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Resoconti stenografici delle audizioni

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Commissione XI
1.
Martedì 10 giugno 2008
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Saglia Stefano, Presidente ... 3

Audizione del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali sulle linee programmatiche del dicastero, per le parti di competenza (ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento):

Saglia Stefano, Presidente ... 3 14 20 23
Bellanova Teresa (PD) ... 21
Bobba Luigi (PD) ... 20
Damiano Cesare (PD) ... 14
Giacomoni Sestino (PdL) ... 20
Sacconi Maurizio, Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali ... 3
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

COMMISSIONE XI
LAVORO PUBBLICO E PRIVATO

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di martedì 10 giugno 2008


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE STEFANO SAGLIA

La seduta comincia alle 10,15.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, Maurizio Sacconi, sulle linee programmatiche del suo dicastero, per le parti di competenza.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, l'audizione del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, Maurizio Sacconi, sulle linee programmatiche del suo dicastero, per le parti di competenza.
In considerazione dell'andamento dei lavori in Assemblea, vi comunico che potremo lavorare fino alle ore 12,00. Do la parola al Ministro Sacconi, per lo svolgimento di una relazione introduttiva, al termine della quale darò la parola ai deputati che ne faranno richiesta, pregandoli di svolgere brevi interventi, così da dare l'opportunità al Ministro di replicare. D'altro canto, avremo sicuramente l'opportunità di svolgere ulteriori approfondimenti nei successivi incontri che avremo con il Ministro.

MAURIZIO SACCONI, Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali. Signor presidente, ritengo importante il confronto odierno che, peraltro, è mia intenzione stimolare ancor di più attraverso una proposta che, penso, saremo in grado di licenziare già nel corso della prossima settimana.
La proposta riguarda la pubblicazione di un «libro verde», secondo il modello degli analoghi strumenti adottati dalla Commissione europea, rivolto a interrogare innanzitutto il Parlamento, ma anche gli attori sociali e professionali a ciò interessati, circa il disegno di un nuovo modello sociale che - credo possiamo tutti convenirne - si impone nella grande transizione che stiamo vivendo.
Anche se si tratta di un dibattito aperto non soltanto in Italia, nel nostro Paese una tale esigenza è resa ancor più cogente dai limiti che il tradizionale modello sociale ha fin qui manifestato.
Si può opinare circa l'opportunità di una guida politica unitaria relativa alle materie del lavoro, della salute e delle politiche sociali, tuttavia, considerato il momento in cui è stata disegnata - lo ricordo - da un Governo di segno opposto al nostro e, in particolare, dal Ministro Bassanini, credo che essa ancora maggiormente solleciti il conseguimento dell'obiettivo che mi permetto di proporre: quello di condividere quanto più largamente la visione e i valori di un nuovo modello sociale che costituisca un punto di riferimento il più possibile condiviso, affinché la dialettica parlamentare, poi, determini in modo utile, le modalità di implementazione di tale modello.
Ci troviamo di fronte a un'emergenza economica e sociale, che non appare di tipo congiunturale, in quanto presenta


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caratteri strutturali, e che non può, quindi, non ricevere risposte di medio e lungo periodo, tali da cambiare radicalmente l'organizzazione dei nostri strumenti di protezione sociale.
In sintesi, l'ipotesi che proporremo è quella di transitare quanto più celermente da un modello sociale risarcitorio, con caratteristiche che spesso sono di tipo assistenziale - vorrei dire, quasi paternalistico - che interviene nel momento in cui i bisogni si formano e quindi, inevitabilmente, in modo segmentato, volendo rispondere ai diversi bisogni.
Occorre sostituire questo modello, che ha nelle tutele passive la sua emblematica strumentazione, con un modello di welfare della prevenzione, che, lungo tutto il ciclo di vita della persona, dal concepimento alla morte naturale, interviene in ciascuna fase, cercando di evitare il formarsi di condizioni di bisogno nella fase successiva.
Un welfare delle opportunità, quindi, che evoca la responsabilità di tutte le persone e che si pone come obiettivo - questo è il titolo del libro verde, che anticipo - il perseguimento della «vita buona nella società attiva».
Il concetto di «vita buona» è stato variamente e autorevolmente utilizzato nel corso della storia del pensiero umano e può essere sintetizzato nei seguenti elementi: salute, lavoro, affetti, riposo. Occorre soprattutto, tenere in considerazione l'equilibrio degli ultimi tre elementi elencati. La vita buona evoca un intervento del modello sociale sull'antropologia stessa della persona, superando quindi il limite di quell'intervento segmentato che è caratteristico del welfare risarcitorio, volto a corrispondere ai diversi bisogni.
Il concetto di «società attiva» non solo evoca una società che rende sostenibile il modello sociale, in quanto allarga fortemente la base dei contribuenti, ma, più in generale, è consustanziale al concetto di vita buona. Società attiva vuol dire infatti una società con alti tassi di natalità, prescolarità e apprendimento, occupazione, mobilità sociale. Si tratta di una condizione che, come noto, in questo momento non viviamo. Non possiamo definirci una società attiva proprio perché nel nostro Paese questi indicatori sono, com'è noto, straordinariamente carenti. Si va dallo squilibrio demografico, ai bassi tassi d'apprendimento testimoniati dall'ottimo rapporto PISA (Programme for International Student Assessment), periodicamente rilasciato dall'OCSE, che non si limita solo a determinare formalisticamente i percorsi educativi svolti, bensì considera le effettive conoscenze acquisite. Non parliamo, poi, dei tassi di occupazione, che rimangono cronicamente bassi, nonostante i risultati positivi delle riforme prodottesi nell'arco dell'ultimo decennio (la legge Treu e, successivamente, la legge Biagi).
Riscontriamo, in sostanza, una società dagli alti tassi di inattività. Non mi dilungo in analisi anche autorevolmente svolte da più soggetti. Una fra tutte, penso alla recente relazione del Governatore della Banca d'Italia, nelle cui conclusioni (consiglio, però, di leggere anche il corposo testo della relazione) si dedica molto alla società, anche perché le stesse esigenze di competitività, nella dimensione dell'economia della conoscenza, si soddisfano attraverso una società attiva, che ha una forte dotazione di capitale umano, in termini sia quantitativi che qualitativi.
Quindi, le politiche sociali, oggi, devono essere sempre più non solo politiche della distribuzione della ricchezza, ma anche della produzione della ricchezza.
Si tratta di politiche assolutamente fondamentali proprio nella dimensione dell'economia della conoscenza, più ancora che nella vecchia economia industriale di tipo tendenzialmente seriale.
Fortunatamente, tali politiche tendono a far convergere i parametri della competitività e dell'inclusione sociale.
Una società attiva, del resto, non è altro che una società che è insieme competitiva, in quanto altamente dotata di capitale umano, e inclusiva, in quanto capace di offrire continuamente alle persone le opportunità per essere parte attiva, utili a sé e agli altri.
Vorremmo che l'operazione del libro verde si svolgesse con una certa tempestività. Le modalità di elaborazione saranno


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quelle tipiche degli analoghi documenti della Commissione europea: la richiesta di libere deduzioni o controdeduzioni sulle ipotesi in essa contenute; l'espressione di valutazioni da parte di tutti gli interessati; la redazione di un prodotto finale che rappresenti un punto di riferimento, o, se volete, una sorta di benchmark dell'azione di riforma, così da verificare continuamente se essa si muova nella direzione del welfare delle opportunità o se rimanga invece ancorata al vecchio welfare risarcitorio.
Le condizioni di partenza in Italia - come ricordavo un momento fa - sono ancora arretrate sotto tanti aspetti, nonostante i percorsi di riforma positivi realizzati nel corso dell'ultimo decennio.
In proposito, ho già citato alcuni tassi inerenti all'attività della nostra società, ma vorrei anche ricordare il profondo dualismo nord-sud, nonché l'alta percentuale di sommerso che caratterizza il lavoro nel nostro Paese. Per quanto riguarda il lavoro regolare, poi, si rileva una caratterizzazione negativa che mette assieme bassa produttività e bassi salari, con conseguente alto costo del lavoro per unità di prodotto.
Cito inoltre il peso negativo svolto dagli oneri indiretti che gravano sul costo del lavoro e che sono una delle due cause dell'anomalia rappresentata dalla forte dimensione dell'economia sommersa. Crediamo che quest'ultima si riconduca essenzialmente a un eccesso di regolazione e di costo indiretto del lavoro, legato soprattutto all'eccessivo peso della spesa previdenziale nel complesso della spesa sociale. Al netto della spesa per istruzione, oltre il 60 per cento della spesa sociale è destinata alla previdenza. Si tratta di un'anomalia che più volte è stata registrata dalla Commissione europea e dalle istituzioni che ci valutano (come il Fondo monetario) e che si risolve in danno di altre voci della spesa sociale, la cui rivalutazione appare necessaria.
In questo contesto, coerentemente con l'impostazione che ho enunciato, occorre ripensare gli stessi diritti fondamentali del lavoro, nonché il complesso delle politiche del lavoro, in modo che essi siano funzionali alla produzione di una società inclusiva e competitiva.
Segnalo, in primo luogo, l'emersione dei rapporti e degli spezzoni lavorativi sommersi. In relazione a quest'ultima, oltre che per esigenze che attengono alla stessa maggiore disponibilità ad assumere da parte delle imprese, a produrre in funzione di obiettivi di superamento della trappola nella quale si trova oggi l'economia italiana, ho ipotizzato un percorso di deregolazione, che non tocca il livello delle tutele.
Deregolazione è forse un termine più forte di semplificazione, anche perché, spesso, quest'ultimo si coniuga con l'idea del procedimento e, normalmente, quando ci si è ingegnati a semplificare il procedimento, si è prodotto invece l'esito opposto di averlo ulteriormente complicato.
Penso, invece, a un'attività di vera e propria deregolazione nell'attuale contesto di eccesso di regolazione.
La deregolazione ipotizzata - come ho detto - non tocca il livello delle tutele, bensì riguarda prevalentemente la stessa gestione del rapporto di lavoro. Rileviamo tutti una gestione complessa del rapporto di lavoro; ad esempio, per la colf che viene ogni tanto a rassettare un'abitazione che uso poco, mi tocca pagare un consulente del lavoro, non disponendo attualmente di modi agevoli per regolare un rapporto di lavoro sostanzialmente raro, come quello al quale ho fatto riferimento.
Dobbiamo pensare a tutto ciò che oggi, ragionevolmente, può essere eliminato. Per questo motivo stiamo vagliando alcune ipotesi, in funzione della manovra che il Governo intende produrre alla fine di giugno.
Il Ministro dell'economia e delle finanze ha già annunciato la volontà, in una condizione di emergenza economica e sociale, di anticipare l'usuale manovra di settembre, o quantomeno i contenuti sostanziali che hanno sempre accompagnato la rimodulazione dei capitoli di bilancio e delle grandezze finanziarie, che ovviamente resteranno il contenuto della legge finanziaria.


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Quest'ultima, anzi, sconterà ciò che noi contiamo il Parlamento possa approvare prima della pausa estiva, vale a dire un robusto provvedimento rivolto a obiettivi di crescita, di stabilità finanziaria e di coesione sociale.
Tra gli strumenti della crescita, ma anche della coesione sociale, vi saranno provvedimenti di deregolazione che hanno lo scopo di far emergere quanti più spezzoni lavorativi, incoraggiare al massimo le nuove assunzioni, togliere tutte le demotivazioni e penalizzazioni che ostacolano il raggiungimento di questi sacrosanti obiettivi.
Faccio l'esempio dell'abrogazione della legge relativa alle dimissioni volontarie, al cui riguardo mi trovo personalmente in una posizione di assoluta coerenza, poiché, nel momento in cui fu varata, espressi una critica molto aspra, pur considerando che tale provvedimento partiva dalla constatazione di una patologia. Quasi sempre, la nostra complicazione legislativa nasce da una patologia: si tratta di verificare se il rimedio non sia peggiore del problema che lo sollecita.
È qui presente il collega Poli, con il quale ho allora condiviso quella critica. L'esperienza, seppur di pochi mesi, ci dice che non è quello il modo di rimediare a quella patologia estrema: modulo alfanumerico, di durata limitata, forma scritta obbligatoria anche in presenza di comportamenti del prestatore che il magistrato ha sempre ritenuto concludenti (in pratica, quando il prestatore sbatte la porta e sparisce).
Pensate al caso di un immigrato che ritorna nel Paese di origine, circostanza che determina una situazione per cui quel rapporto di lavoro continua a vivere e il licenziamento deve avvenire per giusta causa o per giustificato motivo, rientrando così in una fattispecie di cui è ben nota la complicazione.
Non credo che, in questo caso, la deregolazione della norma attuale vada a toccare una tutela. Diverso è il caso di una persona conculcata nel proprio diritto e indotta a firmare in bianco una dimissione. Qualunque magistrato, del resto, chiederebbe subito alla persona che ha fatto ricorso di confermare e si accontenterebbe già di un semplice diniego. Se necessario, una prova calligrafica consentirebbe di individuare immediatamente l'anomalia di quel pezzo di carta.
Potremmo ripetere la nostra affermazione per la tenuta del libro matricola, del libro paga, nella gestione di un rapporto di lavoro. Ci domandiamo se abbia senso tenere libri di questo tipo, dopo che noi, per primi, introducemmo la comunicazione della nuova assunzione il giorno antecedente all'avvio del rapporto di lavoro nel campo dell'edilizia, ove la patologia più ricorrente è quella della regolarizzazione nel giorno dell'incidente, o dell'infortunio. Lodevolmente, il mio predecessore ha ampliato questo obbligo, con un intervento che io condivido. Ciò, tuttavia, ora ci consente di semplificare altri obblighi, ad esempio proprio quelli rivolti a consentire la verifica della regolarità del rapporto di lavoro al momento dell'ispezione.
Penso quindi che sia possibile sostituire il libro paga, il libro matricola, con un libro presenze semplificato, magari tenuto dall'associazione di categoria o dai consulenti del lavoro.
È possibile pensare a semplificazioni di questo tipo, senza che vengano ipotizzati sconvolgimenti delle tutele o dei modi con i quali si verifica la regolarità del rapporto di lavoro. Credo che dovremmo esercitarci in questo processo.
Il Governo è interessato a un confronto che accompagni questo processo di deregolazione della gestione del rapporto di lavoro. Analogamente, penso sia opportuno riflettere anche su alcune modifiche alla legge Biagi. L'esperienza ci ha insegnato che permangono alcuni problemi: penso all'agevole regolazione del lavoro intermittente. Esistono, cioè, spezzoni lavorativi quasi regolarmente sommersi, ai quali noi pensammo - Biagi, in particolare - quando si vollero introdurre le norme relative al lavoro intermittente.
Sia chiaro, il lavoro intermittente era consentito dall'autonomia contrattuale. La norma di legge fu voluta per codificare


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alcuni diritti, come quello relativo ad una indennità nel caso di obbligo di disponibilità nell'ambito del rapporto di lavoro. Ebbene, le stesse parti che negoziarono una prima soppressione del lavoro intermittente, si corressero successivamente, dimenticando una dimensione dei servizi: quella dell'economia turistica. Non escluderei di poter pensare, allora, a un ripristino di questo contratto di lavoro, che non destruttura rapporti di lavoro più compiuti, ma al contrario, consente di far emergere tipicamente lo spezzone lavorativo del ristorante nel fine settimana, nell'ambito dell'economia dei servizi e in altri settori.
Quanto al lavoro regolarizzabile con voucher, esiste ormai un monte di spezzoni lavorativi straordinari, di lavori occasionali, di lavori accessori, che oggi, quasi scientificamente, sono al di fuori della regola e che possono e devono invece essere regolarizzati e fatti emergere, attraverso meccanismi semplici.
In questo caso, l'ipotesi è di correggere anche noi stessi, che in quel momento regolammo, in modo probabilmente troppo rigido, il ricorso ai buoni prepagati, sia per quanto riguarda i soggetti il cui rapporto di lavoro può essere così regolarizzato, sia per quanto riguarda la tipologia delle attività, pur considerandola entro un limite massimo. Peraltro, il precedente Governo non ha modificato il volume complessivo di remunerazione di questi lavori, tale da contenerli comunque nell'ambito dei lavori di breve periodo, affinché anch'essi - insisto - trovassero regolarizzazione.
Fin qui siamo nell'ambito della deregolazione della gestione del rapporto di lavoro e nell'ambito del ritorno alla lettera e allo spirito della legge Biagi, guardando alle esperienze che abbiamo compiuto.
Per quanto riguarda il lavoro regolarizzabile attraverso buoni prepagati, cioè voucher, penso anche all'iniziativa del Ministro Damiano per la regolarizzazione agevole (norma che avevo disposto nell'ultimo periodo, ma che era rimasta inoperosa) dei lavori brevi in agricoltura, tipicamente della vendemmia che, altrimenti, è scientificamente praticata al di fuori della regola.
Posso capire che faccia discutere maggiormente il modo di incoraggiare il lavoro a tempo parziale, che - anche se, probabilmente, in fondo non è giusto che lo sia - riguarda oggettivamente, spesso, le esigenze di conciliazione tra tempi di lavoro e di famiglia della donna.
Nel nostro Paese il lavoro parziale era cresciuto con la regolazione che avevamo adottato e che oggi è stata ulteriormente irrigidita.
Voglio proporre al dialogo con le parti sociali l'ipotesi di favorire maggiormente l'adattabilità reciproca fra imprese e lavoratori e lavoratrici, circa l'impiego delle clausole elastiche e flessibili che rappresentano il vero problema in questo rapporto di lavoro. Per lavoro a tempo parziale non intendiamo necessariamente il lavoro di mezza giornata. Per poter realizzare una conciliazione, può trattarsi semplicemente di un'ora in meno al mattino o al pomeriggio, tollerando un'esigenza che l'impresa può avere, qualche volta, di lavoro supplementare.
In questo caso, ciascuno conosce qual è proprio margine di adattabilità rispetto a una tale esigenza dell'impresa: non più di due volte in una settimana, oppure soltanto con un preavviso di almeno 24 ore.
Mi chiedo perché non consentire una maggiore adattabilità, senza scomodare questioni di principio come l'individualizzazione del rapporto di lavoro. Quest'ultima, inevitabilmente e spesso, ha pure una propria dimensione, che mi auguro la contrattazione collettiva voglia favorire attraverso l'offerta di menu, entro i quali la contrattazione di tipo individuale si possa svolgere.
Senza toccare principi più generali, limitiamoci soltanto, quasi chirurgicamente, a individuare nelle clausole flessibili ed elastiche del rapporto di lavoro la possibilità di una migliore adattabilità reciproca fra imprese e lavoratore.
Non mi dilungo oltre, sottolineando solo come questo insieme di misure


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prende a riferimento una forte dimensione del sommerso, che può essere ricondotta anche a problemi regolatori.
Come ho detto, il sommerso ha una sua spiegazione anche negli alti oneri indiretti che pesano sul rapporto di lavoro, ma certamente esiste una dimensione regolatoria importante, come ho potuto verificare nel mio territorio.
Nella mia provincia, Treviso, quando il protocollo sul welfare e la disciplina conseguente limitarono il lavoro intermittente, subito si segnalò che solo il centro servizi ASCOM, dell'associazione commercianti, aveva regolarizzato 1.500 rapporti di lavoro attraverso il contratto intermittente. Queste 1.500 persone rappresentavano l'emersione di spezzoni lavorativi, non altrimenti regolati, soprattutto nell'ambito dell'economia dei servizi.
Allo stesso modo, non si può non vedere che si stanno producendo problemi anche con il contratto a termine. Non mi riferisco solo alla RAI, per la quale c'è una ben nota vertenza in corso, o alle Poste, la vertenza a carico della quale si è conclusa con un accordo, per il quale le parti - a ciò che mi risulta - sollecitano una correzione nel senso da me ipotizzato nell'incontro dei giovani imprenditori a Santa Margherita Ligure. Secondo tale ipotesi, i limiti del contratto a termine, definiti dal protocollo sul welfare, possono essere derogati ove sussista un accordo aziendale tra le parti.
Nei giorni scorsi, in una rassegna stampa, ho letto di un'azienda che produce attrezzi da giardinaggio e che ha una sua robusta stagionalità, la quale lamentava il fatto di non essere considerata tra le attività stagionali e di non essere in grado, ai sensi della disciplina sui contratti a termine, di proseguire rapporti a termine con persone del territorio fidelizzate, quindi capaci, per le quali si instaurava periodicamente il rapporto a termine.
Posso garantirvi di essermi più volte confrontato con i capi del personale, anche circa la resistenza che molti lavoratori e lavoratrici oppongono a trasformare questo modo ricorrente di impiegare le persone con il contratto a termine nella stagionalità, attraverso contratti di part-time di tipo verticale. Non sempre, quindi, questo strumento soddisfa questo tipo di esigenza.
Viene spontaneo pensare pragmaticamente, senza riaprire chissà quale contenzioso circa i contratti a termine, ad ipotizzare una deroga ove interi reparti, in azienda, concordino diversamente.
Ritorno a obiettivi di più ampio respiro. Credo che i diritti fondamentali nel lavoro nell'ambito della nuova dimensione debbano essere declinati guardando a tre profili sostanziali e uscendo, quindi, dal formalismo giuridico che ha caratterizzato molta parte del nostro impianto lavoristico.
Mi riferisco a un diritto basico alla sicurezza nel lavoro, a un diritto altrettanto basico alla occupabilità della persona lungo tutto l'arco della vita, nonché a un diritto, che nondimeno considero fondamentale, a una giusta retribuzione collegata a meriti e impegni specifici di una persona singola, oppure di un gruppo di persone.
Se guardiamo bene, questi tre diritti fondamentali sono, purtroppo, largamente insoddisfatti. È insoddisfatto un diritto alla salute e alla sicurezza in quanto, dopo il picco che abbiamo registrato a metà degli anni '60 (che ci portò ad alti livelli anche di mortalità, se ricordo bene, con circa 3.500 morti per cause di lavoro) con la prima industrializzazione e il passaggio di molte persone dalla campagna all'industria, con insufficienti investimenti in formazione, con tecnologie molto più arretrate di quelle attuali, negli anni '90 è parso manifestarsi uno zoccolo duro, di robusto livello, difficile da aggredire.
Eppure, nel corso degli anni, siamo arrivati ad avere una disciplina tra le migliori al mondo dal punto di vista di ciò che teoricamente è prescritto, anche se, per molti aspetti, tale disciplina ha presentato anche qualche limite.
Pongo pertanto a voi lo stesso interrogativo che porrò anche alle parti sociali, nei confronti delle quali ho ereditato un dialogo lacerato verticalmente. Vorrei ricordare che, sul Testo unico in materia di


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sicurezza, ereditiamo il contrasto esistente fra le organizzazioni sindacali dei lavoratori e tutte e 15 le organizzazioni rappresentative del lavoro autonomo e dell'impresa (dalla Lega delle cooperative, alla Confesercenti, alla Confederazione nazionale dell'artigianato, alla Confartigianato, alla Confcommercio, alla Coldiretti), nessuna esclusa, le quali muovono critiche non marginali, bensì radicali, a quell'impianto.
In questo caso la domanda che dobbiamo porci è se non sia forse vero che, per la sicurezza, la collaborazione e la condivisione rappresentino valori in sé, necessari affinché le norme da implementare diventino effettive. Posto che il limite riscontrato, almeno a mio avviso, è quello di un formalismo esasperato, quando si supera una certa soglia critica, quando cioè gli adempimenti richiesti diventano eccessivi e sostenuti da sanzioni sproporzionate rispetto alla violazione formale (non parliamo di sanzioni collegate, ovviamente, all'infortunio, bensì all'adempimento); in un quadro lacerato tra le parti sociali, nel momento in cui questo assetto normativo è vissuto come non condiviso, si determina un'attenzione tutta rivolta ai profili formali, distogliendo invece l'impegno nei riguardi dei profili sostanziali e di reale costruzione di un ambiente di lavoro sicuro.
Sottoporrò tutto ciò alle parti, ipotizzando uno strumento di intervento. Il Testo unico fa riferimento agli enti bilaterali e io credo che l'ente bilaterale sia lo strumento tipico con cui fornire una risposta all'impresa diffusa, nella quale spesso il sindacato non esiste. Mi riferisco all'impresa diffusa che nell'edilizia e nell'artigianato, già oggi, spesso si organizza attraverso enti bilaterali. Questi ultimi, a livello territoriale, costituiscono un ombrello sociale e un faro che proietta il suo cono di luce su tutte le attività. Ove queste forme di bilateralità esistono, liberamente generate dalle parti, potrebbe essere opportuno far compiere un passo indietro all'amministrazione pubblica, in termini di richiesta di adempimenti formali e di controlli, nel momento in cui sappiamo che la collaborazione codificata dagli enti bilaterali dà luogo a un'attenzione addirittura molto più sostanzialistica, realizzata molto più per obiettivi che non per regole.
In questo caso, quindi, non si tratta di un'ipotesi di deregolazione - uso l'aggettivo quantomeno con cautela - quanto piuttosto di ri-regolazione modulata, soprattutto in presenza del fenomeno della bilateralità. Ove esiste una bilateralità e una dimostrata attività delle parti convergente verso obiettivi sostanziali, l'amministrazione può forse fare un passo indietro, ritenendo che in sussidiarietà sussistano attori più e meglio impegnati a raggiungere risultati.
Per quanto riguarda il Testo unico, è evidente che intendiamo riaprire un dialogo con le parti sociali, cercando di portarle a convergenza. Essendo questo lo scopo, non ci saranno interventi unilaterali e a prescindere dal dialogo. Insisto, in questo caso la condivisione tra le parti è un valore in sé.
Il secondo profilo riguarda il diritto all'occupabilità, il quale si realizza in un mercato del lavoro trasparente ed efficiente e soprattutto fruendo dello strumento di una formazione effettiva.
Per quanto riguarda il mercato efficiente e trasparente, intendiamo utilizzare le deleghe che abbiamo ereditato per ripensare il modello della borsa del lavoro, oltre che la rete che collega i centri per l'impiego in relazione alla loro funzione istituzionale, e per ripensare soprattutto l'extranet in termini di massima semplificazione.
Il mondo è andato avanti, anche rispetto a pochi anni fa, quando concepimmo la borsa del lavoro. Oggi essa rischia, nella sua forte regolazione, di essere disintermediata dal regno della libertà rappresentato da internet, per cui noi rischiamo di rincorrere inutilmente siti spesso abusivi. Credo che si debba semplificare il quadro il più possibile, in modo da fare emergere i siti che realizzano l'incontro fra domanda e offerta, ripensando alla borsa del lavoro come a un motore di ricerca che entra nei diversi


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siti che, a loro volta, saranno autorizzati in modo molto più semplificato rispetto ai criteri che oggi presidiano la richiesta di autorizzazione delle attività rivolte solo all'incontro fra la domanda e l'offerta. Non sto parlando delle attività rivolte alla somministrazione, per le quali sono doverosi i requisiti, oggi previsti, in termini di capitalizzazione, amministratori e quant'altro.
Cerchiamo in tal modo di rendere effettivo il sistema di incontro on line fra domanda e offerta di lavoro, di stimolare al massimo la diffusione di soggetti che svolgono questo tipo di servizio.
In ciò dovrebbero aiutarci maggiormente le leggi regionali, le quali hanno competenza per i soggetti infraregionali. Penso alle scuole superiori, alle parrocchie, alle organizzazioni sindacali territoriali, sia di lavoratori che di datori di lavoro, agli enti bilaterali territoriali.
Per quanto riguarda la costruzione di moderni mercati del lavoro, penso ad una cabina di regia molto più intensa tra Stato e regioni, sul modello di quella che stiamo cercando di costruire per la sanità.
Si tratta di una cabina di regia che non si limiti - doverosamente peraltro - a monitorare il livello dei servizi offerti, ma che intervenga, anche e soprattutto, non escludendo azioni di gemellaggio fra le aree più forti e quelle più deboli. Una cabina di regia, insomma, che non solo diffonda le buone pratiche, ma cerchi anche di intervenire attivamente favorendone l'esportazione.
Quello che chiamiamo il welfare to work, il welfare che accompagna verso il lavoro, ha assolutamente bisogno della leva della formazione. Qui il ripensamento deve essere radicale.
Stiamo pensando ad un piano straordinario per la formazione, muovendo dall'idea che esiste una criticità riguardante il contenuto formativo dei contratti di apprendistato, che rappresentano la risposta fondamentale per l'inclusione dei giovani nel mercato del lavoro. Abbiamo fatto dei contratti di apprendistato il modo tipico di ingresso nel mondo del lavoro, l'anello di congiunzione di tra scuola e lavoro.
In questo caso, tuttavia, i dati ci dicono che sussiste una sostanziale ineffettività quantitativa, ma anche qualitativa, del contenuto formativo, per non parlare della rarità della formazione continua, nonostante la partenza dei fondi bilaterali a ciò dedicati, che utilizzano il cosiddetto prelievo dello 0,30 per cento sul monte salari dell'impresa.
Credo che si debba rovesciare il presupposto fin qui assunto e partire dall'idea che l'impresa è, per coloro che hanno un rapporto di lavoro, il luogo per eccellenza della formazione.
L'impresa è potenzialmente un luogo della formazione, non dello sfruttamento.
Ovviamente, ciò è vero nella misura in cui la formazione viene supportata. Quindi, la funzione esterna deve essere ancillare a questo presupposto fondamentale. Da qui il tutoraggio, la certificazione e quant'altro, cioè funzioni esterne che sono utili solo in questo senso, non quando pretendono di sostituire l'impresa come luogo formativo, partendo da una diffidenza nei confronti della capacità formativa dell'impresa. Il risultato ve lo illustro con l'esempio, che sempre mi sovviene, di un'imprenditrice che una volta mi raccontò di essere titolare di un'impresa tecnologicamente molto avanzata, ma che uno dei suoi dipendenti le era stato portato via per una settimana, al solo scopo di fargli frequentare un corso sull'uso dell'e-mail.
Troppe volte, concretamente, si può verificare che il corso esterno, quando davvero si realizza - come sappiamo, ciò avviene raramente - è straordinariamente al di sotto della qualità formativa by doing che si realizza all'interno dell'impresa stessa.
Non sto teorizzato il cosiddetto by doing, cioè l'apprendimento tramite il solo fare. Sostengo invece che, partendo dalle capacità di una certa impresa, confrontate soprattutto con le capacità formative esterne del territorio in cui essa opera, magari sotto l'ombrello degli enti bilaterali, le parti possono individuare proprio nell'impresa stessa il luogo naturalmente predisposto all'investimento formativo.


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Ho citato solo un criterio, ma altri, ovviamente, ne serviranno.
Stiamo pensando - come ho detto - a uno straordinario piano formativo che quantomeno riporti la politica della formazione dal baricentro attuale - che purtroppo è quello delle esigenze degli enti formatori, cioè dell'offerta - alla domanda di coloro che devono essere formati, che troppo spesso è negletta in nome degli enti formatori. Anche qui, il rapporto Stato-regioni è fondamentale, data la competenza delle regioni stesse.
Il terzo diritto è quello alla giusta retribuzione. Noi abbiamo voluto sollecitarlo attraverso la sperimentazione semestrale della detassazione dei premi e degli straordinari.
Sottolineo «premi», poiché sapete che i 3.000 euro nel semestre possono essere al 100 per cento costituiti da premi e incentivi. Non si prevede una distorsione in favore dello straordinario, data la caratteristica di questa disciplina fiscale, che si somma a quella relativa alla decontribuzione nel caso che queste somme variabili provengano da accordi contrattuali. Non è alternativa, quindi, bensì si somma alla decontribuzione, fino a tre punti del valore complessivo (Commenti del deputato Damiano).
L'obiettivo, che io condivido, è di 5 punti, ma la disciplina vigente, contenuta nel decreto varato prima della fine della legislatura (la registrazione è in corso presso la Corte dei conti), è limitata a 3 punti.
Tutto ciò è inserito all'interno di un modello contrattuale. Il Governo è parte terza rispetto alla contrattazione fra gli attori sociali, ma è comunque interessato all'esito di quest'ultima. Vi faccio un esempio dei tre modi con cui, se le parti lo vorranno, potremo supportarla.
Il primo può essere rappresentato da una disciplina fiscale che vogliamo condurre a regime per tutto il lavoro dipendente. L'attuale sperimentazione ha lo scopo di portare a norma tutto il lavoro dipendente.
Il lavoro pubblico, in questa fase iniziale, non è stato considerato non solo, banalmente, per i relativi oneri, ma anche per una ragione sostanziale: il piano industriale rivolto alle amministrazioni pubbliche ha lo scopo di ricostruire quel buon datore di lavoro che nel sistema pubblico manca.
Io non mi iscrivo tra coloro che denunciano i fannulloni e parto invece dalla testa, cioè dalla parte del pesce che, notoriamente, comincia a puzzare per prima. La proposta del Ministro Brunetta, allo stesso modo, è rivolta innanzitutto alla ricostruzione del buon datore di lavoro.
Il Ministro Brunetta ha ragione nel dire che esistono anche le sanzioni, che devono essere effettive e non teoriche come si verifica attualmente, ma indiscutibilmente tutti partiamo dal buon datore di lavoro.
Quest'ultimo deve essere ricostruito, affinché si possa fare un uso virtuoso dello straordinario, del premio e dell'incentivo. Purtroppo segnalo che, talora, aziende sanitarie tecnicamente fallite sono risultate essere molto generose nella contrattazione integrativa di secondo livello. La stessa cosa non accadrebbe nel settore privato, in una situazione di tecnico fallimento.
Se le parti lo richiedono, il legislatore può irrobustire, ad esempio, anche la strumentazione pubblica sulla rappresentanza. Badate, non parlo di una legge che regoli la rappresentanza, giacché le stesse organizzazioni sindacali ipotizzano un mutuo riconoscimento tra le parti, circa i criteri con cui misurare la rappresentanza.
Tuttavia, quella funzione che oggi è nell'ambito del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali e che, ogni tanto, guarda alla rappresentatività degli attori (in funzione, ad esempio, delle nomine in alcuni enti previdenziali), può essere utilmente ricondotta alla Commissione di garanzia per il diritto di sciopero. Quest'ultima potrebbe diventare un'Autorità over all sulle relazioni industriali, per informare il libero mercato delle relazioni industriali circa la rappresentatività degli attori.
Il legislatore potrebbe ancora guardare alla partecipazione, che è un corollario, un punto di arrivo di un nuovo modello di relazioni industriali.


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Mi riferisco a ciò che è previsto da due articoli del codice civile e da un articolo della Costituzione, cioè che si possono liberamente promuovere piani finanziari partecipativi per realizzare, attraverso di essi, la distribuzione degli utili. Si può realizzare la distribuzione di una parte degli utili ai dipendenti, attraverso titoli che hanno alcune caratteristiche particolari in termini di alienabilità e di diritti partecipativi.
Rimane nostra convinzione radicata che non si debba creare confusione nella gestione, che deve rimanere assolutamente in capo alla proprietà, al management espressione della maggioranza azionaria, e così via. I piani finanziari partecipativi possono, però, fornire uno strumento in più per rendere effettivi quegli articoli del codice civile e della Costituzione che, in assenza di una declinazione più puntuale, si sono sempre rivelati senza effetti e che invece sono nella libera determinazione dell'imprenditore o delle parti che in questo concordano.
Si tratta, come vedete, di interventi complementari, esterni, che entrano in gioco se voluti dalle parti, se da esse condivisi.
Concludo con una considerazione sulla previdenza. Per quanto riguarda la previdenza obbligatoria, abbiamo ereditato una riforma che, a mio avviso, è stata un errore. Essa ha riaperto i costi del sistema previdenziale, che stiamo monitorando, soprattutto per verificare che almeno essi siano in linea con le previsioni ipotizzate a copertura del provvedimento di controriforma (passatemi l'espressione).
Faremo in modo di non coprire questi oneri aggiuntivi con l'ipotizzato incremento del prelievo contributivo di un altro decimale. Nei due anni trascorsi, già tre decimali di punto sono stati aggiunti, sarebbe un errore aggiungerne un altro. Ho detto prima dell'anomalia italiana, da questo punto di vista, che noi semmai dovremmo far regredire in futuro.
Un modo per realizzare le economie di 3,5 miliardi di euro nei dieci anni, deve essere quello di razionalizzare gli enti e, allo stesso tempo, anche di razionalizzarne le gestioni. Stiamo riconsiderando ciò che ci è stato depositato dal precedente Governo, anche sulla base di una analisi per la quale sono stati incaricati alcuni advisor professionali.
Mi pare che il precedente Governo escludesse - e noi con esso - l'ipotesi del super-ente, per due ragioni elementari: da un lato, parliamo di mission diverse tra i tre enti principali INPS, INAIL e INPDAP. Lo sono anche per INPS e INPDAP, poiché in un caso ci sono le entrate contributive, mentre nell'altro esse sono solo virtuali, solo per fare un esempio. L'INAIL, poi, è un ente assicurativo rivolto a garantire (con una gamma di attività che mi auguro riusciremo ad ampliare, dalla prevenzione alla riabilitazione) e proteggere la persona che lavora dai rischi del lavoro.
L'ipotesi che stiamo considerando è se procedere, in tutto o in parte, all'accorpamento degli enti minori. Questo lavoro di ulteriore ricognizione non è concluso, quindi non posso fornire una risposta definitiva. Penso che almeno in parte tale accorpamento potrà essere realizzato. Come sapete, esistono altri quattro enti minori affini all'INAIL per caratteristiche: IPSEMA, IPOST, INAM ed ENPALS per i lavoratori dello spettacolo. Spesso tali enti corrispondono ad alcune specificità: pensate a ENPALS, che per molti aspetti rappresenta un mondo a parte, anche se credo anch'esso debba essere sempre più interessato a utilizzare le opportunità offerte dalla legislazione del lavoro per conferire maggiore regolarità ai rapporti di lavoro nello spettacolo. Nell'attuale sistema dello spettacolo, pochi sono gli eletti e molti coloro che invece godono di minori tutele. Tuttavia, questo è un capitolo lungo e che si dovrà affrontare a parte.
Certamente presenteremo un piano industriale di razionalizzazione dei costi operativi di ciascuno di questi tre enti. Senza dubbio, infatti, vorremmo realizzare almeno i 3,5 miliardi di euro previsti, se possibile, con un'anticipazione delle economie rispetto al decennio ipotizzato.
Probabilmente, sussiste un problema nel sistema provvidenziale, nel medio e lungo periodo. Abbiamo ribadito più volte


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che non intendiamo modificare i cosiddetti «scalini», anche se li consideriamo un errore oneroso, che ci impedisce, o, quanto meno, ci rende più difficile provvedere ad altre politiche sociali.
Tuttavia, oltre il periodo transitorio, oltre le riforme Maroni e Damiano, si pone un problema di verifica della stabilità dei conti previdenziali. Non stiamo ipotizzando di tagliare la spesa previdenziale, bensì stiamo ipotizzando i modi con cui stabilizzare questa spesa in rapporto al PIL, in modo che essa, già invasiva come è rispetto al volume complessivo della spesa sociale, non lo sia ancora di più.
A questo proposito, abbiamo immediatamente due variabili che devono essere risolte positivamente: i lavori usuranti e i coefficienti.
Per quanto riguarda i lavori usuranti, riapriremo un tavolo. Siamo convinti che, a parte esserci un dissenso tra le parti circa quel testo, l'attuale definizione - in particolare del lavoro notturno - si presta a comportamenti collusivi tra le parti in danno del bilancio pubblico, e in particolare dell'INPS. Ripeto, vorremmo discuterne con le parti e, in questo momento, mi appello al metodo, che ancora una volta può avere un valore in sé.
Dobbiamo evitare che i lavori usuranti inneschino comunque, anche se non immediatamente, tiraggi di spesa superiori a quelli che sono stati ipotizzati, già significativamente onerosi.
Dall'altro lato, l'applicazione dei coefficienti non può che essere tempestiva, poiché essi agiscono come stabilizzatori - valuteremo se in modo definitivo o se nel medio-lungo termine c'è bisogno di altro - per garantire la neutralità del sistema previdenziale rispetto all'allungamento delle aspettative di vita.
Per quanto riguarda la previdenza complementare - avremo modo di parlarne più diffusamente - vogliamo dare un impulso molto forte, ripensando, alla luce dell'esperienza, i fattori di ritardo tra i quali, ad esempio, la reversibilità delle scelte. Il lavoratore spesso è intimorito dall'irreversibilità della scelta che è chiamato a compiere, nel caso dell'adesione ad un fondo. Sussiste anche il tema della neutralità delle diverse opzioni, per non parlare del profilo della stessa disciplina fiscale che, ovviamente, può incoraggiare ulteriormente lo sviluppo della previdenza complementare.
Concludo davvero, con un'ultima considerazione. Siamo consapevoli della condizione di impoverimento relativo di molti redditi familiari. La risposta all'impoverimento - che è strutturale e purtroppo colpisce tutte le democrazie industrializzate, soprattutto le economie e le società europee - sta innanzitutto nella crescita.
Partiamo dall'idea che solo la crescita può dare risposta all'attuale impoverimento relativo, solo la produzione di ricchezza, assumendo, in partenza, maggiori garanzie circa la sua distribuzione e anzi facendo in modo, con la disciplina fiscale relativa alle parti variabili del reddito, di incoraggiare la crescita stessa garantendo più eque modalità di distribuzione della ricchezza prodotta.
Esistono poi anche gli «ultimi», quelli veri, che non possono essere confusi con una più generale condizione di malessere. Un pensionato che vive da solo in una casa in affitto, con una prestazione previdenziale molto modesta, è un «ultimo». Una madre che, da sola, alleva i figli in tenera età e che magari ha la casa in affitto, è un'«ultima», alla quale si deve pensare. Costoro non possono essere rinviati al momento in cui il circolo virtuoso della produzione e della distribuzione della ricchezza risolverà il problema.
Per questo pensiamo ad alcuni interventi di breve periodo - che non sono ancora in grado di declinare - che potrebbero anche sembrare di tipo assistenziale, ma che rientrano nell'ambito degli interventi emergenziali, corrispondenti a un bisogno emergente che deve essere soddisfatto, in quanto vitale. Non possiamo confondere i piani: in un quadro più generale di impoverimento dei redditi da lavoro dipendente, non possiamo ignorare quegli ultimi che hanno davvero il problema di non riuscire ad arrivare alla


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quarta settimana. Per questo, prioritariamente, non potremo che seguire il percorso accennato.
Nel medio periodo, sempre nell'ambito di questa legislatura, dobbiamo pensare anche a interventi più strutturali, di più ampia riduzione della pressione fiscale, di più ampia protezione dei redditi da pensione, che sono nell'agenda del Governo, ma che sono inesorabilmente collegati alla ricostruzione di un ciclo di crescita della nostra economia.

PRESIDENTE. Ringrazio il Ministro per questa lunga e significativa relazione.
Solo due considerazioni, prima di lasciare la parola ai colleghi. In primo luogo desidero sottolineare che il termine utilizzato nei giorni scorsi, «deregolazione», non è sinonimo di minori tutele, è una precisazione che ci conforta e che sicuramente aiuta il dibattito pubblico su questo punto. La seconda considerazione dà atto al Ministro di mostrare una sensibilità particolare per il dibattito tra le parti sociali. Credo, tuttavia, che a questo dibattito non debba mancare anche una buona politica, essendo a volte difficoltoso, per le parti, trovare il bandolo della matassa, o addirittura individuare il punto di caduta del bene comune. Certamente la nostra Commissione non farà venir meno la sua sollecitazione nei confronti di una buona politica, che aiuti le parti a trovare un'intesa.
Do quindi la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

CESARE DAMIANO. Signor presidente, penso che dovremmo decidere come organizzare il dibattito, giacché la relazione del Ministro è stata molto compiuta e interessante e sicuramente io non mi limiterò a porre solo delle domande, ma vorrei argomentare, rispetto a quanto ascoltato.

PRESIDENTE. Abbiamo tempo fino alle ore 12...

CESARE DAMIANO. Penso che non si possa sicuramente concludere con questa seduta una discussione di impostazione così importante, a meno di strozzare il dibattito. Non credo che lei voglia farlo, conoscendo le sue intenzioni e il suo atteggiamento, che ho apprezzato.

PRESIDENTE. Infatti, non è nostra intenzione.

CESARE DAMIANO. Svolgerò quindi un intervento vero e proprio. Me ne scuso, chiedendo fin d'ora che si possa calendarizzare un nuovo incontro con il Ministro, anche perché credo che sarà utile al Ministro sentire in modo compiuto le voci della Commissione.
Non possiamo che essere d'accordo su un obiettivo, la crescita del Paese, che è stato richiamato al termine dal Ministro, così come dobbiamo essere assolutamente d'accordo sull'indirizzo che vuole costruire un welfare delle opportunità.
Quando parliamo di welfare delle opportunità e non soltanto di tutele passive, però, penso che accanto ai criteri che sono stati indicati, dovremmo introdurre un principio di equità, che sottende il principio stesso di welfare. Soprattutto, dovremmo vedere come passiamo da questa dichiarazione ai fatti concreti, di carattere legislativo e concertativo.
Ho avuto modo di ascoltare l'intervento del Ministro Sacconi a Santa Margherita Ligure e di seguire il dibattito che ne è conseguito. In quella circostanza, ho avvertito, forse dato anche il carattere della platea, un'accentuazione molto forte sull'espressione «deregolazione» del mercato del lavoro, forse addirittura al di là delle intenzioni del Ministro, nonché l'abbandono di una logica, che avevo sentito affermare fin dall'inizio dell'insediamento del Governo, di - chiamiamola così - continuità rispetto a quanto il precedente Governo aveva svolto sul terreno del mercato del lavoro e dello stato sociale.
Dico questo, fermo restando che è evidente che ciascun Governo, soprattutto quando il colore politico è contrario a quello del Governo precedente, ha una propria e diversa filosofia e impostazione di fondo. Insisto comunque sul concetto di


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continuità nell'accezione relativa del termine, così come ho cercato - da Ministro del lavoro, precedentemente - di utilizzare in termini di continuità alcune ispirazioni che erano ad esempio contenute nella stessa legge Biagi.
Vorrei qui ricordare che abbiamo applicato il lavoro a progetto, così come disposto dalla legge Biagi, con un'efficace azione di diminuzione della precarietà del lavoro. Allo stesso modo, come veniva ricordato, i voucher per la vendemmia non sono nient'altro che l'applicazione di un dispositivo della legge Biagi. Lo stesso discorso vale per l'informatizzazione dei dati relativi al mercato del lavoro.
Presidente, ho ascoltato anche la sua notazione circa la questione della deregolazione. Tra deregolazione e semplificazione il confine è molto sottile. È chiaro che, a seconda della quantità e della qualità degli interventi che si intendono adottare, si può facilmente scivolare da un punto che condivido, ossia la semplificazione e l'adattamento delle normative quando la realtà ci consiglia di andare in quella direzione, verso invece una vera e propria deregolazione e destrutturazione del mercato del lavoro che faccia saltare quell'equilibrio necessario tra lavoro e impresa.
Con ciò intendo dire che il dispositivo sulle dimissioni volontarie, come il Ministro Sacconi sa, è stato un atto del Parlamento. Tra l'altro, esso fu proposto da uno schieramento di centrosinistra, votato favorevolmente da Alleanza nazionale e avversato da altri. Io stesso, dovendo recepire quel dispositivo, ho dovuto farne almeno due edizioni e la norma per come è scritta - lo riconosco - è barocca e ha bisogno di una semplificazione, che non dimentichi, però, il punto di partenza. Purtroppo, infatti, nel mercato del lavoro abbiamo assistito in molti casi alla richiesta di fogli di dimissioni in bianco predisposti nel momento dell'assunzione, soprattutto contro le donne al lavoro.
Se il punto di partenza rimane invariato e se si tratta di semplificare la procedura che l'atto del Parlamento ha consegnato al precedente Governo, in termini anche di difficile attuazione tecnica, sicuramente non oppongo dubbi.
Lo stesso discorso vale per il libro matricola. Nella giornata di ieri mi trovavo a confronto con il sottosegretario Pasquale Viespoli, il quale ha riconosciuto che nelle direzioni del Ministero si sta lavorando a un dispositivo - che avevo già indicato precedentemente - volto a superare il libro matricola, nel momento in cui abbiamo provveduto a informatizzare tutto quello che è l'andamento del mercato del lavoro: assunzioni, dimissioni, trasformazioni da full time a part time e viceversa, che consentono all'attuale Governo di avere una fotografia istantanea degli andamenti del mercato del lavoro.
I miei dubbi sorgono su altre proposizioni del Governo, ad esempio sulla questione del libro paga. A mio avviso, da questo punto di vista non andiamo verso la semplificazione, bensì verso il prevalere di elementi di mancanza di trasparenza. Ho dubbi riguardo al fatto che si sia cancellata la responsabilità solidale del committente nel ciclo degli appalti, che può aprire una strada a quei fenomeni di lavoro nero, di deregolazione del lavoro che dobbiamo invece combattere, e al fatto che si parli di una revisione della normativa sui contratti a termine.
Vorrei ricordare al Governo che questa normativa è stata condivisa da tutte le parti sociali e che la parte relativa alla deroga è fissata in otto mesi non per volontà del Governo, bensì delle parti sociali. Seguendo un avviso comune, CGIL, CISL, UIL, UGL e Confindustria hanno inteso disciplinare quella deroga negli otto mesi.
Chiedo perché, allora, se si dichiara di non volere intervenire nella libera autonomia delle parti sociali, si senta il bisogno di cambiare una normativa relativa alla deroga voluta e condivisa dalle parti sociali e regolata, per azione autonoma, dalle stesse parti sociali.
Questa normativa, con tutti gli elementi di novità che comporta, comincia a produrre qualche effetto. Lei citava giustamente il caso della RAI. Sono contento che


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il sindacato alla RAI, di fronte al fatto che si trattava di stabilizzare 1.300 persone, abbia siglato un accordo che ha tratto spunto da questa nuova regolazione dei contratti a termine, che scagliona - ma conferma - l'assunzione di persone che avevano come minimo, alla RAI, otto anni di anzianità con i contratti a termine, fino ad un massimo di quindici anni.
Mi domando se vogliamo davvero che i nostri figli siano condannati, a vita, a lavori intermittenti, a chiusura, a termine, o spezzati. Il problema della RAI è l'uso di un modello di assunzione e organizzazione del lavoro che purtroppo fa perno sulla dilatazione del lavoro temporaneo, anziché su una organizzazione del lavoro di impresa che sia in grado di passare dal lavoro temporaneo al lavoro stabilizzato.
Non mi convince neppure il fatto che si debba rivedere la normativa che riguarda il tempo parziale, che ha trovato un punto di equilibrio molto importante fra le ragioni dell'impresa e del lavoro, impedendo all'impresa, a vantaggio del lavoratore, uno sconfinamento nel tempo a disposizione del lavoratore, essendo la natura del part time un compromesso fra l'attività prestata al lavoro e l'attività della cura della propria famiglia, di sé o della propria formazione, intrinseco a quel modello di rapporto di lavoro.
Sulle priorità che lei ha indicato, da parte di questo Governo, non sono convinto della scelta di operare, come prima azione, un intervento sugli straordinari e sull'ICI, mentre sono molto favorevole al tema del rapporto fra salario e produttività. Giustamente, lei ha fatto riferimento agli ultimi, ai più deboli, al bisogno di dare tono al potere di acquisto delle retribuzioni e delle pensioni. Io avrei preferito che quei primi miliardi a disposizione fossero andati per potenziare il potere di acquisto delle retribuzioni e delle pensioni, attraverso un'opera di detassazione che potesse anche guardare alla parte medio-alta di quelle retribuzioni, oppure, di continuare l'opera già cominciata dal Governo precedente: penso alla quattordicesima strutturale, che vale 1,3 miliardi di euro per l'anno 2008 e che 3,1 milioni di pensionati riceveranno nel mese di luglio. Si tratta, in media, di 400 euro una tantum all'anno per i pensionati che arrivano fino a 700 euro al mese. Un'opera iniziale di equità che poteva essere continuata.
La ragione per la quale non mi convince l'azione sugli straordinari e l'ICI è la seguente: l'ICI è una misura indistinta. Non voglio fare demagogia, ma chi ha un bellissimo appartamento in una zona centrale di una città come Roma può risparmiare moltissimi soldi grazie a quella manovra, mentre mediamente chi è proprietario di appartamenti molto più modesti consegue un risparmio anch'esso modesto. Sarebbe certo stato meglio, se guardiamo agli ultimi, considerare che esistono ben 7 milioni di famiglie, soprattutto nel Mezzogiorno, che affittano casa. Soprattutto per le giovani coppie che convivono o si sposano, si poteva andare nella direzione di un alleviamento del peso dell'affitto.
Per quanto riguarda la detassazione degli straordinari, si tratta di una misura diseguale (della cui efficacia non sono sicuro), intesa non tanto ad accrescere potenzialmente la produttività, quanto semmai la produzione.
Si tratta di una misura che va a vantaggio delle situazioni in cui lo straordinario si fa, prevalentemente concentrate forse nel centro-nord del Paese e, a macchia di leopardo, anche nel Mezzogiorno. Sicuramente, essa vale meno per le donne ed esclude il pubblico impiego.
Non mi riferisco soltanto ai dipendenti delle ASL di cui lei ha parlato, ma anche a chi si occupa di sicurezza: poliziotti, carabinieri, infermieri, vigili del fuoco. Lavoratori che, tutti, prestano un'opera di carattere anche sociale.
Credo, invece, che la misura sulla produttività illustrata sia da perseguire. In fondo, con la passata legislatura abbiamo già prodotto un'azione di potenziamento della detassazione e della decontribuzione dei salari di produttività, o meglio del premio del risultato che risale al lontano 1993. Questa misura, infatti, incentiva le imprese a estendere la contrattazione, mi auguro, a livello aziendale e territoriale.


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Diversamente, se ascoltiamo l'opinione di Confindustria, che è contro la contrattazione territoriale, escluderemmo interi settori produttivi (sia imprese, sia i lavoratori) - gli artigiani, i commercianti, l'edilizia - dai benefici della decontribuzione e della detassazione.
È nostra intenzione, invece, premiare i lavoratori (non soltanto quelli delle aziende medio-grandi) e la misura prospettata sicuramente aiuta ad andare verso una direzione di riforma dello stesso modello contrattuale (necessaria, se si vuole trovare un nuovo equilibrio fra il contratto nazionale e la contrattazione decentrata).
Faccio presente che, nella definizione del protocollo del 23 luglio scorso, si era svolta una battaglia fra le imprese (da una parte Confindustria e dall'altra parte gli artigiani, i commercianti e le piccole imprese), per affermare il principio del diritto alla detassazione e alla decontribuzione anche per ciò che concerne la contrattazione territoriale.
Credo che tale principio sia molto importante e vada a vantaggio di quei settori che praticano da sempre la contrattazione territoriale.
Per quanto riguarda il taglio delle risorse operato da Tremonti, credo che non si possa tacere il fatto che si tagliano investimenti strutturali per il Mezzogiorno, opere pubbliche necessarie. Si tagliano risorse, ad esempio, per la tutela delle donne dalla violenza sessuale, o a favore della tutela degli immigrati. Si sono tagliate risorse - che mi auguro verranno ripristinate, come ci ha annunciato il sottosegretario, ma su questo vorrei una risposta del Ministro - destinate all'ISFOL, l'ente di formazione nazionale. Se non fossero ripristinate quelle risorse, si impedirebbe la stabilizzazione di 300 lavoratori, ricercatori, laureati con lunghi periodi di contratti a termine alle spalle che avevamo provveduto, proprio con quelle risorse, a stabilizzare (oltre a garantire il finanziamento delle attività dell'istituto).
Esistono inoltre alcune questioni in sospeso, sulle quali vorremmo ricevere qualche assicurazione. In parte lei ha già risposto, e la prima riguarda i lavori usuranti. Esiste una dotazione di 3 miliardi di euro, già certificata dalla ragioneria dello Stato.
So che sussiste un'obiezione sulla questione del lavoro notturno, ma intanto voglio confutare la tesi secondo la quale il dispositivo potrebbe consentire atteggiamenti opportunistici (che possono sempre verificarsi, per carità) nel rapporto fra imprese e lavoratori.
Il principio di erogazione di questo beneficio è talmente stringente, grazie alle clausole di garanzia richieste dalla ragioneria dello Stato, che questi comportamenti sono praticamente esclusi. C'è un principio di selezione ferreo per potere accedere al diritto, attraverso una sua precisa certificazione. Abbiamo scelto di non partire dalle ottanta notti, come recitava originariamente il dispositivo, perché con un tale numero nessun lavoratore beneficerà di questo dispositivo.
Pochissimi lavoratori arrivano alle ottanta notti. Ebbene, d'intesa con le parti sociali, abbiamo scaglionato il beneficio: non tre anni per tutti, in quel caso, bensì uno, due o tre anni, con un costo analogo spalmato anche per chi (penso ai tessili o ai chimici) da 64 notti arriva fino a 71, chi da 72 notti arriva a 77 e per chi sta al di sopra delle 77 notti (3 anni).
Il costo è invariato, ma il beneficio è spalmato ed esteso in modo graduato, con i cosiddetti scalini, in modo tale da comprendere, in un'azione di equità, coloro che svolgono effettivamente lavori pesanti. Il lavoro pesante è sicuramente quello svolto nella cava, nella torbiera, nella miniera. Riguarda chi lavora nel sottosuolo, chi svolge un lavoro alla catena di montaggio, chi si sottopone a determinante turnazioni notturne. Penso che queste persone, in termini di equità, abbiano il diritto di poter andare prima in pensione, ovviamente in relazione all'innalzamento graduale dell'età pensionabile fino a 61 anni, che abbiamo previsto, con le relative scalettature.
Sappiamo che la delega è scaduta il 31 maggio e vogliamo sapere come il Governo,


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al di là della riapertura di un confronto con le parti sociali, intenda mantenere aperta questa situazione, giacché non vorremmo - mi pare che lei lo abbia detto con chiarezza - che queste risorse fossero stornate per altri usi. Vorremmo invece che andassero nella direzione prevista, a vantaggio di questi lavoratori.
Ancora in termini di equità e di intervento: lei ricorderà, onorevole Sacconi, quando ci siamo incontrati per il passaggio di consegne e abbiamo intrattenuto un'amabile conversazione di oltre un'ora, che io le ho consegnato tre dossier: sui lavori usuranti, sugli enti previdenziali, sui giovani.
Chiederei al Governo di dare attuazione - io non ce l'ho fatta, per evidenti motivi - a un dispositivo amministrativo che utilizza i 150 milioni di euro di fondo, già stanziati e coperti dalla Ragioneria, a vantaggio dei giovani, sia nei momenti di disoccupazione, sia per il finanziamento delle attività di intrapresa (soprattutto per quanto riguarda le donne), sia per sostenere il passaggio di attività, nell'artigianato e nel lavoro autonomo, di generazione in generazione. Si tratta di risorse presenti, che hanno solo bisogno di essere attivate.
Su tutto ciò può essere individuato un elemento di convergenza se, anziché dare peso all'aggettivazione «deregolazione del mercato del lavoro», si procede verso elementi di adattamento e di semplificazione, ma soprattutto verso quella continuità positiva, laddove si riscontri, anche nel passato Governo, un'azione che ha cercato di guardare alle questioni di carattere sociale.
Quanto al Testo unico sulla sicurezza, sono molto preoccupato. Esso è diventato, infatti, legge dello Stato, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 1o maggio scorso. Preferirei dunque un'azione di applicazione e - in corso d'opera - di eventuale revisione. Devo dire che l'approvazione del Testo unico non ha trovato solo un voto favorevole di partiti come Alleanza nazionale (e, mi pare, anche l'astensione di Forza Italia nella passata legislatura), ma riguarda in definitiva un compendio che raggruppa trent'anni di legislazione sul lavoro. Come tutte le azioni così radicali non è esente da difetti - ci mancherebbe! - e conosco perfettamente le obiezioni delle imprese, anche se devo dire che tra Confindustria e le piccole imprese autonome, come ad esempio gli artigiani, esistono valutazioni con sfumature abbastanza diverse.
Si parla di una lacerazione. Credo che si tratti, anche su questo, di mettersi d'accordo. Penso che alcuni esponenti del Governo attuale, anche nel passato, abbiano teorizzato che la concertazione si fa con chi ci sta. Non è stato questo il mio intendimento, poiché io ho passato mesi e mesi di concertazione con le parti sociali. La concertazione è quell'atto che non può sempre scontare l'unanimità su un dispositivo e il Governo, alla fine, ha il diritto di procedere e di arrivare ad una conclusione. Alcune organizzazioni sindacali, all'epoca, non furono assolutamente concordi sulla detassazione degli straordinari alla quale avevo provveduto applicando una norma del '95, rimasta in vigore fino a quel momento.
Sono preoccupato, perché si conferisce eccessiva enfasi alla parte relativa alle sanzioni. Credo che ciò rappresenti una lettura parziale della situazione. Non possiamo dimenticare l'appello del Presidente della Repubblica sulle questioni degli incidenti e delle morti sul lavoro. Non possiamo pensare di dimenticare l'attenzione che l'opinione pubblica presta a questi argomenti, dal momento che muoiono, in Italia, circa 1.300 persone.
Sono molto soddisfatto, perché, lo ripeto, su questo testo si sono verificate convergenze importanti in Commissione e in Parlamento e inoltre, grazie all'azione di tutti, si sono prodotte iniziative di legge che contrastano il lavoro nero e la precarietà, togliendo i presupposti che predispongono all'infortunio anche mortale.
I dati dell'INAIL ci dicono che il consuntivo del 2006 è di 1.341 morti, mentre il consuntivo, ancora provvisorio, ma sovrastimato in negativo, per il 2007 è di 1.260 vittime.


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Per carità, anche un solo morto è una tragedia - questo lo sappiamo - e la diminuzione del 6 per cento non è ancora in linea con le richieste dell'Europa, ma è la testimonianza dell'efficacia di un'azione che ha prodotto qualche miglioramento.
Il Testo unico può fornire ulteriori risultati: non si deve tacere che in esso sono previste azioni quali il credito di imposta che rimborsa il 50 per cento della formazione, qualora l'azienda faccia formazione ai propri dipendenti.
Si deve ricordare che nel Testo unico è prevista la formazione scolastica e universitaria, o meglio la possibilità di portare questi argomenti all'interno delle sedi scolastiche e universitarie, per preparare i giovani all'incontro con il mondo del lavoro, e ancora si propone un'autorità coordinata a livello nazionale e si fa riferimento agli enti bilaterali che possono svolgere, effettivamente, un'azione molto forte.
Le sanzioni sono relative alle violazioni. Si parla di arresto. Certo, ciò è previsto in un caso: quando un imprenditore di una fabbrica di esplosivi, o similari, non produce il documento di rischio. Nel caso, però, in cui si rilevi un ravvedimento operoso, che provveda ad eliminare le cause che hanno portato a questa sanzione, si passa a una semplice ammenda.
Tra l'altro, faccio notare che, rispetto alla delega consegnateci dal Parlamento, il testo (che sulle sanzioni è stato redatto dal Ministero della giustizia, in concorso con il Ministero della salute e con quello del lavoro e della previdenza sociale) rimane ben al di sotto delle indicazioni dei tetti massimi di sanzione previsti dalla medesima delega.
Avrei ancora moltissime cose da dire, ma capisco di dover tenere un comportamento consono e quindi non intendo rubare altro tempo ai colleghi, ferma restando, però, la richiesta di proseguire questa discussione.
A proposito della previdenza, prendo atto positivamente del fatto che, pur obtorto collo, il Governo non intenda procedere a una revisione delle riforme introdotte dal precedente Governo.
Qualcuno dice che si tratta di riforme inopportune e sbagliate; io ribatto che si tratta di riforme che hanno dato un senso di giustizia, eliminando lo scalone, introducendo i coefficienti, i lavori usuranti, pagando le pensioni più basse attraverso l'istituzione della quattordicesima, dando origine a un impianto organico a vantaggio di chi fatica nel lavoro e soffre una bassa resa dell'assegno pensionistico. Si tratta di assicurare la stabilità dei conti.
Mi permetto di suggerire al Ministro Sacconi un piccolo intervento di aiuto. Nel dicembre del 2007, avevo predisposto un provvedimento che, per quanto riguarda i centri provinciali dell'INPS, elimina 2 mila soggetti coinvolti, con un risparmio di circa 435 mila euro l'anno. Si tratta di un piccolissimo contributo che, per una serie di motivi di carattere procedurale, penso sia rimasto inattuato. Ebbene, chiedo che questa norma sia attuata.
Con le parti sociali, abbiamo deciso di ridurre drasticamente il numero dei componenti dei comitati provinciali dell'INPS. È un elemento di risparmio che trovo importante (a meno che vogliate eliminarli del tutto, ma quello è un altro discorso).
Come sempre, come è mio costume, porto all'attenzione un piccolo risultato che, nel caso in cui non si facciano azioni più importanti, può essere già a portata di mano.
Per quanto riguarda l'INPS, vorrei soltanto dire che sicuramente abbiamo bisogno di guardare alla stabilità dei conti, e l'abbiamo fatto. Abbiamo lavorato per la lotta all'evasione contributiva e al lavoro nero. Per i contributi evasi accertati, nel 2002 avevamo 600 milioni, nel 2007 1,5 miliardi. C'è stato un balzo significativo in avanti.
Per quanto riguarda il settore dell'agricoltura, signor Ministro, vorrei dirle che nel 2003 avevamo risparmiato, per prestazioni non erogate a seguito di rapporti di lavoro fittizi, 7,9 milioni di euro. Siamo passati, nel 2070, a 234 milioni di euro.
Ciò equivale a dire che nel 2003 si erano cancellati tremila rapporti di lavoro fittizi e, nel 2007, 111 mila rapporti di lavoro fittizi. Gli incassi dei contributi


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sono passati, da 104 nel 2006, a 121 nel 2007. Il fabbisogno da parte dello Stato è passato dai 75 miliardi del 2006 ai 70 miliardi del 2007. Insomma, abbiamo portato avanti un insieme di azioni di bonifica dei conti che possono dare il senso di un equilibrio tendenziale.
Se si dovesse dare il via a un'operazione di irrobustimento dell'azione sulla previdenza complementare, sono d'accordo sull'introduzione di un principio di reversibilità, che può aprire la strada a nuove adesioni, così come ad una diminuzione ulteriore del peso fiscale sulla prestazione complementare, che può anch'essa andare in questa direzione.
Concludo dicendo che, naturalmente, tutte le misure potranno essere apprezzate o meno, se passiamo, ripeto, dalle logiche della deregolazione spinta a logiche di semplificazione, in sostanza ad un punto necessario e irreversibile di equilibrio, tra le ragioni dell'impresa e le ragioni del lavoro, che deve secondo me, ispirare sempre una politica sociale.

PRESIDENTE. Non ho voluto contenere né la relazione del Ministro, né l'intervento dell'onorevole Damiano. È chiaro, però, che dobbiamo anche tener conto di tutti gli altri colleghi, che sicuramente hanno quesiti da porre al Ministro.
Credo che diventi inevitabile dedicare una prossima seduta esclusivamente alle domande, in modo che il Ministro abbia la possibilità di replicare. Ci sono ancora tre iscritti a parlare. Se non vogliamo lasciare che questi interventi rimangano appesi a una successiva risposta, dobbiamo lasciare ulteriori cinque minuti al Ministro per replicare alle domande.
Senza voler contenere nessuno, chiunque ritenesse di iscriversi per un intervento più corposo, è pregato di rimandare alla prossima seduta. Viceversa, se qualcuno vuole porre un domanda precisa, questa è l'occasione buona per ottenere immediatamente una risposta.

SESTINO GIACOMONI. Ringrazio il Ministro Sacconi per l'ampia e dettagliata relazione, frutto di idee chiare e, soprattutto, della volontà di portare avanti un programma di legislatura. Siamo qui, come componenti della Commissione lavoro, per svolgere questo lavoro anche insieme all'opposizione, nella speranza di fare davvero qualcosa nell'interesse del Paese e, soprattutto, dei giovani.
Sinceramente, sono invece perplesso sulla prassi della controrelazione svolta dall'onorevole Damiano: se ognuno di noi dovesse esporre una controrelazione, l'audizione durerebbe tutta la legislatura!
Intendo richiamare il Ministro Sacconi a un tema di attualità. Sulla stampa, in questi giorni, da più parti e anche da parte di autorevoli esponenti dell'opposizione (tra gli altri, il professor Ichino), è stato sollevato il tema della flessibilità in uscita. Le chiedo, signor Ministro, che non ha trattato questo argomento, se secondo lei il Governo possa - e debba - intervenire sul tema delle normative che riguardano la flessibilità in uscita.
Ricordo che il tema era stato affrontato in maniera dettagliata, anche nel patto per l'Italia, sottoscritto all'epoca da tutte le parti sociali, tranne la CGIL. Quest'ultima, come sappiamo, è contraria «a prescindere», anche se in questo caso, sulle proposte di Ichino, personalmente ho registrato un assordante silenzio da parte della CGIL.

LUIGI BOBBA. Seppur brevemente, seguendo la scaletta del Ministro, vorrei toccare cinque punti, evitando i temi di carattere generale, che sono già stati affrontati.
Vorrei capire meglio che cosa intendesse con l'utilizzazione o introduzione di voucher riguardanti i cosiddetti «lavori accessori». La domanda è dovuta anche al fatto che, tra pochi giorni, depositerò un progetto di legge che, facendo tesoro dell'esperienza francese, tende a utilizzare questo strumento prioritariamente nei lavori che hanno a che fare con la vita familiare, la casa, la cura delle persone, uno strumento che in Francia ha dato risultati straordinari, sia in termini di emersione, sia di regolarità, nel senso di


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semplificazione (penso all'esempio della colf, citato dal Ministro).
Naturalmente, il tutto ha funzionato, perché quel tipo di attività contiene una significativa detassazione, cioè defiscalizzazione del costo, senza la quale probabilmente questa operazione non so che risultati potrebbe dare.
In secondo luogo, vengo al tema dei diritti fondamentali. Il Ministro ha seguito, in sostanza, le quattro categorie dell'OIL (Organizzazione internazionale del lavoro): sicurezza, ambiente, occupabilità e giusta retribuzione. Il punto che voglio sollevare è legato al tema - che riguarda anche la questione del cosiddetto «lavoro decente» - della tendenziale stabilità dell'attività lavorativa. Mi pare che il Ministro non abbia toccato questo argomento che, tuttavia, mi sembra importante.
Voglio citare un dato recente della mia provincia, quella di Vercelli, dove l'86 per cento dei nuovi contratti di lavoro (non mi riferisco al solo apprendistato) sono a tempo parziale, oppure atipici; il che significa che l'ingresso è sostanzialmente determinato da forme contrattuali atipiche.
Il terzo punto riguarda la leva formativa. Sono d'accordo con il Ministro in proposito, ma vorrei far osservare che forse non esiste un solo soggetto in grado di provvedere. Non si può dire che solo l'impresa è in grado di fare formazione, mentre tutto il resto va male. Mi pare che l'esperienza dimostri che esistono imprese e enti che fanno buona formazione e viceversa. Forse il tema andrebbe spostato su due principi essenziali, uno dei quali è già stato introdotto dal Ministro. Il primo consiste nel passare dal criterio dell'offerta a quello della domanda. Non a caso, si è rilevato un forte successo dei cosiddetti «voucher individuali», che le regioni utilizzano nella domanda formativa.
Il secondo principio, che vorrei sottolineare, è il passaggio dal controllo di tipo formalistico, che oggi assorbe una parte assolutamente abnorme delle risorse destinate all'intervento formativo, a un controllo di tipo sostanziale.
Sempre su questo punto, avrei qualche dubbio sull'efficacia degli enti bilaterali che, per quanto riguarda la cosiddetta formazione continua, a cui è destinata la quota dello 0,30 per cento delle retribuzioni dei lavoratori, mi pare non abbiano dimostrato fino ad ora grande affidabilità, sia in termini quantitativi, che qualitativi.
Forse, anche da questo punto di vista, occorrerebbe spostare l'attenzione sulla domanda, più che sull'offerta.
Il quarto aspetto che vorrei sottolineare attiene alla riforma degli enti previdenziali. Avendo fatto parte della Commissione di vigilanza e controllo degli enti nella scorsa legislatura, segnalo - ma forse il Ministro lo sa già - l'esistenza di un documento conclusivo, elaborato da questa stessa Commissione, che contiene elementi che sono in linea con quanto affermato dal Ministro. Mi riferisco al fatto che non ha senso riunire INPS, INPDAP e INAIL, mentre la linea essenziale consiste nell'accorpare gli enti più piccoli e mantenere distinti in particolare INPS e INAIL, seppure in un quadro di riorganizzazione.
Infine, mi pare che non sia stata spesa alcuna parola riguardo all'occupazione femminile, che considero una vera e propria emergenza nazionale e che credo meriterebbe una posizione prioritaria nelle politiche del Governo.

TERESA BELLANOVA. Signor presidente, vorrei subito ringraziare il Ministro per il rispetto che ha portato a questa Commissione. Ho apprezzato molto il fatto che egli abbia voluto illustrare in modo compiuto il programma sui temi di competenza sua e della nostra Commissione.
Alcuni punti inseriti nella comunicazione andranno sviluppati e valutati; quando si passerà agli articolati, alla fase attuativa, in linea di principio mi sento di dire che è cosa condivisibile puntare ad un welfare che, come ricordava il Ministro, parta da una «vita buona nella società attiva». Si tratterà poi di declinare, ragionare e sicuramente confrontarci nel merito.
Credo che sia condivisibile pensare che un nuovo modello sociale debba mettere al centro un welfare delle opportunità, a fronte di un welfare risarcitorio, che credo


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tutte le parti, oramai, individuano come un modello che ha fatto il suo tempo. Nella nuova dimensione e organizzazione del lavoro, dei nuovi lavori, occorre pensare a un modello inclusivo, che parli alle nuove figure, a fronte di un modello che oggi è massimamente concentrato sulla cosiddetta parte «dei garantiti».
È condivisibile il tema volto a rilanciare con forza la formazione per tutto l'arco della vita. Una formazione - lo dico con una battuta - che guarda più agli utenti che ai formatori. Anche su ciò si pone, peraltro, un problema di non secondaria importanza e che riguarda il modo in cui la formazione diventa spendibile su tutto il territorio nazionale e, in modo orizzontale, nei diversi settori. Sicuramente il Ministro sa, quanto e più di me, che il tema andrà affrontato nella Conferenza Stato-regioni.
Mi è anche sembrata un po' debole la parte della relazione concernente la formazione all'interno dell'impresa. Credo che a tal riguardo non debba sussistere un approccio ideologico da alcuna delle parti e che bisognerà in qualche modo misurarsi con il tema dell'impresa formativa. Nel nostro Paese, se sono vere le cose che ci siamo detti in ordine ai settori in difficoltà, alla poca innovazione, alla piccola e piccolissima impresa, probabilmente non tutte le imprese sono formative.
Mi sento di dire, comunque, che in questa Commissione anche la nostra parte darà sostegno sui punti condivisi e su quelli su cui si vorrà ragionare nel merito, trovando le opportune mediazioni, avendo a mente il bene del Paese. Ci sarà un'opposizione rigorosa sul merito, ma non un'opposizione pregiudiziale.
Su due ulteriori punti volevo richiamare l'attenzione del Ministro: innanzitutto, su un provvedimento che ha trovato nella legislatura precedente (almeno in questo ramo del Parlamento) una grande condivisione e che oggi vedo inserito fra le priorità che il Ministro dichiara, in merito alla volontà di apportare modifiche. Mi riferisco alla legge sulle dimissioni in bianco. Vedo qui il collega Baldelli, protagonista di quella discussione, sia in questa Commissione, sia in aula, assieme a tanti altri colleghi di Forza Italia e di Alleanza Nazionale.
Signor Ministro, su quella proposta di legge, sento di ribadirle oggi le argomentazioni di allora. Abbiamo preso atto di un fenomeno che in questo Paese è assai diffuso, nella mia Puglia, come nel suo Veneto e non solo nel settore del lavoro familiare, bensì soprattutto nei settori industriale e dei servizi.
La pratica di richiedere la lettera di dimissioni in bianco è molto più diffusa di quanto possiamo immaginare. Essa non incide sui soggetti forti, bensì su quelli più deboli del mercato del lavoro, in modo particolare sulle donne. Inoltre, è una pratica che viene posta in essere nel momento in cui le persone sono più vulnerabili. In un Paese che discute tanto di famiglia, di problema demografico, di incremento delle nascite, è nel momento in cui le donne che lavorano decidono di fare un figlio, che quella lettera di dimissioni in bianco compare e che viene operato il licenziamento; compare nei confronti di quei soggetti che sono costretti a lavorare in imprese caratterizzate dalla doppia busta paga (vale a dire, che si lavora per otto ore al giorno, per 26 giorni al mese, e alla fine del mese ci si trova una busta paga che corrisponde a 80 ore; oppure ci si trova con una busta paga che è di 173 ore ma il salario è dimezzato); nel momento in cui le lavoratrici in modo particolare, ma anche fasce di lavoratori, chiedono il rispetto dei propri diritti contrattuali.
Prima di procedere a un'operazione di messa in discussione di quella legge, la inviterei a riflettere attentamente sul problema che si è cercato di risolvere. Non credo che con quella proposta si inseriscano tali e tanti procedimenti burocratici da creare problemi alle imprese che effettivamente vogliono rientrare nelle regole.
Lei parla di rivolgersi alla magistratura, ma mi chiedo se, da legislatori, possiamo costringere una donna che vuole fare un figlio, o una lavoratrice che vuole il rispetto del suo salario, a dover ricorrere al


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magistrato per contestare un licenziamento ingiusto, estorto con una lettera in bianco.
Il problema è quello dell'immigrato che a un certo punto decide di rientrare nel suo Paese, ma nella nostra legislazione, con l'inserimento delle procedure per le dimissioni in bianco, non è stato certo inibito il ricorso al licenziamento per giusta causa.
Credo che sarebbe opportuna una maggiore riflessione, prima di passare alla cancellazione di quella proposta.
Vengo al tema del lavoro sommerso. Ho ascoltato un approccio che, se ho compreso bene, non mi convince molto, signor Ministro. Il sommerso nel nostro Paese è molto ampio. Anche in questo caso si parla del Mezzogiorno, dove sicuramente il fenomeno è più devastante, ma il lavoro sommerso esiste anche nel nord del Paese e mi pare non si possa sostenere che esso sia solo dovuto ai costi e alla burocrazia, da cui deriva la necessità di deregolare per farlo emergere. Dovremmo piuttosto, per una volta, provare a condurre una battaglia insieme, maggioranza e opposizione, parti sociali datoriali e dei lavoratori, per affermare la cultura della legalità nel lavoro e nel nostro Paese, da Aosta a Canicattì.
Esiste un elemento, forse, sul quale dovremmo ragionare per inserire le opportune decisioni legislative riguardanti le imprese che pensano di far fronte al ritardo nell'innovazione dei processi e dei prodotti ricorrendo all'abbattimento dei costi e quindi al lavoro nero, irregolare. Se pensiamo che sia solo una questione di deregolazione, riflettiamo sul provvedimento che il Governo Berlusconi, dal 2001 al 2006 pose in essere, per quanto riguarda l'emersione: meno di mille persone furono regolarizzate. Un'ostilità del sistema delle imprese che fa ricorso al lavoro nero ha segnato il fallimento di un provvedimento, che pure superava tanti aspetti burocratici, che sanava tutto, fino al condono tombale.
Ebbene, la questione del lavoro nero è più complessa della sola esigenza di deregolare i rapporti di lavoro. Probabilmente, Ministro, dovremmo ragionare su politiche che puntano ad una premialità per le imprese che investono sul lavoro in chiaro e puntare anche a far funzionare, di più e meglio, gli strumenti della repressione. Non bisogna avere paura a pronunciare questa parola.
Nel momento in cui si assume il principio e la convinzione che il lavoro regolare aumenta la ricchezza del Paese e risponde all'esigenza di una «vita buona in una società attiva», credo che per combattere il fenomeno dell'evasione occorra far funzionare anche gli strumenti della repressione verso quella parte di impresa, sicuramente minoritaria, che esiste ed è irriducibile al rispetto di ogni regola.

PRESIDENTE. Essendovi altri iscritti a parlare, preso atto della disponibilità del Ministro a tornare in Commissione, rinvio il seguito dell'audizione ad altra seduta.

La seduta termina alle 12,10.

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