Camera dei deputati

Vai al contenuto

Sezione di navigazione

Menu di ausilio alla navigazione

Cerca nel sito

MENU DI NAVIGAZIONE PRINCIPALE

Vai al contenuto

Per visualizzare il contenuto multimediale è necessario installare il Flash Player Adobe e abilitare il javascript

Strumento di esplorazione della sezione Lavori Digitando almeno un carattere nel campo si ottengono uno o più risultati con relativo collegamento, il tempo di risposta dipende dal numero dei risultati trovati e dal processore e navigatore in uso.

salta l'esplora

Resoconti stenografici delle audizioni

Torna all'elenco delle sedute
Commissione III
7.
Martedì 24 febbraio 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

La Malfa Giorgio, Presidente ... 3

Audizione del rappresentante permanente d'Italia presso l'Unione europea, ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, sugli aspetti principali e le scelte di base della PESC (ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento):

La Malfa Giorgio, Presidente ... 3 8 9 13 14 15
Barbi Mario (PD) ... 9
Corsini Paolo (PD) ... 13
Mecacci Matteo (PD) ... 12
Nelli Feroci Ferdinando, Rappresentante permanente d'Italia presso l'Unione europea ... 3 8 9 10 11 13 14
Pianetta Enrico (PdL) ... 11
Tempestini Francesco (PD) ... 9
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-Repubblicani: Misto-LD-R.

COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI
Comitato permanente sulla politica estera dell'Unione Europea

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di martedì 24 febbraio 2009


Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DEL COMITATO GIORGIO LA MALFA

La seduta comincia alle 10,05.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del rappresentante permanente d'Italia presso l'Unione europea, ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, sugli aspetti principali e le scelte di base della PESC.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento, l'audizione del rappresentante permanente d'Italia presso l'Unione europea, ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, sugli aspetti principali e le scelte di base della PESC.
Oggi, si riunisce per la prima volta il Comitato permanente della Commissione affari esteri sulla politica estera dell'Unione europea e abbiamo il piacere di ascoltare l'ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci. Il tema della sua esposizione riguarda la formazione della politica estera dell'Unione europea, di cui l'ambasciatore Nelli Feroci è esperto in quanto in passato responsabile della politica europea presso il Ministero degli affari esteri e adesso rappresentante permanente d'Italia presso l'Unione europea. Si tratta di uno dei migliori diplomatici del nostro Paese, dunque è un grande piacere averlo nostro ospite.
Do quindi la parola all'ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci.

FERDINANDO NELLI FEROCI, Rappresentante permanente d'Italia presso l'Unione europea. La ringrazio, signor presidente, per le parole lusinghiere e amichevoli che ha usato nei miei confronti e soprattutto per questo invito. Non avevo capito che questa fosse la prima riunione del Comitato, per cui mi sento particolarmente onorato di essere stato invitato in tale occasione. So che la giornata e l'orario non sono dei migliori per altri impegni in Aula, ma purtroppo mi era difficile spostare questo appuntamento a domani, come forse sarebbe stato meglio per il Comitato. Comunque, avremo forse altre occasioni.
Desidero articolare la mia esposizione cercando di essere sintetico ed eventualmente suscitare quesiti e curiosità, accennando alla congiuntura in cui si trova oggi l'Unione europea, anche per capire come il complesso di crisi che si sono accavallate abbia influito sul modus operandi dell'Unione europea in politica estera, per poi esaminare molto rapidamente le quattro o cinque aree tematiche o crisi regionali, sulle quali vengono messe più direttamente alla prova la capacità e la credibilità dell'Unione europea di esprimersi con una sola voce e di essere protagonista sulla scena internazionale.
In seguito all'esito negativo del referendum in Irlanda nel maggio dello scorso anno, l'Unione europea è ancora immersa in una crisi istituzionale, da cui sta forse faticosamente uscendo, ma con un esito non ancora garantito.


Pag. 4


Vorrei rapidamente accennare alle soluzioni individuate nel Consiglio europeo dello scorso dicembre per uscire da questa crisi istituzionale e per consentire al Governo irlandese di sottoporre nuovamente al proprio elettorato il Trattato di Lisbona, e valutare i rischi che incombono sull'assetto istituzionale dell'Unione europea nei prossimi mesi come conseguenza della situazione di incertezza che caratterizza le prospettive di entrata in vigore del Trattato, con una decisione che ha costituito una forzatura ma che era l'unico modo per convincere il Governo di Dublino a riproporre a referendum il Trattato. Si è deciso infatti di consentire all'Irlanda di avere alcune garanzie «giuridiche» su temi di particolare sensibilità per l'elettorato irlandese.
Tali questioni non dovrebbero incidere nella sostanza delle disposizioni del Trattato, ma, una volta definito questo pacchetto, costituiranno ulteriori opt-out, soluzioni non molto dissimili da quelle un tempo disegnate per la Danimarca, che dovrebbero dare rassicurazioni su tre categorie di temi che l'elettorato irlandese ha considerato particolarmente sensibili: la neutralità irlandese, la fiscalità diretta, i temi etici (famiglia, diritto alla vita). A giugno, su questi si dovrebbero concordare dichiarazioni politiche, che, dopo l'auspicabile approvazione del Trattato, si tradurranno in altrettanti protocolli giuridicamente vincolanti, che consentiranno di sancire il principio secondo cui il nuovo Trattato non inciderà sulla sovranità irlandese su queste tre grandi categorie di temi.
Un altro aspetto fortemente voluto dall'Irlanda incide più direttamente sul tessuto istituzionale dell'Unione europea: l'impegno politico a mantenere dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona la composizione della Commissione basata sul principio di un Commissario per Stato membro. Questo protocollo è destinato più di altri a costituire una forzatura dello spirito del Trattato di Lisbona, ma è parso un rimedio inevitabile perché l'Irlanda tornasse a votare il Trattato.
Sotto il profilo della sequenza di eventi previsti nei prossimi mesi, andiamo indubbiamente incontro a un periodo di incertezza, perché ci si avvia alle elezioni del Parlamento europeo in una non chiara situazione di quadro di riferimento istituzionale e di trattati vigenti. Questo dato sarà destinato a incidere sulle campagne elettorali, in particolare in alcuni Paesi, con il rischio di dare spazio e maggiore visibilità a forze politiche più marcatamente euroscettiche. Si deve eleggere un Parlamento europeo sulla base dei numeri dei trattati vigenti, ovvero 736 membri anziché i 751 previsti dal Trattato di Lisbona. C'è il rischio di dover iniziare la procedura di designazione della prossima Commissione in una situazione di incertezza sul numero dei Commissari.
Il Consiglio europeo di dicembre ha sancito il principio secondo cui la procedura di designazione della Commissione sarà aperta indicando il nome del prossimo Presidente della Commissione prima di chiarire il quadro entro cui la Commissione opererà, ovvero la sua composizione. Questo è un punto molto delicato, perché oggi a trattati vigenti saremmo tenuti a ridurre il numero dei Commissari, mentre il Trattato di Lisbona ci consente fin dal giorno della sua entrata in vigore di mantenere un numero di Commissari pari a quello degli Stati membri. Qualora non entrasse però in vigore il Trattato di Lisbona, avremmo l'obbligo giuridico di ridurre il numero dei Commissari.
Probabilmente, il giorno dopo l'elezione del Parlamento europeo dovremo muoverci in un quadro di incertezza rispetto al riferimento istituzionale, avendo designato un Presidente della Commissione senza avere chiara la composizione della Commissione.
Per quanto riguarda le modalità di elaborazione, gestione e attuazione della politica estera, il Trattato di Lisbona non comporta sconvolgenti novità per quanto riguarda il settore della politica estera e della sicurezza. La politica estera continua infatti a mantenere una fisionomia caratteristica, diversa dalle politiche comuni, così come continua a non applicarsi pienamente


Pag. 5

il metodo comunitario e a vigere il principio dell'unanimità, salvo rare eccezioni.
Le uniche due novità di rilievo introdotte dal Trattato di Lisbona sono la creazione della figura che avrebbe dovuto definirsi «Ministro degli esteri», ma per motivi di compromesso politico ha continuato a chiamarsi «Alto rappresentante», che però avrà le caratteristiche di Alto rappresentante per la politica estera, quindi sintesi del Consiglio in materia di relazioni esterne, ma anche di vicepresidente della Commissione, e la creazione di un servizio diplomatico comune denominato nel Trattato «servizio comune per l'azione esterna». Questo dovrebbe risultare dalla fusione di contributi di uomini e di strutture forniti dalla Commissione, dal segretariato del Consiglio e dagli Stati membri. Si tratta quindi di una struttura tripartita nella composizione, a disposizione dell'Alto rappresentante per consentirgli di far fronte alle sue responsabilità. Ad essa faranno capo in maniera più coordinata e integrata l'elaborazione e la gestione della politica estera dell'Unione, ricomprendendo sotto la sua responsabilità sia la politica estera finora direttamente gestita dal Consiglio e dalla Presidenza di turno, sia le relazioni esterne, termine con il quale tradizionalmente ci si riferisce alle responsabilità proprie della Commissione.
Quando il Trattato di Lisbona entrerà in vigore, questa novità istituzionale dovrà confrontarsi con un'altra figura che si verrà a inserire nel tessuto dell'Unione, ovvero quella del Presidente del Consiglio europeo eletto e quindi stabile per un periodo di due anni e mezzo, rinnovabili fino a un massimo di altri due anni e mezzo.
Il rapporto che si potrà realizzare tra queste figure e tra queste due figure e quella del Presidente della Commissione rappresenta ancora un grande punto interrogativo. Tale nodo sarà sciolto dalla personalità o dal rapporto fra personalità che verrà stabilito tra queste alte cariche, quando il Trattato di Lisbona sarà auspicabilmente entrato in vigore.
Ci chiediamo cosa sia successo nel frattempo. Sono a Bruxelles dalla fine di giugno e ho assistito a uno dei periodi più tumultuosi e difficili della vita dell'Unione. Alla crisi istituzionale, risultato della sconfitta del referendum irlandese, hanno fatto seguito la gravissima crisi di agosto in Georgia sul fronte delle relazioni internazionali e immediatamente dopo la crisi finanziaria, successivamente seguita dalla crisi dell'economia reale. Si sono quindi susseguiti eventi esterni che hanno messo a dura prova una Unione già afflitta dalla debolezza intrinseca delle sue più importanti istituzioni.
A tale indebolimento strutturale delle istituzioni si è risposto con una presidenza molto forte, talora addirittura ipertrofica, iperdinamica, molto propositiva, quella francese, che nel corso dei sei mesi del secondo semestre del 2008 ha certamente supplito ad alcune carenze del funzionamento dell'apparato istituzionale, cui ha fatto seguito però, in una situazione più confusa, una presidenza più debole, come quella attuale. Tale andamento a corrente alternata ha clamorosamente evidenziato le carenze e le debolezze dell'assetto istituzionale dell'Unione nel campo della politica estera, ma anche delle altre situazioni di emergenza, che l'Unione ha dovuto fronteggiare in questi ultimi mesi. Si è quindi andato consolidando un dato destinato a influenzare largamente il modus operandi dell'Unione, ovvero il formarsi di gruppi più o meno strutturati e informali, che prendono in carica specifici dossier. Tali gruppi si formano sulla base di interessi nazionali, che portano i Paesi membri a coagularsi attorno a una issue, a una situazione di crisi, a un'area geografica. La debolezza delle istituzioni, corroborata dalle evidenze degli ultimi mesi, ha consolidato il ricorso a questi gruppi informali definiti con varie terminologie o addirittura non identificati, che assumono un ruolo di guida su specifiche questioni, issue, aree regionali.
Il gruppo cosiddetto Quint, che comprende gli Stati Uniti e i quattro maggiori membri dell'Unione europea, è da anni particolarmente dinamico per quanto riguarda


Pag. 6

i Balcani e nella transizione verso l'indipendenza del Kosovo. Un gruppo informale di tre grandi Paesi membri, di cui questa volta non fa parte l'Italia, ha assunto una responsabilità diretta nella gestione del dossier Iran, in particolare del dossier nucleare iraniano. Un altro gruppo di Paesi è particolarmente attivo nel sostenere il rafforzamento del partenariato orientale, un gruppo di Paesi che dalla Svezia scende giù lungo la Polonia passando attraverso i Baltici, chiaramente individuato nelle dinamiche del Consiglio.
Si intuisce quindi il diffondersi di questi gruppi informali che si fanno carico più direttamente del resto della membership di seguire, proporre, lanciare iniziative. Questo non è un fenomeno in sé negativo, laddove in una Unione composta di 27 Stati membri l'interesse dei singoli si diversifica a seconda delle aree di crisi, delle issue. Difficilmente, infatti, i Paesi Baltici potrebbero nutrire profondi interessi nei confronti della crisi mediorientale, mentre probabilmente il Portogallo potrebbe avere un interesse limitato nei confronti dei Balcani ed è normale che i Paesi dell'Europa meridionale siano più attivi nello stimolare maggiori successi nel partenariato euromediterraneo.
Questo funziona nella misura in cui questi gruppi riescono a coagulare il consenso degli altri Paesi membri, trascinando in questa azione le istituzioni, in particolare la Commissione, mentre diventa un elemento di divisione e di paralisi quando attorno a questi gruppi si cristallizza un dissenso o diventa più difficile operare. Nel caso del rapporto con la Russia, infatti, a ridosso della crisi dell'agosto scorso in Georgia è apparso molto evidente come le particolari sensibilità di Paesi un tempo membri del Patto di Varsavia o addirittura dell'Unione Sovietica, che avevano quindi adottato nei confronti di Mosca un atteggiamento comprensibilmente ispirato da timori profondi e in parte motivati, rendessero molto difficile la definizione di una linea comune rispetto ad atteggiamenti di Paesi con minori sensibilità dirette nei confronti della Russia, più interessati a sviluppare un modello di partenariato organico di collaborazione.
Nella gestione quotidiana all'interno delle istituzioni, dobbiamo confrontarci con questa realtà, che può rivelarsi costruttiva e portare alla definizione di linee di azione coerenti o tradursi in paralisi e indebolimento dell'azione comune dell'Unione.
Vorrei rapidamente accennarvi ad alcune aree problematiche, sulle quali l'azione esterna dell'Unione si esercita quotidianamente. In questo momento, l'allargamento soffre di un'evidente crisi di consensi molto forte in Paesi quali Francia, Belgio e Paesi Bassi, che sta diventando evidente a ridosso della scadenza elettorale anche in Germania. Questo fenomeno dell'enlargement fatigue comporta un rallentamento cospicuo dei due unici negoziati di adesione in corso, quello con la Croazia e quello con la Turchia, che per motivi diversi stanno segnando il passo, e un allontanamento della prospettiva europea dei Balcani.
Questo è fonte di non poche preoccupazioni soprattutto per un Paese come l'Italia, che punta molto sull'integrazione dei Balcani come fattore di stabilità e di sviluppo in una regione che negli ultimi dieci-quindici anni ci ha causato numerosi problemi. Non è facile risolvere questa situazione. È necessario mantenere aperta una prospettiva credibile per questi Paesi, che funga da incentivo alla prosecuzione di un processo di riforma interna lungi dall'essere completato e alla soluzione di una serie di contenziosi bilaterali che ancora caratterizza il rapporto di questi Paesi, e che consenta di chiudere definitivamente il capitolo della guerra civile attraverso la piena collaborazione di tutti i Paesi della regione, compresa Serbia e Croazia, con il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, ma che al tempo stesso sconti la mancanza di una immediata prospettiva di adesione. Nella migliore delle ipotesi si tratterà infatti di un processo lungo, dai tempi oggi non prevedibili e definibili.


Pag. 7


Una strada stretta, che rischia di creare frustrazioni in questi Paesi e nelle loro leadership, alla quale si cerca di rispondere con l'adozione di misure concrete che possano non supplire, ma dare soddisfazione con strumenti diversi, quali la liberalizzazione dei visti. Entro quest'anno saremo chiamati a decidere un regime di liberalizzazione dei visti con i Paesi più maturi nella regione, la Macedonia e forse la Serbia, avendo constatato come non costituiscano più un rischio per l'immigrazione o per la gestione e il controllo di traffici e criminalità organizzata.
Al di là di questo aspetto, non abbiamo ancora individuato valide alternative da offrire alle leadership di questi Paesi per rispondere a una domanda d'Europa che in questo momento l'Europa non è in grado di soddisfare. Se vi interessa, posso anche darvi indicazioni più specifiche sui singoli Paesi.
A fronte di questo rallentamento del ritmo di avanzamento del rapporto con i Balcani occidentali, abbiamo assistito nei mesi scorsi, soprattutto come conseguenza della crisi in Georgia, alla forte spinta da parte di un gruppo di Paesi, quali Svezia, Polonia, Baltici, Europa centro-orientale, per un rafforzamento organico del rapporto con un gruppo di Paesi che noi identifichiamo come «i vicini orientali»: dalla Georgia e altri Paesi della regione del Caucaso all'Ucraina, alla Moldova e forse anche alla Bielorussia.
Stiamo esaminando e probabilmente nei prossimi mesi definiremo un pacchetto di iniziative destinate a rafforzare il rapporto con tali Paesi, considerati, in qualche modo, a rischio, perché internamente molto fragili. L'obiettivo è tenerli saldamente agganciati all'Europa, senza promettere una prospettiva di adesione che in questo momento non siamo in grado di garantire, ma cercando di sviluppare con loro forme di maggiore cooperazione. Accordi per la costituzione di aree di libero scambio, rafforzamento del dialogo politico, maggiore cooperazione economico-finanziaria, liberalizzazione dei visti sono gli assi su cui si dovrebbe articolare questo partenariato orientale.
Per quanto ci riguarda, pur sostenendo questa iniziativa, perseguiamo costantemente l'obiettivo di evitare discriminazioni nei riguardi dei nostri vicini meridionali sotto il profilo delle risorse finanziarie messe a disposizione di questa nuova politica verso i vicini orientali. Purtroppo, infatti, dobbiamo constatare come lo sforzo di avvio dell'Unione per il Mediterraneo, forse pasticciato ma generoso, compiuto dalla Presidenza francese non abbia dato i risultati sperati. Consideriamo prioritario mantenere un equilibrio nel rapporto tra l'Unione con i vicini orientali e con i vicini meridionali della sponda sud del Mediterraneo, pur nella consapevolezza della maggiore complessità di questa seconda categoria di Paesi, dimostrata anche dagli scarsi successi ottenuti prima dal partenariato euromediterraneo e attualmente dall'Unione per il Mediterraneo.
Desidero citare rapidamente tre regioni del mondo nelle quali l'Europa dovrà dimostrare la capacità di fare di più e meglio, anche come risposta a un'amministrazione americana che ci auguriamo possa significativamente modificare la propria linea e che chiede maggiore collaborazione e maggiore impegno da parte dell'Europa.
Questo vale in primis per l'Afghanistan, problema che ci riguarda tutti da vicino come comunità e in particolare come mondo occidentale. Il problema non richiede solo un aumento delle forze militari dispiegate sul terreno o una maggiore efficacia dello strumento militare; aspetto che però riguarda non l'Unione europea, ma eventualmente la NATO, che in Afghanistan ha il suo maggiore impegno, il teatro delle operazioni nelle quali si gioca la sua credibilità.
Per quanto riguarda l'Unione europea e i singoli Stati membri, è necessario ottenere risultati più soddisfacenti sull'altro volée della presenza della comunità internazionale in Afghanistan, che riguarda la creazione di uno Stato di diritto, di istituzioni credibili, di qualcosa che assomigli vagamente a una democrazia funzionante, e la lotta contro il narcotraffico, a partire da un aspetto essenziale della collaborazione


Pag. 8

con il Governo afghano, ovvero la creazione di forze di polizia credibili, in grado di garantire l'ordine pubblico e di compiere quel lavoro che la comunità internazionale non può e non deve svolgere.
L'amministrazione americana ha in parte già annunciato una modifica di linea annunciando un surge, un aumento della presenza militare, e sta completando questa famosa policy review in Afghanistan. Anche al riguardo, l'Unione europea s'impegna a lavorare insieme alla nuova amministrazione americana per ottenere risultati migliori in Afghanistan e un maggior coinvolgimento del Pakistan.
L'Iran è un'altra area difficile e delicata, sulla quale l'Unione è impegnata a fianco degli Stati Uniti. Stiamo aspettando di vedere come si orienterà la policy review dell'amministrazione Obama. Abbiamo indicazioni non confermate della volontà di avviare un dialogo diretto tra Washington e Teheran. Per ora abbiamo mantenuto la politica del doppio binario, ovvero l'applicazione rigorosa di sanzioni adottate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, insieme a una costante e ripetuta offerta di negoziato e di dialogo. Il mix di questa politica non ha però garantito risultati soddisfacenti, giacché l'ultimo rapporto dell'AIEA conferma che il processo di arricchimento dell'uranio continua a ritmi sostenuti e che oggi l'Iran potrebbe anche disporre della quantità sufficiente per costruire un primo ordigno nucleare. Ci sono in prospettiva elezioni e il quadro politico del Paese potrebbe cambiare. È importante che l'Unione resti saldamente compatta a fianco dell'amministrazione americana, per disinnescare quella che potrebbe diventare una delle crisi di maggiore impatto nei prossimi mesi.
Devo purtroppo riconoscere che il ruolo dell'Unione è stato costantemente modesto nella terza area, quella del processo di pace in Medio Oriente, ove forse più che per quanto riguarda l'Iran e l'Afghanistan appaiono decisivi le intenzioni e gli obiettivi dell'amministrazione americana. Siamo paralizzati dalla doppia incertezza relativa alla formazione del nuovo Governo in Israele e al blocco del processo di riconciliazione nazionale tra le fazioni palestinesi, due condizioni la cui soddisfazione è essenziale per una prospettiva di ripresa di un processo.
L'Europa si impegna a mettere a disposizione quanto necessario per garantire il successo di un processo, sul quale attualmente abbiamo però limitate capacità di influenza. In passato, avevamo disposto una missione di monitoraggio e osservazione del valico di Rafah e siamo pronti a riattivarla non appena se ne creeranno le condizioni. Suscitando reazioni molto negative da parte israeliana, avevamo manifestato la volontà di mettere a disposizione una forza di monitoraggio di eventuali accordi di pace. Tali iniziative possono essere messe a disposizione quando il processo ripartirà.
In questi mesi, molte altre questioni non di politica estera tradizionale stanno assumendo una dimensione e un impatto ancora maggiori, quali il tema estremamente urgente della sicurezza energetica, che ha inevitabilmente un volée di politica internazionale, o la collaborazione nel campo della lotta al cambiamento climatico, giacché ci avviamo alla scadenza del negoziato della Conferenza di Copenhagen, che si terrà a novembre di quest'anno, o uno straordinario lavorio diplomatico per definire una risposta comune alla crisi dei mercati finanziari e dell'economia reale. Ho solo accennato a questi temi, perché oggi la stessa accezione di politica estera si è dilatata a settori tradizionalmente non ricompresi sotto questa definizione.

PRESIDENTE. La ringrazio molto per il suo intervento, che forse, non avendo potuto trattare alcune tematiche, potrebbe integrare con un ulteriore documento da far pervenire successivamente al Comitato.

FERDINANDO NELLI FEROCI, Rappresentante permanente d'Italia presso l'Unione europea. Certamente.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.


Pag. 9

MARIO BARBI. Vorrei innanzitutto ringraziare l'ambasciatore per la rappresentazione purtroppo terribilmente realistica dello stato delle cose e quindi della distanza esistente tra le istituzioni di cui l'Unione europea avrebbe bisogno per svolgere la sua funzione e rispondere alle questioni poste e quelle di cui invece dispone.
Ci ha rappresentato le difficoltà in cui ci troviamo in attesa dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l'indebolimento progressivo delle istituzioni comunitarie, l'attesa, mi pare non esagerata, su quanto l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona possa cambiare nella politica estera di sicurezza comune; ci ha poi detto quanto ancora occorrerebbe fare.
Vorrei quindi sapere se, di fronte alla divaricazione crescente tra ciò che si dovrebbe e ciò che si può fare, ritenga possibile un'inversione di tendenza, un processo inverso volto a ridurre questa distanza. Da quando l'Unione ha scelto l'allargamento senza la riforma istituzionale, mi pare infatti che la situazione sia andata peggiorando.

PRESIDENTE. Preferirei, ambasciatore, che lei rispondesse di volta in volta, per rendere più serrato il dialogo.

FERDINANDO NELLI FEROCI, Rappresentante permanente d'Italia presso l'Unione europea. Va bene. Il problema posto dall'onorevole Barbi è molto delicato. Oggi, si avverte la sensazione che il progetto abbia smarrito la sua ragione d'essere. Ciò inevitabilmente si riflette anche nella gestione della politica estera, ma non solo.
Ritengo che si tratti di una crisi di crescita, ovvero che l'aumento del numero dei membri abbia inevitabilmente appesantito le procedure decisionali e ridotto il tasso di omogeneità tra i protagonisti dell'operazione. Dobbiamo riconoscere che quasi tutti i Paesi nuovi entrati sono stati mossi dalla difesa di interessi nazionali. I Paesi fondatori e forse i primi aderenti avevano partecipato a questo progetto con altre aspettative e con altre ottiche e questo si sente. Dobbiamo fare i conti con questa realtà, cui però il progetto si deve adattare. Ci troviamo in una fase di transizione aggravata da una crisi di leadership, laddove nei momenti di difficoltà la presenza di grandi leader nei quali identificare il progetto si rivela utile.
Ignoro quando sarà possibile ritrovare una velocità di crociera, tornare a momenti migliori, giacché la crisi dell'economia reale e dei mercati finanziari non aiuta. Ritengo che il grado di entusiasmo diffuso in Europa per la prospettiva di ulteriori allargamenti sia stato ridotto e depresso dall'impatto dell'economia reale sull'occupazione e dal timore che la libera circolazione di cittadini dei nuovi Stati membri possa creare ulteriori tensioni sul mercato del lavoro. Questi fenomeni sono evidenti.
È però necessario riconoscere come avere un'area euro abbia straordinariamente tutelato i Paesi membri e provocato effetti altrettanto straordinari in Paesi che finora avevano rifiutato di prendere in considerazione l'ipotesi di aderirvi. Oggi, in Danimarca si sviluppa un vivace dibattito sull'opportunità di aderire all'euro, mentre l'Islanda, consapevole di essere completamente scoperta, sta riflettendo sull'opportunità di presentare una domanda di adesione, situazioni inimmaginabili fino a pochi mesi fa. Ci troviamo quindi in una fase con molte incertezze, ma anche con qualche opportunità.

FRANCESCO TEMPESTINI. La ringrazio per questa relazione introduttiva e le pongo semplicemente alcune domande, una delle quali implicita nelle considerazioni espresse dall'onorevole Barbi.
Non solo per fini di ricerca intellettuale, sarebbe opportuna una riflessione per valutare se la strategia dell'allargamento si sia rilevata vincente. L'allargamento è una sorta di moloch, di mostro sacro, di cui non si parla, mentre dovrebbe essere sviluppata una riflessione priva di preconcetti.
Lei ha giustamente citato questi gruppi informali, dei quali abbiamo visto in attività quello sulla crisi finanziaria, sottolineando


Pag. 10

come questi siano determinati da un'esigenza di governance non soddisfatta in altro modo, che genera una sorta di spontaneismo diplomatico.
Poiché l'allargamento è stato un disastro dal punto di vista della governance europea e ci sarebbe da discutere sul ruolo dell'allargamento nel rapporto tra Est e Ovest, tema troppo lungo per essere affrontato in pochi minuti, vorrei sapere se le cooperazioni rafforzate possano rappresentare una pista da riprendere partendo da questo spontaneismo organizzativo, se vi sia lo spazio per riprendere questo processo critico dal punto di vista istituzionale, che non avrà soluzioni perché purtroppo le sue considerazioni sull'Irlanda e sui gravami del nuovo accordo fanno presagire grandi difficoltà. Vorrei sapere quindi se vi sia la possibilità di una risposta istituzionalizzata che consenta non il ritorno al nucleo forte, originario, ma vada in questa direzione.
Considero un grandissimo rischio il versante est dell'Unione europea. Il problema dei rapporti con Mosca è molto complicato. Il nostro Presidente del Consiglio si fa vanto di avere un eccellente rapporto con la Federazione Russa, però i segnali provenienti da quel versante sono negativi. In tutte le partite, si ripropone quella energetica. Vorrei quindi sapere se anche lei consideri molto preoccupante questa questione, laddove le crisi si sommano e il rapporto con la Federazione Russa è lungi dall'essere stabilizzato. Per motivi di tempo lei non ha potuto toccare questo argomento, per cui la pregherei di farlo nella risposta sia pure in termini sintetici.

FERDINANDO NELLI FEROCI, Rappresentante permanente d'Italia presso l'Unione europea. L'allargamento probabilmente era giusto e inevitabile, sebbene abbia prodotto conseguenze con le quali dobbiamo ancora confrontarci.
Considero corretta questa riunificazione del continente, ma dobbiamo ancora metabolizzare il fatto che un allargamento di queste dimensioni abbia modificato il DNA della costruzione europea. Ci troviamo quindi in una fase di transizione, nella quale non è facile trovare risposte condivise.
Nel mio intervento introduttivo non ho accennato al rischio che la crisi induca a rimettere in discussione alcuni princìpi fondanti del nostro modus operandi per quanto riguarda la concorrenza, il mercato interno, gli aiuti di Stato. L'allargamento ha avuto le sue responsabilità, ma c'è anche altro. Sotto il profilo dell'integrazione delle economie dei mercati, siamo probabilmente giunti a un punto limite. Certo, si può fare di più nel campo della giustizia, degli affari interni, di una politica nei confronti di alcuni fenomeni nuovi, quali quelli migratori. Si sono poste dall'esterno dell'Unione una serie di sfide nuove, quali la competizione su scala globale, la crisi economica, sulle quali ci stiamo confrontando, senza avere ancora una risposta comune, chiara e condivisa.
Per quanto riguarda i gruppi informali e le cooperazioni rafforzate, concordo con lei nel considerarli una risposta un po' pasticciata e disorganica a un problema di governance, che esiste ed è evidente, mentre non è ancora evidente che vi sia una risposta soddisfacente. Le cooperazioni rafforzate purtroppo sono rimaste sulla carta, perché dal Trattato di Amsterdam ad oggi non sono state attivate.
Nei mesi scorsi, un gruppo di Paesi tra cui l'Italia ha proposto una modestissima cooperazione rafforzata su un tema molto specifico, che riguarda un regolamento sulla legge applicabile ai matrimoni tra cittadini di diversi Stati membri. Nove Paesi membri hanno scritto una lettera alla Commissione nel mese di novembre, ma la Commissione non ha avuto il coraggio di rispondere, perché, sebbene la cooperazione rafforzata sia praticabile dal punto di vista tecnico, si rilevano enormi timori che su un tema sensibile una cooperazione rafforzata oggi, alla vigilia del referendum sul Trattato, possa costituire un elemento di divisione.
Oggi, quindi, l'unico tentativo di attivare la cooperazione rafforzata compiuto dopo quindici anni si è insabbiato per l'incapacità della Commissione di prendere


Pag. 11

posizione. Personalmente, sono scettico sulla possibilità di utilizzare tale strumento sottoposto a troppi meccanismi autorizzativi, a troppe condizioni. Sono invece più propenso a immaginare che i nuclei forti, le geometrie variabili finiranno con l'affermarsi, come sta succedendo in questi anni. Fortunatamente, sotto il profilo di interesse di un Paese come l'Italia, esistono più nuclei forti, non uno solo. Tre grandi tentano di tanto in tanto di affermarsi alla testa dell'Unione, ma il panorama è molto più sfaccettato e credo che dovremo rassegnarci a confrontarci con questa realtà nei prossimi anni.
Il rapporto con Mosca è stato quasi sempre complicato, ma la sua complessità è maggiore da quando i nuovi Paesi membri hanno fatto valere all'interno dell'Unione una particolare sensibilità nei confronti di Mosca, esito di anni di appartenenza al blocco sovietico o addirittura all'ex Unione Sovietica. L'amministrazione americana precedente aveva contribuito con errori clamorosi a rendere più difficile il rapporto con Mosca e quindi ad aumentare le suscettibilità della leadership russa.
Preferisco essere ancora cauto, ma rilevo un atteggiamento di maggiore prudenza nei confronti di questo progetto di difesa missilistica, che aveva suscitato problemi, e un colpo di freno sul fronte dell'allargamento della NATO a Ucraina e Georgia. Constato quindi l'esistenza di condizioni grazie alle quali nei prossimi mesi il rapporto con Mosca potrà essere meno controverso. Pur non essendo un modello di democrazia funzionante come lo vorremmo, la Federazione Russa è un partner del quale non possiamo fare a meno. Credo che in qualche modo dovremo trovare la «quadra».

ENRICO PIANETTA. Vorrei innanzitutto ringraziare l'ambasciatore. Desidero tornare brevemente sulla questione dei Balcani occidentali, perché l'integrazione di questi Paesi è cara all'Italia e necessaria per la stabilizzazione della regione. Del resto, stiamo segnando il passo nei confronti dell'impegno sottoscritto dal Consiglio europeo di Lisbona del 2000.
Nel corso della missione in Serbia, abbiamo constatato la grande volontà di partecipare, la vocazione europea, di fronte alla quale c'è una delusione da parte del Governo e della popolazione; basti pensare che l'attuale Governo a vinto le elezioni sulla base di quell'impegno. A fronte di questa speranza e di questo desiderio, invece, si rilevano freddezza, insensibilità o comunque incapacità di procedere. Mi riferisco, ad esempio, alla questione della ratifica dell'accordo di stabilizzazione e di associazione, che indubbiamente l'Europa non sta portando avanti, alla problematicità di quell'area, al Kosovo, alla Missione EULEX. Vorrei conoscere quindi la situazione anche per quanto riguarda la questione dell'accordo di stabilizzazione e associazione (ASA).

FERDINANDO NELLI FEROCI, Rappresentante permanente d'Italia presso l'Unione europea. La Serbia è un caso emblematico di mismanagement o cattiva governance. Si tratta di un Paese che ha compiuto straordinari progressi nel corso dell'ultimo anno, a partire dalle elezioni che hanno dato la vittoria al partito «europeo» La Serbia ha intenzione di muovere risolutamente verso l'Europa, ha compiuto una scelta e aspetta di vedersi compensata, sia pure modestamente, su una vicenda complessivamente marginale come quella dell'entrata in vigore dell'interim agreement, che a sua volta è la condizione per potere sbloccare i processi di ratifica dell'accordo di associazione e stabilizzazione, a sua volta condizione perché si possa riprendere il cammino verso l'Europa. Siamo paradossalmente bloccati dal veto di un solo Paese da più di dieci-dodici mesi. L'ostinazione olandese ci impedisce di consentire l'entrata in vigore di questo accordo interinale, i cui oneri gravano esclusivamente sul Governo serbo, laddove per noi è a titolo quasi gratuito. Il Governo olandese aspetta infatti la certificazione da parte del tribunale penale de L'Aja della piena collaborazione


Pag. 12

con il tribunale stesso da parte delle autorità serbe.
Ho però la sensazione che dietro questa ostinazione olandese si nasconda purtroppo una scelta politica di fondo che riguarda la Serbia, ma non solo. Alcuni Paesi tentano infatti di frenare questo processo, che dovrebbe portare i Balcani occidentali in Europa. Lo abbiamo visto recentemente, quando abbiamo potuto constatare il rifiuto di trasmettere la domanda di adesione dal Consiglio alla Commissione per l'esame tecnico, passaggio che non implica nessuna decisione sul merito. Sono perfettamente consapevole di come l'ipotesi di adesione del Montenegro susciti profonde perplessità, di come manchino le condizioni, che probabilmente non ci saranno per i prossimi dieci anni.
Normalmente, però, quando un Paese europeo, ai sensi del Trattato legittimato in quanto tale a presentare una domanda di adesione, presenta una domanda di adesione, il Consiglio con un atto meramente notarile la trasferisce alla Commissione affinché questa effettui la sua indagine e presenti nell'arco di dodici-diciotto mesi un suo parere tecnico. Oggi, anche questo passaggio tecnico è paralizzato, perché alcuni Paesi membri ritengono opportuno non procedere, ma prendere una pausa di riflessione.
Questa situazione rischia di creare frustrazione, di invertire i dati in questi Paesi, con risultati che potrebbero essere molto pericolosi anche per noi.

MATTEO MECACCI. Sono lieto di rivederla dopo qualche mese, signor ambasciatore, e la ringrazio. Vorrei esprimere brevemente alcune considerazioni. Lei ha accennato alla crisi del processo di allargamento e alla crisi economica che attanaglia l'Europa. Questi sono effetti rilevabili oggi, ma la crisi politica dell'Unione europea risale ad alcuni anni fa e deve essere ricondotta a una crisi di progetto politico. L'Europa nasce nei decenni scorsi come progetto federalista europeo di integrazione innanzitutto politica, a partire da quella economica, dei Paesi non solo dell'area europea, ma anche dell'area mediterranea.
Tale processo di integrazione politica si è però fermato. Si constata ovunque un riemergere di nazionalismi. Il processo di messa in discussione delle regole del mercato interno e la rinazionalizzazione delle politiche economiche vanno in questa preoccupante direzione, che segnala la mancanza di una spinta politica comune dei Paesi europei verso l'integrazione istituzionale.
Ritengo infatti che l'integrazione democratica anche attraverso i processi avviati con il Trattato di Lisbona, che non hanno portato a sbocchi, sia l'unica strada possibile. Non credo ci sia la possibilità di un ritorno all'Europa delle patrie e che questa sia l'unica risposta ai problemi dal punto di vista economico, ambientale e finanziario.
Per quanto riguarda i Balcani, lei ha sottolineato il forte sbilanciamento da parte dell'Unione europea nelle prospettive di allargamento. Alcuni Paesi del bacino del Mediterraneo, quali Israele o il Marocco, che già nei decenni scorsi hanno presentato domanda di cooperazioni rafforzate o di adesione all'Unione europea, sono stati sostanzialmente ignorati favorendo un'espansione a est, le cui ragioni si possono storicamente comprendere. Per l'importanza che il bacino del Mediterraneo riveste per il nostro Paese e per tutta l'Unione europea, ritengo che questi obiettivi dovrebbero essere ripresi.
Nella cerimonia di conclusione del vertice tenutosi a Sharm el Sheik alcune settimane fa, il Presidente del Consiglio Berlusconi ha ribadito la posizione dell'Italia a favore dell'adesione di Israele all'Unione europea. Ritengo che questa sia una posizione di principio, ma mi chiedo se in quel contesto e a pochi giorni dalla fine del conflitto di Gaza, considerato il ruolo che l'Unione europea può avere, e in parte ha avuto, nei Balcani e potrebbe avere nel conflitto mediorientale, per offrire un'alternativa di cooperazione politica ed economica e di integrazione a tutta


Pag. 13

l'area, a questa affermazione del Presidente del Consiglio possano corrispondere anche iniziative del nostro Paese.
Queste potrebbero mirare non solo a un aiuto nel controllo dei confini di Gaza e nel monitoraggio degli accordi eventualmente siglati tra Israele e l'Autorità palestinese con la mediazione dell'Egitto, ma anche a una prospettiva politica di integrazione di tutta l'area, che riguardi anche la Giordania e il Libano e metta l'Europa a capo di un progetto che offra una prospettiva diversa dal nazionalismo, che purtroppo anche nel conflitto israelo-palestinese sembra essere l'unica soluzione con la netta separazione tra i due Stati.

PRESIDENTE. Ma non c'è un limite geografico alla possibilità di aderire all'Unione europea?

FERDINANDO NELLI FEROCI, Rappresentante permanente d'Italia presso l'Unione europea. Sì, non a caso si parla di paesi europei. Quando si parla di Mediterraneo e allargamento, la sfida più grossa è la Turchia, di cui oggi non abbiamo parlato, perché non potevamo parlare di tutto. La scelta che il Governo italiano ha compiuto, peraltro condivisa da molti in Europa, riguarda la Turchia come membro a pieno titolo dell'Unione. Si tratta di una scelta ragionata, basata su considerazioni di carattere politico e strategico, sull'importanza di riconoscerlo come un modello valido, trattandosi dell'unica democrazia islamica funzionante, di un Paese cerniera a cavallo tra l'Europa e il Medio Oriente. Quando si parla di allargamento e di Mediterraneo, quello è il nodo difficile da sciogliere, perché in Europa vengono espresse molte criticità e resistenze. Quello della Turchia non è quindi un cammino facile.
Per quanto riguarda gli altri Paesi della regione, le dichiarazioni rilasciate dal Presidente del Consiglio sono l'espressione di una manifestazione politica di solidarietà, di sostegno, ma non hanno possibilità di tradursi operativamente perché, come ricordato dal presidente, sono previsti limiti dal Trattato all'eleggibilità per l'adesione. Tuttavia, con i partner con i quali il rapporto è più intenso, più scorrevole e meno problematico - lo stiamo facendo nei confronti del Marocco, con il quale da tempo abbiamo avviato il processo, e anche nei confronti di Israele, nonostante la sospensione dovuta agli eventi di Gaza, e lo faremo anche nei confronti della Tunisia - l'Unione intende fare un upgrading della relazione bilaterale riconoscendo loro condizioni particolari, accordi preferenziali, un dialogo politico rafforzato. Su questa posizione c'è già un consenso acquisito non solo in Italia, ma anche in Europa.

PAOLO CORSINI. Desidero associarmi ai miei colleghi nel ringraziarla per la chiarezza degli assunti da lei esposti e per l'ampiezza delle prospettive che ci ha presentato con la sua tematizzazione. Considero opportuna la scelta di partire dal richiamo al Trattato di Lisbona e dall'impasse in cui versa il processo di comunitarizzazione, perché ritengo che il «quanti siamo» ancora non definitivamente stabilito inciderà in larga misura sulla risposta che daremo a un interrogativo dirimente, ovvero «chi siamo».
La sua esposizione rafforza in me una convinzione che da tempo vado maturando, secondo cui sono fondamentali la struttura ordinamentale e l'impianto istituzionale che l'Europa si dà, ma questo non può essere il surrogato di una carenza di coesione politica. Potremo discutere se disponiamo di un Ministro degli esteri europeo o di un Alto rappresentante, arrovellarci sulla definizione terminologica, ma il problema di fondo è capire se sia sufficiente riconsiderare la strumentazione di cui l'Europa intende dotarsi o sia necessario dirimere a monte il problema di fondo di quale sia la volontà politica dell'Europa.
Del resto, mi pare che questo emerga dalla sua esposizione anche in relazione ad alcuni appuntamenti fondamentali. In particolare, nella recente crisi del Medio Oriente non è emersa un'immagine di Europa grande potenza in grado di promuovere una politica estera che garantisca


Pag. 14

anche la propria sicurezza, oltre a stabilizzare il sistema delle relazioni internazionali.
Non credo di essere profeta fallace affermando che le elezioni europee introdurranno un diverso equilibrio, giacché presuppongo che, in mancanza di repentini cambiamenti, ci sarà una diminuzione del peso delle formazioni di ispirazione socialista e un aumento del peso delle formazioni di ispirazione centrista o che fanno riferimento alla destra. Vorrei sapere se questo possa determinare un'ulteriore frammentazione, un ulteriore «sfrangiamento» della gestione degli interessi della sicurezza. Credo che questo sia un interrogativo per molti versi ineludibile.
All'altra domanda che volevo rivolgerle lei ha, in qualche misura, già dato una risposta. Stiamo attraversando una fase non soltanto di transizione, ma di crisi e transizione, laddove si rileva una divaricazione tra le motivazioni dell'attesa e delle aspettative dei nuovi Paesi che aspirano a rapportarsi all'Europa o a entrare nel processo comunitario e la realtà dei fatti in rapporto all'ispirazione originaria, che era profondamente comunitaria e non solo intergovernativa.

FERDINANDO NELLI FEROCI, Rappresentante permanente d'Italia presso l'Unione europea. L'onorevole Corsini ha perfettamente ragione nell'osservare che non è solo una questione di apparati istituzionali, ma anche e soprattutto di volontà politica. Aggiungerei anche un problema di carenza di leadership, come dimostra quanto avvenuto nel mese di agosto, quando il Presidente della Repubblica francese, Presidente in esercizio del Consiglio europeo, motivato probabilmente dal desiderio di ottenere visibilità sulla scena internazionale, è riuscito con un'operazione sostanzialmente condotta in solitaria a far emergere una positiva immagine dell'Europa. Si è recato due volte a Mosca e a Tbilisi e ha quasi costretto le due parti a trovare un accordo sul cessate il fuoco.
Se le istituzioni sono deboli, si rischia che il leader forte possa approfittarne talvolta positivamente, talvolta facendo pasticci. Concordo comunque con lei nel riconoscere come le istituzioni da sole non bastino, anche se aiutano molto.
Per quanto riguarda la questione dei prossimi equilibri in Parlamento, anche da quanto mi segnalano i parlamentari europei, si potrebbe verificare un fenomeno di ulteriore frammentazione del sistema della rappresentanza partitica, perché, se i conservatori inglesi dovessero abbandonare il Partito popolare europeo, nonostante il suo prevedibile successo, questo potrebbe bilanciare il successo elettorale e ridurre la consistenza numerica. Si considerano prevedibili una riduzione abbastanza significativa del gruppo socialista e l'aumento di piccole formazioni locali o nazionaliste. Si darebbe vita a un Parlamento meno governabile di quello attuale, anche se la preponderanza e il ruolo prevalente delle due grandi famiglie politiche dei popolari e dei socialisti non dovrebbero essere messi in discussione.
Questo potrà avere un impatto abbastanza relativo, perché purtroppo il ruolo del Parlamento europeo, che è molto cresciuto divenendo essenziale nelle materie in cui è prevista la codecisione, sostanzialmente in materie dove l'Unione opera attraverso atti di natura legislativa, resta abbastanza modesto sui temi della politica estera, della politica di sicurezza e della politica di difesa. Ritengo quindi che l'impatto sia abbastanza limitato.

PRESIDENTE. Nei giornali pubblicati in questi giorni si legge delle difficili situazioni finanziarie di molti Paesi dell'Unione europea non appartenenti all'area dell'euro e di possibili necessità di bailout, di salvataggi dei Paesi e delle loro finanze pubbliche. Vorrei sapere se siamo di fronte a situazioni nelle quali il galoppare della crisi porta a rischi di questo genere e di quanti Paesi si tratterebbe.

FERDINANDO NELLI FEROCI, Rappresentante permanente d'Italia presso l'Unione europea. Si parla di dati, che ad


Pag. 15

oggi non delineano un quadro preciso. Non è stata ancora affrontata una discussione approfondita in Ecofin. Un'operazione di questo tipo fu decisa ed organizzata prima di Natale per la Lettonia, primo Paese in gravi difficoltà a fare ricorso allo strumento della solidarietà con un'operazione congiunta a carico del bilancio dell'Unione e del Fondo monetario internazionale. Le notizie che arrivano da questi Paesi segnalano crescenti difficoltà e le confesso che non abbiamo un quadro preciso dell'effettiva situazione dei Paesi più in difficoltà.
L'altro Paese per cui è già stato disposto un'operazione di bailout è l'Ungheria. Non è da escludere che si debba fare ricorso a operazioni di questo tipo nei confronti di altri Paesi. Questo è un argomento che dovrebbe essere affrontato già a partire dal vertice straordinario dei Capi di Stato e di Governo convocato domenica prossima, 1o marzo 2009, le cui finalità sono ancora un po' oscure. In questa fase in cui la «verticite» è esplosa in maniera esponenziale, c'è l'esigenza di coinvolgere nell'esercizio di preparazione del vertice G20 tutta la membership dell'Unione e non soltanto quei Paesi che hanno partecipato domenica scorsa al vertice di Berlino convocato dal Cancelliere Merkel. Si tratterà di fare il punto della situazione sulla preparazione del G20, sulle misure da adottare, o continuare ad adottare, per fronteggiare la crisi dei mercati finanziari e su quelle adottate a livello nazionale nel quadro dello sforzo di rilancio dell'economia che va sotto il nome di European Economic Recovery Plan.

PRESIDENTE. La ringraziamo per la sua esposizione, che non ci rende più ottimisti sul quadro delle problematiche che investono l'Unione europea. Dobbiamo prenderne atto, ringraziandola per la precisione e la franchezza con cui ha esposto la situazione del Paese.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 11,20.

Consulta resoconti delle audizioni
Consulta gli elenchi delle audizioni