenza delle colture agricole.

Sul medesimo punto la Coldiretti ha ribadito la necessità del contrasto alla diffusione del cinghiale operata tramite immissioni illegali, anche attraverso il controllo e/o il divieto degli allevamenti, così come Federcaccia suggerisce di limitare o sospendere temporaneamente la possibilità di immettere tale specie già altamente prolifica.

2.2.5. L'esperienza della provincia di Siena.

Con riguardo alle modalità di intervento attuate per contenere il numero degli esemplari delle varie specie causa di danni, la Commissione ha audito l'Assessore all'agricoltura, caccia e pesca della provincia Siena, che ha in particolare descritto il protocollo d'intesa tra la Provincia di Siena e l'Istituto nazionale per la fauna selvatica (ora ISPRA), che ha l'intento di definire un documento programmatico che consenta di pianificare su scala quinquennale le linee guida per le azioni di controllo sulla fauna selvatica in tempi diversi da quelli previsti dal calendario venatorio e/o in aree soggette a vario titolo a divieto di caccia.
Il protocollo consente di intervenire più o meno in tutto l'arco dell'anno, sotto il controllo della polizia provinciale o degli agenti di vigilanza volontaria: gli interventi messi in atto nel solo 2008 sono stati nella provincia 5.000.
Le modalità d'intervento sono conseguenti all'approvazione di norme regionali che consentono di suddividere il territorio tra area vocata e area non vocata: nell'area vocata al cinghiale (che copre il 25 per cento della superficie agricola utilizzata provinciale) può non essere richiesto alcun intervento di contenimento, visto che si tratta di area prevalentemente boscata che si caratterizzata per una scarsa presenza di colture agricole; nell'area non vocata invece si punta costantemente alla drastica riduzione ed eradicazione della specie dannosa.


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Il protocollo d'intesa consente anche di intervenire con i seguenti metodi: con l'aspetto, anche in orario notturno (con eventuale ausilio di sorgente luminosa); con la cerca; con la braccata e con la girata con l'ausilio del cane limiere.

2.2.6. I danni nelle aree protette.

Un'ulteriore tematica affrontata nel corso dell'indagine riguarda il problema dei danni all'agricoltura arrecati dai cinghiali nelle aree protette. Secondo uno studio condotto dall'ISPRA, recante Linee guida per la gestione del cinghiale nelle aree protette, che fornisce indicazioni concrete in merito alle modalità di pianificazione della presenza della specie sul territorio, i risarcimenti dovuti alle imprese agricole che svolgono la propria attività nelle aree protette ammontano a ben 2.248.188 euro, con una media di 33.346 euro per area protetta, con profonde diversità tra un'area e l'altra.
I parchi nazionali nei quali si registrano i maggiori danni da cinghiali all'agricoltura sono il Parco nazionale del Pollino in Calabria, il Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga nell'Appennino centrale, mentre tra i parchi regionali spicca per i danni il parco della Mandria in Piemonte.
A fronte di tale situazione, la Coldiretti ritiene che gli enti di gestione dei parchi dovrebbero prevedere, a monte, una pianificazione della presenza dei cinghiali nelle diverse zone del parco a seconda della presenza o meno dell'attività agricola; altrimenti, nella maggior parte dei casi, si rischia di procedere ad interventi privi di una razionale efficacia.
Per tale specie, è indispensabile, infatti, che l'ente parco introduca, tenendo conto anche delle diverse zone di protezione che contraddistinguono le aree protette, dei criteri per la fissazione di densità obiettivo individuando:
a) le aree a prevalente destinazione agricola in cui la presenza di cinghiali deve essere fortemente limitata;
b) le aree a rilevante compresenza di agricoltura ed ambienti naturali in cui è tollerata una bassa densità di cinghiali;
c) le aree a prevalente destinazione naturalistica caratterizzate dalla presenza di zone boscate in cui è ammessa una densità elevata di cinghiali.

Le linee guida illustrate dall'ISPRA indicano, per quanto concerne la prevenzione dei danni, la necessità del contenimento del fenomeno alle origini per cui stabiliscono le misure di prevenzione che le imprese agricole dovrebbero adottare (ad esempio, recinzioni elettrificate).
È evidente che, in questo caso, l'ente parco è tenuto ad adottare regimi di sostegno finanziario per le imprese agricole che le pongono in atto, in quanto l'agricoltura non è tenuta a sopportare le conseguenze economiche derivanti da una cattiva gestione della fauna selvatica sul territorio.
Inoltre, è importante introdurre il divieto di immissione di nuovi capi, fatta eccezione per le imprese agricole che abbiano allevamenti rigorosamente recintati. Tale disposizione è importante al fine di bloccare un fenomeno, spesso alimentato, inopportunamente, con conseguenze pregiudizievoli per le imprese agricole.
Le linee guida dell'ISPRA sottolineano che, ai fini dell'esecuzione di un piano di controllo numerico della presenza di cinghiali (che include oltre all'uso di mezzi di cattura anche l'abbattimento selettivo), la normativa vigente non prevede per le aree protette nazionali dotate di apposito regolamento la necessità di ricorrere ad uno specifico atto autorizzativo rilasciato da un'autorità esterna all'ente parco stesso.
Per le aree che non si sono dotate di specifico regolamento il riferimento normativo varia da regione a regione in funzione delle leggi vigenti in materia di aree protette e del contenuto delle norme regionali previste all'articolo 22, comma 6, della legge n. 394 del 1991.
Indipendentemente da quanto previsto dalle normative nazionali e regionali,


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l'ente gestore dell'area protetta, qualora lo ritenga necessario, può richiedere un parere in merito all'adeguatezza tecnica del piano di controllo all'ISPRA. Negli ultimi anni, numerose aree protette di carattere nazionale e regionale hanno sottoposto, come prassi, i piani di controllo numerico al parere tecnico dell'ISPRA e, in alcuni casi (ad esempio, la Regione Lazio) è stato richiesto un parere in merito all'adeguatezza della direttiva regionale prevista dalla legge.
Inoltre, in virtù dell'autonomia decisionale di cui gode l'ente parco, è possibile ricorrere ad abbattimenti selettivi, così come è accaduto nel caso del Parco nazionale dello Stelvio, che ha posto in essere interventi di contenimento numerico dei cervi. In questo caso, l'ente parco è tenuto ad individuare i soggetti che sono abilitati all'abbattimento selettivo, che possono essere non solo le guardie del parco, ma anche soggetti diversi tra cui gli imprenditori agricoli, purché qualificati a svolgere tale compito.
L'ente parco, secondo l'ISPRA, dovrebbe prevedere, inoltre, dei momenti di concertazione obbligatoria con le organizzazioni professionali agricole, al fine di controllare la presenza di tale specie sia all'interno del parco che nelle aree contigue.
L'ente parco, poi, dovrebbe disciplinare anche l'aspetto relativo al risarcimento dei danni da fauna selvatica, in merito al quale occorre introdurre dei criteri di stima e valutazione dei danni, prevedendo l'obbligo che tale computo sia effettuato sulla base dei prezziari dei prodotti agricoli vegetali e degli animali pubblicati sui mercuriali delle camere di commercio delle province o in alternativa delle quotazioni riportate dall'ISMEA. Attualmente, infatti, i danni sono spesso sottostimati e si traducono in un indennizzo piuttosto che in un vero e proprio risarcimento a favore dell'imprenditore agricolo.

2.2.7. Le aree contigue.

Una delle soluzioni prospettate dall'ISPRA con riguardo al problema degli ungulati ed in particolare del cinghiale, attiene alla possibilità del concreto funzionamento delle aree contigue (articolo 32 della legge n. 394 del 1991) in modo che le stesse possano svolgere la loro funzione di «zona cuscinetto» tra l'area protetta ed il territorio in cui si esercita la caccia nelle forme previste dalla legge n. 157 del 1992. Nelle aree contigue tale risultato è raggiungibile attraverso:
a) la modulazione della pressione venatoria sul cinghiale in funzione dello status delle popolazioni presenti nell'area protetta e nell'area contigua e delle scelte gestionali assunte dall'ente gestore;
b) lo svolgimento della gestione venatoria secondo regole che consentano un effettivo uso sostenibile delle popolazioni di cinghiale con modalità, tempi e tecniche adeguati e che tengano conto anche degli effetti collaterali dell'attività venatoria (disturbo) sia sulle specie oggetto di prelievo sia su quelle comunque protette.

Tali regole dovrebbero, a regime, trovare applicazione non solo nelle aree contigue ma in tutti gli istituti territoriali in cui si esercita la caccia al cinghiale (ambiti territoriali di caccia e comprensori alpini).
Secondo l'ISPRA, nell'attuale situazione della gestione venatoria, caratterizzata da una scarsa capacità di organizzazione e da una notevole carenza di criteri razionali, il ruolo delle aree contigue ai parchi appare particolarmente interessante in quanto potrebbe consentire la realizzazione di esperienze pilota che diano concreto avvio ad un processo di miglioramento della gestione venatoria. Ciò è reso possibile dal fatto che i regolamenti di gestione venatoria delle aree contigue rispondono ad un quadro normativo per certi versi più flessibile rispetto a quello definito dalla legge n. 157 del 1992.
È necessario quindi, secondo l'ISPRA, che venga adottata una strategia nazionale di gestione del cinghiale che, pur nel rispetto delle differenti finalità istitutive, risulti basata su un'opportuna armonizzazione e coordinamento degli interventi che si eseguono nelle aree protette, nelle


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aree contigue, negli ambiti pubblici e privati di caccia. Aree protette e territorio cacciabile non sono entità separate da barriere invalicabili, ma un sistema ecologico occupato dalle stesse popolazioni di cinghiale.

3. I danni arrecati da specie protette.

Accanto alle problematiche legate agli ungulati (specie cacciabili), l'altro importante filone dell'indagine si è sviluppato in merito ai danni arrecati all'agricoltura da parte di specie protette.
Secondo l'Ente nazionale protezione animali, con riguardo alle specie protette, quali il lupo, l'orso e l'aquila reale, l'unica strada percorribile è quella di incentivare gli indennizzi e soprattutto gli investimenti sulla prevenzione.
Per quanto riguarda gli storni, tale Ente è contrario a riaprirne la caccia: la specie ha recuperato una dimensione soddisfacente e non si può adesso riavviarne la distruzione; le deroghe sono sempre state concesse violando i pareri dell'INFS e la sua associazione ha vinto in tutti i casi nei quali ha presentato ricorsi.
Secondo il WWF, per i danni causati dalle specie protette le azioni non possono che essere legate alla mitigazione e al contenimento dei danni attraverso investimenti strutturali e, soprattutto, attraverso un'attenta verifica e analisi delle modalità di gestione di alcune attività, come quella d'allevamento, che non può più svolgersi allo stato brado: tale tecnica infatti favorisce la predazione da parte di specie per le quali si è anche andata riducendo la disponibilità delle originarie prede selvatiche.
La Conferenza delle regioni e delle province autonome ha invece insistito per una riflessione sul tema dello storno che, soprattutto in alcune aree della nostra penisola, ha effetti devastanti sulle produzioni. Secondo la Conferenza, uno degli elementi sui quali occorre accelerare - nel senso di operare una modifica dell'attuale quadro normativo - è soprattutto la questione dei danni causati dallo storno cosiddetto «volgare». Con riferimento a quest'ultimo, si ritiene sia assolutamente discutibile il fatto di averlo ricompreso tra le specie protette.
Secondo la Conferenza, nell'ambito della categoria avifauna una specifica attenzione deve essere prestata alla specie storno - da sola causa di buona parte dei danni all'agricoltura ricompresi nella categoria «avifauna» - in quanto specie non cacciabile in Italia dal 1994, nonostante diverse fonti scientifiche affermino che la specie in Italia non è in declino, ma in progressivo aumento soprattutto nelle regioni in cui la specie è ormai nidificante e stabile.
Il fatto che sia vietata l'attività venatoria nei confronti della specie storno crea non pochi problemi gestionali alle regioni e agli enti locali competenti nella gestione della fauna.
Di fatto è possibile intervenire solo con lo strumento delle deroghe di cui all'articolo 9 della direttiva 147/2009/CE, secondo modalità ancora non definite (linee guida previste dall'articolo 42 della legge comunitaria 4 giugno 2010, n. 96) e di difficile attuazione, soprattutto dopo la recente sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, che ha condannato lo Stato per non aver correttamente applicato la normativa europea anche in materia di deroghe.
Per affrontare concretamente il problema legato alla specie storno occorrono, secondo la Conferenza, iniziative da parte del Governo nei confronti dell'Unione europea, con la maggiore urgenza possibile, per reinserirla specie fra quelle cacciabili.

3.1. Il lupo.

Particolare rilevanza, nel quadro di analisi sui danni da specie protette, assumono i dati e le problematiche relative al lupo.
Al riguardo, la Federparchi - dopo aver sottolineato che il numero degli esemplari di lupo attualmente presenti sul territorio nazionale è compreso in un range tra i seicento e i mille esemplari (erano un terzo negli anni '70) - ricorda che la sua diffusione,


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data la grande mobilità della specie, è ormai estesa a numerosissime aree: è sicuramente presente nelle province di Grosseto e Siena, dove sono presenti anche altre due specie che provocano danno agli ovini, i cani mal custoditi, ossia lasciati liberi durante la notte, e gli ibridi. Secondo la Federparchi, è possibile il riconoscimento della specie sulla base del danno inferto, ma lo strumento infallibile, e nemmeno costosissimo, che consente di individuare non solo la specie, ma il singolo individuo, è l'esame degli escrementi che consente l'analisi genetica.
La Coldiretti ha presentato le proprie valutazioni in merito ai danni provocati dal lupo alle imprese agricole zootecniche, evidenziando come in Italia dopo un periodo nel quale la specie era scomparsa in molte aree del paese, a seguito degli interventi di ripopolamento, attualmente la presenza del lupo è stimata in circa 500-600 animali (secondo alcuni ricercatori forse anche di più), sì che tale specie è ricomparsa in molte zone in cui non era più presente da circa un secolo.
Se tale fenomeno è giudicato positivo sul piano della tutela della biodiversità, d'altro canto l'assenza della messa in atto di adeguate misure di prevenzione in molte regioni ha determinato un incremento dei danni provocati dal lupo alle imprese zootecniche, favorendo un clima di conflittualità tra i diversi soggetti presenti sul territorio (associazioni ambientaliste, organizzazioni agricole, enti locali).
In particolare, nelle aree rurali in cui si è avuto un ripopolamento della specie, gli allevatori, non essendo abituati alla presenza dell'animale, non contemplano la messa in atto di misure per la prevenzione dei danni e non sanno esattamente come affrontare il problema sul piano pratico. Spesso durante la notte non pensano, ad esempio, a realizzare sistemi di recinzione così che il bestiame ed i greggi restano privi di protezione.
In sostanza, la scomparsa del lupo da molte regioni e la riduzione della redditività dell'attività zootecnica nelle aree cosiddette marginali hanno comportato l'abbandono di quelle pratiche che hanno consentito storicamente al lupo di convivere con gli allevatori: gli animali domestici vengono lasciati al pascolo incustoditi, i cani da difesa, la cui preparazione e mantenimento sono divenuti costi superflui, sono scomparsi.
Là dove con il supporto delle regioni e degli enti locali sono state attuate misure di prevenzione quali recinzioni elettrificate, presenza di cani da guardia, ricoveri temporanei per il bestiame al pascolo e le greggi, si è effettivamente riscontrato un contenimento dei danni, seppure anche in questi casi restano dei problemi per i bovini che rimangono al pascolo anche durante la notte. Inoltre, anche quando durante la notte gli animali sono protetti, gli allevatori possono comunque avere delle perdite, dovute agli attacchi del lupo che avvengono di giorno quando gli animali sono al pascolo.
D'altra parte, si è sottolineato come i piccoli allevamenti spesso abbiano difficoltà ad applicare le misure di prevenzione. Per ragioni economiche relative ai costi di realizzazione o per ragioni tecniche.
Altro aspetto importante in presenza di danni agli allevamenti è accertare se la responsabilità è imputabile al lupo o alla presenza di cani inselvatichiti, che in alcune aree rurali sono diventati sempre più numerosi. A tal fine, alcune amministrazioni locali stanno sperimentando dei metodi per distinguere le due specie sulla base dell'analisi degli escrementi rinvenuti nelle aree in cui sono avvenuti gli attacchi.
In sostanza, come evidenziato da uno studio dell'Osservatorio ecologia appenninica, la situazione attuale è la seguente: l'allevatore sistematicamente perde alcuni capi di bestiame e si rivolge alle autorità competenti senza ottenere alcun risarcimento, in quanto «ufficialmente» la presenza del lupo non è accertata con sicurezza, essendo nota anche la presenza dei cani inselvatichiti ai quali potrebbe essere imputato il danno.
Inoltre, i veterinari che vengono interpellati in caso di danno non possono distinguere la causa della morte degli animali in quanto non si è in grado di distinguere se l'aggressore è stato il lupo o


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il cane (entrambi mordono nello stesso modo e per lo più la tecnica di caccia è la stessa).
Secondo la Coldiretti, le soluzioni possibili sono sostanzialmente tre da impiegare congiuntamente: 1) rivedere il sistema di accertamento e risarcimento dei danni affinché, oltre a garantire un completo reintegro della perdita di reddito per l'agricoltore, siano coperti non solo i danni da lupo, ma anche quelli causati da cani inselvatichiti; 2) prevedere un sistema di misure di prevenzione dei danni incentivando le imprese agricole con un adeguato regime di sostegno; 3) costituire delle ronde con volontari che collaborino con i pastori e gli allevatori nella sorveglianza.
La CIA di Grosseto espone una stima dei danni arrecati dal lupo nella provincia di Grosseto, che ammonterebbero ad oltre 5 milioni di euro. Al riguardo, ritiene necessario adeguare le coperture assicurative, che attualmente non coprono i danni indiretti quali animali dispersi, perdite di latte, aborti indotti; vi è poi il problema dello smaltimento delle carcasse.
La CIA ricorda che il problema del lupo riguarda non la sola provincia di Grosseto, ma l'intero Appennino. Occorrono azioni di contenimento, di cattura, visto che ormai la consistenza dei lupi è ben oltre la soglia del rischio di estinzione. La Convenzione di Berna consente di considerare il lupo specie solo parzialmente protetta, quando produca danni eccessivi. Si fa notare inoltre che non è possibile risolvere il problema con le recinzioni, perché gli allevamenti hanno una densità media da 500 capi in su e non è possibile recintare e cementificare gran parte del territorio della provincia.
Il Gruppo di interesse economico (GIE) pastorizia di Grosseto ritiene invece che dati certi sui danni provocati dai lupi possano aversi solo se le istituzioni si faranno carico dello smaltimento delle carcasse e del risarcimento dei danni. Tale soggetto ritiene che il sistema delle assicurazioni sia impraticabile anche perché richiederebbe recinzioni che non possono essere mantenute a lungo.
Anche l'ANCI ha sottolineato come il fenomeno del lupo stia assumendo anche aspetti di carattere sociale oltre che di danno diretto all'agricoltura e alle aziende. Occorre che la questione, soprattutto della distinzione tra il predatore lupo e tutto ciò che è ibrido, sia affrontata con uno strumento legislativo che garantisca mezzi più incisivi, in particolare per il contenimento degli ibridi. È essenziale da due punti di vista: quello di limitare il fenomeno dell'ibridazione rispetto alla tutela del lupo e quello di limitare gli attacchi.
La Federparchi ha insistito in particolare sul tema delle specie aliene (come la nutria o lo scoiattolo grigio diffuso nel Piemonte), la cui eradicazione non è consentita dalle attuali norme, che hanno portato alla condanna penale di alcuni tecnici dell'ISPRA attenti alla tutela della biodiversità originaria.
Diverso è il caso dei danni causati dai canidi - lupi, cani, cani inselvatichiti, ibridi di lupo e cane - per i quali l'intervento deve essere in funzione della specie. Nel caso del lupo, tutelato dalla legge n. 157 del 1992 e dalla «direttiva habitat», l'abbattimento è precluso, ma è anche privo di effetti il trasferimento in un altro territorio, visto che questa specie è capace di percorrere autonomamente grandi distanze (fino a 100 chilometri in una notte) e che il territorio di inserimento - che deve essere compatibile con le sue esigenze - difficilmente sarà a sua volta privo di allevamenti. Per singoli esemplari resta l'ipotesi di abbattimento o di confinamento in zone di protezione. I cani mal custoditi richiedono semplicemente più controlli e maggiori sanzioni, mentre per quelli inselvatichiti - che la sentenza della Corte di Cassazione, III Sezione penale, n. 2598 del 26 gennaio 2004 riconduce alla fauna selvatica - dovrebbe essere consentito l'abbattimento. Resta il problema degli ibridi, per il quale vi è un totale vuoto normativo.

3.2. La prevenzione.

L'unanimità dei soggetti auditi ha convenuto sulla fondamentale importanza del


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ruolo della prevenzione nell'affrontare la problematica dei danni arrecati all'agricoltura dalla fauna selvatica.
Al riguardo, la Conferenza delle regioni e delle province autonome ha sottolineato nel corso dell'audizione il notevole sforzo delle amministrazioni regionali e locali per implementare adeguate misure di prevenzione, soprattutto recinzioni metalliche e elettriche. Accanto alla pratica delle catture/abbattimento dovrebbero essere opportunamente incentivati gli investimenti strutturali da parte delle imprese per prevenire i danni, in particolare attraverso la realizzazioni di recinti fissi e mobili, dissuasori sonori o altre soluzioni tecniche per prevenire e contenere i danni in relazione alle specie di fauna selvatica responsabili e alle diverse tipologie di colture e pratiche di allevamento. La Conferenza ha peraltro ricordato come la prevenzione del danno attraverso questi investimenti strutturali da parte delle aziende risulta essere tra l'altro l'unica strada perseguibile nel caso dei danni causati da specie particolarmente protette come il lupo, l'orso o l'aquila reale.
Le risorse finanziarie per garantire adeguati incentivi economici alle aziende agricole e zootecniche potrebbero essere reperite nell'ambito dei programmi di sviluppo rurale adottati dalle regioni in attuazione della Politica agricola comune (PAC), in particolare nell'ambito degli investimenti non produttivi previsti nell'Asse II, con particolare riferimento agli interventi realizzabili nei siti della rete Natura 2000 o a salvaguardia di specie presenti negli allegati delle direttive europee «habitat» e «uccelli».
Anche il Coordinatore nazionale agricolo dell'UNCI-Ascat auspica che da una politica degli indennizzi e abbattimenti si passi ad una della prevenzione, per la quale esistono numerosi strumenti che vanno dall'adozione delle recinzioni elettriche o con rete metallica, all'impiego di palloni dissuasori, all'utilizzo del razzo ottico o del nastro riflettente.
In merito all'attività di prevenzione e di tutela ambientale, l'audito segnala l'articolo 15 del decreto legislativo n. 228 del 2001 - la cosiddetta legge d'orientamento del settore agricolo - che consente alle pubbliche amministrazione di stipulare convenzioni con le aziende agricole, singole o associate, per la realizzazione di interventi finalizzati anche alla conservazione della biodiversità: ebbene, le cooperative forestali che vivono al limite tra l'ambiente antropizzato e l'ambiente naturale sono i soggetti che meglio possono collaborare alla realizzazione di tali fini.
Secondo la Federparchi sono utili anche i sistemi di protezione delle colture: le recinzioni, pur efficaci localmente, hanno un costo molto elevato; i repellenti sono poco utilizzati nel nostro Paese e soprattutto sono poco efficaci; il cosiddetto «foraggiamento dissuasivo», che dovrebbe indurre gli animali, specialmente il cinghiale, a stare lontano dalle colture, può anche comportare un incremento della specie che si vuole allontanare;
Il dirigente responsabile del settore Servizi agro ambientali, vigilanza e controllo dell'Agenzia della regione Toscana per lo sviluppo e l'innovazione nel settore agricolo forestale (ARSIA) ha confermato l'andamento crescente dei danni e la invasiva presenza degli ungulati come prima causa dei danni.
Contro tale specie, l'ARSIA ha ricordato l'esperienza della Toscana che ha attivato, con risultati giudicati buoni dall'Agenzia stessa, in particolare sulle aree protette, diversi accorgimenti: in primo luogo ha fatto ricorso a recinzioni elettrificate (mutuate dall'esperienza dell'Ufficio della caccia nazionale francese) che sono state applicate per circa 140 chilometri; in prossimità delle aree protette sono state messi a coltura alimenti «a perdere», in modo da evitare che la fame inducesse gli animali a forzare le recinzioni; soprattutto sulle colture forestali, si è provveduto allo spargimento di prodotti repellenti che evitassero che i caprioli, i daini o i cervi potessero danneggiarle con morsi o altro. Contro le specie ornitiche, sulla base delle esperienze maturate nel Regno Unito e negli Stati Uniti, si è fatto uso di palloni cosiddetti «dissuasori» che allontanano i volatili dalle colture agrarie. L'ARSIA ha


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invece ammesso una serie di difficoltà nella tutela del bosco, che hanno indotto la regione ad appaltare una ricerca che si spera possa dare i primi frutti entro qualche anno.
Anche l'ANCI ha posto in rilievo la problematica delle misure di prevenzione e dei costi, spesso elevati, di tali misure. Nel corso dell'audizione è stato ricordato che in alcune parti del territorio sono finanziati l'acquisto o il mantenimento di cani pastori, come per esempio in Abruzzo, nonché, come ad esempio della regione Toscana, delle recinzioni. Il problema vero è che le misure necessarie devono essere strutturali e consentire di limitare il più possibile gli attacchi e non sempre le misure adottate risultano adeguate.
L'ANCI ha ricordato in ogni caso la possibilità in corso di valutazione di mettere insieme un coordinamento nazionale di sindaci che affronti unitariamente la questione.
In materia di misure di prevenzione, la Coldiretti ha infine segnalato una legge della regione Toscana che prevede:
a) un aiuto per la realizzazione di opere di prevenzione e protezione, quali ad esempio la costruzione/ristrutturazione delle stalle, i sistemi fotografici di allarme e la costruzione di recinti per la permanenza notturna degli animali. Le spese ammissibili riguardano la costruzione, l'acquisizione o l'ammodernamento di beni immobili e l'acquisto di nuove macchine e attrezzature inclusi i programmi informatici. In ogni caso non sono ammessi a beneficiare dell'aiuto investimenti che comportino un aumento della capacità produttiva dell'azienda;
b) un aiuto per il pagamento di premi assicurativi relativi ai danni provocati da attacchi di predatori protetti verso i quali vige un divieto assoluto di caccia, come appunto i lupi. Questa seconda tipologia di aiuto è stata considerata compatibile con la normativa comunitaria in materia di concorrenza in quanto il lupo è in Italia una specie protetta per la quale vige il divieto di caccia, mentre tale regime di sostegno non è considerato ammissibile per i danni provocati da specie cacciabili.

3.3. La questione degli indennizzi.

Con riguardo alla questione degli indennizzi dei danni subiti dagli agricoltori dalla fauna selvatica le posizioni degli auditi sono piuttosto differenziate.
Secondo la Federparchi l'indennizzo dei danni non solo è doveroso dal punto di vista sociale, ma anche obbligatorio perché previsto dalla normativa vigente. Una limitazione al suo uso è data dall'elevato costo che comporta per la pubblica amministrazione e anche dall'orientamento degli agricoltori che preferiscono non subire danni piuttosto che ricevere un indennizzo. A giudizio di tale associazione le ipotesi di danno causato dalla fauna selvatica non dovrebbero essere circoscritte ai soli danni alle colture agricole o zootecniche, come previsto dalle attuali norme, ma dovrebbero includere anche i danni a cose e persone. L'attuale giurisprudenza non è poi univoca; tuttavia numerose sentenze, in caso di incidente stradale da impatto con la fauna, non riconoscono alcun risarcimento al danneggiato, che dovrebbe rivalersi nei confronti del gestore della strada; il presupposto di tali giudizi è che la fauna selvatica non può essere custodita ed il suo proprietario è lo Stato.
La questione degli indennizzi e delle risorse è affrontata anche dall'ANCI. L'associazione dei comuni sottolinea infatti che, per quanto riguarda i danni da predatori, in specie quelli provocati da cani, lupi o ibridi, vi è un vuoto normativo, in particolare per quanto riguarda gli ibridi. Mentre, infatti, vi sono norme per intervenire sugli animali domestici, come i cani, o sugli animali selvatici, come i lupi, non vi è una normativa di riferimento certa per quanto riguarda gli ibridi. Inoltre, l'effettuazione di un censimento potrebbe consentire di capire e di chiarire quale sia la problematica a livello territoriale, anche in funzione di alcuni piani. Purtroppo, ha sottolineato l'ANCI, i continui attacchi alle


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greggi determinano solo un parziale indennizzo a chi li subisce. Il parziale indennizzo è previsto perché, mentre c'è chiarezza, per esempio, sui capi che vengono abbattuti, non c'è affatto chiarezza sui danni arrecati agli animali predati, come perdita del latte, delle gravidanze, e sui vari stress a causa dei quali l'animale per un certo periodo è portato a non produrre.
L'ANCI chiede dunque disposizioni precise e risorse adeguate che garantiscano agli allevatori indennizzi per tutti i danni subiti, sia quelli diretti che quelli indiretti.
Secondo le associazioni ambientaliste e il WWF, la pratica dell'indennizzo impegna gran parte delle risorse finanziarie che le diverse amministrazioni pubbliche hanno a disposizione per la gestione della fauna selvatica, intervenendo solo a valle del problema, con indennizzi comunque parziali rispetto alla quantificazione dei danni in relazione al valore delle produzioni agricole e zootecniche danneggiate, con una generale insoddisfazione delle imprese interessate.
L'indennizzo, non agendo sulle cause del problema, ma esclusivamente sugli effetti, non contribuirebbe comunque alla soluzione del problema impegnando comunque ingenti risorse finanziarie.
Poco o nulla risulta essere investito sulla prevenzione dei danni, attraverso adeguati incentivi per investimenti strutturali da parte delle aziende in grado di prevenire e contenere il fenomeno dei danni o attraverso una consulenza tecnica per orientare i piani di gestione aziendali verso pratiche colturali e di allevamento in grado di ridurre sostanzialmente i danni in relazione alle diverse specie di fauna selvatica e territori interessati.
Secondo quanto sottolineato dal WWF, dove e quando sono stati effettuati interventi finalizzati alla prevenzione dei danni risultano evidenti gli effetti positivi, riscontrabili anche attraverso una sostanziale riduzione della spesa per gli indennizzi.
Al riguardo, la Coldiretti ha espresso le considerazioni così sintetizzabili:
prevedere una diversa destinazione dei proventi delle tasse di concessioni governative e regionali che consenta di istituire un fondo a sostegno dell'impresa agricola il cui lavoro sia finalizzato alle attività di ripristino e miglioramento ambientale e faunistico;
garantire adeguate risorse finanziarie per i risarcimenti dei danni che devono essere concessi prioritariamente agli imprenditori agricoli professionali di cui al decreto legislativo 29 marzo 2004, n. 99;
definire un sistema assicurativo incentivato per la copertura dei danni da fauna selvatica tramite l'istituzione di una apposita sezione nel Fondo di solidarietà nazionale per le calamità naturali;
disporre di risorse economiche aggiuntive. È emersa la necessità di disporre di fondi straordinari in caso di annate particolarmente negative sotto il punto di vista dei danni causati dai cinghiali, nonché per poter far fronte, qualora necessario, ai danni idrogeologici, ambientali e nei confronti degli ecosistemi che, attualmente, non vengono computati.

L'ISPRA ritiene infine che in via complementare potrebbe essere introdotto un sistema di contributi per polizze assicurative sottoscritte dalle imprese agricole analogamente a quanto avviene con il Fondo di solidarietà nazionale per le calamità naturali.

4. Le risorse finanziarie per affrontare il problema.

Un tema trasversale che riguarda in generale tutto il settore gestionale faunistico e venatorio, è quello delle risorse finanziarie che appaiono sempre più limitate. Le regioni, tramite la Conferenza, riaffermano la necessità di sollecitare il Governo, tramite il Ministro dell'economia e delle finanze, affinché dia completa attuazione alle disposizioni contenute all'articolo 66, comma 14, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (legge finanziaria per il 2001), che dispone lo stanziamento in via transitoria per i primi tre anni di


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una somma pari a circa 5 milioni e 200.000 euro, da ripartire tra le regioni per la realizzazione di programmi di gestione faunistico-ambientale a decorrere dall'anno 2004 e il trasferimento alle regioni di una somma pari al 50 per cento dell'introito derivante dall'applicazione della tariffa sulle concessioni governative relative alle licenze di porto di fucile a uso caccia.
Maggiori risorse, a giudizio della Conferenza, sarebbero di aiuto anche agli osservatori faunistici regionali per svolgere l'attività di monitoraggio degli habitat e della fauna selvatica nonché per i prelievi e per le deroghe, così come previsto con l'applicazione delle prossime linee guida dell'ISPRA.
Anche secondo l'ISPRA andrebbero aumentate le risorse destinate agli indennizzi, anche dando vita ad una filiera corta nella quale sia previsto il consumo delle carni degli animali selvatici abbattuti.
Le associazioni ambientaliste e il WWF sostengono che occorrerebbe incentivare il sostegno finanziario alle aziende perché si muniscano di strutture idonee a prevenire e ridurre i danni: i programmi di sviluppo rurale attualmente prevedono tali misure solo in Emilia-Romagna e Lazio. Solo quattro regioni hanno poi attivato l'«indennità Natura 2000» prevista dall'Unione europea per le imprese agricole operanti nei corrispondenti siti.
Si sottolinea invece la necessità di orientarsi verso soluzioni nuove, in primo luogo privilegiando la cattura con trappolamento, seguito dall'abbattimento dell'esemplare: l'iniziale investimento economico-finanziario richiesto sarebbe - così è stato dimostrato - compensato dalla riduzione degli indennizzi.
In secondo luogo, andrebbero coinvolte le aziende agricole: per quelle che si impegnino nell'attività di cattura e abbattimento debbono essere previsti dei compensi. In merito, interviene l'articolo 14 del decreto legislativo n. 228 del 2001, che consente alla pubblica amministrazione di stipulare accordi e convenzioni con imprese agricole, anche per interventi legati alla tutela della biodiversità.
Anche nei programmi di sviluppo rurale possono essere inserite dalle regioni misure specifiche di sostegno delle imprese agricole. Per ora, tuttavia, i piani 2007-2013 restano deludenti poiché ad oggi risulta che soltanto due regioni (l'Emilia-Romagna e il Lazio) hanno previsto misure specifiche per interventi legati al contenimento dei danni attraverso l'adozione di recinti e di strutture mobili o fisse. Inoltre, sono solo quattro le regioni che hanno attivato la misura «indennità Natura 2000», cioè le indennità previste per le imprese agricole che ricadono all'interno dei siti «Natura 2000» dell'Unione europea.
L'ANLC suggerisce di reperire risorse finanziarie eventualmente destinando una quota della tassa di concessione governativa pagata dai cacciatori al risarcimento dei danni causati dalla fauna, magari attraverso la creazione di uno specifico fondo di solidarietà.
L'Ente nazionale protezione animali è favorevole sia ad un incremento delle risorse, sia all'adozione di procedure di erogazione più rapide, ma è anche favorevole all'esercizio di più accurati controlli per la verifica dei danni lamentati e della loro reale entità. Tale ente sottolinea che troppo spesso per danni relativamente modesti si autorizzano campagne di abbattimento, anche di specie protette come lo storno, che recano gravi danni ambientali e causano l'apertura di procedure d'infrazione, con i correlati costi.
La linea di Federcaccia infine può essere sintetizzata nel modo seguente:
utilizzare con maggiore ampiezza le risorse dell'Asse 2 dei programmi di sviluppo rurale, che consente investimenti nel circuito della Rete Natura per il contenimento della fauna;
attuare la norma che prevede l'assegnazione alle regioni del 50 per cento di quanto versato dai cacciatori, che consentirebbe un'ampia copertura dei danni;
modificare le norme che regolano il risarcimento dei danni causati al mondo agricolo, che allo stato attuale configurano al massimo un indennizzo.


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5. Proposte e conclusioni.

In primo luogo, la premessa indispensabile per affrontare la questione sembra essere la possibilità di usufruire di un'analisi quantitativa seria ed attendibile basata su dati certi, che permetta di ricostruire il quadro preciso del fenomeno. Occorre dunque superare la difficoltà di reperire dati omogenei ed esaustivi che consentano di valutare gli interventi e di disporre di un flusso unitario di informazioni mirate, al posto di quello attuale frammentato e contraddittorio.
Non si può prescindere dalla considerazione in merito all'inaffidabilità dei dati attualmente raccolti, la cui rilevazione è spesso affidata alle associazioni venatorie, evidentemente parti in causa nella determinazione del fenomeno, e non ad enti qualificati, quali potrebbe essere l'ISPRA, che solo può disporre del personale e degli strumenti scientifici adatti ai censimenti. L'inaffidabilità dei dati è ampliata peraltro dalla circostanza che spesso i coltivatori non denunciano i danni alle greggi provocati dalla fauna selvatica, perché a fronte di risarcimenti incerti avrebbero dei costi certi e gravosi per lo smaltimento delle carcasse tramite inceneritore.
Va dunque ribadita con forza l'opportunità di riorganizzare la filiera delle informazioni sui danni da fauna selvatica, dando indicazioni di uniformità, anche nella formazione dei rilevatori, per la pluralità di soggetti che se ne occupano. È, infatti, necessario che la raccolta e l'organizzazione di tali dati avvenga secondo protocolli condivisi e standardizzati e che possa essere organizzata una trasmissione regolare degli stessi alla regione (così come all'ISPRA), per consentire l'organizzazione e l'implementazione di un apposito data base a valenza regionale, ma anche nella prospettiva della creazione di una banca dati nazionale.
Passando alle questioni di merito, con riguardo ai danni provocati dagli ungulati, se è emerso nel corso dell'indagine che le cause che hanno favorito l'espansione e la crescita di tali popolazioni sono legate a molteplici fattori, è pur vero che le immissioni a scopo venatorio, iniziate negli anni '50, hanno sicuramente giocato un ruolo fondamentale, in quanto condotte in maniera non programmata e senza tener conto dei principi basilari della pianificazione faunistica e della profilassi sanitaria.
Va quindi presa in considerazione l'opzione di introdurre divieti, eventualmente temporanei, di immissione sul territorio di esemplari di fauna per le specie di cui è stato accertato uno squilibrio delle popolazioni, in particolare il cinghiale, che determinano un danno grave alle produzioni agricole, nella prospettiva di una più oculata politica di immissione della fauna. Per specie quali il cinghiale appare indispensabile un piano di gestione complessiva a livello nazionale. In tal senso potrebbe essere importante il collegamento con un più efficiente sistema di raccolta delle informazioni con riguardo alla consistenza numerica delle popolazioni delle specie appartenenti alla fauna selvatica, della loro dinamica di popolazione, della loro distribuzione geografica, della presenza di fattori naturali o antropici di disequilibrio. L'accertamento di uno squilibrio in una particolare zona potrebbe portare alla temporanea sospensione delle immissioni, fino a quando dalla rilevazione dei dati non sia appurato il ripristino di una situazione di equilibrio.
Un quadro chiaro e completo delle informazioni consentirebbe altresì di destinare per motivate ragioni la fauna oggetto di caccia catturata in zone ove presente uno squilibrio ad ambiti territoriali di caccia di altre zone.
Va poi fortemente privilegiata, sempre nell'ottica di una gestione controllata da parte degli organismi pubblici competenti, la collaborazione con gli agricoltori, oltre che quella con i cacciatori. Andrebbero anche sviluppate le opportunità di costituire con gli agricoltori stessi una filiera integrata (si pensi alla macellazione).
Per il coinvolgimento degli agricoltori, le istituzioni pubbliche competenti per la gestione della fauna selvatica potrebbero peraltro già avvalersi dell'articolo 15 del decreto legislativo n. 228 del 2001 (Legge


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di orientamento in agricoltura), che consente di stipulare convenzioni con le aziende agricole, singole o associate, per la realizzazione di interventi finalizzati anche alla conservazione della biodiversità. Il coinvolgimento delle aziende agricole dovrebbe in questo caso configurarsi come una prestazione di servizi alla pubblica amministrazione competente nella gestione faunistica e prevedere un adeguato compenso economico, che può realisticamente essere recuperato dalla riduzione della spesa per gli indennizzi dei danni o comunque previsto nell'ambito del bilancio ordinario destinato agli interventi per la gestione della fauna e dell'attività venatoria. Chiaramente tali convenzioni dovranno ben specificare i compiti attribuiti agli agricoltori, nel presupposto che comunque le funzioni di programmazione e di gestione della fauna restino di responsabilità degli enti pubblici a ciò preposti.
Occorre inoltre compiere una riflessione in merito ai soggetti cui sono affidati gli abbattimenti, effettuati solo in alcuni casi da personale dipendente degli enti pubblici competenti per territorio nella gestione faunistica, potenziando la formazione degli operatori faunistici e dei selecontrollori. Andrebbero dunque valutate soluzioni volte a potenziare e sviluppare operativamente ulteriori soggetti abilitati alle azioni di controllo tramite catture ed abbattimento. Si potrebbe consentire ad altri soggetti il prelievo delle specie in esubero, come è stato fatto in Emilia-Romagna con la istituzione dei «coadiutori», ossia cacciatori che, sottoposti a successivi esami, possono accedere al prelievo nelle aree protette ex lege n. 157 del 1992, anche al di fuori del periodo di caccia.
Una proposta da valutare con attenzione è quella dell'individuazione delle aree da ritenersi vocate alla presenza faunistica e di quelle, invece, ove la presenza delle attività agro-silvo-pastorali impone la riduzione al minimo del numero di cinghiali al fine di prevenire danni alle persone e cose, nonché alle attività agro-silvo-pastorali stesse che risultano essere quelle maggiormente colpite.
In tal senso appare opportuno definire, di concerto con le rappresentanze di tutte le componenti interessate, le aree territoriali da considerarsi non vocate alla presenza del cinghiale a causa della rilevante presenza di attività agro-silvo-pastorali e dei piani di controllo delle popolazioni di cinghiale da attuarsi in dette aree, anche qualora fossero precluse all'esercizio dell'attività venatoria, di concerto con i rispettivi enti gestori, con catture e abbattimenti volti all'obiettivo irrinunciabile di limitare al minimo il numero di cinghiali ivi presenti, assicurando poi nel tempo il mantenimento dei risultati ottenuti.
Una soluzione che appare interessante, emersa nel corso dell'indagine, con riguardo al problema degli ungulati ed in particolare del cinghiale, attiene alla possibilità del concreto funzionamento delle aree contigue (articolo 32 della legge n. 394 del 1991) in modo che le stesse possano svolgere la loro funzione di «zona cuscinetto» tra l'area protetta ed il territorio in cui si esercita la caccia nelle forme previste dalla legge n. 157 del 1992. Nelle aree contigue tale risultato potrebbe essere raggiunto attraverso la modulazione della pressione venatoria sul cinghiale in funzione dello status delle popolazioni presenti nell'area protetta e nell'area contigua e delle scelte gestionali assunte dall'ente gestore. Ciò potrebbe far conseguire il risultato di uno svolgimento della gestione venatoria secondo regole che consentano un effettivo uso sostenibile delle popolazioni di cinghiale con modalità, tempi e tecniche adeguati e che tengano conto anche degli effetti collaterali dell'attività venatoria sia sulle specie oggetto di prelievo sia su quelle comunque protette.
È necessario che venga adottata una strategia nazionale di gestione del cinghiale che, pur nel rispetto delle differenti finalità istitutive, risulti basata su un'opportuna armonizzazione e coordinamento degli interventi che si eseguono nelle aree protette, nelle aree contigue, negli ambiti pubblici e privati di caccia.
Accanto alle problematiche legate agli ungulati e in generale delle specie cacciabili, l'altro importante filone dell'indagine


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si è sviluppato in merito ai danni arrecati all'agricoltura da parte di specie protette.
In tale direzione, le azioni non possono che essere legate soprattutto alla mitigazione e al contenimento dei danni attraverso investimenti strutturali e, in particolare, attraverso un'attenta verifica e analisi delle modalità di gestione di alcune attività, come quella d'allevamento, che non può più svolgersi allo stato brado: tale tecnica infatti favorisce la predazione da parte di specie per le quali si è anche andata riducendo la disponibilità delle originarie prede selvatiche.
Nelle situazioni più allarmanti va valutata la possibilità di azioni di contenimento e di cattura. L'articolo 9 della Convenzione del 19 settembre 1979 per la conservazione della vita selvatica e dei suoi biotopi in Europa (Convenzione di Berna) ammette, in presenza di determinati presupposti, delle deroghe alle rigorose disposizioni contemplate per le specie animali elencate nell'Allegato II («specie assolutamente protette»). Sempreché non vi sia altra soluzione soddisfacente e la deroga non nuoccia alla sopravvivenza della popolazione interessata, gli animali delle specie in questione possono essere abbattuti per prevenire, tra l'altro, danni importanti al bestiame (ad esempio, nel caso del lupo) o nell'interesse della sicurezza pubblica.
In realtà il problema più spinoso con riguardo ai danni inferti da specie protette attiene alle difficoltà di accertare se la responsabilità dei danni sia imputabile al lupo o alla presenza dei cosiddetti ibridi, che in alcune aree rurali sono diventati sempre più numerosi. La questione degli ibridi è particolarmente significativa in quanto strettamente legata alle possibilità di ottenere il risarcimento da parte degli agricoltori danneggiati. A tal fine andrebbero incoraggiate le sperimentazioni da parte delle amministrazioni locali di metodi per distinguere le due specie, anche sulla base dell'analisi degli escrementi rinvenuti nelle aree in cui sono avvenuti gli attacchi.
La questione della distinzione tra il predatore lupo e tutto ciò che è ibrido deve essere affrontata con strumenti, anche normativi, che garantiscano il contenimento degli ibridi. In tal senso sarebbe utile effettuare un censimento potrebbe consentire di capire e di chiarire qual sia la problematica a livello territoriale, anche in funzione di alcuni piani.
Inoltre, si potrebbe pensare da un lato di prevedere un sistema di misure di prevenzione dei danni incentivando le imprese agricole con un adeguato regime di sostegno; dall'altro, di rivedere il sistema di accertamento e risarcimento dei danni affinché, oltre a garantire un completo reintegro della perdita di reddito per l'agricoltore, siano coperti non solo i danni da lupo, ma anche quelli causati da ibridi.
Appare dunque fondamentale affrontare il tema della prevenzione e dei costi che essa comporta. Da un lato occorre che le amministrazioni regionali e locali facciano uno sforzo per implementare adeguate misure di prevenzione. Dovrebbero essere opportunamente incentivati gli investimenti strutturali da parte delle imprese per prevenire i danni, in particolare attraverso la realizzazioni di recinti fissi e mobili, dissuasori sonori o altre soluzioni tecniche per prevenire e contenere i danni in relazione alle specie di fauna selvatica responsabili e alle diverse tipologie di colture e pratiche di allevamento.
Le risorse finanziarie per garantire adeguati incentivi economici alle aziende agricole e zootecniche potrebbero essere reperite attraverso le risorse derivanti dal pagamento della tassa di concessione governativa che i cacciatori versano e e che per il 50 per cento sono destinate alle regioni; tali risorse dovrebbero considerarsi vincolate a tale destinazione.
In merito all'attività di prevenzione e di tutela ambientale, si può ricordare il già richiamato articolo 15 del decreto legislativo n. 228 del 2001, che consente alle pubbliche amministrazioni di stipulare convenzioni con le aziende agricole, singole o associate, per la realizzazione di interventi finalizzati anche alla conservazione della biodiversità: le cooperative forestali che vivono al limite tra l'ambiente


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antropizzato e l'ambiente naturale sono i soggetti che meglio possono collaborare alla realizzazione di tali fini.
D'altro canto non si può non considerare che le misure di prevenzione hanno dei costi che le piccole aziende non sono in grado di sostenere. In tal senso si potrebbe pensare alla possibilità di un coordinamento nazionale di sindaci che affronti unitariamente la questione. Le regioni, dal canto loro, potrebbero fornire un aiuto per la realizzazione di opere di prevenzione e protezione e un aiuto per il pagamento di premi assicurativi relativi ai danni provocati da attacchi di predatori protetti verso i quali vige un divieto assoluto di caccia come appunto i lupi.
Va altresì considerato il problema dei danni indiretti, in particolare per gli allevamenti, che oggi non sono considerati risarcibili, quali animali dispersi, perdite di fertilità, diminuzione del latte, aborti indotti; per non parlare dei costi dello smaltimento delle carcasse.
Per far fronte ai risarcimenti, si potrebbe istituire un sistema per la copertura dei danni da fauna selvatica tramite l'istituzione di un'apposita sezione del Fondo di solidarietà nazionale per le calamità naturali.
Salvo restando le competenze in materia dell'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), gli osservatori faunistici regionali potrebbero svolgere un ruolo di supporto per il monitoraggio degli habitat e della fauna selvatica. Anche nei programmi di sviluppo rurale potrebbero infine essere inserite dalle regioni misure specifiche di sostegno delle imprese agricole; in particolare potrebbero essere utilizzare con maggiore ampiezza le risorse dell'Asse 2, che consente investimenti nel circuito della Rete Natura per il contenimento della fauna.
Gli approfondimenti svolti risulteranno utili affinché la Commissione possa riprendere l'esame delle proposte di legge presentate in merito al fenomeno dei danni causati dalla fauna selvatica e, in particolare, dal cinghiale, dallo storno e dalle nutrie (C. 781, 2117, 2354). La Commissione potrà, quindi, esaminare tali provvedimenti affrontando in maniera complessiva la questione e trasponendo in legge talune delle proposte avanzate nel documento in esame.

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