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Resoconti stenografici delle audizioni

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Commissioni Riunite
(III Camera e 3a Senato)
6.
Mercoledì 11 marzo 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Stefani Stefano, Presidente ... 3

Audizione del Ministro degli affari esteri, Franco Frattini, in vista della Durban Review Conference (Ginevra, 20-24 aprile 2009) (ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento della Camera dei deputati):

Stefani Stefano, Presidente ... 3 6 19 20
Boniver Margherita (PdL) ... 7
Cicchitto Fabrizio (PdL) ... 10
Colombo Furio (PD) ... 11 18
Compagna Luigi (PdL) ... 12 13
Evangelisti Fabio (IdV) ... 11 13 17
Frattini Franco, Ministro degli affari esteri ... 3 19
Livi Bacci Massimo (PD) ... 17 18
Marcenaro Pietro (PD) ... 8 9
Nirenstein Fiamma (PdL) ... 9 13 14
Pianetta Enrico (PdL) ... 16 17
Vernetti Gianni (PD) ... 13
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-Repubblicani: Misto-LD-R.

COMMISSIONI RIUNITE
III (AFFARI ESTERI E COMUNITARI) DELLA CAMERA DEI DEPUTATI
E 3a (AFFARI ESTERI, EMIGRAZIONE) DEL SENATO DELLA REPUBBLICA

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di mercoledì 11 marzo 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA III COMMISSIONE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI STEFANO STEFANI

La seduta comincia alle 14,15.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del Ministro degli affari esteri, Franco Frattini, in vista della Durban Review Conference (Ginevra, 20-24 aprile 2009).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento della Camera dei deputati, l'audizione del Ministro degli affari esteri, Franco Frattini, in vista della Durban Review Conference, conosciuta come «Durban 2», che si terrà a Ginevra dal 20 al 24 aprile prossimi.
Saluto il Ministro degli affari esteri, Franco Frattini, e ringraziandolo per la sua consueta disponibilità verso il Parlamento, lo invito a svolgere il suo intervento.

FRANCO FRATTINI, Ministro degli affari esteri. Grazie molte. Presidente Stefani, presidente Dini, cari colleghi, evidentemente, come sempre, io non mi sottraggo all'opportunità di informare in dettaglio il Parlamento su alcune questioni delicate e sensibili, tra cui quella di cui parliamo oggi.
Voi sapete che è in corso da molti mesi un lavoro preparatorio per quella che tecnicamente si chiama Conferenza di revisione di Durban. Durban è una città dove, nel 2001, si tenne una conferenza internazionale sul razzismo e sulla xenofobia, organizzata dall'ONU, che - come molti di voi ricorderanno - fu un'occasione che seminò costernazione in molti Stati, in molti Paesi, per l'introduzione, nei documenti conclusivi della conferenza stessa, di espressioni, propositi e definizioni di chiarissimo stampo non solo anti-israeliano ma, più genericamente, antisemita.
Rispetto alla preparazione della conferenza di revisione, facendo il punto sulla situazione che si sta determinando, noi abbiamo assunto la decisione, assolutamente politica - come segnale forte, come posizione chiara e trasparente rispetto alla comunità internazionale e rispetto all'ONU - di ritirarci, in questa fase, dai negoziati formali in corso sul documento preparatorio.
Spiego subito le ragioni di questa scelta.
In primo luogo, c'è la valutazione sul negoziato in corso. Alcuni di voi certamente lo sapranno e altri forse no, ma la nostra fotografia della situazione dei negoziati è assolutamente negativa. Abbiamo oggi un documento che consta di 250 paragrafi. Questo documento nasce da contributi di tipo diverso, forniti dai diversi gruppi regionali. Su questo documento di 250 paragrafi, da tre mesi non si raggiunge nessun significativo cambiamento in alcuno dei paragrafi politicamente sensibili.


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Noi riteniamo, quindi, che ad oggi quel documento sia impermeabile a cambiamenti di sostanza, ossia a quei cambiamenti che comporterebbero le modifiche necessarie per l'adozione di un documento davvero condiviso da tutti gli Stati della comunità internazionale, com'è nello spirito delle Nazioni Unite.
L'Italia è fortemente convinta che occorra una posizione delle Nazioni Unite, largamente condivisa, per rilanciare la lotta al razzismo e ad ogni forma di discriminazione e intolleranza. Non siamo convinti, invece, che possa o debba accadere inevitabilmente quanto accadde nel 2001, ossia che una nobile opportunità di rilancio nella lotta al razzismo e alla discriminazione venga utilizzata per introdurre temi ed obiettivi che nulla hanno a che fare con tale lotta, ma che invece rispondono ad altre priorità, che noi non condividiamo.
Mi riferisco a due grandi temi, su cui l'Italia, ai tavoli negoziali, ha indicato da almeno tre mesi due «linee rosse»: la questione israeliana e le espressioni marcatamente antisemite, che tuttora sono presenti, e la tematica della diffamazione religiosa.
Sul primo tema, quello israeliano, voi ricorderete quanto accadde nel 2001. Anche questa volta, tra i 250 paragrafi del documento preparatorio, ve ne sono cinque dedicati alla situazione israelo-palestinese e, in particolare, ad Israele.
Voglio sottolineare ai colleghi un altro fatto: in un documento così abnormemente esteso - 250 paragrafi, lo ripeto - questi cinque paragrafi sono l'unica parte del documento dedicata ad una questione regionale. In nessun altro dei 245 paragrafi esistono riferimenti regionali, ma solo e soltanto, come dovrebbe essere, questioni orizzontali.
Questo, dunque, è un primo elemento che contrasta con l'obiettivo generale di un documento-quadro contro il razzismo.
Le frasi sono le seguenti: si parla di Israele «attore di una politica di discriminazione razziale nei confronti della popolazione palestinese», generalmente intesa; e Israele viene indicato come «Paese responsabile di praticare l'apartheid, la tortura e numerosi atti criminali che costituiscono minaccia per la pace e la sicurezza internazionale».
Io credo che queste espressioni, che travalicano di certo la legittima critica alla politica del Governo pro tempore dello Stato di Israele, siano espressioni che, dalla critica all'azione di un governo, si possono facilmente trasfondere nella delegittimazione internazionale di uno Stato sovrano e, certamente, in quanto Stato ebraico.
Questo è l'aspetto più pericoloso: un incitamento all'odio razziale contro gli ebrei derivante da una delegittimazione dello Stato israeliano rappresentato come uno Stato che pratica l'apartheid e che, come ho già citato, costituisce minaccia per la pace e per la sicurezza internazionale.
Questo accade in un frangente storico-politico in cui, dalle tribune e dagli organi delle Nazioni Unite, essendo l'ONU membro del quartetto, dovrebbero invece uscire messaggi per rilanciare il processo di pace israelo-palestinese. Anche per una ragione molto chiara di politica internazionale dell'Italia, da sempre favorevole al forte rilancio del processo di pace israelo-palestinese, non credo, quindi, che queste espressioni, promananti da un organismo delle Nazioni Unite, possano essere quelle giuste per rilanciare il dialogo e la mediazione senza cadere in un linguaggio francamente virulento ed inaccettabile.
Per l'Italia c'è anche una seconda «linea rossa» su cui, come ho detto nella mia introduzione, il documento preparatorio è apparso assolutamente impermeabile alle proposte di modifica: quella, insidiosissima, della cosiddetta «diffamazione religiosa».
Credo sia noto a tutti che alcuni Paesi stanno conducendo da tempo una strategia volta all'introduzione di quelli che chiamano «standard complementari», all'interno e ad integrazione delle convenzioni internazionali contro il razzismo. Questi cosiddetti «standard complementari», rispetto ai quali l'Europa ha sempre espresso opinioni contrarie, vogliono introdurre


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limiti formali alla libertà di espressione quando si tratti di una critica a una qualsiasi espressione religiosa.
Gli standard complementari, che introdurrebbero modifiche alle convenzioni internazionali, a cui si fa riferimento in questo documento preparatorio, costituirebbero una dichiarata volontà di precludere espressioni di critica nei confronti di qualsivoglia religione. Evidentemente, questo nasce dalla ben nota vicenda delle cosiddette «vignette danesi», offensive per l'immagine dell'Islam, per trarne, però, una regola che finirebbe per limitare o addirittura impedire un'espressione di pensiero.
È evidente che l'Italia si oppone anche a questo. Ci opponiamo come Italia e ci siamo sempre opposti come Europa perché, a mio avviso, ancora una volta, su questo le posizioni devono essere chiare. Gli individui sono titolari di diritti e obbligati a rispettare determinate regole.
In occasione delle gravissime reazioni violente alla pubblicazione di vignette offensive, o percepite come tali, nei confronti della religione islamica, io espressi un concetto - non ero parlamentare italiano, né Ministro del Governo, ma vicepresidente della Commissione europea, responsabile per i diritti fondamentali - che ripeto oggi: il diritto di critica e il diritto di satira rientrano nella responsabilità e nella sensibilità dell'autore e non si può vietarli per legge, né con modifiche vincolanti e legislative alle convenzioni internazionali.
È evidente che la legge non può imporre il silenzio a una critica, pur restando integra, ovviamente, la responsabilità del suo autore, la sua sensibilità, la possibilità che il singolo sia chiamato a rispondere, qualora vi siano gli estremi, ma non certo per avere espresso un'opinione.
Questo è un principio cardine del Trattato di Nizza e della Carta europea dei diritti fondamentali. Su queste due «linee rosse» - la questione relativa all'antisemitismo e quella relativa alla libertà di espressione - noi riteniamo che ci sia sempre stata e ci sarà sempre una sintonia con tutte le grandi democrazie occidentali. Non mi riferisco solo all'Europa ma, ovviamente, anche agli Stati Uniti d'America.
L'antisemitismo deve essere contrastato e il principio della libertà di espressione va garantito, lo ripeto; noi vi siamo obbligati oggi più che mai, quando la Carta dei diritti fondamentali è entrata, attraverso il Trattato di Lisbona, nell'ambito dei trattati costituenti dell'Unione europea.
L'unica possibilità per uscire da questa situazione di stallo, che si protrae da mesi, è la cancellazione totale di questi paragrafi e la riduzione dell'attuale testo di 250 paragrafi a un testo sintetico, di poche pagine, che raccolga davvero i princìpi orizzontali in cui tutti ci riconosciamo, relativi alla lotta doverosa contro il razzismo, l'intolleranza e la xenofobia.
Quali sono le prospettive attuali di negoziato a Ginevra? Vi è un rischio concreto che si ripeta ciò che è accaduto a Durban nel 2001. Anche allora vi fu un negoziato interminabile, protratto fino alla vigilia dell'apertura della conferenza; vi fu un testo messo sul tavolo all'ultima ora, senza modifiche, una sorta di invito a prendere o lasciare. Quel testo - che tutto il mondo, o gran parte di esso, accolse con costernazione - fu il frutto di una sorta di accettazione del principio dell'ineluttabile: si continua a negoziare, facendo finta di negoziare su un testo che è assolutamente non negoziabile (così non è stato, negli ultimi mesi); all'ultimo giorno, all'apertura di una conferenza, ci si trova sul tavolo un testo tale e quale a quello di partenza.
L'Italia non può accettare questo, perché altrimenti accetteremmo l'idea di piegare tematiche come il razzismo e la discriminazione ad un compromesso al ribasso. Sarebbe un compromesso opaco.
La nostra scelta è stata fatta in nome della credibilità delle Nazioni Unite. Siccome noi crediamo fortissimamente nella dignità dell'ONU, non pensiamo che da un documento con una intestazione «Nazioni Unite» possa scaturire un paragrafo in cui si definisce Israele come una minaccia internazionale alla pace o in cui si stabilisce che il diritto di libera espressione non si può estendere alle critiche ad una


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qualsivoglia confessione religiosa. Fermo restando - lo ripeto un'ennesima volta - la responsabilità del singolo autore che pronuncia la frase, che disegna la vignetta, che dice qualcosa.
Noi vogliamo questo proprio per l'attaccamento che abbiamo alla credibilità delle Nazioni Unite. Abbiamo ritenuto di dover dire un «no» molto chiaro alla tendenza a mantenere sul tavolo un testo inaccettabile; al fianco di altri Paesi la cui tradizione democratica è indubitabile - ovviamente lo Stato di Israele, ma anche il Canada e gli Stati Uniti della nuova Amministrazione del Presidente Obama, che non ha avuto esitazioni a prendere questa decisione - abbiamo ritenuto non costruttivo continuare oggi un negoziato sul non negoziabile.
È evidente che la nostra disponibilità al dialogo resta, nella quotidiana consultazione europea a ventisette. Ho sentito dichiarazioni curiose, forse non perfettamente informate, sul mancato coordinamento dell'Italia con gli altri Paesi europei. Noi abbiamo pubblicato e diffuso quello che gli addetti ai lavori chiamano un COREU (Corrispondenza europea), cioè un documento illustrativo della posizione italiana, che abbiamo trasmesso formalmente agli altri ventisei Paesi membri, per comunicare le ragioni della nostra decisione e per dire che continueremo, come stiamo continuando, a partecipare alle riunioni di coordinamento europeo, che quasi quotidianamente si svolgono a Ginevra su questo tema.
Il nostro coordinamento con i Paesi dell'Unione europea, quindi, ovviamente, resta. La nostra contrarietà ad un tavolo negoziale formale, dove finora le modifiche non ci sono state, resta altrettanto forte. È un segnale politico, per cambiare radicalmente la barra del negoziato.
Noi vogliamo un risultato positivo; non vogliamo la cancellazione per abbandono del tavolo da parte di un numero grandissimo di componenti, perché questo segnerebbe il fallimento di una buona occasione, quella di dire un «no» al razzismo e all'intolleranza, ma non riteniamo che questa sia la strada per dare una risposta credibile, da parte dell'ONU; ovviamente, al contrario, l'ONU sarebbe così sommersa dalle critiche di tutti quei Paesi, anche dell'Unione europea, che nella consultazione di Ginevra, quasi quotidiana, come ripeto, esprimono posizioni di sostanza assolutamente in linea con le nostre.
Io personalmente, non altri, ho parlato con i colleghi Ministri degli esteri dell'Olanda, della Danimarca, del Belgio, del Regno Unito e della Francia, i quali, nella sostanza, hanno condiviso e condividono le «linee rosse» poste dall'Italia.
Io ritengo che per far cambiare il passo del negoziato - il che vuol dire azzerare tutto e ricominciare da capo, finché siamo in tempo, da qui ad aprile - occorresse un gesto forte: non partecipare ad un negoziato che non avrebbe portato e non porterà ad emendamenti su questo testo di 250 paragrafi.
Questo è un testo inemendabile e noi confidiamo sulla buona volontà di alcuni componenti, anche non europei, del tavolo negoziale. Ci aspettiamo la presentazione di un nuovo testo sintetico, emendato da queste parti che per noi sono «linee rosse».
Abbiamo già detto a tutti questi attori di buona volontà - ripeto, non sono Paesi europei, sono Paesi moderati che condividono l'obiettivo di arrivare ad un buon testo - che se questo accadrà l'Italia sarà pronta a rientrare nel negoziato formale; se questo non accadrà, noi ci sottrarremo dall'essere testimoni silenziosi di un risultato che non farebbe onore alle Nazioni Unite.
Queste sono le nostre ragioni, dunque. A un coordinamento europeo diciamo certamente «sì», ma a un negoziato inconcludente e a una testimonianza silenziosa diciamo certamente «no»: questa è la posizione del Governo italiano.

PRESIDENTE. Grazie, signor Ministro. Do la parola ai senatori e ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
Il primo iscritto a parlare è la presidente Boniver. Chiedo scusa al senatore


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Marcenaro se non rispetto la prassi secondo cui si dà prima la parola all'opposizione, ma lo faccio in ragione di un impegno dell'onorevole Boniver a presiedere presso un'altra Commissione.

MARGHERITA BONIVER. Grazie, presidente. Mi scuso, ma fra pochi minuti dovrei presiedere i lavori del Comitato Schengen. Questa è una bella garanzia che il mio intervento sarà brevissimo e molto sintetico.
Esprimo innanzitutto il mio compiacimento per la posizione assunta dal mio Paese. Ho ascoltato con molta attenzione la relazione del Ministro degli esteri e debbo dire che condivido dalla prima all'ultima parola quello che il Ministro Frattini ha detto, perché coincide totalmente con gli interessi del nostro Paese, ma anche con quegli interessi politici, culturali, morali, storici, nonché funzionali dell'Occidente intero, cioè di tutte le democrazie.
Nel 2001 io ero a Durban e rappresentavo il Governo italiano e devo dire che quella è stata un'esperienza indimenticabile. Credo che in quella tumultuosa assemblea - che si svolgeva più fuori dall'aula che dentro e a cui partecipavano migliaia di ONG, in un clima di odio non soltanto nei confronti di Israele ma dell'Occidente intero - in qualche modo, abbiamo avuto la rappresentazione di una sorta di prova generale dell'11 settembre, nel senso che a Durban i lavori sono cominciati il 2 e sono finiti il 6 settembre e pochi giorni dopo c'è stato l'attacco alle torri gemelle.
Per il linguaggio, la violenza, la demagogia, la quantità di menzogne antistoriche che sono state riversate nel documento finale (così voluminoso e così poco comprensibile, per cui la stessa organizzazione dell'ONU ha impiegato mesi prima di poter pubblicarne il testo), quella si è davvero rivelata come un'esperienza estremamente negativa.
Non credo assolutamente - sono piuttosto pessimista, ma il pessimismo deriva anche da quello che ho appena sentito - che questa Review Conference di Ginevra potrà mettere una pezza sullo scempio che è stato compiuto sette anni fa in Sudafrica.
Oltretutto, mi auguro veramente che la posizione italiana, che mi auguro verrà seguita a breve da altri - ci sono ancora alcune settimane prima dell'apertura formale della Conferenza a Ginevra -, rimanga come un faro, perché se c'è un punto specifico sul quale l'intera Unione europea, io credo, dovrebbe essere assolutamente intransigente, è proprio quello concernente le questioni che sono state poste sul tavolo negoziale nelle varie assemblee regionali che porteranno questi 250 paragrafi all'attenzione di migliaia di delegati dell'ONU.
L'Europa deve essere massimamente intransigente su quella che è l'essenza stessa della nascita dell'Unione europea, cioè la difesa chiara e assolutamente non negoziabile, non soltanto dei diritti dell'uomo, ma anche della verità storica attorno al sionismo.
Non è la prima volta che l'ONU fa scempio di concetti storici. Credo fosse il 1973, quando l'ONU dichiarò il sionismo equiparabile al razzismo, quindi in merito c'è anche una certa «giurisprudenza» sciagurata, che si ripete in modo monotono, ma altrettanto pericoloso.
Io credo - e mi auguro - che l'azione del Governo italiano, in questo senso, sia una decisione che farà da battistrada a quella di altre nazioni europee. Mi auguro che non ci siano troppi storcimenti di naso, fra i colleghi dell'opposizione, riguardanti la salvaguardia del sistema onusiano, perché esso, che appartiene a noi come appartiene a tutti i Paesi membri, è un sistema che deve essere profondamente emendato.
Questa conferenza di revisione è preparata da quel Consiglio dei diritti umani che è stato la creatura della riforma voluta da Kofi Annan e ha già prodotto guasti ineguagliabili; se, infatti, c'erano molti difetti nella vecchia Commissione per i diritti umani, quelli del Consiglio per i diritti umani li travalicano, perché esso ha lasciato la strada libera alle peggiori intenzioni,


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alle più straordinarie bugie e ad una sorta di ipocrisia assolutamente intollerabile.
Io credo, quindi, che questa decisione, così articolata, ma anche così flessibile, che è stata presa dal Governo italiano, faccia onore all'Italia.

PIETRO MARCENARO. Ringrazio molto il Ministro Frattini per la sollecitudine con la quale ha risposto ed è venuto qui a discutere delle posizione del Governo italiano.
Vorrei partire dal merito dei documenti in discussione, in particolare dal merito dell'ultimo documento preparatorio che conosciamo, quello del gennaio 2009, sul quale condivido, nella sostanza, il giudizio che il Ministro Frattini ha dato, sia per quanto riguarda i cinque paragrafi inerenti, in generale, la questione mediorientale (dal 30 al 35), sia, in particolare, per quanto concerne il paragrafo 32, inerente la questione di Israele e la sua definizione.
È un documento inaccettabile, che riprende le stesse espressioni del settembre 2001, formulate durante la prima conferenza di Durban contro il razzismo. Non mi dilungo su questo: non ho bisogno di aggiungere altro.
Allo stesso modo, condivido anche che l'altro punto cruciale sia rappresentato dai paragrafi dal 24 al 28 (o 29), sulla defamation of religion. Sul Corriere della Sera è uscito ieri un articolo di Christopher Hitchens al quale, per quanto mi riguarda, mi richiamo, per la nettezza dei giudizi che conteneva.
Lo dico perché penso che sia abbastanza importante fissare i capisaldi e i capitoli comuni di una discussione che pure, su altre questioni, vede in campo qualche punto di vista diverso.
Siamo convinti che il cambiamento di questi punti sia una condizione necessaria per permettere che una conferenza sul razzismo si svolga, come è stato detto, senza essere oggetto di strumentalizzazioni politiche.
Su questo, mi pare che la proposta che vede - e ha visto, nei mesi e nelle settimane scorse - la convergenza di un ampio arco di Paesi, favorevoli al passaggio dall'attuale testo a un testo, come ricordava il Ministro degli affari esteri Franco Frattini, che sia molto più breve e nel quale non sia indicato alcun Paese, ma che abbia contenuti e caratteristiche diverse, sia la scelta di indirizzo sulla quale è giusto muoversi e tentare di lavorare per costruire lo schieramento capace di ottenere i risultati migliori.
In questa direzione si è mossa l'Unione europea che, se non sbaglio, ad ottobre, al Consiglio dei diritti umani, ha presentato un documento comune su questi punti, che ha costituito la base del negoziato per l'Unione europea e per tutti i suoi Paesi. Su questa base si sono intrecciati e intessuti i rapporti e si sono costruite possibilità di impegno di alcuni Paesi musulmani moderati - penso, in primo luogo, al ruolo che possono svolgere l'Egitto, l'Indonesia, il Marocco - per andare in questa direzione.
Vorrei dire che la stessa posizione degli Stati Uniti d'America è stata una posizione articolata; da un lato, abbiamo la dichiarazione fatta il 27 febbraio da Robert Wood, il portavoce del Dipartimento di Stato, con la quale si annunciava il ritiro della delegazione americana dalla trattativa; dall'altro, signor Ministro, come lei sa - su questo le cose sono un po' diverse da quello che l'onorevole Boniver diceva - il 4 marzo l'ambasciatore Storella dichiarava che gli Stati Uniti ritornavano al Consiglio dei diritti umani, dopo molto tempo, come osservatori.
Gli Stati Uniti, quindi, si sono mossi in modo elastico: da un lato, hanno segnato con durezza un'opposizione tradizionale e, d'altro lato, hanno dato segnali di attenzione. Se voi leggete la dichiarazione con la quale l'ambasciatore Storella ha motivato il ritorno a quel tavolo nell'attuale sessione del Consiglio dei diritti umani, in corso a Ginevra nel mese di marzo, voi potete osservare una posizione di questo tipo.
Naturalmente, noi abbiamo lavorato su questa base e su questa base, il 3 marzo, abbiamo ascoltato, credo a nome del Governo, le dichiarazioni del sottosegretario


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Scotti, che dicevano che l'Italia, in quel contesto, avrebbe valutato l'esistenza e la sussistenza delle condizioni per la propria partecipazione. Il 5 marzo, poi, ci siamo trovati di fronte alle dichiarazioni fatte a Bruxelles, mi sembra, dal Ministro degli esteri, che annunciava la decisione italiana di non partecipazione.
Io vorrei sapere cosa sia intervenuto, in quei giorni, per far maturare la valutazione politica che indubbiamente è stata fatta, la quale ha portato a preferire un gesto come quello, compiuto in discontinuità rispetto all'impegno assunto nel quadro delle nostre relazioni, non solo con l'Unione europea, ma anche con gli altri Paesi insieme ai quali avevamo costruito una prospettiva di intervento su questo punto.
Me lo chiedo perché questo è un punto, a mio parere, di valutazione politica, su cui ritornerò, e vorrei capire qual è il rapporto tra i princìpi che noi affermiamo e l'efficacia politica dell'azione che sviluppiamo; noi siamo tenuti a questa valutazione, non solo del significato, ma anche dell'effetto e delle conseguenze delle azioni che svolgiamo.
Devo dire, almeno come considerazione personale - me lo consentirà, Ministro Frattini - che probabilmente l'effetto delle dichiarazioni e dell'annuncio che lei ha fatto, forse, è stato amplificato dal fatto che contemporaneamente veniva annunciata la riprogrammazione della visita del Ministro degli esteri italiano a Teheran proprio negli stessi giorni, nelle stesse ore e negli stessi minuti in cui il Segretario di Stato americano annunciava l'invito agli iraniani alla partecipazione al vertice sull'Afghanistan.
Anzitutto, quindi, c'è un problema di valutazione di come l'Italia si muove nei rapporti con i propri partner, in primo luogo europei. Questo è un punto molto importante, che voglio sottolineare: mi permetta di esprimere la preoccupazione.
Quella del multilateralismo è, naturalmente, una strada faticosa. La situazione di cui ha parlato l'onorevole Boniver e il clima che si respira in una serie di sedi multilaterali come quella di Durban certamente non è un clima con il quale siamo destinati a trovare facilmente una sintonia, ma è giusto, io chiedo, rifuggire dalle fatiche del multilateralismo e pensare che ci possa essere un'altra strada?
Faccio questa domanda perché sono convinto che, se diamo il segnale che, per affermare i princìpi, bisogna rompere le relazioni, tutti capiranno che vale anche l'opposto. Ci sarà dunque un caso in cui, per difendere i princìpi, noi romperemo le relazioni, ma ce ne saranno anche altri centocinquanta nei quali, invece, butteremo a mare i princìpi per salvaguardare la Realpolitik della nostra iniziativa.
Lo dico perché, quando si parla di queste questioni, naturalmente noi dobbiamo valutare le iniziative del nostro Governo nel loro insieme e io non posso non rimarcare che, in troppi altri campi, abbiamo un Governo italiano che, di fronte a grandi questioni di principio, rimane silenzioso.
Ieri abbiamo avuto un'occasione di una certa importanza, nel cinquantesimo anniversario della rivolta del Tibet del Dalai Lama.

FIAMMA NIRENSTEIN. Abbiamo votato all'unanimità!

PIETRO MARCENARO. I Governi italiani - uso, allora, questa espressione perché il dialogo sia più fruttuoso - a differenza di quelli tedeschi, francesi e inglesi, rifiutano di affrontare tale questione.
Noi siamo un Paese nel quale il problema della Russia è stato sostanzialmente trasferito dal Ministero degli esteri alla Presidenza del Consiglio e dove è impossibile ascoltare una parola di preoccupazione su tale questione.
Intendo dire che la politica dei princìpi è una politica impegnativa: se non ci si muove per ricercare un nuovo equilibrio fra realismo politico e princìpi, temo che le scorciatoie abbiano poi come effetto quello di confermare la situazione e il quadro generale esistenti.
Infine, al Governo noi chiediamo alcune cose, sulle quali pensiamo che si


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possa ricostruire quel livello di consenso sulla politica estera che ha sempre caratterizzato, e da molto tempo, le nostre discussioni.
La prima, l'ho già detto, signor Ministro, è che si lavori per modificare radicalmente quel documento, sui punti di cui si è parlato, secondo le indicazioni che lei forniva, sulle quali concordiamo, cioè che l'Italia esplicitamente concorra con l'Europa e con gli altri Paesi per ottenere questo risultato, quindi che ci sia la ripresa di un'iniziativa diplomatica in questa direzione da parte dell'Italia.
In questo quadro, in secondo luogo, mi auguro che l'Italia scelga finalmente una linea che faccia finalmente dei princìpi e dei diritti umani, della questione della democrazia, un cardine della sua politica estera.
Perché questo avvenga, è necessario che si costruisca una politica equilibrata che, su questioni così importanti e delicate come quelle che stiamo affrontando, permetta di non oscillare.

FABRIZIO CICCHITTO. Voglio innanzitutto portare il consenso del nostro gruppo all'iniziativa intrapresa dal Governo, anche perché tutti quanti abbiamo presente che cosa è stata «Durban 1» e la memoria di una manifestazione che è stata un grottesco rovesciamento di una linea contro il razzismo, la discriminazione e via dicendo è così presente che credo rappresenti, di per sé, una risposta all'interrogativo posto poco fa dal senatore Marcenaro.
Credo, cioè, che il Governo italiano si sia trovato di fronte all'esigenza di non essere risucchiato in un sistema di sabbie mobili per cui, di trattativa formale in trattativa formale, alla fine, il testo - che ha una sua organicità, un'organicità negativa - sarebbe casomai stato emendato o cambiato in particolari secondari, senza affrontare di petto il problema.
Io ho un notevole scetticismo sul fatto che esista la possibilità di rivedere quel testo, ma se essa esiste, può essere determinata soltanto da una presa di posizione netta nella fase di impostazione pregiudiziale, che abbiamo preso noi e che hanno preso altri Paesi. Altri Paesi ancora non l'hanno presa, ma anche su questo credo ci sia un'autonomia della politica estera italiana, per cui - lo dico non per quello che è stato detto qui, ma per qualche battuta fatta su qualche giornale - non necessariamente quello che fa Sarkozy impegna il Governo italiano a seguirlo. Sarkozy può fare delle cose positive su cui ci troviamo d'accordo, ma può fare cose meno positive (anche in Brasile) e, allora, non ci troviamo d'accordo.
Questa è la ratio, quindi: una ratio per marcare una linea precisa, anche di carattere ideale, per ciò che riguarda il razzismo, la discriminazione e così via; essa non può mai essere interpretata unilateralmente o, addirittura, come avvenne a «Durban 1», trasformata in una sorta di razzismo alla rovescia, rispetto al quale credo non ci debba essere nessun complesso di inferiorità nei confronti di storie che stanno davanti a tutti noi.
Questo è il nocciolo duro del problema e, rispetto a questo, il nostro Governo si è assunto le sue responsabilità, che non implicano affatto l'attenuazione di un colloquio con tutte quelle forze moderate che stanno nel campo del mondo musulmano e così via; anzi, a inseguire gli estremisti, si corre poi il rischio di spiazzare le posizioni più moderate, che possono avere un maggiore spazio proprio di fronte ad assunzioni assai nette di responsabilità.
Io mi fermo qui perché credo che questa non sia l'occasione per svolgere una riflessione a trecentosessanta gradi, ma piuttosto per una riflessione concentrata su un punto, su una scelta fatta dal Governo. Quest'ultima ha la nostra approvazione, proprio per il suo carattere nitido rispetto ad alcune questioni di principio che, a nostro avviso, sono clamorosamente contraddette dal testo in discussione. Esso ha una sua organicità, per cui, o quel testo viene non emendato, ma viene radicalmente cambiato, assumendo un taglio completamente diverso - come è stato affermato anche in un articolo del Ministro di qualche giorno fa - oppure le ragioni del Governo italiano vanno confermate.


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Sono ragioni, infatti, che hanno una loro continuità nella nostra linea e hanno l'esigenza di essere marcate rispetto ad alcune questioni che credo ci uniscano tutti, tra cui, in primo luogo, il rifiuto dall'antisemitismo e di posizioni contro Israele, le cui implicazioni evocano non solo un certo passato ma, purtroppo, anche rischi presenti nel sistema e nel quadro delle forze in campo.

FABIO EVANGELISTI. L'autorevolezza delle presenze, a cominciare da quella del Ministro e dei presidenti delle Commissioni, mi mette un po' a disagio, perché credo che siamo di fronte a una materia quanto mai delicata, da trattare in punta di penna, con il cesello della mediazione e non con la clava della propaganda. Questa lasciatela a me, che vengo dalla provincia e sono espressione di un movimento rozzo, come è stato ricordato in quest'aula qualche settimana fa.
Mi chiedo e vi chiedo - partendo da una premessa che può addirittura apparire stucchevole: siamo tutti amici di Israele! - se possiamo pensare che soltanto l'Italia, il Canada e gli Stati Uniti, rispetto agli altri 192 membri dell'ONU, siano più amici di Israele?

FURIO COLOMBO. Sì!

FABIO EVANGELISTI. Sono contento perché, per una volta, riesco a non essere d'accordo con l'onorevole Furio Colombo.
La questione può essere posta come l'ha posta qui il Ministro Frattini, dicendo che non possiamo essere testimoni silenziosi? Signor Ministro, quando nell'Aula di Montecitorio abbiamo votato le mozioni riguardanti il percorso verso «Durban 2», praticamente all'unanimità, avevamo chiesto al Governo - capisco che l'autorevolezza del Parlamento di questi tempi sia un pochino vacillante - un'attività di serio controllo. Si chiedeva un atteggiamento attivo e non passivamente aventiniano. Si chiedeva in che modo e con quali interventi ufficiali, presso l'Alto commissariato per i diritti umani, presso l'Unione europea e presso l'ONU, il Governo si sarebbe prodigato, in sede di lavori preliminari, affinché i punti critici verso Israele fossero chiariti ed emendati.
Mi e vi chiedo, allora, vista la grande attenzione che avrà questa conferenza, come si può dire che noi non parteciperemo, al fine di ottenere i risultati auspicati? Eventualmente, ci alzeremo dopo dal tavolo, quando, compiuto ogni sforzo, avremo visto che non sarà possibile accettare il documento finale.
È possibile che noi siamo i migliori anche rispetto agli altri ventisei partner europei? È possibile che ci limitiamo a fare azione diplomatica con i COREU, senza essere attivi e pronti ad intervenire, a spronare eccetera?
Mi chiedo: è credibile, oggi, a metà di marzo, dire che azzeriamo tutto, da qui ad aprile, per poi ricominciare, come ha detto il Ministro degli esteri? È credibile? È politica estera? È diplomazia? È alto profilo internazionale, quello che proponiamo?
Si può ancora dire che la questione mediorientale è una questione regionale? Sono sessant'anni che questa questione, che lei, signor Ministro, definisce regionale, è al centro della politica e dei conflitti mondiali.
Forse - ripeto, quanto dico viene da uno della provincia e della periferia - un pochino di attenzione, di equilibrio, uno sforzo in più sarebbero auspicabili, senza nulla contestare del giudizio critico che il Ministro e la diplomazia italiana hanno riservato ai contenuti di quel documento, soprattutto per quanto riguarda quel paragrafo.
Se noi accettiamo questo tipo di impostazione, infatti, bisogna poi essere conseguenti e, allora, non si può immaginare di invitare a Trieste Ahmadinejad, o chi per lui, finché in Iran continueranno a parlare di una realtà cancerosa come quella di Israele. Ci vogliono equilibrio e coerenza. Alla fine, potremmo anche risolvere la questione riservando il voto, in quella conferenza, invece che ai 192 membri dell'ONU, soltanto ai membri del Consiglio di sicurezza e, forse, avremmo così qualche possibilità in più.


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LUIGI COMPAGNA. La ricostruzione filologica del documento che è stata fatta qui dal Ministro dimostra quanto poco permeabile esso si presenti al negoziato. Lo riconosceva lo stesso collega Marcenaro: non è questione di questa o quella intemperanza lessicale, ma di un impianto strutturale che evoca l'incubo di «Durban 1», quello che il Ministro chiamava il tragitto dell'accettazione del principio dell'ineluttabile e sul quale - lo diceva anche l'onorevole Cicchitto - è particolarmente esposta la credibilità delle Nazioni Unite.
Giustamente, il collega Marcenaro ci richiama alla difficoltà del multilateralismo. Le Nazioni Unite sono il più importante riferimento di multilateralismo, eppure su questo terreno hanno una storia estremamente opaca.
Alla metà degli anni Settanta, forse per iniziativa di un diplomatico austriaco, destinato a diventare Segretario generale di quella organizzazione, fu varato dall'Assemblea generale un odioso documento: ci sono voluti dieci anni, senatore Marcenaro, per sradicarlo. Esso riguardava proprio una questione inerente il sionismo e l'antisemitismo, una questione che è cara, giustamente, al nostro Capo dello Stato, il quale l'ha evocata proprio da quando è ricominciata la sgradevole litania, che non definisco «cancerogena» - benché farlo sia garantito dalla libertà di espressione - ma «sgradevole», di un Capo di Stato, il presidente iraniano, che a settembre ha proclamato dalla tribuna delle Nazioni Unite, forte della libertà di parola che gli è assicurata, il diritto iraniano al nucleare, all'antisemitismo e al combinato disposto fra l'uno e l'altro.
Da questo punto di vista, «Durban 1» fu veramente una tragedia. L'iniziativa si presentava come laboratorio di pace, ma la conferenza fu invece una sguaiata ed aggressiva esibizione di antisemitismo. Non mancarono neanche episodi di squadrismo e, quanto ai testi, come antidoto all'islamofobia furono rivendicati gli antichi Protocolli dei savi anziani di Sion, vecchio falso della polizia zarista del 1896, data di apparizione di quella benemerita malattia che fu il sionismo in Europa.
In quell'occasione, gli ambasciatori dei Paesi europei presenti alla conferenza videro andarsene, nella mattinata, Stati Uniti e Canada; loro si riunirono e vararono un elaborato e sofferto comunicato, in cui si dichiaravano a disagio per come andavano svolgendosi i lavori, ma decidevano comunque di continuare a parteciparvi perché, a differenza delle dichiarazioni americane e canadesi, esisteva un incoercibile disponibilità europea a vedere pacificato il Medioriente.
Ovviamente, al di là delle intenzioni, con quel comunicato non solo l'Europa sfidò il ridicolo, ma soprattutto si distanziò, poche settimane prima dell'11 settembre, in un'occasione del genere, dagli Stati Uniti d'America.
Chiamatelo trionfo politico e diplomatico delle vecchie cancellerie europee. Ecco perché, in vista di «Durban 2» - ed è un lessico che noi usiamo per esorcizzare il fantasma - noi vorremmo che Ginevra fosse tutt'altro che una «Durban 2». E in questo senso si era pronunziata la Camera dei Deputati, tra novembre e dicembre.
Penso, allora, che questa volta il Ministro abbia fatto bene a non farsi irretire da quello che lui ha chiamato l'accettazione del principio dell'ineluttabile, cioè si continua a negoziare su qualcosa che sfugge perché non negoziabile. In realtà, quella è la rete dell'europeismo di maniera e di comodo.
Da questo punto di vista, io credo che il Ministro abbia fatto bene a rilevare oggi come in «Durban 2» c'è qualche cosa che si annusa peggiore di «Durban 1»: c'è la minaccia di comprimere quella tradizionale libertà di espressione - non la chiamo «occidentale» per non offendere nessuno, benché sia un dato meramente storico - per subordinarla, in via preventiva, al dovere di rispettare le religioni altrui: non il «cancerogeno ebraismo», ovviamente, ma l'islamismo.
È come se l'ONU pretendesse dai Paesi membri che la libertà venga dopo e non prima della tolleranza. Se ciò accade, significa che non è la libertà ad essere la matrice del pluralismo religioso.


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Ecco il compromesso al ribasso, ecco la svendita, cui non a caso è sensibile un uomo come Frattini, il quale - lo ha ricordato - si è trovato tre anni fa, in seno alla Commissione europea, a dover disincagliare quella nave dagli scogli della polemica sulle vignette danesi.
Qual era la polemica sulle vignette danesi? Certo, la libertà di espressione di quell'autore non è stata usata in maniera felice, né opportuna, ma io ricordo quanto accadde allora all'OSCE - un tempio del multipolarismo molto meno difficile dell'ONU - dove i colleghi della delegazione danese furono sottoposti, anche da delegazioni di Paesi europei, a menzogne vergognose, come quella secondo cui la regina di Danimarca, la mattina, al breakfast, beve sangue umano. Credo che l'iniziativa dell'Italia (Commenti)... È agli atti. Io non uso l'espressione «cancerogena»...

FABIO EVANGELISTI. Qualcuno gli dica che l'espressione «cancerogena» non è mia, ma dell'ayatollah Khamenei!

FIAMMA NIRENSTEIN. No, veramente è di Ahmadinejad.

LUIGI COMPAGNA. Ho l'impressione che questa iniziativa politica - a me non piace parlare di gesto - che si è snodata addirittura con una certa eleganza, possa, già nelle prossime ore, rappresentare un ponte per i Ministri degli esteri come il principe ceco Schwarzenberg o come il francese Kouchner.
Perché qui si tratta di dire - il Ministro ha usato l'espressione «compromesso al ribasso» - che, con tutto il rispetto per la diplomazia, l'antisemitismo non è materia di diplomazia. Quindi, se Ginevra finisse per essere una «Durban 2», chi perde sono i princìpi delle Nazioni Unite, quelli veri, quelli del 1948, della Carta di San Francisco, che non hanno niente in comune con il sindacato arabo dell'ambasciatore Waldheim. Proprio per questo, a me l'iniziativa del Governo italiano è sembrata nitida e coerente.

GIANNI VERNETTI. Svolgerò anch'io alcune considerazioni. Penso che in questi anni l'Italia si sia impegnata seriamente, da un Governo all'altro, sulla scena internazionale, in tutti gli organismi multilaterali dove ha potuto, e anche in sede bilaterale, per la protezione e la promozione dei diritti umani.
Pensiamo al caso del Consiglio dei diritti umani, nel quale l'Italia è riuscita a entrare con successo, dopo un voto faticoso e sostenendo anche una certa competizione con altri Paesi europei.
Era un tentativo di riformulare una struttura assolutamente fallimentare come la vecchia Commissione dei diritti umani, che aveva mostrato i suoi limiti clamorosi: una commissione spesso presieduta dalla Libia, dall'Iran, ossia da Paesi i cui record sui diritti umani erano tra i peggiori al mondo.
Anche in quella sede, allora, il tentativo di migliorare lo strumento del Consiglio dei diritti umani, credo che sia stato un altro impegno interessante, anche se al momento con pochi risultati.
Voglio ancora ricordare, per poi giungere al tema, la questione della campagna sulla pena di morte, su cui vi è stato un impegno fortissimo dell'Italia, coronato da un successo; tra l'altro, se tale impegno avesse dovuto seguire i canoni tradizionali della concertazione europea, probabilmente non l'avremmo mai ottenuto.
La campagna italiana e poi europea sulla moratoria universale per la pena di morte è stata caratterizzata da una serie di strappi italiani, da alcune iniziative nazionali italiane poi seguite da una forte concertazione europea; se noi in quel caso avessimo semplicemente seguito la strada pura e semplice della concertazione europea, invece, probabilmente non saremmo riusciti a ottenere quel risultato così importante. Noi riuscimmo a ottenere quel risultato costruendo una coalizione trans-regionale con altri Paesi e via dicendo.
Io, quindi, ritengo che abbia fatto bene il Governo italiano ad assumere, in questo senso, su questo tema particolare, una posizione chiara e netta, senza ambiguità.
Intanto, il nostro Paese non è isolato, sulla scena internazionale: mi sembra che la nuova Amministrazione democratica


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americana abbia assunto una posizione simile alla nostra pochi giorni prima del Governo italiano, denunciando l'inaccettabilità, la non negoziabilità, l'irrecuperabilità - «not salvageable» - di quel testo, quindi con una posizione molto netta e forte da parte dell'Amministrazione americana.
Io credo che questa sia una scelta certamente utile; è utile, anzi, che l'Italia faccia campagna per portare a sé altri Paesi europei.
Ho letto recentemente dichiarazioni di grande perplessità - analoghe alla linea americana, canadese e italiana - da parte dei Paesi Bassi, dell'Austria, della Germania, dello stesso Regno Unito per bocca del suo Ministro degli esteri Miliband, che non ha ancora assunto una decisione definitiva, ma ha forti perplessità.
Ritengo che questa scelta difenda il multilateralismo e la credibilità delle Nazioni Unite. Io sono profondamente convinto che l'Italia abbia un suo DNA di impegno multilaterale che travalica i singoli Governi, da cinquant'anni a questa parte.
La storia della nostra politica estera è una storia nella quale, laddove si doveva scegliere tra multilateralistmo e azione nazionale, non c'è dubbio che l'Italia ha sempre scelto il primo, cioè ha sempre scelto di dare forza e credibilità alle istituzioni multilaterali: lo hanno fatto i tanti Governi che si sono succeduti da De Gasperi a oggi.
Ritengo, però, che quando abbiamo di fronte a noi un testo nel quale il sionismo come cultura, come movimento politico, diventa sinonimo di apartheid, ci troviamo in presenza di un fatto quasi storicamente negazionista. Il sionismo nasce nei grandi ideali del progressismo e anche del socialismo internazionale: Theodor Herzl! Pensiamo a come fondi la cultura sionista e a quanto la cultura sionista abbia avuto momenti di incontro con il progressismo mondiale.
Ritengo volgare affiancare il sionismo all'apartheid: è un fatto che non solo va stigmatizzato, ma nei confronti del quale vanno prese posizioni nette e chiare.
Questo non è un giudizio generale su altri impegni del Governo in politica estera. Su questo tema non vi è dubbio che dobbiamo smascherare un mondo alla rovescia, nel quale spesso ci troviamo, come appare in quella intervista di Gino Strada che riesce, clamorosamente, ad attaccare la Corte penale internazionale e a difendere al-Bashir.
Questo è un mondo alla rovescia, che ci fa chiudere un occhio nei confronti di efferatezze e che capovolge i ruoli: le vittime diventano carnefici.
Purtroppo, rovesciare i fattori è una tecnica consolidata dell'antisemitismo. Allora Gaza diventa un campo di concentramento e l'Autorità nazionale palestinese, come diceva Sergio Romano, è Vichy e Pétain, è collaborazionista.
Io credo, allora, che dobbiamo avere il coraggio di rimettere le cose sulla giusta carreggiata, almeno nella politica estera.
Condivido la presa di posizione del Governo, quindi, e credo anch'io che sia un dovere, da parte del Governo italiano, puntare, laddove è possibile, insieme ai partner europei e americani, a correggere quella dichiarazione.
Se quel testo venisse stravolto, se venisse mutato profondamente, credo che l'Italia non avrà nessuna difficoltà a tornare a sedersi a quel tavolo.

FIAMMA NIRENSTEIN. Vorrei cominciare con un'esclamazione, che è la prima cosa che mi viene da dire: senatore Marcenaro! Io capisco che l'opposizione faccia l'opposizione, ed è giusto che lo faccia. Ci sono, però, dei momenti in cui i princìpi morali sormontano talmente la realtà che ci sta di fronte, ciò che ci circonda e che viene dal passato - e che oggi, però, ci si presenta con un balenare di fuochi e di bandiere ed è talmente cogente ai nostri occhi - per cui si mettono da parte le divisioni politiche, anche per non contraddirsi.
Quando si crede nei diritti umani, com'è certamente vero per moltissimi colleghi dell'opposizione - non voglio farne un fatto personale, per carità - è del tutto evidente che, se a ottobre c'era un documento


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comune, se gli Stati Uniti due settimane fa hanno detto che sarebbero ritornati al tavolo e poi hanno dovuto recedere da quella posizione, non si può ritenere che l'Italia ha fatto questo passo perché è improvvisamente accaduto qualcosa.
Stava accadendo coralmente qualcosa di molto significativo e importante, che ha portato il Primo Ministro olandese, il Ministro degli esteri inglese e la Francia a dire che forse avrebbero abbandonato il tavolo negoziale. Comunque già da ora ci sono una serie di Paesi, come il Belgio, se non sbaglio, che hanno detto che, in ogni caso, non voteranno la risoluzione finale. Figuriamoci a che punto sono arrivate le cose perché si dovesse arrivare a questo.
Ci sono tematiche che non riguardano il multilateralismo e il multilateralismo non le riguarda, perché esso, in alcuni casi, si crea sulla comune convinzione morale che nasce dalle cose e dal nostro sguardo su di esse.
Cosa è accaduto nelle ultime due settimane, che ha fatto sì che Obama, che aveva ipotizzato un rientro alla conferenza, tornasse poi indietro da questo proposito? È successo che, per un certo periodo, anche sulla spinta di quel documento europeo di ottobre e sulla spinta di tutta l'attenzione che si era creata nel mondo, c'è stato uno stop and go che ha creato dei punti interrogativi.
Ad un certo momento, il fuoco di Gaza ha resuscitato - il Ministro, se sbaglio, mi correggerà nelle sue conclusioni - un sentimento furioso e di convinzione ideologica e antisemita così forte che, improvvisamente, si è capito che la situazione divampava in maniera tale che non c'era più verso di mettere le briglia a quel cavallo infuriato. Questa è stata la situazione di «Durban 2» e questo è quanto è successo.
Non sono state messe in discussione solo le questioni riguardanti Israele - come sa chi ha seguito i lavori per tutto il tempo, giorno dopo giorno, leggendo la discussione, come ho fatto io e come certamente hanno fatto i miei colleghi del Senato e della Camera - ma c'è stata anche la questione della libertà di espressione, che è andata sempre più confermandosi. C'è stata, inoltre, una contrarietà a che si potesse inserire nel documento la discriminazione dell'omosessualità. Questa è un'altra questione importantissima. La questione della religione, quella della libertà di espressione e la negazione della questione dell'omofobia, dunque.
Il fatto è che sempre di meno altre situazioni, ben più patenti di quelle legate a Israele, pur diventando sempre più di fuoco - come quella del Darfur, quella dei Dalit e tutte quelle che possono venire in mente - restavano in sottordine, mentre in modo sempre più impressionante veniva in primo piano la questione di Israele.
Da ciò emerge il nesso con delle questioni basilari. La prima è quel «mondo alla rovescia» che citava Gianni Vernetti poco fa. In secondo luogo, c'è il fatto che, nel corso di questi anni, c'è stato un tentativo veramente impressionante di legalizzare l'antisemitismo attraverso le istituzioni.
Qual è più il Paese, infatti, che farebbe una legge razziale antisemita? Non ne esiste più alcuno al mondo. Non c'è una legge razziale antisemita in Iran, né da nessun'altra parte: dopo la seconda guerra mondiale nessuno osa più fare una cosa di questo genere.
Altresì, invece, sul terreno del dibattito internazionale, nel continuo stravolgimento dei diritti umani, lo si è visto esaltare dall'ONU, prima ostaggio della guerra fredda e, poi, successivamente, di questo scontro serpeggiante con l'Islam estremo.
I componenti di queste varie istituzioni non si contano uno ad uno, ma per gruppi: per esempio, i cinquantasette Paesi dell'Unione islamica si muovono insieme, quando si va votare e a decidere.
Si è detto che solo l'Italia, tra tutti i Paesi, ha fatto la scelta di ritirarsi, ma lì ci sono dei grandi blocchi, dai tempi della guerra fredda, attraverso i quali si è andata istituzionalizzando un'idea dei diritti umani che, rispetto a quella che l'ONU avrebbe dovuto portare avanti e difendere fin dalla sua fondazione, si è


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semplicemente rovesciata. In base ad essa, i Paesi dittatoriali dove la pena di morte falcidia migliaia e migliaia di persone, dove non c'è il diritto all'opinione pubblica, dove gli omosessuali vengono appesi per il collo e le donne lapidate, non vengano messi certamente sotto accusa quanto lo sono stati invece i Paesi occidentali.
A proposito di questo, vi dirò che nella discussione preparatoria ci sono una serie di frasi come questa, che ritorna molte volte: «Sono stati compiuti molti crimini razzisti in nome della democrazia. Chi uccide gli innocenti sono Paesi che difendono la democrazia e il fatto di essere democratici gli dà il permesso di perpetrare massacri». Ho citato testualmente i documenti di preparazione di questa conferenza, che così si presentava agli occhi del mondo.
Questa è la situazione ed è veramente molto difficile pensare che questa legalizzazione globalizzata dell'antisemitismo, partita dall'ONU, in maniera istituzionale, nel 1975, con la dichiarazione - poi cancellata ma che qui ritorna integralmente - che equipara il sionismo al razzismo, è andata di conserva con tutta una serie di altre negazioni del diritto e del rovescio della situazione dei diritti umani.
Allora, l'Italia qui ha avuto un'occasione molto importante per dire che su questo terreno non ci sta, ed è stata una cosa bellissima, che noi abbiamo avuto il coraggio di fare. Devo dire che il Ministro Frattini l'ha fatto avendo, tra l'altro, alle sue spalle un documento del Parlamento che non solo obbligava l'Italia a monitorare, ma anche ad impedire - è un documento che io ho firmato, insieme ad altri colleghi, quindi lo ricordo molto bene: un documento bipartisan, votato da tutta la Camera - che la Conferenza di Ginevra si trasformasse nuovamente in quello che era stato «Durban 1».
La copertura parlamentare, quindi, perlomeno per quello che riguarda la Camera, c'è sempre stata e io, per quello che riguarda il mio ruolo di deputata, la ribadisco con tutte le mie forze.
Concludo dicendo che io ero presente alla Conferenza di Durban, che ho seguito come giornalista de La Stampa. Ho scritto tanti pezzi su quell'argomento e vedevo, giorno dopo giorno, Mugabe che sosteneva i diritti umani, Fidel Castro che saliva sul palco tra grandi acclamazioni, Arafat che si esprimeva su tutto quanto l'Occidente. Questa è la scena che lì si è presentata.
Sarebbe importante se noi riuscissimo ad ottenere una situazione in cui Mugabe, piuttosto che Ahmadinejad, piuttosto che Bashar al-Assad di Siria si presentassero ad un pubblico che non sia anche il nostro, ma un pubblico che, rispetto a determinate opinioni, si senta isolato da quello che è il consesso della civiltà dei diritti umani, ossia - c'è poco da fare - della nostra civiltà, di quella dell'Occidente: voglio vedere chi potrà sostenere che sia un'altra.
Penso che questa sarà un'acquisizione storica, buona per tutti, che servirà nel futuro e prego molto i colleghi, proprio per un motivo morale di fratellanza italiana, di riflettere su questo, di rifletterci nei giorni in cui l'antisemitismo in Europa è aumentato del 300 per cento.
Sono state bruciate delle sinagoghe; a Malmö, nei giorni scorsi, la squadra israeliana è stata costretta a giocare la coppa Davis in uno stadio vuoto e, tuttavia, fuori dallo stadio c'era una manifestazione che, da quanto era violenta, ha sfasciato le macchine della polizia; girare per Parigi con una kippah o un maghen David è diventata ormai una cosa impossibile.
Colleghi, noi possiamo dare un contributo, come Italia, perché questo abbia un freno: penso che sia molto importante.

ENRICO PIANETTA. Ritengo che l'idea di fare una conferenza, una Durban Review Conference per fare il punto sulla lotta al razzismo, alla xenofobia e all'intolleranza fosse un'idea corretta, da parte delle Nazioni Unite che l'hanno approvata, nonostante lo scempio rappresentato da «Durban 1», come correttamente ha riportato il collega Compagna.
Nell'ambito dei documenti preparatori, quando si possono leggere dei concetti


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secondo cui il popolo ebraico non ha diritto alcuno ad una patria e questa pretesa sionista andrebbe catalogata quale patente forma di razzismo, siamo di fronte a delle prese di posizione che non sono, come ha detto il Ministro e come si usa dire oggi, negoziabili.
Tra l'altro, oltre a costituire tali concetti uno scempio nei confronti di questi temi - razzismo, xenofobia e intolleranza - c'è anche una valutazione di natura politica, perché quando l'ONU dovesse avallare interpretazioni, frasi e concetti di questo genere, l'ONU, che fa parte del quartetto, minerebbe profondamente quello che è il processo di pace, in cui entrerebbe così a gamba tesa.
Io credo che, da questo punto di vista, abbia fatto molto bene il Governo nel prendere una posizione così coraggiosa e così determinata; anche perché, l'ha accennato poco fa la collega Nirenstein, noi il 4 dicembre abbiamo approvato una mozione che metteva in guardia e impegnava il Governo, a fronte di quella situazione preparatoria, portata avanti per la conferenza di revisione, che è poi il Consiglio dei diritti umani.
Voglio leggerne una frase, secondo me importante e qualificante: la Camera impegnava il Governo «ad agire perché i documenti preparatori contengano solo l'intento di combattere il razzismo e la discriminazione a qualsiasi latitudine e per qualsiasi motivo essa si rappresenti e perché decada lo scopo non recondito della delegittimazione dello Stato di Israele».

FABIO EVANGELISTI. Ad agire!

ENRICO PIANETTA. Sì, ad agire ! Ora, dopo tre mesi di stallo, a fronte di una impossibilità a modificare questi documenti che, come la Camera aveva detto e sottolineato, non dovevano contenere minimamente questi concetti e queste posizioni, io credo che il Governo, proprio sulla base di questa indicazione operativa della Camera e del Parlamento, abbia fatto molto bene ad agire e ad assumere una posizione così drastica e così emblematica, a mio modo di vedere; e il collega Vernetti ha fatto bene a sottolinearlo.
Già la Francia si era espressa in quel modo, con molta preoccupazione, e aveva preannunciato un'ipotesi di ritiro dal percorso preparatorio. Bene, adesso sulla base dell'atteggiamento meritorio e coraggioso dell'Italia - perché su questi temi non ci possono essere posizioni equivoche - credo che altri Paesi abbiano la possibilità di percorrere questo nostro percorso.
Io credo che il Governo abbia fatto molto bene, quindi; qualche volta questi temi e questi atteggiamenti di non partecipazione sono meritori, perché danno un grande segnale di forza.
Io credo - e qui concludo, presidente - che questo fatto, proprio in ragione di quel mondo alla rovescia, debba mettere i puntini sulle i, relativamente a questi princìpi e a queste considerazioni, che credo debbano essere condivisi da tutti i Parlamenti liberi.

MASSIMO LIVI BACCI. Vorrei formulare due domande. La prima è se, forse, non sarebbe stato più opportuno fare prima la mossa di ritirarsi. Il Governo ha indubbiamente tutti gli elementi per valutare, quindi è solo una domanda retorica.
La seconda domanda è se la nostra assenza dal tavolo negoziale aumenti o diminuisca, anche di una frazione minima, la probabilità che l'insieme dei paragrafi dal 30 al 34 e dal 26 al 28 venga cassato, come da proposta.
Nel testo, infatti, questi articoli sono fra parentesi quadra, sono cioè soggetti ancora, così si dice, a negoziazione. Noi allora, aumentiamo anche solo di un millimetro la probabilità che questi articoli vengano eliminati, oppure no? Questa è la domanda che io mi pongo: è meglio stare ai tavoli di negoziazione o è meglio starne fuori? Questo è il solo interrogativo, al di là della retorica che si può fare su tutte le nefandezze che vengono dette nei documenti preparatori.
Per carità, chiunque abbia assistito a qualsiasi conferenza delle Nazioni Unite sa che è un circo massimo, dove c'è assolutamente


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di tutto e non mi stupisce affatto leggere le più strampalate o bieche dichiarazioni. Questo fa parte, purtroppo, di un gioco al quale partecipano duecento Paesi.
Io ritengo che, tutto sommato, non sia opportuno lasciare il tavolo della negoziazione fin quando c'è una minima possibilità di avere una, benché minima, influenza. Lasciarlo prima può essere un segnale, sì, ma può anche essere un fatto negativo.
Continuo ad avere dei dubbi, quindi, che mi rimangono anche dopo l'intervento del Ministro Frattini che, come al solito, ringraziamo di essere qui con noi.

FURIO COLOMBO. A me pare che una diplomazia netta, inequivoca e precisa, che fa sapere con chiarezza cosa pensa e qual è il punto di riferimento al quale si ispira, sia una buona diplomazia.
In questo caso, io ho l'impressione di trovarmi di fronte ad una buona diplomazia, condotta con fermezza, con chiarezza e con un'argomentazione assolutamente esauriente delle proprie ragioni.
Niente di ciò che era incluso in quei paragrafi avrebbe potuto essere negoziato, perché è imbarazzante anche solo il concetto di negoziazione di princìpi che hanno a che fare con l'antisionismo, con l'antisemitismo e con il giudizio di Israele come Stato canaglia.

MASSIMO LIVI BACCI. Si chiede di abolire quei paragrafi, non di modificarli.

FURIO COLOMBO. Certo, ma se non ci fosse stato «Durban 1», sarei stato molto sensibile alle sue obiezioni, senatore Livi Bacci, ma «Durban 1» c'è stato, e lì nulla e nessuno ha potuto far diminuire, neppure di poco, la virulenza anti-israeliana, sostanzialmente ed estensivamente antisemitica, che ha caratterizzato quell'evento, che c'è già stato.
Questo è il «Durban 2», che avrebbe dovuto dimostrare che le Nazione Unite erano in grado di risalire e di creare un territorio radicalmente nuovo, per una situazione di questo genere.
Il Ministro, quindi, ha ritirato l'Italia nel momento in cui diventava chiaro, evidente e indiscutibile che non sarebbe cambiato nulla e che la sua presenza sarebbe stata quella di un complice.
Sto parlando in dissenso con il senatore Livi Bacci, che stimo, ammiro e la cui amicizia è fuori discussione - e lo stesso per l'onorevole Evangelisti, che sa quanto in moltissime situazioni siamo insieme e vicini - ma vorrei dire che purtroppo, nella storia, è un fatto noto e ripetuto quello di essere in pochi, in pochissimi, quasi nessuno, ad avere il coraggio - perché qui c'è in ballo tutto il commercio con i Paesi arabi - di dire le cose che vanno dette, nel momento in cui vanno dette.
Soltanto gli Stati Uniti, il Canada e noi? A parte l'importanza, il valore e l'apprezzamento che, almeno persone come me, danno agli Stati Uniti, soprattutto quando è presieduta da Obama - a parte questo apprezzamento magari eccessivo, insomma - resta il fatto che, sì, siamo in tre, ma siamo in tre a dire una cosa giusta, in cui crediamo.
Crediamo che sia la cosa giusta: non stiamo dicendo che è «la» verità, ma che ci sembra una verità molto importante. Essere in pochi, nella storia, è un fatto già accaduto, che ha segnato momenti importanti.
Pensate a quando due soli Paesi, Francia e Inghilterra, nelle condizioni non eccellenti in cui si trovavano, hanno saputo essere da soli contro un universo europeo e internazionale che vedeva con favore Hitler e Mussolini. Sono stati in due, hanno rischiato tutto, tutto, ma hanno segnato la storia!
L'essere in pochi, quindi, non è sbagliato, e non è ridicolo pensare che soltanto noi, gli Stati Uniti e il Canada possiamo avere detto la cosa giusta al momento giusto. Io vorrei lodare l'iniziativa del nostro Governo su questo punto, perché l'ha assunta nel momento giusto: andava fatto adesso, andava fatto in modo che non vi fossero ambiguità ed equivoci, perché un gesto esemplare di questo tipo può avere delle conseguenze, mentre delle


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benevole ed educate interiezioni nel corso dei lavori, probabilmente, sarebbero passate del tutto non notate.
Questo è un caso nel quale mi sento di dire che il Ministro degli esteri ha operato con tempestività, competenza, chiarezza e facendo l'interesse anche morale del Paese Italia.

PRESIDENTE. Nessun altro chiedendo di intervenire, do la parola al Ministro degli affari esteri per la sua replica.

FRANCO FRATTINI, Ministro degli affari esteri. Ringrazio davvero tutti i colleghi deputati e senatori perché, al di là degli schieramenti politici, è stato un dibattito serio e sincero. Anche l'apprezzamento di colleghi come il presidente Colombo, con i quali raramente ci troviamo in accordo, dimostrano come davvero questo è un tema che va oltre gli schieramenti politici.
Devo dire che registro con piacere anche il fatto che tutti condividiamo la sostanza. Vi sono dei temi su cui non si può negoziare, vi sono dei punti che non possono essere espressione del multilateralismo in cui noi tutti crediamo, cioè di un documento delle Nazioni Unite.
Tra l'altro, oltre alle questioni relative ad Israele e alla libertà di espressione, che già sarebbero sufficienti, un collega ha citato giustamente un altro aspetto, che è stato anch'esso poco rimarcato, ma su cui durante la precedente fase di negoziato noi abbiamo molto insistito.
Lo cito a titolo esemplificativo, proprio per rispondere subito, partendo dalla fine, al senatore Livi Bacci. Quel testo è inemendabile e non è assolutamente suscettibile di modifiche, se non, forse, relativamente a piccole interiezioni. Abbiamo discusso per un giorno se si potesse parlare, riferendosi ad Israele, di threat oppure di serious threat to the international order. Ora, comprendete bene che se si discute di questo, quel testo è immodificabile.
Abbiamo ragionato a lungo, parlando della discriminazione sessuale che a molti colleghi del centrodestra e del centrosinistra è ugualmente cara, perché è un diritto fondamentale delle persone, se si dovesse individuare la condanna alle forme di discriminazioni based on sexual orientation and gender identity quando sono venuti alcuni colleghi - la maggioranza - che hanno blindato un'altra formula: based on acceptable personal preferences.
Quando la preferenza sessuale è definita accettabile - e non, semplicemente sexual orientation - si condanna. Allora, l'omosessualità, se non accettata e non accettabile, non è più tutelata: si introduce un sindacato preventivo sull'accettabilità delle preferenze personali.
Capite bene perché questo testo non è accettabile. Al paragrafo 69, la formula in neretto, quella prevalsa oggi, non modificabile, dice acceptable: c'è un sindacato di accettabilità, come deve essere accettata preventivamente la mia libertà di criticare una qualsivoglia religione, la mia o quella di un altro.
Queste sono le ragioni per cui io ho ritenuto che qualcosa fosse cambiato. Il senatore Marcenaro ha chiesto cosa fosse cambiato: noi abbiamo avuto la percezione chiara che, da ottobre a marzo, nulla era stato modificato, salvo un aggettivo che poteva essere più o meno devastante. Io non negozio sulla possibilità di introdurre un aggettivo più o meno devastante.
Quel testo va respinto in toto, va drasticamente sostituito con un altro e, quindi, la non azzerabilità di quel testo è stata la ragione che ha indotto l'Italia a ritirare la sua delegazione. È stato un atto politico, com'è evidente.
Io mi permetto di dire - l'ho già fatto nella mia introduzione, ma repetita iuvant, come si suol dire - che il dialogo con i colleghi europei non si è mai interrotto. È falso, assolutamente falso, quello che qualche volta è stato detto in merito (non in quest'aula), perché ci sono sessioni di consultazione europea che avvengono, almeno una volta settimana, a Ginevra, proprio su questo. Ovviamente a quelle sessioni noi partecipiamo.
Mi permetto di rispondere ai colleghi che hanno avuto dei dubbi che non credo di essere in grado di dissipare, ma che mi


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impongono il dovere almeno di una risposta. Quei colleghi hanno enfatizzato il ruolo dell'Europa. Siamo sinceri, colleghi: l'Europa non c'è stata e non c'è, su questo tema politico.
Avete mai avuto notizia di un invito a sedersi intorno a un tavolo dei ministri per armonizzare le nostre posizioni? Mai. Ne avete mai sentito parlare a proposito di temi di grande peso politico, su cui le divisioni tra Stati - lo sappiamo - ci sono? No.
Non credo che i Paesi d'Europa, che condividono in pieno la scelta dell'Italia, siano aiutati da una silente partecipazione ad un negoziato inconcludente. Credo che la Danimarca, che ha sofferto sulla sua pelle l'attacco violento dopo le vignette danesi, la pensi esattamente come noi, almeno su quel paragrafo.
È ovvio che la nostra scelta aiuterà i colleghi inglesi, i colleghi olandesi, i colleghi danesi a non continuare a negoziare se si debba scrivere «seria minaccia» o «minaccia», ma piuttosto a dire che non parteciperanno finché non ci saranno Paesi coraggiosi, arabi moderati, come qualcuno ha detto - ce ne sono e ci stanno pensando -, che proporranno un testo radicalmente diverso.
A quel momento, l'Italia sarà pronta a sedersi nuovamente al tavolo e a negoziare, ma non a negoziare sul non negoziabile. Questa è la ragione della mia risposta a coloro che hanno parlato - francamente, con un'espressione che non condivido affatto - di «cesello del negoziato».
Il cesello del negoziato non si può applicare a questo testo, che da quattro mesi e mezzo è immodificabile, se non nei particolari che ho citato. Diciamo «sì» al lavoro con l'Europa, al raccordo europeo, ma se non vi è un consenso politico dell'Europa su un testo, noi preferiamo dare un esempio limpido e trasparente.
Si tratta di dire che, come i nostri amici americani, come i nostri amici canadesi, come gli israeliani, noi non ci prestiamo ad un negoziato di facciata, perché negoziare su un aggettivo è un negoziato di facciata. Questa è la decisione che noi abbiamo assunto.
Se si potrà azzerare tutto, come noi chiediamo, saremo pronti a contribuire positivamente; se questo testo di 250 paragrafi non sarà azzerato, noi non lo potremo, col silenzio, condividere.
Il presidente Colombo ha parlato di complicità. Io uso il termine «condivisione», che forse è un po' meno forte. Mi piacerebbe poterlo dire nelle sedi diplomatiche: «complicità» è quello che penso, «condivisione» è quello che dico.
Noi non possiamo, al di là del rispetto dovuto a quelli che sono ancora lì a negoziare, condividere una silente tolleranza verso una strada che porta al baratro. Quando ci troveremo a Ginevra, la mattina in cui si apre la conferenza, con questo testo di 250 paragrafi, allora voi giustamente mi direte: è troppo tardi, ormai l'Italia non può influire, ma io credo che oggi la scelta dell'Italia possa influire.

PRESIDENTE. Ringrazio il Ministro per questa importantissima audizione, che dichiaro conclusa.

La seduta termina alle 15,55.

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