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Resoconti stenografici delle audizioni

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Commissioni Riunite
(III Camera e 3a Senato)
11.
Martedì 29 settembre 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Stefani Stefano, Presidente ... 2

Audizione del Ministro degli affari esteri, Franco Frattini, sulla situazione in Afghanistan (ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento della Camera dei deputati):

Stefani Stefano, Presidente ... 2 6 15 16
Adornato Ferdinando (UdC) ... 10
Boniver Margherita (PdL) ... 8
Cabras Antonello (PD) ... 11
Compagna Luigi (PdL) ... 13
Corsini Paolo (PD) ... 15
Evangelisti Fabio (IdV) ... 9 10
Fassino Piero (PD) ... 6
Frattini Franco, Ministro degli affari esteri ... 2 10 15
La Malfa Giorgio (Misto-RRP) ... 12
Nirenstein Fiamma (PdL) ... 14
Parisi Arturo Mario Luigi (PD) ... 13
Perduca Marco (PD) ... 12
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP.

COMMISSIONI RIUNITE
III (AFFARI ESTERI E COMUNITARI) DELLA CAMERA DEI DEPUTATI
E 3a (AFFARI ESTERI, EMIGRAZIONE) DEL SENATO DELLA REPUBBLICA

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di martedì 29 settembre 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA III COMMISSIONE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI STEFANO STEFANI

La seduta comincia alle 13.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione in diretta sul sito Internet della Camera dei deputati.

Audizione del Ministro degli affari esteri, Franco Frattini, sulla situazione in Afghanistan.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento della Camera dei deputati, l'audizione del Ministro degli affari esteri, Franco Frattini, sulla situazione in Afghanistan.
Saluto i colleghi del Senato e il presidente Dini.
A nome di tutti i presenti, rinnovo il cordoglio alle famiglie delle vittime dell'attentato terroristico ai danni del contingente italiano dell'ISAF, lo scorso 17 settembre a Kabul.
Dopo l'informativa urgente del Ministro della difesa in entrambi i rami del Parlamento, l'audizione odierna è rivolta all'analisi politica, in attesa della conferma dell'esito delle elezioni presidenziali di cui è in corso l'ultimo conteggio.
Ringrazio il ministro Frattini, che è reduce dall'apertura della sessione annuale dell'Assemblea generale dell'ONU, dove si è impegnato a ribadire la necessità di una prospettiva politica per la soluzione della crisi afgana.
Prima di dare la parola al ministro, ricordo che il dibattito dovrebbe chiudersi intorno alle 14,40 poiché in Aula sono previste votazioni. Pertanto, propongo di contenere gli interventi entro cinque minuti. Anticipo fin d'ora che, se accettate questa impostazione, sarò categorico nell'imporre il rispetto dei tempi.
Do la parola al ministro Frattini per lo svolgimento della relazione.

FRANCO FRATTINI, Ministro degli affari esteri. Signor presidente, credo che l'occasione di oggi sia particolarmente utile per fare il punto non solo sulle prospettive, anche politiche, della presenza italiana in Afghanistan, ma anche su come il contesto internazionale si sta evolvendo in relazione a quella situazione di crisi.
Come il presidente Stefani, desidero anch'io rinnovare il mio senso di vicinanza e di dolore più profondo alle famiglie dei caduti nel vile attentato di Kabul - un vile attentato che ha colpito soldati italiani eroi di pace - ed esprimo ancora una volta la mia gratitudine a tutte le forze politiche di maggioranza e di opposizione che in questo Parlamento non hanno mai fatto mancare il loro sostegno all'azione del Governo sull'Afghanistan, ancorché con diverse valutazioni. Evidentemente le forze politiche del Parlamento italiano si sono strette intorno alle vittime e ai loro familiari.
È ovvio che anche oggi si continua a parlare di una soluzione complessiva per l'Afghanistan. Io esprimerò alcune riflessioni su come affrontare il futuro prossimo


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in Afghanistan nella prospettiva della stabilizzazione, su come articolare gli obiettivi della nostra presenza, ma non sul «se». Il «se» e l'exit strategy non sono nell'agenda del Governo italiano. Nel condividerle dall'inizio alla fine, ripeto le parole appena pronunciate dal Capo dello Stato: «L'Italia mantiene ben fermo il suo impegno in Afghanistan». Questa è la posizione in cui il Governo italiano si riconosce.
Occorre, quindi, stabilire quale sia il modo migliore per stabilizzare il Paese e quale sia il nostro grado di ambizione, ossia cosa ci viene richiesto nel prossimo futuro, ma anche in una strategia più a medio termine. Il dibattito non è presente solo in Italia, lo è nella maggioranza dei Paesi europei e negli Stati Uniti.
Certamente vi è la convinzione comune che un impegno così rilevante come quello dell'Afghanistan abbia bisogno di un ampio sostegno da parte dei Governi, dei Parlamenti e delle società civili dei Paesi coinvolti. Questo vale, ovviamente, anche per il nostro Paese. Non è questa una materia - credo - su cui il Parlamento italiano debba e possa dividersi, se condivideremo alcune linee di fondo su cui ora esprimerò alcune riflessioni.
Occorre, in primo luogo, chiarezza verso i nostri alleati. L'Italia non è sola, è in una coalizione che comprende circa quaranta Paesi, Paesi europei e non, Paesi NATO e non. I nostri alleati debbono sapere, senza «se» e senza «ma», che la volontà politica dell'Italia, del Governo e dell'ampia maggioranza del suo Parlamento rimane quella di continuare a contribuire con determinazione all'impegno in Afghanistan, impegno che successivamente declinerò e che - anticipo - non può essere soltanto militare.
Occorre altrettanta chiarezza nei confronti dell'opinione pubblica, che deve sapere in modo preciso qual è la natura - una natura complessa, rischiosa e di lunga durata - di questa missione, alla quale i nostri soldati partecipano con onore, ma anche le motivazioni serie e profonde che giustificano una più ampia presenza in Afghanistan del sistema Italia per la ricostruzione civile e per l'aiuto alla ricostruzione politica del Paese. Non c'è, infatti, solo la componente di sicurezza, la quale - come dirò più in dettaglio - è il mezzo e non il fine a cui dobbiamo puntare.
Credo che vi siano almeno quattro principali motivi - questa è la valutazione del Governo - per i quali la partecipazione dell'Italia agli sforzi internazionali di stabilizzazione in Afghanistan corrisponde a un interesse nazionale. Di questo si deve parlare: essere in Afghanistan è interesse nazionale dell'Italia.
In primo luogo, il concetto di sicurezza nel mondo è cambiato e la sicurezza dei cittadini non è più soltanto la sicurezza all'interno dei confini nazionali. Si è, infatti, ormai diluito il confine tra l'ambito nazionale e quello internazionale.
Il ricordo degli attentati terroristici dall'11 settembre in poi, compresi quelli in Europa, oggi ci porta alla regione che nel mondo è l'origine del jihadismo terrorista, ovvero la regione di confine tra Pakistan e Afghanistan. È in quella regione che abbiamo individuato i principali collegamenti con i movimenti terroristici che hanno colpito in Europa. Non ripeto qui i risultati delle indagini sugli attentati di Londra, che hanno dato prove di questi collegamenti.
È chiaro, quindi, che è interesse nazionale dell'Italia difendere la sicurezza globale, o almeno contribuire a farlo. La scoperta di cellule terroristiche venute dall'Afghanistan o che si preparavano a tornare in Afghanistan, anche in terra europea, ne è la prova.
La seconda ragione di interesse nazionale italiano è che in quella regione noi contribuiamo a promuovere la democrazia e i diritti. Lo stiamo facendo dall'interno. Siamo convinti che nessun Paese del mondo possa accettare una ricetta di democrazia costruita a Roma o a Washington o a Bruxelles ed esportata a Kabul.
Il nostro impegno, come ha chiarito il Presidente Obama davanti alle Nazioni Unite, è quello di far nascere dalla popolazione un germoglio di democrazia che poi attecchirà. Dobbiamo, quindi, coltivare questi risultati e sarebbe oggi assolutamente


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prematuro rinunciare a coltivarli, almeno fino a quando un sistema democratico non sarà compiuto.
Tutti hanno parlato delle elezioni, sollevando dubbi e critiche. Debbo dire - questo è un punto che è emerso nelle nostre discussioni di New York, anzitutto nel G8 dei ministri degli esteri, che io ho presieduto - che il solo fatto che le elezioni si siano svolte, che non siano state impedite con la forza e che gli afgani le abbiano gestite, è un elemento positivo che noi dobbiamo rimarcare.
Ecco, allora, che dopo le elezioni ne attendiamo il risultato finale. Ci siamo molto interrogati sul cosa fare. Abbiamo condiviso la linea a cui i nostri inviati speciali - compreso quello italiano - si sono attenuti sul terreno: attendere l'esito delle commissioni di verifica elettorali, commissioni che abbiamo giudicato affidabili. Ne attendiamo, dunque, la valutazione conclusiva per esprimere la proclamazione di un vincitore. Evidentemente, un vincitore credibile.
La terza ragione per l'impegno nazionale in Afghanistan è che siamo tenuti a impegni internazionali. Come ho accennato prima, c'è una coalizione di più di quaranta Paesi, abbiamo un mandato dell'ONU, abbiamo una missione ISAF della NATO, abbiamo un impegno europeo di una missione PESD. Tra l'altro - come molti di voi certamente sanno - l'Italia ha un ruolo che pochi altri Paesi hanno: un diplomatico italiano è il rappresentante della NATO a Kabul e un altro diplomatico italiano è il rappresentante della PESD europea, sempre a Kabul. Abbiamo, pertanto, un osservatorio particolarmente privilegiato.
Il G8 ha condiviso questo impegno internazionale e certamente l'approccio multilaterale a cui noi ci rimettiamo è quello a cui l'America del Presidente Obama ha indicato di voler tornare con risolutezza, direi con soddisfazione del mondo intero.
La quarta ragione è che l'Afghanistan è un test che non possiamo fallire. È un test per la credibilità della NATO. Questo è il primo intervento della NATO fuori teatro, come dicono gli addetti ai lavori. È la prima volta nella quale la NATO si impegna con un numero enorme di risorse fuori area. Se si fallisse, la credibilità dell'Alleanza atlantica sarebbe messa in discussione. È, inoltre, un test per la stabilità dell'intera regione, compreso il Pakistan. Pakistan e Afghanistan hanno problemi diversi tra loro e sarebbe sbagliato parlare - come molti fanno - di AfPak. Afghanistan e Pakistan non sono una sola cosa. Oggi noi riceviamo a Roma il Presidente del Pakistan Zardari. L'Italia ha promosso il gruppo degli amici del Pakistan e chiaramente riteniamo che quel Paese debba essere aiutato a crescere nelle sue istituzioni democratiche. È ovvio, però, che senza la stabilizzazione dell'Afghanistan noi metteremmo a rischio la stabilizzazione del Pakistan, a cominciare dalle regioni di confine.
È un test, altresì, per i rapporti transatlantici. Questa missione ha messo in luce il rapporto-chiave tra Europa e Stati Uniti. All'Europa viene chiesto di più dal Presidente Obama e io credo che l'Europa debba dare di più, nel senso della volontà politica, ma anche delle risorse. È una sfida che dobbiamo affrontare e vincere insieme.
È un test per i rapporti NATO-Russia. Non sottovalutiamo questo test rappresentato all'Afghanistan. Per la prima volta, la Russia collabora pienamente, concede i diritti di transito e di sorvolo, si impegna, come si è impegnata al G8 sotto presidenza italiana a Trieste e la settimana scorsa a New York. Il Ministro degli esteri russo ha confermato il suo impegno con i Paesi dell'Asia centrale, per incoraggiare un vero compact Afghanistan, che includa quei Paesi, cosa che fino a ieri non era assolutamente scontata.
È infine un test per la disponibilità dell'Iran a collaborare su base regionale. Non parliamo oggi dell'altra questione che è nell'agenda della comunità internazionale. L'Iran in Afghanistan ha un interesse in comune con tutti noi: il contrasto dei traffici internazionali della droga e delle armi. La droga ormai colpisce il 6 per cento degli iraniani; forse non tutti i


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colleghi sanno che l'Iran è il Paese al mondo più colpito dalla tossicodipendenza, perché il 40 per cento delle rotte della droga ha come primo Paese di transito l'Iran, e parte dall'Afghanistan. Il test della collaborazione regionale dell'Iraq in Afghanistan è dunque altrettanto importante.
Per queste quattro ragioni chi parla di exit strategy mette a rischio un interesse ampio della coalizione e della comunità internazionale e credo che parlare di questo sia oggi controproducente per tutti noi e innanzitutto per i nostri militari.
La missione comunque non può essere a tempo indeterminato. Occorre un obiettivo preciso: non quello che l'Afghanistan presenti le caratteristiche di una democrazia occidentale, ma che sia un Paese autosostenibile. Questa è la condizione minima, che ci consentirà di considerare compiuto il lavoro: una polizia addestrata e in grado di garantire l'ordine pubblico, un esercito in grado di presidiare i confini, un'economia rilanciata, una corruzione sradicata, un programma di infrastrutture realizzato.
A tutto questo, l'Italia aggiunge un obiettivo altamente politico: i diritti per il popolo afgano. L'Italia è stato infatti il primo Paese, con gli Stati Uniti d'America e la Norvegia, a sollevare alla Conferenza dell'Aja il tema dei diritti delle donne afgane. Nelle scorse settimane, abbiamo ospitato a Roma un G8 sui diritti delle donne e in quell'occasione alcune coraggiose donne afgane ci hanno raccontato la loro esperienza. Anche su questo tema, la comunità internazionale dovrà seguire la formazione del Governo e delle istituzioni.
Ritengo quindi opportuno parlare di una strategia di transizione, non di uscita. Ne abbiamo dibattuto a lungo al G8 e in Europa, con alcuni Paesi europei abbiamo formato un gruppo di amici dell'Afghanistan, dieci Paesi, cinque europei e cinque non europei - numero che spero si allargherà - che intendono seguire più da vicino lo sviluppo politico e istituzionale dell'Afghanistan.
Quali le piste da seguire? Primo, un nuovo patto per l'Afghanistan, per dare agli afgani le chiavi della loro sicurezza, della loro economia, delle loro istituzioni, metterli in condizione di governare il Paese in sicurezza. Abbiamo perciò lavorato a una conferenza internazionale, che prepari un compact per l'Afghanistan. L'ultimo fu quello di Londra di quattro anni fa, che ormai deve essere aggiornato e integrato, in quanto non più attuale. Ritengo che il nuovo Governo afgano debba dare e non solo chiedere alla comunità nazionale. Dare significa un programma dei cento giorni, un programma annuale, linee di azione per nominare i ministri e i governatori, che devono essere immuni dalla corruzione.
Tutto questo deve essere oggetto di un patto internazionale per l'Afghanistan, che vorremmo firmare a Kabul. Come ministri degli esteri, vorremmo recarci lì, anche se le condizioni di sicurezza sono ancora complicate, perché quella road map per l'Afghanistan sarebbe la migliore risposta per vincere il cuore e la fiducia degli afgani, che ancora non abbiamo vinto. Per vincerli, purtroppo occorre ancora fare moltissimo.
Questo significa ricalibrare la strategia finora prevalentemente militare. Questo è il secondo passaggio: dobbiamo investire di più nella formazione della sicurezza e non nella sicurezza fine a se stessa, nella sicurezza come strumento per realizzare gli obiettivi e guardare con attenzione a quel Rapporto McChrystal che raccomanda di fare attenzione, di preoccuparci della sicurezza degli afgani, oltre che delle nostre truppe in Afghanistan, ed è chiaro quindi che i bombardamenti a tappeto e le azioni indiscriminate sono esattamente il contrario.
In altri termini, dobbiamo mettere la popolazione civile al centro della nostra strategia, passaggio del Rapporto McChrystal che il Governo italiano sottoscrive. Sono necessari più attività di formazione, più lavoro di contatto con la popolazione civile e occorre affrontare la pista politica più delicata: se e come avviare un dialogo con le tribù talebane disponibili a dialogare. Questo è il capitolo più delicato.


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Alcune organizzazioni talebane hanno reclutato persone disperate per povertà, che hanno perso il lavoro e che si sono rifugiate nelle organizzazioni talebane, che pagano un insorgente il triplo di quello che è pagato un agente di polizia afgano. Dobbiamo rompere questo circolo vizioso.
L'Italia e il resto della comunità internazionale pongono una sola precondizione: un'accettazione senza «se» e senza «ma» della Costituzione afgana, della legalità, del rifiuto della violenza, il che preclude ogni possibile contatto con le formazioni talebane legate ad Al Qaeda.
Sull'impegno civile ho già accennato. Penso alla ricostruzione economica: l'Italia sarà promotrice di progetti pilota - lo stiamo già facendo - nell'agricoltura e nelle infrastrutture. Per quanto riguarda il consolidamento istituzionale, l'Italia guida il settore giustizia, un settore chiave, e da alcune settimane dirige la formazione delle forze di polizia afgane. Un ufficiale italiano è stato infatti incaricato dall'ISAF di coordinare questo punto chiave della strategia: la formazione della sicurezza afgana.
Vogliamo guardare anche al buongoverno dell'Afghanistan. Ho detto con chiarezza che non possiamo limitarci ai ministri del Governo Karzai, ma vogliamo capire i criteri di nomina per i governatori delle regioni, affinché siano uomini immuni da qualsiasi contatto con la corruzione.
La quarta pista di lavoro è rilanciare la dimensione regionale. Abbiamo parlato a lungo con i nostri amici arabi, in particolare quelli del Golfo. Stiamo pensando a progetti di ricostruzione civile in partnership con Paesi del Golfo. L'Italia sta proponendo progetti concreti e operativi anche per la regione di Herat. Sapete del primo passo degli Emirati, che hanno dichiarato di volersi impegnare nella strategia complessiva relativa all'Afghanistan.
Conoscete il contributo dell'Italia. Molti dei presenti hanno vissuto fasi importanti della missione in Afghanistan. L'Italia resta il terzo contributore europeo della NATO. Siamo responsabili della formazione delle forze di polizia. Abbiamo in campo oltre duecento Carabinieri formatori, che tutto il mondo ci invidia per le loro capacità. Dal 2002 al 2008, la cooperazione allo sviluppo ha portato a iniziative per più di 440 milioni di euro, oltre al sostegno alla governance afgana.
Mi permetto di dire che la formazione e i fondi per la ricostruzione civile sono la chiave del carattere che è sempre stato dato alla nostra presenza in Afghanistan, come in Libano e nei Balcani: un carattere che guarda ancor prima e ancor più al rapporto con le popolazioni civili, piuttosto che all'azione semplicemente di sicurezza.
Credo, onorevoli deputati e senatori, che il Parlamento debba tener conto di questo aspetto nel valutare l'assegnazione delle risorse per l'anno 2010. Limitare le risorse per la cooperazione civile nelle aree di crisi significa creare un obiettivo ostacolo al raggiungimento delle grandi strategie che la comunità internazionale sta definendo, e togliere al sistema Italia in Afghanistan lo strumento oggi più prezioso per guadagnare la fiducia degli afgani.
Se non abbiamo risorse da spendere per i ponti, per le strade, per le scuole, per i progetti agricoli, i nostri stessi militari si troveranno in una situazione più complessa, perché saranno assimilati a contingenti che hanno privilegiato l'aspetto della sicurezza e che oggi, a seguito del Rapporto McChrystal, stanno convertendo un'azione prima solamente di sicurezza in un'azione di ricostruzione civile, di politica e anche di sicurezza come mezzo per realizzare quegli obiettivi. Questa è la volontà dell'Italia e questa è la visione che l'Italia conserverà - mi auguro - con il consenso largamente maggioritario del Parlamento italiano.

PRESIDENTE. Vi ricordo che, come richiesto dai colleghi, i tempi sono contingentati e sarò assolutamente inflessibile.
Do quindi la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti e formulare osservazioni.

PIERO FASSINO. Ringrazio il Ministro per aver fornito alle Commissioni riunite questa ampia informazione.


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Mi lasci dire, presidente, e me lo conceda anche il Ministro, come molti di noi siano rimasti francamente sconcertati - sconcertati è forse un eufemismo - per il modo con cui il Presidente del Consiglio ha scagliato contro l'opposizione un'invettiva, condendola di accuse infamanti relative all'atteggiamento dell'opposizione nei confronti delle missioni internazionali di pace, che qui, in una sede istituzionale, voglio respingere. Aggiungo anche che l'interpretazione riduttiva data immediatamente nelle ore successive, come di uno sfogo o addirittura come di un'invettiva rivolta ad altri, è smentita dal fatto che, nell'invettiva che milioni di italiani hanno potuto ascoltare, vi è una parte, dedicata a un altro tema rilevante per la vita di questo Paese, ossia l'immigrazione, che è addirittura più grave delle parole dette sull'Afghanistan.
Far credere che quattro milioni e mezzo di immigrati vivono in Italia perché chiamati dal centrosinistra per poter dar loro il voto e ribaltare i risultati elettorali è non solo una pietosa e stupida bugia, ma un atto di irresponsabilità da parte di un capo di Governo nei confronti dei suoi concittadini. In questo modo non si educa a fare i conti con la complessità di un fenomeno come l'immigrazione, e non si aiuta a liberarlo dalle tante paure che porta con sé. Anche in quel caso, credo che si sia andati abbondantemente oltre il segno, che tutto ciò non sia accettabile e che vada nettamente stigmatizzato.
Venendo alle questioni relative all'Afghanistan - molte considerazioni svolte dal Ministro sono naturalmente condivisibili - io penso che l'aspetto su cui la discussione a questo punto va concentrata sia il modo in cui dare una prospettiva alla situazione attuale, fermo restando che tutti abbiamo condiviso l'invio di soldati italiani nella missione internazionale di pace insieme agli altri Paesi europei, sulla base di un mandato esplicito dell'ONU, deciso all'indomani della vicenda drammatica delle torri gemelle.
Credo si debba dire in modo molto chiaro che un Paese non decide di ritirarsi da una missione internazionale di pace perché alcuni suoi soldati sono stati drammaticamente e luttuosamente colpiti e che non si abbandona una situazione così drammatica senza sapere che cosa ci si lascia dietro. Bisogna sapere che, prima che si andasse in Afghanistan, non solo esso era il santuario di Al Qaeda e di organizzazioni terroristiche la cui pericolosità è a tutti nota, ma era un Paese in cui le bambine non andavano a scuola, si perseguiva la stuprata e non lo stupratore, e le donne erano in una condizione di umiliazione e segregazione inaccettabile sotto qualsiasi cielo e in qualsiasi terra. Questa era la situazione precedente.
Analogamente, non si può dimenticare ciò che è accaduto quando i russi si sono precipitosamente ritirati, alla fine di una vicenda travagliatissima, dall'Afghanistan: nel giro di quarantotto ore si è verificata una mattanza che ha visto impiccare tutti coloro - a prescindere dal giudizio che si può dare di tali vicende - che fino a quel momento avevano avuto responsabilità di governo nel Paese. Noi non ci possiamo concedere uno scenario di questo genere, e quindi è chiaro che si viene via dall'Afghanistan quando si sa che cosa ci si lascia dietro.
Il problema è, come dicevo, come si creano le condizioni per lasciare un Afghanistan che sia stabile, e non solo per un periodo contingente immediatamente dopo il ritiro, ma che lo sia sufficientemente per un tempo ragionevole e lungo. Da questo punto di vista condivido - ricordo di averlo detto in un precedente dibattito su questi temi in Aula - la non appropriatezza della formula «exit strategy», che suggerisce semplicemente l'idea di una strategia per venire via, ma della necessità, invece, di usare altre formule, come una «transition strategy» o una «success strategy», in ogni caso di una strategia che ci consenta di avere chiara una prospettiva di stabilità per l'Afghanistan.
Mi pare che tale strategia debba essere incardinata su più scelte: la prima si basa sull'evidente necessità di un'accelerazione della ricostruzione economica e istituzionale dell'Afghanistan. Tutti avvertiamo - e lo dicono per primi i militari - che la


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stabilità del Paese non può essere affidata soltanto a una soluzione militare, e che quest'ultima funziona purché ci sia un percorso politico e civile che costruisca le condizioni di una stabilità. Si pone quindi un problema di accelerazione della costruzione di un'economia liberata dalla schiavitù della droga - è il grande problema, trattandosi di un'economia che vive su di essa - e della ricostruzione di poteri statali tali che siano in grado di essere padroni della situazione, ivi compresa la sicurezza del territorio.
È chiaro però che, per mettere in campo un'accelerazione di questo genere, la copertura e la tutela di carattere militare serve, perché siamo in una condizione nella quale i talebani, o comunque la loro parte più oltranzista, vogliono impedire la stabilizzazione civile, economica e politica. Se vogliamo conseguire la stabilizzazione, un impegno militare a tutela di essa è una condizione sine qua non. Da questo punto di vista, io penso che vada riconfermato il nostro impegno, all'interno, però, di una strategia che acceleri tale processo.
Oltre alle questioni poste dal Ministro, ai fini di tale accelerazione occorre affrontare un nodo: difficilmente potremo arrivare a una stabilizzazione se non si realizza un nuovo patto tra afgani che coinvolga tutti coloro che possono essere coinvolti in una stabilità negoziata. Ricordo di aver posto tale questione due anni fa; poiché la politica italiana è sempre strumentale, fui lapidato per aver detto che la pace si fa con quelli che fanno la guerra e che, quindi, bisognava cercare un accordo anche con la parte dei talebani disponibile a un negoziato. Noto che adesso lo dicono tutti, non solo il Ministro Frattini; soprattutto gli inglesi sono molto determinati su questa strada, al pari degli americani. Credo che anche il nostro Paese debba cercare di concorrere alla verifica della praticabilità di soluzioni negoziali che abbiano il doppio obiettivo di dividere il campo talebano, in ragione tale da ridurre i settori più oltranzisti, quelli non disponibili a nessuna stabilità e che possono essere sconfitti soltanto se isolati, e, al tempo stesso, coinvolgere uno schieramento più largo in una politica di stabilità e di stabilizzazione. Credo che lo sforzo vada profuso interamente in questa direzione, in merito alla quale sollecito un impegno del Governo italiano, annunciato peraltro dal Ministro, e invito a guardare allo scenario più largo.
Mi permetto di aggiungere una questione sul Pakistan. Giustamente, si è costantemente richiamata la vicenda di questo Paese e si è addirittura costruito un acronimo per la soluzione (AfPak). Personalmente penso che, però, difficilmente tale soluzione abbia una prospettiva di stabilità vera, se non si affronta la questione dei rapporti tra Pakistan e India. Questo è il vero nodo: la permanente conflittualità tra Pakistan e India determina i comportamenti del Pakistan e le politiche, da parte di tanti, di utilizzo strumentale del Paese nella regione.
Credo che lavorare - è una operazione non semplice - per il superamento di una storica conflittualità tra Pakistan e India sia una delle condizioni anche per ottenere la stabilizzazione del Paese che può indurre un diverso assetto in Afghanistan.

MARGHERITA BONIVER. Non faccio prologhi e vado dritta all'argomento. Naturalmente, ringrazio il Ministro, che ha svolto un'eccellente esposizione sullo stato dell'arte in Afghanistan.
Questa sua audizione, oltretutto, si svolge in un momento di pericolosissimo vuoto politico: il prolungato conteggio delle schede e l'incertezza intorno al nome del futuro presidente afgano alimenta, se ce ne fosse ancora bisogno, il perdurare degli attentati terroristici, che ancora oggi hanno registrato trenta morti civili in Afghanistan. Ieri si è verificato addirittura un attentato contro il potentissimo Ministro dell'energia e dell'acqua, Ismail Khan, per non parlare naturalmente del sangue versato dai nostri solo qualche giorno fa e della continuazione degli attentati nei confronti delle nostre postazioni militari.
Mi auguro che tale pericolosissimo vuoto politico si concluda, dopo il riconteggio di un determinato numero di schede, con la riconferma di Karzai. Se si


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dovesse andare al ballottaggio credo che tale evenienza non potrà che far perdurare lo stato di incertezza che aggrava ulteriormente la cappa abbastanza confusa che in questo momento offusca anche le migliori politiche per uscire da una vera e propria empasse.
Il Rapporto di Stanley McChrystal è di straordinaria importanza e, se venisse accettato dall'amministrazione americana e dagli alleati, potrebbe forse provocare quel surge, quel cambiamento di strategia che, sulle sponde irachene, il generale Petraeus utilizzava: mettere al centro delle azioni, anche militari, la sicurezza - come diceva il Ministro Frattini - della popolazione. Si tratterebbe sicuramente di un'importantissima svolta nella dottrina, che è stata fino adesso prevalentemente militare da parte americana, ma non da parte nostra. Le nostre truppe da subito hanno sempre intrapreso importantissimi interventi di aiuto alle popolazioni civili.
Il Ministro ha anche molto opportunamente sottolineato, con molta forza, l'interesse nazionale della nostra presenza in Afghanistan. Ricordiamo anche con molto orgoglio il ruolo di primogenitura del nostro Paese, perché nel 2001, prima della Conferenza di Bonn, che si è svolta all'inizio di dicembre, si era parlato con molta insistenza della possibilità di far svolgere a Roma la prima Loja Jirga in esilio sotto l'egida dell'ancora vivo, all'epoca, monarca Zahir Shah, il quale è stato in esilio da noi per moltissimi anni. Tale primogenitura italiana ci impone non soltanto di restare, ma di appartenere al primo gruppo di Paesi che possono incidere e dare alla situazione afgana la svolta di cui necessita come dell'ossigeno per respirare.
Lei, Ministro, ha parlato del dialogo politico che il futuro esecutivo Karzai intraprenderebbe con i talebani di etnia pashtun pronti a deporre le armi. Su questo credo che dovremmo fare una riflessione o avere più informazioni - parlo in generale - magari ancora prima della conferenza che si terrà a Londra, o altrove, un nuovo compact a cui lei accennava, perché si tratta certamente di uno degli snodi principali. Se non si arriva a un armistizio nei confronti di un'etnia maggioritaria e che, per di più, è anche molto importante con la sua presenza al di là dei confini con il Pakistan - mi ricollego all'accenno del collega Fassino al ruolo del Pakistan e alla competizione con l'India, la quale in Afghanistan ha investito 1,3 miliardi di dollari di aiuti, una cifra non piccola per un Paese come l'India - ciò può provocare ulteriori sobbalzi in una strategia di pacificazione e di messa in sicurezza del territorio afgano, la quale pecca, da subito, di un'insufficienza di truppe. Non affermo ciò per invocare l'invio di nuove truppe - neppure il generale McChrystal, che è consapevole del momento, lo sta chiedendo in questo preciso istante - ma semplicemente per sottolineare che nessuna ricetta politica ed economica potrà avere successo se non vi è una presenza militare adeguata, che è sempre mancata sul territorio afgano.

FABIO EVANGELISTI. Chiedo scusa a tutti i colleghi e al Ministro Frattini perché devo uscire subito dopo il mio intervento, dovendo illustrare in Aula la pregiudiziale di costituzionalità sullo scudo fiscale. Leggerò, però, con attenzione le eventuali risposte che il ministro riterrà di dover dare ad alcune mie considerazioni.
Devo riconoscere che, al di là del tono stentoreo e di un po' di propaganda, ho apprezzato, fra le righe dell'intervento del Ministro Frattini, una problematicità maggiore rispetto ai mesi scorsi, rispetto ad altre occasioni in cui abbiamo discusso, e spero che tale approccio critico possa trovare sviluppi ulteriori quando arriverà il decreto per il rifinanziamento della missione e discuteremo di una mozione che, come gruppo dell'Italia dei Valori, abbiamo presentato in questo ramo del Parlamento. Potremo dunque discutere in maniera più approfondita e articolata di una situazione indubbiamente complessa, della quale non ci sfuggono anche alcuni aspetti positivi. Per la prima volta, infatti, c'è un presidente rieletto, pur con i i brogli di cui la stessa parte del Presidente Karzai si è resa responsabile, come denunciato


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dagli osservatori dell'ONU e dell'Unione europea.
Desideriamo quindi capire cosa stia succedendo, cosa si sia modificato dall'inizio della missione, in una situazione - è bene ricordarlo - che era meno difficile di quella determinatasi negli ultimi mesi. All'arrivo delle truppe, prima con Enduring Freedom, poi con la missione ISAF, si era evidenziata una positiva aspettativa nell'opinione pubblica e nella popolazione afgana, che immaginava la crescita di spazi di democrazia e di conquista dei diritti civili, primo obiettivo nazionale che lei ha voluto ricordare.
Apprezzo questo primo punto che lei ha voluto ricordare: siamo lì perché il concetto di sicurezza nel mondo è cambiato e i confini si sono diluiti, siamo lì perché dobbiamo lavorare per la democrazia e i diritti.
Mi riesce invece più difficile capire come possiamo tenere insieme i punti tre e quattro - ossia che siamo tenuti dagli impegni internazionali e che l'Afghanistan è un test che non possiamo fallire - quando leggo che venerdì scorso, a New York, in un'importante riunione, il Segretario di Stato Clinton ed altri Ministri degli esteri della NATO (Canada, Inghilterra e Francia) hanno incontrato il loro omologo afgano Rangin Dadfar Spanta, ma mi risulta che non fosse presente il Ministro degli esteri italiano. Mi piacerebbe conoscere una sua valutazione al riguardo.

FRANCO FRATTINI, Ministro degli affari esteri. Era presente!

FABIO EVANGELISTI. E allora faccia sentire meglio la sua voce, ministro, perché non mi è riuscito di trovarla.
La Conferenza internazionale sull'Afghanistan, di cui lei anche oggi ha ricordato la necessità, l'urgenza, l'importanza e spesso ha rivendicato una sorta di primogenitura, è stata formalmente richiesta al Segretario generale delle Nazioni unite, Ban Ki-Moon, da Francia, Gran Bretagna e Germania, e l'Italia non è stata coinvolta. Anche a questo riguardo mi piacerebbe sapere la sua opinione.
Rivolgendosi a noi, ma forse, come si dice dalle nostre parti, ha parlato a suocera perché nuora intendesse, ha raccomandato di non tagliare i fondi per la cooperazione. Queste operazioni sona state però fatte dal suo collega Tremonti, mentre noi nell'Aula di Montecitorio ci siamo battuti perché potesse essere evitato il dimezzamento dei fondi della cooperazione.
Lei ha voluto ribadire l'esigenza di non parlare di exit strategy, per evitare di mettere a rischio la nostra presenza e il successo della missione. L'espressione «exit strategy» è stata utilizzata per la prima volta dal Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, a giugno-luglio di quest'anno. Forse, quindi, sarà proprio Barack Obama a mettere in discussione quel «se» che lei oggi non ha in agenda.
Desidero richiamare un aspetto positivo che ho colto nel suo approccio, laddove ha accennato alla necessità di ricalibrare il senso della presenza militare a favore di una maggiore sicurezza per le popolazioni, perché bombardando i matrimoni o qualunque adunata non abbiamo aiutato il processo di ricostruzione della democrazia, l'affermazione dei diritti civili in Afghanistan, e certamente non abbiamo contribuito alla stabilizzazione dell'intera area.
Svilupperemo però questo tema in un'altra occasione.

FERDINANDO ADORNATO. Signor Ministro, le chiediamo scusa ma anche il nostro gruppo deve aderire al «lodo Evangelisti» e quindi andare al più presto in Aula. In compenso, però, faremo contento il presidente perché utilizzeremo solo due minuti del tempo a nostra disposizione per rendere due dichiarazioni politiche.
La prima è una dichiarazione di pressoché totale condivisione del suo intervento e della sua relazione nella forma e nella sostanza, con due precisazioni. La prima precisazione riguarda la stabilizzazione dell'Afghanistan su cui pesano i motivi da lei elencati (polizia, esercito, territorio, corruzione), ma a proposito della quale gli alleati devono porsi anche


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un problema di ridefinizione della classe politica dirigente, in quanto nessuno dei candidati alle elezioni si poneva il problema, da noi affrontato, di un Governo che rappresenti tutte le istanze presenti sul territorio. Nessuno dei candidati aveva questo obiettivo, aspetto per noi sorprendente, laddove le indicazioni politiche provenienti anche dalla coalizione militare andavano in quella direzione.
Per quanto concerne la seconda precisazione, apprezziamo il suo appello al Parlamento per non diminuire le risorse necessarie al nostro contingente in Afghanistan, ma dovrebbe rivolgere questo appello al Governo e segnatamente al Ministro Tremonti. Condivido la sua perorazione e ritengo che lei debba vincere questa battaglia all'interno del Governo con l'aiuto delle forze parlamentari che sono d'accordo.
Vengo alla seconda dichiarazione politica. Auspichiamo che la maggioranza da lei rappresentata la segua lungo la linea che lei ha descritto e che noi condividiamo totalmente. Si tratta di un punto politicamente importante, che evidenziamo con serenità, non per aprire contrapposizioni, con la forza e con il peso di una dichiarazione politica di rilievo, perché non è vero che nella maggioranza nessuno ha pronunciato quel «se», che lei ha giustamente escluso all'inizio della sua relazione: quel «se» è stato pronunciato e non si è discusso solo del «come».
Questo - non è retorica - indebolisce i nostri soldati al fronte, così come anche rappresentare un'opposizione che, anziché essere descritta come unitariamente coinvolta nella missione che portiamo avanti in Afghanistan, viene descritta, non da una persona qualsiasi ma dal Presidente del Consiglio, come tesa a isolare i nostri soldati. La parola opposizione non è fraintendibile: si tratta dell'opposizione parlamentare, mentre, come ha ricordato il Capo dello Stato, di quanto circola nei mille meandri della società italiana non mette conto riferire. Il problema, dunque, è molto importante.
La seconda dichiarazione politica che vorremmo consegnarle è l'auspicio che si ponga fine a un clima in cui la stessa maggioranza, anche per bocca del Presidente del Consiglio, metta in discussione quello che consideriamo un bene di patria, un bene comune, un bene della nostra missione internazionale.

ANTONELLO CABRAS. Ovviamente, non ripeto le considerazioni politiche espresse dall'onorevole Fassino, che condivido, in particolare quelle rivolte al Presidente del Consiglio. Desidero però ribadire al Ministro degli esteri l'esigenza che, poiché raramente dall'inizio di questa legislatura abbiamo trovato posizioni di netta contrapposizione sui temi che stiamo trattando, non solo nel linguaggio, ma anche nella sostanza, il Capo del Governo tenesse conto in tutte le sue esternazioni della rappresentazione esterna della dialettica parlamentare.
Riconosciamo quasi unanimemente come il tema sia discutere non del «se», ma del «come», sul quale per iniziativa del Governo sarebbe opportuno aprire rapidamente una discussione in Parlamento, avendo di fronte una proposta del Governo concernente le risorse e la qualità della presenza militare italiana nell'ambito del contingente ISAF. È infatti difficile ignorare come questo cambio di strategia, cui accennava anche l'onorevole Boniver, paradossalmente richieda più militari per fare meno guerra.
Se il cambio di strategia richiede più militari per fare meno guerra - sintetizzo così - anche noi che siamo il terzo contributore della NATO saremo chiamati a esprimere una nostra posizione. Ritengo che noi dovremo arrivare preparati a questo momento, perché non c'è dubbio che le massime cariche istituzionali - il Presidente della Repubblica primo fra tutti - si sono espresse chiaramente, ma sarebbe sbagliato ignorare come nell'opinione pubblica italiana, con l'aumentare del rischio, s'insinui una titubanza o comunque un interrogativo sui risultati raggiunti dalla missione ISAF nel suo complesso, e in particolare dalla missione italiana.
Poiché vogliamo che questi interrogativi abbiano una risposta, dobbiamo prepararci


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al momento in cui saremo chiamati ad affrontare questo tema della modifica della qualità della nostra presenza nella missione, in modo che questo sia frutto di una discussione che coinvolga tutte le forze politiche di maggioranza e di opposizione. Considero questo il modo corretto per discutere del «come» e soprattutto per introdurre il tema dei tempi della conclusione della missione, affinché siano realisticamente agganciati ai mutamenti determinatisi, che lei ha ricordato.
Dall'inizio della missione, infatti, il contesto sia internazionale che interno all'Afghanistan è profondamente cambiato. Sono mutati l'amministrazione americana, i rapporti nell'area regionale, laddove l'Iraq è uscito dalle priorità delle forze internazionali che sono impegnate. Inoltre nessuno discute che la sede multilaterale prenda le decisioni, fatto non scontato quando questa missione è iniziata.
Rivolgiamo dunque al Governo un invito a entrare più nel merito del «come», aprendo anche una discussione in Parlamento sulle decisioni che conclusivamente saremo chiamati ad assumere.

GIORGIO LA MALFA. Farò alcune brevissime osservazioni. Ho innanzitutto molto apprezzato la fermezza e la chiarezza con la quale il Ministro degli esteri ha ribadito che l'Italia mantiene ferma la sua azione in Afghanistan, non esiste una exit strategy, non ci sono «se» o «ma» rispetto a questi problemi.
Credo che oltre il 90 per cento del Parlamento italiano sottoscriva questa dichiarazione. È importante che sia sottoscritta anche dall'intero Governo e dall'intera maggioranza, oltre che da gran parte dell'opposizione. Ovviamente, mi annovero fra quelli che la sottoscrivono.
Il ministro illustra con grande chiarezza e con grande efficacia le quattro ragioni di fondo dell'interesse italiano e internazionale nel risolvere positivamente la situazione in Afghanistan. Ha infatti parlato dei rapporti della NATO e di problemi di ogni genere, che l'aggravarsi o la non soluzione della situazione in Afghanistan porterebbe alla luce. Queste ragioni sono convincenti.
Sfortunatamente, però, quando il Ministro illustra il cambiamento di impostazione, quella che egli chiama la «strategia della transizione», qui entriamo in un terreno assolutamente insoddisfacente rispetto all'impostazione netta e chiara con la quale egli ha affrontato i problemi.
Capisco che questioni di natura così delicata i Governi preferiscano trattarle fra di loro, nelle sedi riservate. Tuttavia, come diceva ora il senatore Cabras, se il Parlamento, che condivide largamente l'impostazione del Governo, non è chiamato a entrare un po' più nel merito di affermazioni così generiche, come «dobbiamo vincere i cuori e le menti degli afgani», «dobbiamo spostare l'attenzione dalla sicurezza del territorio alla sicurezza degli afgani», il dubbio che viene a chi sostiene profondamente questa missione - come chi vi parla - è che noi stiamo preparando non il successo, ma la sconfitta.
Insomma, noi non abbiamo alcuna certezza che ci sia oggi sul terreno una strategia che possa portare alla conclusione di questa storia, ossia a uscirne avendo preservato quegli obiettivi che sono condivisi dal 90 per cento del Parlamento.
Su questo, pur comprendendo la sua riservatezza, noi abbiamo il dovere di incalzare il Governo e chiedere maggiori elementi.

MARCO PERDUCA. Parto da questa ultima considerazione dell'onorevole La Malfa, dal momento che in effetti sono stati identificati dei temi, sempre più complessi e magari intricati tra loro, ma le proposte di risposta vanno approfondite. Quando si inizia a parlare della necessità di coinvolgere i partner regionali in una conferenza di stabilizzazione e - si spera - di transizione verso la pace e la democrazia, in un contesto in cui, come dice l'onorevole Boniver, c'è un vuoto politico, io mi preoccupo.
Ho in mente altre due conferenze che potrebbero essere in qualche modo recuperate


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alla memoria. La prima, quella di Dayton, poiché Holbrooke è uno degli emissari del Presidente Obama che sta cercando di considerare un nuovo approccio relativamente alla regione Afghanistan-Pakistan. In quel caso, erano presenti dei presidenti di Repubbliche in guerra tra loro, in via di secessione, ma che avevano più o meno una storia, una tradizione e anche un minimo di rappresentatività e di legittimità popolare. La seconda è quella che lei, signor ministro, l'anno scorso sbandierava come un grande successo: la Conferenza di Doha per il Libano. Anche in quel caso, i partner che erano stati convocati per trovare una soluzione avevano un minimo di legittimità popolare, tuttavia il risultato di quell'incontro ha palesato la sua inconsistenza, non già perché sia stato svolto male il lavoro di convocare intorno a un tavolo gli attori, ma perché gli attori in quanto tali non rappresentavano altri che se stessi.
A mio avviso, non c'è un'analisi sufficientemente approfondita di chi siano i talebani e di cosa in effetti possano rappresentare, quando convocati in un tavolo della pace. Se si mettono insieme questa mancanza di rappresentatività e il vuoto politico e istituzionale dell'Afghanistan, tutto può venir fuori tranne che la pace.
Concludo con un ulteriore richiamo alla nostra memoria, con la speranza che la goccia a un certo punto inizi a scavare la roccia, considerato che anche il generale McChrystal non dico che abbia affrontato questa questione in maniera radicale, come sarebbe stato auspicabile, ma ha spostato l'attenzione dal militare al civile. Si continua a parlare dell'Afghanistan e della necessità di uno sviluppo, una volta guadagnata la stabilità, senza prendere in considerazione il fatto che la metà di quell'economia resta basata sull'oppio e sul papavero. È un'economia in mano a quelli che finanziano non soltanto i talebani o presunti tali, ma le mafie di tutti e sei gli Stati che circondano l'Afghanistan e che noi vorremmo convocare intorno a un tavolo.
Nel prosieguo dei nostri incontri e dei ragionamenti circa l'Afghanistan e le possibili vie d'uscita, considerato che siamo tornati finalmente e fortunatamente nel multilaterale, un approccio diverso su questo tema è possibile.
Un'ultima domanda, che avevo già posto a maggio, ma la risposta fu un po' elusiva. Non si parla mai della Cina, che credo in questo contesto abbia iniziato a pesare molto più del Pakistan, non perché ospiti basi talebane o di Al Qaeda, ma perché rimane l'altra gamba della potenza mondiale che oggi si chiama G2.

LUIGI COMPAGNA. Signor presidente, intervengo molto rapidamente per chiedere al ministro di riprendere la tematica che gli hanno suggerito il senatore Cabras e l'onorevole La Malfa a proposito del «come», ovviamente non per abbattere il muro di una riservatezza nei confronti della quale giustamente l'amico La Malfa ha espresso apprezzamento.
Siccome più volte, nelle sue considerazioni, si è affacciato il Rapporto del generale McChrystal e siccome nei giorni scorsi sulla stampa e nell'opinione pubblica americana sono state date alcune interpretazioni, mi sembra di un certo interesse che questa mattina su Le Figaro il Comandante generale della NATO riprenda il Rapporto con molta serietà, inserendo una serie di implicazioni quantitative, in numero di uomini per i Paesi alleati, che in questa riunione congiunta meritano a pieno titolo qualche considerazione, se lei riterrà di poterne fare.

ARTURO MARIO LUIGI PARISI. Non intervengo sulla relazione, se non per dire che nell'insieme, sia per quello che riguarda le motivazioni, sia per quello che riguarda le indicazioni, è difficile non condividerla. Naturalmente la si deve considerare solo l'avvio di un discorso, dal momento che oggi abbiamo affrontato il problema del «se», mentre sul «come» resta ancora molto da dire. Aggiungo che questo «molto» non può che essere affrontato con un approccio il più largo e aperto possibile, poiché noi dobbiamo approdare a una decisione formalmente compiuta, ma abbiamo ancora più bisogno di una condivisione. In altre parole,


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abbiamo bisogno che le nostre decisioni su questo tema mettano radice tra la gente, e questo è possibile soltanto attraverso un confronto parlamentare che ci coinvolga tutti.
Mi permetto, ora, di esprimere considerazioni circoscritte. La prima, in realtà, è quasi per fatto personale: personalmente sono stato chiamato in causa, recentemente, come uno degli interlocutori che più hanno condiviso, in nome di una recente responsabilità istituzionale, le preoccupazioni e il punto di vista del Governo. Questo mi costringe a riproporre il tema che è stato ricordato da alcuni interventi precedenti.
Raccogliendo l'invito del Ministro Frattini, in una dichiarazione pubblica, a far appello alla capacità di indignazione, debbo esprimere la mia indignazione per quello che è successo, non solo per le chiarissime parole che il Presidente Berlusconi ha pronunciato due giorni fa di fronte all'intero Paese, a Milano, ma anche per le stesse parole che il Ministro Frattini ha rinnovato nel corso di questi due giorni. Mi limito a citare semplicemente i titoli delle agenzie: «Frattini: leader PD fanno ridere i polli»; «L'opposizione si indigni come si è indignato il premier», quasi a segnalare una nostra inadeguata indignazione per questo episodio, una volta che è stato ricondotto a fatto parziale.
Mi consenta il ministro di dire che ciò non è accettabile in alcun modo. Personalmente ritengo che a questo strappo debba mettere riparo il Presidente in prima persona. Voglio rinnovare questo invito in una sede istituzionale, perché un limite che non ci possiamo permettere è quello del bilinguismo, di un discorso che si svolge tra la gente con il cuore e, viceversa, fa appello alla ragione nelle sedi istituzionali. Noi avremmo bisogno esattamente dell'opposto: più cuore nelle sedi istituzionali e più ragione tra la gente.
Non solo il Presidente del Consiglio, ma anche il Ministro Bossi - lo dico con tutto il rispetto che ci dobbiamo reciprocamente - si è lasciato andare, in tempi recenti, troppo spesso alle ragioni del cuore. Noi sappiamo che, parlando con il cuore in mano, intercettiamo il cuore dei nostri concittadini, che ci chiedono di ritirarci semplicemente dall'Afghanistan. È solo in nome della ragione e delle motivazioni che lei ha indicato, anche analiticamente, che noi possiamo fare appello alla loro responsabilità.
Un secondo punto che intendo sottolineare è quello delle elezioni. Come lei ha detto benissimo, noi attendiamo che le elezioni proclamino un vincitore credibile. Io prendo alla lettera la sua affermazione. Non ci possiamo permettere un vincitore che non ha una credibilità sufficiente.
Come lei, ho salutato e ho condiviso l'idea che il semplice svolgimento delle elezioni rappresenti un successo per tutti e per la costruzione dello Stato afgano. Se, però, le elezioni si concludessero con un risultato non creduto, perché non credibile, noi le trasformeremmo in uno spot gigantesco contro di noi.
Noi abbiamo bisogno di un risultato credibile, sul quale fondare la legittimazione e la legittimità del Governo afgano, perché lo stesso sia l'attore principale di quelle interlocuzioni a cui noi facciamo appello. Molto spesso immaginiamo queste interlocuzioni in termini che scavalcano il Governo afgano, come se riguardassero direttamente la comunità internazionale, dimenticando l'effetto di delegittimazione di questo modo di procedere.
Perciò, nel rinnovare l'indignazione per l'incapacità - chiamiamola così - di governare il cuore e le viscere, mi permetto di fare appello al Governo e, attraverso lei, al confronto che si apre nelle sedi che i Governi si riservano, perché la credibilità del risultato corrisponda al termine che questo concetto evoca.

FIAMMA NIRENSTEIN. A fronte di considerazioni, anche di carattere generale, che ho ascoltato, vorrei dire invece che sono stata estremamente soddisfatta del modo in cui si è comportata la nostra delegazione all'ONU. Mi riferisco al fatto che essa, insieme alle delegazioni di Germania, Inghilterra, Francia e Danimarca, è uscita durante il discorso di Ahmadinejad,


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mentre la presidenza attuale dell'Unione europea, ad esempio, ha deciso di restare, ritenendo che le «linee rosse» prestabilite non fossero state superate. Questo atteggiamento della nostra delegazione merita la nostra attenzione e il nostro apprezzamento, che io intendo qui manifestare, in sede istituzionale.
Esprimo, altresì, il mio apprezzamento per la relazione che ha voluto offrirci il ministro. Ciò che mi ha più convinto è l'idea di necessità che il ministro ha attribuito alla nostra presenza in Afghanistan. Credo che questo sia un modo di porre la questione che lascia spazio alla discussione sul «come», che è stata posta qui da alcuni colleghi, ma non sulla sostanza della nostra presenza.
Basti pensare all'attentato che si stava preparando a New York, che ripercorre pari pari le tracce di quello che è successo a Londra, a Madrid e a Mumbai. Lì è l'origine di ciò che ci minaccia, quindi non può essere sottovalutato. Il jihadismo in questo momento ha un suo dispiegamento internazionale estremamente importante e chi lo sottovaluta compie un errore di cui potremmo pentirci amaramente.
Un secondo elemento che intendo sottolineare è stato portato alla mia attenzione, durante la riunione che abbiamo tenuto in Svezia - era presente anche il presidente Dini - in occasione della presidenza di turno svedese dell'Unione europea, dall'ambasciatore Sequi, che mi ha mostrato alcuni articoli di giornale. L'ambasciatore Sequi sottolineava la presenza di un elemento basilare rispetto al «come»: l'interlocutore. Onorevole Fassino, è vero che la pace si fa con il nemico, ma è anche vero che si è in due a ballare il tango. Insomma, la pace si fa con chi la vuole fare. Ebbene, nel mezzo di queste tribù talebane, con alcuni gruppi con i quali si cerca di trovare un rapporto e una prospettiva comune è difficile - se non impossibile, a causa delle motivazioni ideologiche persistenti e permeanti che li caratterizzano - instaurare qualsivoglia dialogo.
La questione delle donne, che lei giustamente sollevava, non è trattabile, e lo abbiamo visto. Anche nel momento in cui viene inserito nella Costituzione un punto che riguarda direttamente le donne, essa viene violata con accordi che la sovrastano e la scavalcano perché è più forte l'ideologia di quanto non lo sia l'interesse politico. Si tratta di un elemento che dobbiamo tenere ben presente.
Quando ci domandiamo «come», abbiamo cercato una risposta in tanti modi: si pensi all'idea del surge, per esempio, un'idea di presenza sul territorio, che però non ci consente di scavalcare l'elemento ideologico fondamentale che nel corso di questa guerra ci si presenta davanti e che ce la propone costantemente nella maniera più semplice, ovvero, appunto, come una guerra. La conquista del cuore e delle menti, secondo me, Ministro, è possibile fino a un certo punto: quando stabiliamo il «come», dobbiamo tenere conto di questo fatto e sapere che siamo in una guerra.

PAOLO CORSINI. Signor presidente, intervengo sull'ordine dei lavori semplicemente per capire come lei intende proseguire il dibattito, in quale occasione e in che sede.

PRESIDENTE. Comunico che le votazioni in Aula inizieranno tra dieci minuti. Utilizziamo questo tempo per la replica e alla prossima riunione i primi a intervenire saranno, nell'ordine, gli onorevoli Corsini e Pianetta, che non sono potuti intervenire nella seduta odierna.
Do la parola al Ministro Frattini per la replica.

FRANCO FRATTINI, Ministro degli affari esteri. Sarò telegrafico anche io, malgrado l'importanza dei temi trattati richiederebbe più tempo. Sono grato a tutti i colleghi che sono intervenuti, e ringrazio per tutte le riflessioni, dalla prima, dell'onorevole Fassino, all'ultima, dell'onorevole Nirenstein.
Molti colleghi hanno affrontato il tema del «come». Cominciamo ad affrontarlo anche noi: con l'Unione europea, la NATO e il G8 siamo all'inizio di una discussione che si dovrà concludere, credo, quando


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presenteremo - io spero direttamente a Kabul - la nostra proposta di strategia complessiva di nuovo compact per l'Afghanistan. È ovvio che allora saranno chiari i particolari e, prima di quella data, è ovvia sin d'ora la mia disponibilità a illustrare al Parlamento le linee di tale «come». Annuncio solo i titoli su cui stiamo discutendo: nomina dei ministri e governatori immuni dalla corruzione e dalla criminalità; sradicamento della corruzione interna; formazione della polizia e dell'esercito, con un raddoppio potenziale del numero degli effettivi, attualmente assolutamente inidonei numericamente a controllare il territorio; agricoltura, con finanziamenti non più per la mera distruzione dei campi di oppio, ma per le colture alternative (finora si è sempre distrutta la coltivazione e i contadini disperati vengono reclutati dai talebani, mentre adesso i finanziamenti saranno rivolti alle colture alternative); programma triennale di infrastrutture; funzionamento dei tribunali, con formazione e aggiornamento dei magistrati alle regole costituzionali che, come ha detto l'onorevole Nirenstein, esistono ma non vengono applicate, perché la mente dei giudici deve essere cambiata attraverso la formazione; dialogo con i talebani disponibili; infine, coinvolgimento dei Paesi della regione, compresa la Cina, per rispondere al senatore Perduca.
Dopo questi obiettivi, che dovremo definire, verranno i numeri. Non potremo dire se occorrono 20 o 30 mila uomini in più finché non avremo definito gli obiettivi e i tempi, perché, come è stato detto da qualcuno, la sicurezza serve oggi per fare meno guerra e realizzare più obiettivi. Tutto è funzionale a questi.
Svolgo una riflessione su un punto estremamente importante citato dall'onorevole Fassino: il nostro compact, come noi lo vediamo, non sarà solo un patto internazionale tra i Paesi impegnati in Afghanistan e il Governo dell'Afghanistan, ma sarà, anzitutto, un patto tra il Governo e gli afgani. Quello che finora è mancato è un impegno solenne e monitorabile del Governo afgano verso il suo popolo. Noi saremo garanti in questo compact, non saremo i contraenti di un contratto internazionale. In questa maniera potremo chiedere i tempi, gli obiettivi, la road map, proprio perché sorveglieremo e monitoreremo, ma non ci sostituiremo.
La responsabilità di governo - dove andrebbe a finire, altrimenti, l'ownership? - dev'essere, appunto, responsabilità del Governo.
L'onorevole Parisi ha parlato di credibilità. Ebbene, essa è la precondizione perché tutto accada: credibilità del Governo, dei ministri e delle istituzioni.
Infine, poiché la linea illustrata dal Governo è largamente condivisa, do la piena disponibilità a riferire periodicamente sull'evoluzione del dibattito. Tra un mese verrà definita la policy europea, mentre quella della NATO sarà da definire entro il vertice che si terrà il 2 dicembre a Bruxelles. Ovviamente, sono disponibile a tenere aggiornato il Parlamento.

PRESIDENTE. Ringrazio il signor Ministro e i colleghi presenti.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 14,25.

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