Frontespizio Relazione Progetto di Legge

Nascondi n. pagina

Stampa

PDL 1781

XVI LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 1781


PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

DI PIETRO, DONADI, PALOMBA, BORGHESI, EVANGELISTI, BARBATO, CAMBURSANO, CIMADORO, COSTANTINI, DI GIUSEPPE, FAVIA, ANIELLO FORMISANO, GIULIETTI, MESSINA, MISITI, MONAI, MURA, LEOLUCA ORLANDO, PALADINI, PALAGIANO, PIFFARI, PISICCHIO, PORCINO, PORFIDIA, RAZZI, ROTA, SCILIPOTI, ZAZZERA

Revisione della normativa processuale del lavoro e delega al Governo per la razionalizzazione del procedimento amministrativo contenzioso in materia di previdenza e assistenza obbligatoria

Presentata il 13 ottobre 2008


      

torna su
Onorevoli Colleghi! - Nel corso della XV legislatura la Commissione per lo studio e la revisione della normativa processuale del lavoro istituita presso l'ufficio legislativo del Ministero della giustizia, nominata dal Governo e presieduta dal magistrato della Corte di Cassazione addetto alla Corte Costituzionale dottor Foglia, ha presentato il 21 maggio 2007 la conclusione del proprio lavoro.
      Il termine anticipato della legislatura non ha consentito che lo studio si traducesse in un disegno di legge da sottoporre all'esame del Parlamento.
      Con la presente proposta di legge si recepiscono integralmente e testualmente, con i necessari adeguamenti, l'articolato e la relazione della «Commissione Foglia».

Premessa.

      Sulla crisi del processo del lavoro, tra gli aspetti più allarmanti della crisi della giustizia civile, e sulle sue ragioni di fondo, si dibatte da anni concordando sulla molteplicità delle sue origini - da quelle socio-economiche a quelle culturali, dall'accresciuto accesso alla giustizia alle ragioni politico-normative, ai difetti strutturali del sistema giudiziario eccetera - senza escludere fenomeni che documentano, talora, un «abuso» del processo del lavoro, come dimostrano recenti esperienze (si pensi all'esorbitante numero di controversie dei dipendenti di Poste italiane Spa, in materia di contratti a termine, e a quelle, nondimeno, a carattere alluvionale, concernenti le integrazioni al trattamento minimo delle pensioni, l'indebito previdenziale, i prepensionamenti nel settore degli autoferrotranviari, per citarne solo alcune) che hanno ulteriormente messo a dura prova la gestione, già sofferente, di un processo che il legislatore del 1973 voleva particolarmente celere e che, tra l'altro, non ha potuto fruire dei benefìci connessi all'introduzione del giudice di pace e del «giudice unico».
      Al contempo, il confronto con la situazione esistente in altri Paesi membri dell'Unione europea e le severe censure mosse più volte all'Italia dalla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo per l'eccessiva durata dei nostri processi, rendono ancora più evidenti - anche al di fuori del nostro Paese - le disfunzioni e i ritardi del nostro sistema il quale si pone, ormai, in aperta violazione del nuovo articolo 111 della Carta fondamentale, che ha costituzionalizzato il principio della ragionevole durata del processo.
      Ulteriori motivi di sofferenza derivano da più parti in particolare:

          a) dall'attribuzione alla giurisdizione del giudice del lavoro delle controversie sul pubblico impiego;

          b) dall'incremento delle controversie di massa e di quelle «seriali»;

          c) dall'insoddisfacente esperienza conciliativa e arbitrale quale strumento di deflazione dei carichi di lavoro giudiziario;

          d) dall'introduzione di nuovi tipi contrattuali, non privi di ambiguità definitorie, e per questo responsabili di incrementare ulteriormente il contenzioso;

          e) dalla perdurante in operatività di «filtri» (ad esempio quello individuato nei procedimenti di certificazione) ancora incapaci di deflazionare il carico di lavoro giudiziario.

      A tutte queste cause vanno aggiunti i persistenti vuoti di organico (non solo dei magistrati, calcolati dal Consiglio superiore della magistratura (CSM) in oltre 1.000 unità al dicembre 2006, ma anche del personale amministrativo) e i ritardi che si registrano (anche presso il CSM) nell'attribuzione di funzioni e di sedi (anche per coloro che da mesi sono in attesa di riprendere le funzioni giudiziarie, una volta cessato il collocamento fuori ruolo), ovvero nella copertura di posizioni direttive particolarmente cruciali, ragioni tutte che contribuiscono ad accrescere la precarietà dell'intero sistema giudiziario e anche della giustizia del lavoro.
      La situazione di collasso si riassume in dati statistici assai significativi che fotografano una situazione, presso le giurisdizioni di merito, che manifesta ancora modesti segni di recupero. In primo grado, a fronte di 1.104.553 cause pendenti nel 2000 (di cui 320.662 in materia di lavoro e 783.891 in materia previdenziale), si sono registrate, a fine 2004, 956.643 cause (di cui 315.935 di lavoro e 640.708 di previdenza e assistenza). In grado di appello, a fronte di 135.765 cause pendenti nel 2000 (di cui 55.965 di lavoro e 79.800 di previdenza) se ne sono avute 135.351 a fine 2004 (di cui 51.969 di lavoro e 83.382 di previdenza e assistenza); cfr. ISTAT, statistiche sulle cause di lavoro, previdenza e assistenza in Italia (bollettino del 16 maggio 2006).
      Tale situazione non risparmia neanche i livelli massimi della giurisdizione (è sufficiente ricordare come rispetto al 1990, anno nel quale la Cassazione civile «produsse» poco più di 12.000 sentenze, di cui 5.000 di lavoro, alla fine dell'anno 2006 - a parità di giudici «addetti» - si è raggiunto il record di circa 30.000 decisioni, di cui almeno 10.000 di lavoro).
      Non meno allarmante è la situazione in ordine alla durata dei giudizi in primo e in secondo grado. Nel 1994 occorrevano in media 518 giorni per giungere alla definizione delle controversie di lavoro in primo grado e 658 giorni per le controversie di previdenza ed assistenza: a fine 2005 i «tempi» si sono allungati, rispettivamente, a 698 giorni e 843 giorni per ciascuna delle controversie indicate.
      In appello, le durate medie complessive si sono lievemente ridotte: a fronte di 1.023 giorni per le cause di lavoro e 790 giorni per quelle previdenziali, nel 1994, nel 2003 si sono registrati 794 giorni per le cause di lavoro e 884 per quelle previdenziali; cfr. la relazione del procuratore generale presso la Corte di cassazione sull'amministrazione della giustizia nell'anno 2004, p. 38, in cui si sottolineava che le controversie di lavoro e previdenza rappresentavano, nel 2004, il 43 per cento del contenzioso civile in primo grado e il 46 per cento del contenzioso civile d'appello, avvertendo come «a questo dato dev'esser fatto riferimento per determinare il numero dei magistrati da assegnare alle sezioni lavoro», nonché sui tempi «biblici» di fissazione delle udienze di discussione (situazione che, peraltro, presenta termini vistosamente differenziati a seconda della localizzazione geografica degli uffici giudiziari).
      Già nel maggio 2001, nel consegnare i risultati della prima Commissione di riforma istituita nel 2001, fu sottolineato con forza che tra tante polemiche, su un punto esisteva un accordo pressoché unanime, e cioè la ferma convinzione che occorreva prima di tutto creare le condizioni (organizzative e materiali) affinché l'impianto processuale delineato dalla legge 11 agosto 1973, n. 533, fosse rimesso in grado realmente di funzionare, nella convinzione (allora come ora) che esso rappresentasse ancora oggi uno dei migliori modelli di garanzie giurisdizionali anche in confronto ai sistemi vigenti nei Paesi europei a democrazia più avanzata.
      È bene sottolineare che su questa valutazione di fondo esiste un larghissimo consenso da parte della dottrina, la quale ha affrontato, a vario titolo, il problema dei possibili interventi sul processo del lavoro.
      L'iniziativa del 2001 seguiva di un paio di anni l'altra - avviata dal Ministro del lavoro pro tempore (Tiziano Treu) - mirata in particolare sulle controversie previdenziali.
      Nel corso di tutta la XIV legislatura i lavori della Commissione sono stati accantonati, ma, nonostante questo lungo silenzio, le riflessioni maturate al suo interno hanno trovato riscontri confortanti in varie sedi culturali e professionali (da ultimo, l'incontro organizzato dal CSM il 21 marzo 2006 con la partecipazione di circa 100 giudici del lavoro) e in sede parlamentare (le proposte di legge atti Camera n. 3777 della XIV legislatura, firmataria, tra gli altri, l'onorevole Anna Finocchiaro, e n. 106 della XV legislatura, e i disegni di legge atti Senato n. 2144 della XIV legislatura, firmatario, tra gli altri, il senatore Treu, e n. 1047 della XV legislatura, primi firmatari i senatori Salvi e Treu) i quali hanno recepito, in gran parte, il testo licenziato dalla Commissione.
      La Commissione di studio, voluta dai Ministri della giustizia e del lavoro e della previdenza sociale (decreto del Ministro della giustizia 28 novembre 2006), e insediata il 20 dicembre 2006, è partita dalla constatazione che la lunghezza del processo del lavoro si pone con accenti di particolare gravità allorché la controversia ha ad oggetto aspetti essenziali del rapporto di lavoro che toccano la persona del lavoratore o la corretta funzionalità dell'impresa, aspetti che vengono sempre più in evidenza di fronte alle nuove realtà produttive, in un contesto sovranazionale, nel quale le esigenze di flessibilità indotte da una concorrenza sempre più agguerrita ed i fenomeni di esternalizzazione delle imprese reclamano nuovi ed efficaci strumenti di tutela specie in materia di licenziamento, di apposizione del termine al contratto di lavoro, di trasferimento dei lavoratori e di cessione di rami d'azienda.
      Da qui l'esigenza di riformare la normativa processuale del lavoro per adeguarla all'incremento delle controversie conseguente all'evoluzione dei rapporti sociali e all'attribuzione alla giurisdizione ordinaria delle cause relative al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti; la necessità di stimolare l'efficacia deflattiva del tentativo obbligatorio di conciliazione e di rivitalizzare, per quanto possibile, i meccanismi arbitrali di risoluzione del contenzioso lavoristico, alternativi alla giurisdizione statuale; la necessità di individuare meccanismi processuali di urgenza per la definizione delle controversie di lavoro nelle materie più sensibili come quelle indicate.
      Del resto, un forte richiamo all'effettività delle tutele perviene non solo dalle sentenze di condanna della Corte di Strasburgo (per violazione dell'articolo 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848), ma anche dall'ordinamento comunitario il quale, pur senza intervenire direttamente sui sistemi processuali nazionali, reclama - sia attraverso le sue norme (a cominciare dagli articoli 10 e 67 del Trattato istitutivo della Comunità europea, per non trascurare i princìpi enunciati nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea di Nizza, in termini di effettività della giustizia), sia attraverso la giurisprudenza sempre più incisiva della Corte di giustizia delle Comunità europee - interventi adeguati e concretamente operativi, capaci di reale forza persuasiva o dissuasiva, per assicurare l'attuazione dei diritti armonizzati per tutti i cittadini dell'Unione europea.
      Non si tratta di raccomandazioni di stile, ma di disposizioni dotate di forza precettiva immediata la cui inosservanza potrebbe essere sanzionata, attraverso una procedura di infrazione, come violazione degli obblighi di conformazione alle norme comunitarie.
      Come noto, il processo del lavoro è il luogo privilegiato di applicazione della normativa comunitaria nella quale la politica sociale ha conquistato - specie con gli ultimi Trattati di Amsterdam e con la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea - una posizione di indubbia centralità.
      Sul piano dell'efficienza del sistema, il nostro processo del lavoro - pur ispirato a livelli di garanzia formale più avanzati - mostra ritardi e carenze non più tollerabili una volta che la nostra giurisdizione, chiamata a confrontarsi sui nuovi piani della cooperazione giudiziaria transfrontaliera, è inserita in un circuito di competenze in ambito comunitario, secondo le regole della Convenzione concernente la competenza giurisdizionale e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, firmata a Bruxelles il 27 settembre 1968, di cui alla legge 21 giugno 1971, n. 804, ulteriormente valorizzate dal regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000 (in vigore dal 1o marzo 2002).
      Del resto, con la diffusione delle imprese e dei servizi transnazionali e la crescente mobilità dei lavoratori in territori in ambito comunitario, la domanda di giustizia, nel nostro Paese, promana, sempre più frequentemente, da nuovi utenti nei cui confronti la risposta giudiziaria rischia di compromettere le propensioni, anche economiche, verso il nostro Paese, in favore delle realtà esterne.
      Il punto di partenza - unanimemente condiviso nella Commissione - consiste in alcune opzioni fondamentali di principio che hanno ispirato la ricerca dei possibili rimedi per recuperare la funzionalità del processo del lavoro.
      Tali opzioni si possono così sintetizzare:

          a) la conferma del modello processuale introdotto dal legislatore del 1973 (citata legge n. 533) e la validità - almeno tendenziale - dei tria bona di chiovendiana memoria (oralità, concentrazione, immediatezza);

          b) la preferenza verso una specializzazione assicurata da giudici professionali (togati) in tutti i livelli del giudizio;

          c) la consapevolezza di realtà «processuali» assai diversificate tra uffici giudiziari del nord rispetto a quelli del centro-sud;

          d) l'opportunità di tradurre in norme di legge alcune «prassi virtuose» registrate presso non pochi uffici giudiziari;

          e) la necessità di alcuni interventi «drastici» sui tempi del processo nelle sue varie articolazioni (ad esempio la riduzione dei tempi lunghi previsti per le impugnazioni; la valorizzazione di tecniche di «revisio per saltum» in cassazione; e la soppressione, in casi del tutto circoscritti, di un grado di merito).

      Nel corso dei propri lavori la Commissione ha tenuto conto delle soluzioni raggiunte dalla Commissione ministeriale per la riforma del processo civile il cui testo - approvato dal Consiglio dei ministri nel marzo 2007 - presenta significative consonanze con le scelte operate sul processo del lavoro.
      Sono stati altresì tenuti nel debito conto i risultati delle audizioni svolte dalle Commissioni riunite del Senato della Repubblica aventi ad oggetto i disegni di legge atti Senato nn. 1047 e 1163 della XV legislatura, i cui contenuti rispecchiano molte delle riflessioni maturate dalla Commissione del 2001.
      La nuova Commissione ha individuato più linee di intervento in base alle quali è pervenuta alla serie di proposte di seguito indicate.

I. Licenziamenti, trasferimenti e legittimità del termine.

      Il diritto alla conservazione del rapporto di lavoro è un diritto fondamentale della persona ai sensi dell'articolo 2 della Costituzione, in quanto attinente alla conservazione del luogo, id est dell'inserimento nella formazione sociale, dove si svolge la sua personalità. Da ultimo, non a caso, la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, firmata a Nizza il 7 dicembre 2000, ha reso più visibile il valore fondamentale della tutela contro ogni licenziamento ingiustificato (articolo 30).
      L'estrema deteriorabilità del bene protetto - il posto di lavoro - stante il carattere dinamico, e non statico, connaturato all'organizzazione del lavoro, ha rivelato, nel tempo, l'enorme difficoltà insita nell'attuazione di una tutela specifica, reintegratoria, a distanza di mesi o anni dal licenziamento, dall'estromissione dal luogo di lavoro.
      Al pari degli altri settori della giustizia, per i quali importanti modifiche sono state recentemente introdotte, il contenzioso del lavoro attraversa, non da poco, una crisi determinata essenzialmente dal progressivo allungamento dei tempi di definizione dei processi, crisi ancor più evidente per la peculiarità del rito introdotto dal legislatore del 1973, informato a princìpi di oralità e celerità.
      La domanda di giustizia in tale settore ha spesso determinato un eccessivo ricorso alla tutela atipica urgente.
      L'urgenza del recupero di funzionalità del processo del lavoro suggerisce, pertanto, un intervento normativo con riferimento alle controversie che trattano i momenti più delicati e patologici del rapporto di lavoro. Il bilanciamento degli opposti interessi - del lavoratore alla conservazione del posto, del datore di lavoro all'organizzazione del lavoro - consiglia, nella specie, di ridisegnare la tutela reintegratoria contro il licenziamento ingiustificato e la verifica del passaggio diretto alle dipendenze di società cessionarie nelle forme di un'azione tipica urgente a cognizione sommaria, sì da imprimere a siffatte azioni una durata ragionevole.
      L'articolato propone:

          1) piccoli aggiustamenti sostanziali funzionali ad un più spedito iter processuale;

          2) modifiche di natura procedurale.

      La disciplina proposta si applica esclusivamente alle ipotesi di tutela cosidetta reale (coincidente con l'area di applicazione dell'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300) anche con riferimento ai casi di previo accertamento giudiziale della natura subordinata del rapporto.
      La procedura sommaria è estesa all'accertamento della legittimità del termine apposto al contratto di lavoro e, con opportuni adattamenti, alle controversie in materia di trasferimenti di cui agli articoli 2103 e 2112 del codice civile.
      L'esperienza giurisprudenziale degli ultimi anni ha dimostrato che il meccanismo traslativo dettato dall'articolo 2112 del codice civile, nato con la specifica funzione di tutelare il dipendente nelle ipotesi di cessioni di aziende (o rami di esse) e (perseguendo tale scopo) in deroga al principio generale della necessità del consenso del soggetto ceduto (articolo 1406 del codice civile), può prestare il fianco a veri e propri abusi. L'imprenditore che voglia liberarsi di forza lavoro ritenuta eccedente, può simulare, infatti, un trasferimento d'azienda, aggirando la regola della necessaria giustificazione del licenziamento oppure eludendo le garanzie di consultazione sindacale in caso di licenziamento collettivo con il rischio, per i dipendenti, di essere ceduti ad altro imprenditore meno affidabile da un punto di vista economico, offrendo meno garanzie di solvibilità, e/o da un punto di vista giuridico, rientrando - ad esempio - nell'area della tutela obbligatoria e non in quella reale. La necessità di una particolare attenzione a tale fenomeno, attualmente assai diffuso, è dimostrata, altresì, dalla normativa comunitaria, avendo la materia formato oggetto di tre direttive particolarmente importanti (direttive 77/187/CEE del Consiglio, del 14 febbraio 1977, 98/50/CEE del Consiglio, del 29 giugno 1998, e 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001).
      Con il ricomprendere anche la materia dei trasferimenti d'azienda nell'ambito del nuovo procedimento si auspica, in sostanza, una tutela avanzata rispetto a quelli che sono normalmente, per i lavoratori coinvolti, gli esiti negativi della vicenda traslativa.
      Nonostante il rilievo, avanzato da alcuni autorevoli esponenti della Commissione, concernente l'opportunità di escludere dal campo di applicazione della proposta normativa i datori di lavoro del settore pubblico cosiddetto «privatizzato», in considerazione della difficoltà di approntare, nei tempi rapidi imposti dalla procedura, una difesa efficace, il proposito di assecondare gli intenti legislativi volti alla tendenziale uniformità della disciplina del settore pubblico e di quello privato ha suggerito di non differenziare gli strumenti processuali.
      La modifica della normativa sostanziale concerne la decadenza, nel quando e nel quomodo, dell'impugnativa del licenziamento: il termine, innalzato a quattro mesi, diventa anche il termine di decadenza dall'azione giudiziale. Il medesimo termine decorre da qualsiasi altro atto o fatto che manifesti l'inequivoca intenzione del datore di lavoro di porre fine al rapporto di lavoro. In tal modo si è data risposta alle giuste esigenze di evitare un uso strumentale del ritardo nella introduzione del giudizio.
      È sembrato opportuno prescrivere anche un riscontro certo per le dimissioni, prescrivendone la forma ad substantiam e l'indicazione di una data certa. Quest'ultima scelta ha trovato accoglimento nella legge 17 ottobre 2007, n. 188.
      Il procedimento si svolge con una cognizione libera da formalità, in contraddittorio delle parti, e si conclude con la conoscenza tendenzialmente completa delle questioni, di fatto e di diritto, controverse. Resta ferma peraltro la possibilità di agire nelle forme di cui all'articolo 414 del codice di procedura civile, sicché non ha ragion d'essere la preoccupazione che alla libera scelta del rito da parte del ricorrente sia stata sostituita l'imposizione del giudizio sommario.
      L'onere della prova, con riferimento al numero dei dipendenti occupati in azienda ed ai motivi che hanno determinato il provvedimento espulsivo, grava sul datore di lavoro che ha di fatto la conoscenza dei relativi dati.
      Quanto alla prova delle ragioni giustificatrici del licenziamento, non vi è nel progetto alcun elemento che consenta di affermare l'esistenza di un onere probatorio sostanzialmente attenuato, perché assolvibile in termini di mera verosimiglianza.
      Ad ogni modo, qualsiasi dubbio in proposito dovrebbe ritenersi risolto ove si consideri che il progetto ribadisce l'applicabilità, anche nello specifico procedimento in questione, della norma sull'onere della prova della giusta causa e del giustificato motivo stabilita nell'articolo 5 della legge 15 luglio 1966, n. 604.
      La tipicità dell'azione e la tassatività dei casi prevedono lo strumento del mutamento del rito: il giudice provvederà a disporre la prosecuzione del processo secondo le forme ordinarie quando la domanda sia stata proposta irritualmente (se proposta erroneamente con forma sommaria, dispone la regolarizzazione a norma degli stessi articoli).
      Elemento qualificante dell'azione sommaria disegnata dal progetto di riforma è senza dubbio l'idoneità dell'ordinanza a divenire irrevocabile in mancanza di reclamo, caratteristica che si uniforma, peraltro, alla novella introdotta - per i provvedimenti cautelari adottati ex articolo 700 del codice di procedura civile - dall'articolo 2, comma 3, lettera e-bis), del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80.
      L'azione tipica introdotta è peculiare anche riguardo al regime delle impugnazioni:

          a) l'ordinanza emessa dal tribunale, in funzione di giudice del lavoro, è reclamabile al medesimo tribunale in composizione collegiale (senza la presenza del giudice che ha emesso il provvedimento);

          b) l'ordinanza emessa dal collegio, in sede di reclamo, è opponibile solo con ricorso, nelle forme di cui all'articolo 414 del codice di rito, dinanzi alla corte d'appello;

          c) la sentenza della corte d'appello è ricorribile in Cassazione.

      Appare chiaro che gli obiettivi perseguiti non potrebbero esser realizzati mediante il ricorso al provvedimento di cui all'articolo 700 del codice di procedura civile. Il provvedimento d'urgenza si caratterizza per il presupposto della minaccia di un pregiudizio imminente e irreparabile, oggetto ovviamente di prova da parte di chi ne invochi la concessione. Il progetto non richiede esplicitamente tale pregiudizio, perché esprime una valutazione legislativa a priori circa la sua presenza nei casi per i quali è previsto il ricorso alla specifica procedura. Si tratta di una valutazione ampiamente conforme a standard socialmente accettati, sicché non vi è motivo di immaginare obiezioni di costituzionalità. Inoltre il contenuto del provvedimento non è definibile a priori. Il legislatore si limita a indicare il risultato (assicurazione provvisoria degli effetti della decisione di merito) e affida al giudice l'individuazione del mezzo per raggiungerlo. Nel caso dell'ordinanza prevista dal progetto, il contenuto della pronuncia coincide interamente con l'attribuzione o con la negazione del bene richiesto. La conferma viene, d'altra parte, dall'articolo 5 del progetto che in sostanza parifica l'ordinanza alla sentenza di reintegrazione di cui all'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300. Quindi un eventuale adattamento dell'articolo 700 del codice di procedura civile alla specifica materia qui considerata, con eliminazione del requisito del pregiudizio, non risponderebbe pienamente allo scopo.
      A garanzia dell'attuazione effettiva del capo del provvedimento (ordinanza o sentenza) di condanna alla reintegrazione è prevista una forte misura coercitiva di carattere pecuniario, individuata sul modello francese delle «astreintes», connotata dall'irripetibilità delle somme (corrisposte o da corrispondere) in caso di successiva sentenza (di appello) dichiarativa della legittimità del licenziamento. Per evitare ingiustificati arricchimenti del lavoratore, in caso di successiva sentenza dichiarativa della legittimità del licenziamento, il lavoratore può trattenere solo una somma corrispondente alla retribuzione per il periodo intercorso tra il provvedimento di condanna e la sentenza di riforma.
      La riforma del provvedimento dichiarativo dell'illegittimità del trasferimento comporta, invece, un obbligo di restituzione delle somme già percepite.
      Per attuare l'«astreinte» è data al lavoratore la possibilità di ricorrere alla procedura cautelare di cui agli articoli 669-sexies e seguenti del codice di procedura civile, con la quale richiedere al giudice che ha emesso l'ordinanza o la sentenza di reintegrazione la liquidazione delle somme dovute per i giorni di ritardo.
      La relativa ordinanza è immediatamente eseguibile e reclamabile al collegio del tribunale o al collegio di appello (a seconda del provvedimento reclamato).
      La caratteristica urgente e sommaria del procedimento porta all'eliminazione del tentativo di conciliazione e della relativa procedura extragiudiziale, essendo questa in contrasto con i tempi ristretti della novella.
      Sul piano ordinamentale si prevede, per rafforzare la celerità dell'azione, che il giudice tratti con priorità tali cause, ipotizzandosi altresì, in subjecta materia, l'adozione di idonei provvedimenti organizzativi da parte dei responsabili degli uffici.
      La Commissione ha proceduto, infine, ad un intervento di carattere sistematico sulla disciplina del licenziamento discriminatorio anche alla luce delle più recenti acquisizioni giurisprudenziali, esplicitando altresì l'applicabilità della medesima disciplina anche ai dirigenti e introducendo, in applicazione di quanto disposto in materia dalle direttive comunitarie, l'inversione dell'onere della prova in merito alla sussistenza della discriminazione.
      L'estensione alle sanzioni disciplinari espulsive delle garanzie procedimentali dettate dall'articolo 7, commi sesto e settimo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, concernenti, in particolare, la sospensione dell'efficacia del licenziamento disciplinare per tutta la durata della procedura conciliativa e anche fino alla definizione del giudizio (ove la mancata attivazione del collegio di conciliazione sia imputabile al datore di lavoro), ha registrato il fermo dissenso della maggioranza dei membri della Commissione, favorevoli alla soluzione - risalente alla giurisprudenza della Corte costituzionale e anche della Corte di cassazione - che limita l'effetto sospensivo dell'efficacia dei provvedimenti disciplinari, per tutta la durata del provvedimento conciliativo, arbitrale o giudiziario, alle sole sanzioni conservative.

II. Controversie in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie.

      Come già avvertito in occasione dei lavori della precedente Commissione del 2001, la prospettazione di possibili rimedi alla crisi in cui versa il processo previdenziale presuppone l'individuazione e la consapevolezza delle concause nel limite di quanto, nel più ampio contesto dei fattori di crisi del processo del lavoro, in generale, possa ritenersi peculiare di detto processo.
      Tale esigenza di preventiva individuazione delle ragioni della crisi attuale rinvia a questioni di ampio e, forse, decisivo rilievo (idonei assetti di diritto sostanziale; procedure di prevenzione di incertezze interpretative delle regole normate; adeguamento di strutture e di organici eccetera), che trascendono, però, la disciplina processuale e delle quali, dunque, la Commissione, stanti i limiti del mandato ricevuto, ha tenuto conto solo di riflesso.
      L'aspetto cruciale del contenzioso previdenziale complessivamente considerato è la differenziazione, per così dire, «tipologica» delle controversie.
      Tali controversie, infatti, possono avere ad oggetto:

          a) questioni di mero diritto (controversie cosidette «interpretative»);

          b) questioni di qualificazione di rapporti;

          c) questioni di accertamento tecnico, con netta prevalenza degli accertamenti di carattere medico-legale. Parte cospicua di tali controversie vede, inoltre, coinvolti anche enti diversi dall'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e dall'Istituto nazionale per l'attuazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL), le casse professionali, i fondi pensione eccetera, i cui ordinamenti sono caratterizzati da regole particolari rispetto a quelle valide per i due suddetti massimi Istituti previdenziali. Tale diversificazione «interna» al settore determina l'esigenza di approcci calibrati ad hoc e, dunque, la prospettazione di rimedi opportunamente differenziati.
      Altrettanto cruciale può dirsi il radicamento geografico del contenzioso, il quale si concentra, per il 50 per cento dell'ammontare nazionale, in due sole regioni d'Italia, la Campania e la Puglia, mentre il restante 50 per cento interessa in prevalenza il Lazio, la Calabria e la Sicilia.
      Quanto alla legislazione di riferimento, va rilevato che il legislatore degli ultimi anni non si è sempre mantenuto coerente alle impostazioni che hanno caratterizzato la riforma del 1973, e comunque ha introdotto o esteso al settore ulteriori strumenti, cui ha attribuito la concorrente finalità deflattivo-acceleratoria delle controversie.
      Dunque, in questa stessa prospettiva, la Commissione ha dovuto tenere conto di non poche novità normative: la procedura esattoriale (decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46); la conciliazione monocratica e la diffida accertativa (articoli 11 e 12 del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124); le fattispecie di decadenza sostanziale (articolo 6 del decreto-legge 29 marzo 1991, n. 103, convertito, con modificazioni, dalla legge 1o giugno 1991, n. 166, e articolo 42 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326); gli accordi e gli atti di conciliazione sindacale con effetto anche sui diritti di natura contributiva (articolo 1, comma 1207, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, legge finanziaria 2007).
      Anche con tale normativa che, invero, può risultare contraddittoria - vedi la sottovalutazione dei rimedi amministrativi, di cui al decreto-legge n. 269 del 2003, convertito con modificazioni, dalla legge n. 326 del 2003 - o controproducente - nel caso delle decadenze sostanziali, per l'effetto moltiplicatore del contenzioso - o discutibilmente destinata ad incidere su diritti indisponibili - nei casi della conciliazione monocratica, di cui al decreto legislativo n. 124 del 2004 e, oggi, della conciliazione sindacale, di cui all'articolo 1, comma 1207, della citata legge finanziaria 2007 - la Commissione ha cercato di confrontarsi.
      Anche le controversie pensionistiche del settore pubblico idealmente sarebbero potute rientrare nell'intervento normativo, tuttavia la diversità di giurisdizione e ragioni di ordine pratico, sulle quali non è necessario in questa sede soffermarsi, hanno indotto la Commissione a non considerare tale pur importante segmento della materia, anche esprimendo l'opportunità di prendere in considerazione, in un prossimo futuro, l'introduzione di regole comuni, nell'attuale mantenimento, auspicabilmente non definitivo, del riparto di giurisdizione.
      Nell'opera di necessario confronto con la legislazione vigente, la Commissione, nel prendere atto degli interventi normativi più recenti - l'articolo 1, comma 469, della citata legge finanziaria 2007 (che prevedeva l'emanazione di uno o più regolamenti diretti «al riordino, alla semplificazione e alla razionalizzazione degli organismi preposti alla definizione dei ricorsi in materia pensionistica») e il regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 18 settembre 2006, n. 282 (che interviene sull'ordinamento del Comitato di verifica per le cause di servizio, ex articolo 10 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 29 ottobre 2001, n. 461) - rimarca il carattere cruciale di un'opera di razionalizzazione, semplificazione e armonizzazione della normativa che disciplina le procedure del contenzioso amministrativo e i servizi ispettivi, nonché l'utilità del permanere di suddivisioni e di sovrapposizioni di compiti che, per alcune materie, caratterizzano i rapporti tra Direzioni provinciali del lavoro e aziende sanitarie locali.
      La prospettazione e la graduazione dei rimedi sono state calibrate muovendo da pregiudiziali scelte di valore, oggetto di ampia discussione, tra le quali, per la loro significatività: la fedeltà ai princìpi della riforma del 1973; la rapidità del servizio di giustizia, considerando cumulativamente, a tal proposito, e non frazionatamente, la fase amministrativa e la fase giudiziale della controversia; il livello dei costi, economici e non, dell'intervento riformatore e delle diseconomie prodotte dall'attuale stato del contenzioso; il grado di semplicità e di facilità applicative dei rimedi prospettabili; la formulazione di uno schema normativo snello, facilmente veicolabile anche in procedimenti legislativi, strutturato in forma di criteri di delegazione quanto alla fase contenzioso-amministrativa e di novella alle disposizioni del codice di rito e delle leggi speciali che regolano il processo previdenziale.
      In particolare, la categoria di controversie che, come emerso nel corso dei lavori della precedente Commissione e delle specifiche audizioni di esperti appositamente invitati in rappresentanza degli enti pubblici di previdenza e dell'Avvocatura dello Stato, continua a presentare gravissime carenze e, per l'incessante aumento delle pendenze, richiede interventi coraggiosi, è quella riguardante l'invalidità civile e le prestazioni pensionistiche già gestite dagli allora Ministeri dell'interno e del tesoro, per le quali è emersa una pressoché totale assenza di ogni fase contenziosa amministrativa.
      Per operare efficacemente su questi terreni, la Commissione ha ritenuto indispensabili, almeno per quanto riguarda le controversie dipendenti da accertamenti medico-legali, costituenti più del 20 per cento dell'insieme, su scala nazionale, o addirittura il 70-80 per cento in alcune aree centro-meridionali - una forte valorizzazione e una maggiore impegnatività della fase contenziosa amministrativa, possibilmente unificata, accentuandone i connotati di terzietà e di rispetto del contraddittorio, con la possibilità di assistenza tecnico-legale, con il potenziamento qualitativo dell'istruttoria dei ricorsi amministrativi, con la presenza, negli organi decidenti, di rappresentanti delle parti interessate, con la costituzione di organi collegiali composti in maniera da assicurare specifiche competenze professionali medico-legali e obiettività di giudizio.
      Non è stato possibile pervenire - all'interno della Commissione - a indicazioni unitarie. Tuttavia, pur segnalando che una significativa e autorevole minoranza dei membri della stessa Commissione ha espresso la propria preferenza per una proposta meno incisiva, la maggioranza si è dichiarata in favore della proposta «forte», che è riportata nel testo dell'articolato.
      Per completezza appare opportuno riprodurre di seguito i contenuti della proposta, per così dire soft, evidenziando come la stessa, pur restando rigorosamente all'interno del disegno della legge n. 533 del 1973, parte dall'esigenza che il contenzioso amministrativo acquisisca maggiore affidabilità e maggiore semplicità, affinché le relative regole e procedure non debbano, esse stesse, rappresentare un'occasione di vertenzialità ed è ispirata dall'idea di un abbattimento dei costi dell'intervento riformatore sulla fase processuale.

      Art. 1. - (Norma di delega). - 1. Il Governo è delegato ad emanare entro ... una o più norme di razionalizzazione della disciplina delle procedure contenziose amministrative in materia previdenziale in forma compatibile con il disposto dell'articolo 147 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile e sulla base dei seguenti princìpi:

          a) armonizzazione e unificazione di tutte le procedure esistenti, e loro articolazione in unico grado;

          b) uniformazione dei termini;

          c) potenziamento qualitativo dell'istruttoria dei ricorsi amministrativi;

          d) presenza negli organi decidenti di rappresentanti delle parti interessate;

          e) costituzione di organi collegiali composti in maniera da assicurare specifiche competenze professionali medico-legali e obiettività di giudizio;

          f) garanzia del contraddittorio e assistenza tecnico-legale.

      Art. 2. - 1. All'articolo 414 del codice di procedura civile, dopo il numero 5 è aggiunto il seguente numero:

      «6) nel caso in cui ai fini della decisione della controversia siano richiesti accertamenti medico-legali, l'indicazione specifica dei quesiti da sottoporre al c.t.u.».

      Art. 3. - 1. Dopo l'articolo 415 del codice di procedura civile è aggiunto il seguente:

      «Art. 415-bis. - (Decreto di fissazione dell'udienza nelle controversie di previdenza e assistenza obbligatorie). - Nelle controversie di cui all'articolo 442, la cui risoluzione richieda accertamenti medico-legali, il giudice, con il decreto di cui all'articolo 415, secondo comma, nomina il consulente tecnico d'ufficio, invitandolo a prestare giuramento all'udienza di discussione ivi indicata, e fissa i termini per lo svolgimento delle operazioni peritali e per l'espletamento del tentativo di conciliazione».

      Art. 4. - 1. All'articolo 442, primo comma, del codice di procedura civile, dopo le parole: «di questo titolo», sono aggiunte le seguenti parole: «salvo che non sia diversamente disposto».

      Art. 5. - 1. All'articolo 444 del codice di procedura civile, è aggiunto, in fine, il seguente comma:

      «Giudice competente per il giudizio di opposizione contro il ruolo, ai sensi dell'articolo 25 del decreto legislativo n. 46 del 1999, è il tribunale del luogo in cui ha sede l'ufficio dell'ente previdenziale che ha proceduto all'iscrizione al ruolo, anche se tale sede non coincide con il domicilio fiscale del soggetto obbligato».

      Art. 6. - 1. All'articolo 445 del codice di procedura civile, dopo il primo comma sono inseriti i seguenti:

      «Il consulente tecnico, esperite le operazioni peritali, comunica la propria relazione ai difensori delle parti e, entro 15 giorni da detta comunicazione, esperisce il tentativo di conciliazione della lite e redige apposito verbale, che comunica alla Cancelleria del tribunale e alle parti.
      Nel caso di nomina di più consulenti, il giudice indica il consulente al quale affidare il tentativo di conciliazione».

      Art. 7. - 1. L'articolo 149 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile è sostituito dal seguente:

      «Art. 149 - (Controversie in materia di invalidità pensionabile). - Nelle controversie di cui all'articolo 442 del codice il giudice deve valutare anche l'aggravamento della malattia, nonché tutte le infermità comunque incidenti sullo stato delle condizioni psicofisiche dell'assicurato, o del suo dante causa, che si siano verificate nel corso tanto del procedimento amministrativo che del giudizio di primo grado ed ivi ritualmente dedotte».

      Art. 8. - 1. Dopo l'articolo 149 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile è aggiunto il seguente:

      «Art. 149-bis. - In tutti i giudizi e procedimenti regolati dagli articoli 442 e seguenti del codice nei quali siano parte, anche non costituita, enti o istituti gestori forme di previdenza ed assistenza obbligatorie organizzati su base territoriale, all'atto della pubblicazione di ogni sentenza od a seguito della pronuncia di ogni ordinanza, deve essere depositata - a cura del cancelliere o segretario dirigente della cancelleria o segreteria dell'organo giurisdizionale presso cui la sentenza è pubblicata o l'ordinanza è depositata - una copia autenticata in carta libera a disposizione dei predetti enti o istituti».

      Art. 9. - (Decadenza in materia di invalidità civile). - 1. Alle controversie in materia di invalidità civile si applica la decadenza di cui all'articolo 47 del decreto del Presidente della Repubblica 30 aprile 1970, n. 639, come modificato dall'articolo 4, comma 1, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384.
      2. All'articolo 42, comma 3, del decreto-legge 30 settembre 2003 n. 269, convertito in legge 24 novembre 2003, n. 326, il secondo periodo è soppresso.

      Art. 10. - 1. Le funzioni già di competenza del Ministero dell'economia e delle finanze e delle direzioni provinciali sanitarie in materia di invalidità civile sono trasferite all'INPS.
      2. Nei giudizi di invalidità civile in cui è già parte, l'INPS subentra nella posizione processuale del Ministero, in deroga all'articolo 111 del codice di procedura civile.

      In tale prospettiva, lo schema normativo innovatore è incentrato sul potenziamento del procedimento amministrativo con la presenza negli organi decidenti di rappresentanti delle parti interessate, con la costituzione di organi collegiali composti in maniera da assicurare specifiche competenze professionali medico-legali e obiettività di giudizio, con la garanzia del contraddittorio e con l'assistenza tecnico-legale. La fase giurisdizionale è accelerata, nella prospettiva da cui muove tale prima ipotesi, con l'indicazione specifica, nell'atto introduttivo del giudizio, dei quesiti da sottoporre al consulente nominato d'ufficio; con la nomina, mediante il decreto di cui all'articolo 415, secondo comma, del codice di procedura civile, del consulente tecnico d'ufficio il quale, esperite le operazioni peritali, comunica la propria relazione ai difensori delle parti e, entro quindici giorni, esperisce il tentativo di conciliazione della lite, redigendo apposito verbale, che comunica alla cancelleria del tribunale e alle parti.
      La seconda soluzione, sulla quale si è espresso il consenso della maggioranza dei membri della Commissione e che quindi è riportata nel testo dell'articolato, muovendo dalle proposte della «Commissione Treu» del 1998, dai progetti di leggi presentati nelle diverse legislature pendenti in Parlamento e dal dibattito sviluppatosi nel corso dei lavori, si caratterizza, rispetto alla soluzione «soft», per l'attribuzione della controversia, in fase precontenziosa amministrativa, a un organo «esterno e dunque terzo» rispetto agli istituti previdenziali in lite; per l'immodificabilità, nella fase giurisdizionale, delle posizioni assunte dalle parti nella fase contenziosa amministrativa; per la previsione di un termine massimo dalla data in cui è stato proposto il ricorso amministrativo entro il quale quest'ultimo deve essere deciso o, in ogni caso, concluso previa compiuta verbalizzazione delle posizioni assunte dalle parti nel corso del procedimento, nonché delle eventuali acquisizioni istruttorie; per l'impugnabilità delle decisioni assunte in esito al procedimento contenzioso amministrativo concernenti unicamente i requisiti medico-legali, davanti al tribunale, in unico grado di merito. Per tale proposta, sin qui strutturata nella forma della delega legislativa, il rafforzamento della fase amministrativa e il potenziamento dell'istruttoria ivi espletata avrebbero immediate ricadute nella fase giurisdizionale potendo il giudice nominare il consulente tecnico solo ove non ritenga di aderire alle conclusioni peritali già acquisite in sede contenziosa amministrativa, così evitando l'incombente istruttorio con evidente abbattimento dei relativi oneri di spesa.
      In attesa dell'emanando decreto delegato sulla base dei princìpi e criteri esposti, la Commissione ha proposto modifiche di immediata applicazione, caratterizzate, nella medesima fase contenziosa amministrativa, dall'esame del ricorso da parte di un collegio medico qualificato (composto da tre sanitari, designati rispettivamente dall'amministrazione competente, dal ricorrente o dall'istituto di patronato che lo assiste, dal responsabile della competente direzione del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali tra i medici specialisti in medicina legale o in medicina del lavoro ovvero tra i sanitari appartenenti ai ruoli di un ente previdenziale diverso da quello che è parte della controversia) che, coerentemente con le risultanze degli accertamenti, tenta la conciliazione della controversia e redige un verbale sottoscritto dalle parti, vincolante in caso di esito positivo. In caso di esito negativo, invece, il presidente del collegio redige una dettagliata relazione medico-legale nella quale dà atto degli accertamenti effettuati e delle conclusioni conseguite nonché dei motivi del dissenso.
      Il compenso dei componenti del collegio medico resta a carico dell'amministrazione competente per l'erogazione della prestazione ed è determinato in conformità alle convenzioni stipulate con la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri.
      Seguono alcune modifiche alla fase giurisdizionale quali l'indicazione, già nel ricorso, dei quesiti da sottoporre al consulente medico-legale e l'allegazione dei documenti sanitari che si offrono in comunicazione; un termine breve per la nomina del consulente d'ufficio (entro cinque giorni dal deposito del ricorso); l'esplicita previsione normativa che il consulente, esperite le operazioni peritali e comunicata la propria relazione ai difensori delle parti, entro quindici giorni da tale comunicazione esperisca il tentativo di conciliazione del quale rediga apposito verbale, da depositare nella cancelleria del giudice e comunicare alle parti e, ove siano nominati più consulenti, l'indicazione, da parte del giudice, del consulente al quale affidare il tentativo di conciliazione.
      L'intervento riformatore ipotizza, inoltre, con determinazione unanime della Commissione ispirata al risparmio di spesa in re ipsa, che immediatamente, anche per i processi in corso, l'INPS possa subentrare nelle funzioni del Ministero dell'economia e delle finanze in materia di invalidità civile, ravvisando come un'anomalia la competenza «sanitaria» del Ministero stesso, con una struttura centrale presso il Ministero e con strutture periferiche decentrate in sede provinciale, dove, presso ogni direzione provinciale sanitaria (DPS), è presente una struttura amministrativa che gestisce sanitari del Ministero convocati, di volta in volta, dai consulenti tecnici nominati nei procedimenti giurisdizionali.
      L'impatto di tale intervento normativo implicherebbe il disimpegno di strutture amministrative di gestione nell'ambito delle DPS da utilizzare diversamente e il venire meno di oneri di spesa per un considerevole numero di sanitari «convenzionati» con le DPS, essendo l'INPS dotato di una struttura medico-legale, risparmiando, ancora una volta, al processo, e all'amministrazione della giustizia in generale, un dispendio di attività di comunicazione, quali avvisi alle parti, memorie, avvisi ai consulenti di parte, e liberando da attività defensionali l'Avvocatura dello Stato.
      Per tutte le altre controversie previdenziali la cui soluzione può coinvolgere aspetti tecnico-giuridici tout court, ovvero di notevole complessità, o ancora implicanti meri conteggi aritmetici, come per le numerose cause per interessi e per svalutazione (per le quali una soluzione deflattiva già è stata introdotta con l'articolo 44, comma 4, del citato decreto-legge n. 269 del 2003, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 326 del 2003, che impone di inviare una lettera raccomandata con avviso di ricevimento prima di iniziare contenzioso in materia di accessori, con relativo termine), la Commissione non ha ravvisato ragioni che ne giustificassero una pregiudiziale differenziazione, sul piano della disciplina processuale, rispetto alle controversie di lavoro in genere, siccome innovate con il progetto riformatore proposto per il processo del lavoro. Conseguentemente, per tali controversie e, comunque, per tutte le controversie previdenziali e assistenziali non implicanti accertamenti sanitari, un'adeguata soluzione preordinata a esercitare una spinta deflattiva si è appalesata la conciliazione nei termini e con le modalità suggeriti dalla novella proposta, pur non sottacendo il dibattito apertosi, nel corso dei lavori, per i profili di eventuale inammissibilità derivanti dalla frequente indisponibilità dei diritti in controversia.
      Per le controversie seriali e, in particolare, per le controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie riguardanti, anche potenzialmente, un numero consistente di soggetti e concernenti questioni analoghe, la Commissione, a parte l'applicazione dell'articolo 420-bis come sostituito dall'articolo 44 del presente progetto di legge, ha optato per la istituzionalizzazione di una soluzione precontenziosa, nel senso che le amministrazioni interessate sono tenute ad informare i Ministeri competenti e a promuovere incontri anche con gli istituti di patronato che abbiano fornito assistenza nelle medesime controversie, al fine di chiarire gli aspetti delle questioni in discussione ed individuare, per quanto possibile, ipotesi di soluzione. La ricaduta sul processo della possibilità di definizione, in sede centrale, dei grandi filoni di contenzioso previdenziale e assistenziale è data dalla possibilità per il giudice, nelle more di una soluzione, di rinviare la trattazione della causa, su concorde istanza di parte. Tale soluzione eviterebbe dispendiose attività processuali con evidente risparmio di spesa e di attività processuali.
      Quanto alla decadenza introdotta nel 2003 in materia di invalidità civile - che ha interrotto un andamento virtuoso che aveva visto scendere il contenzioso previdenziale da 783.000 cause al 31 dicembre 2000 a 640.000 cause al 31 dicembre 2004, con «esplosione» del contenzioso in materia a causa dell'introduzione di una decadenza di soli sei mesi - all'unanimità la Commissione ha ritenuto di abrogare tale disposizione, ripristinando il regime decadenziale di cui all'articolo 47 del decreto del Presidente della Repubblica 30 aprile 1970, n. 639, come modificato dall'articolo 4, comma 1, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438.

III. Conciliazione e arbitrato.

      È tuttora valida l'osservazione che nel settore delle controversie di lavoro conciliazione e arbitrato non hanno mai registrato quelle diffusioni e adesione auspicabili fin dalla riforma introdotta dal legislatore del 1973 al fine di alleggerire il carico di lavoro dei magistrati addetti alla trattazione delle controversie di lavoro e, al contempo, di offrire, in un processo fortemente caratterizzato da una parte debole, strumenti efficaci e veloci di risoluzione delle controversie.
      Tuttavia nel settore dei rapporti di lavoro gli strumenti alternativi di soluzione sono ormai, sul piano normativo, di applicazione generale essendo superata l'esclusione della composizione negoziale della controversia nei rapporti di lavoro pubblico, riflesso dell'incompatibilità tra competenza del giudice amministrativo e soluzione transattiva del conflitto.
      Nella prospettiva di un rilancio della soluzione alternativa a quella giudiziaria, il legislatore, con la riforma introdotta con i decreti legislativi 31 marzo 1998, n. 80, e 29 ottobre 1998, n. 387, ha rilanciato gli istituti della conciliazione e dell'arbitrato, partendo proprio dal settore pubblico, novellando il codice di rito con le disposizioni recate dagli articoli 412-ter e 412-quater, disegnando, ex novo, il tentativo obbligatorio di conciliazione con le disposizioni ora riprodotte negli articoli 65 e 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.
      Il segno più marcato di tale favore per la soluzione transattiva è stata la trasformazione della conciliazione, relegata dal legislatore del 1973 a strumento occasionale e marginale, in una fase indispensabile per l'accesso alla tutela giudiziaria, mediante la previsione dell'obbligatorietà.
      Tale orientamento favorevole trova conferma anche nelle recenti iniziative di riforma del processo civile, dove l'importanza della soluzione conciliativa risulta fortemente accentuata. D'altra parte, deve essere tenuto in attenta considerazione il fatto che, nelle controversie di lavoro e anche in quelle relative agli istituti di sicurezza sociale, in taluni tra i più importanti paesi comunitari (ad esempio la Germania) l'esito conciliativo costituisce il risultato più frequente dell'iniziativa contenziosa, così consentendo al giudice di concentrare la sua attenzione su un numero limitato di cause, pur di fronte a una domanda di giustizia di dimensioni non certo ridotte.
      Nonostante le difficoltà incontrate, più ragioni inducono quindi a un complessivo giudizio di favore per lo strumento conciliativo, valutazione non scalfita dallo scarso successo registrato dalla conciliazione nelle controversie di lavoro pubblico, a spiegare il quale può infatti valere la considerazione che si tratta di questioni quasi sempre nuove e talvolta assai complesse, dove le stesse amministrazioni hanno avuto difficoltà a elaborare indirizzi sicuri cui attenersi. A ciò devono aggiungersi, per molte di esse, specie se di piccola dimensione, le difficoltà organizzative nella concreta gestione della fase conciliativa delle controversie. D'altra parte il modello vigente per il lavoro privato, pur avendo dato risultati più confortanti, non è sembrato soddisfacente per la scarsa impegnatività dello strumento e per l'assoluta carenza di incentivi, positivi e negativi, per le parti in lite e per il ceto tecnico-forense.
      Tutto ciò ha indotto la Commissione all'idea di proporre un meccanismo che miri a fare della fase conciliativa una fase precontenziosa, a giudizio formalmente già iniziato, ottenendo così, tra l'altro, che la conciliazione sia tentata su una controversia i cui termini sono ormai stabilmente fissati.
      La novella conserva quindi l'obbligatorietà del tentativo di conciliazione giacché, mutuando le parole del giudice delle leggi, esso tende a soddisfare l'interesse generale sotto un duplice profilo: evitando, da un lato, che l'aumento delle controversie attribuite al giudice ordinario in materia di lavoro provochi un sovraccarico dell'apparato giudiziario, ostacolandone il funzionamento; favorendo, dall'altro, la composizione preventiva delle liti e assicurando alle posizioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quello conseguibile attraverso il processo (vedi la sentenza della Corte costituzionale n. 276 del 13 luglio 2000).
      Per quanto concerne la regola generale dell'obbligatorietà sono previste talune limitate esclusioni.
      Esse riguardano le controversie previdenziali limitatamente, peraltro, a quelle aventi ad oggetto accertamenti sanitari, in coerenza con le scelte fatte nel progetto riguardo a tale tipo di contenzioso. Sono inoltre esclusi i procedimenti sommari o d'urgenza (per i quali la tutela del diritto azionato è tanto più efficace quanto più è tempestivo l'intervento giudiziale), ivi comprese le controversie in materia di trasferimenti, licenziamenti e legittimità del termine apposto al contratto assoggettate ad una procedura sommaria tipica (in seguito esaminata).
      Non è stata invece mantenuta la speciale procedura conciliativa nelle controversie relative ai rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni. I dati statistici ufficiali denunciano, come già accennato, l'estrema modestia dei risultati ottenuti (ad esempio, le conciliazioni negli anni 2002, 2003 e 2004 sono state rispettivamente 3.936, 6.132 e 5.006, mentre negli stessi anni le richieste sono state rispettivamente 84.356, 91.135 e 176.104) anche a causa della indiscutibile complessità della procedura tanto sul piano normativo che su quello organizzativo.
      Si è dunque ritenuto opportuno che anche tali controversie rientrassero nell'ambito delle regole generali sulle modalità di svolgimento del tentativo. Onde evitare remore alla soluzione conciliativa è rimasto fermo però l'esonero da responsabilità amministrativa da parte del dipendente che su incarico della amministrazione abbia transatto la lite.
      L'eliminazione dello specifico procedimento conciliativo per tali controversie comporta il venire meno della possibilità di costituire il collegio di conciliazione previsto a tale scopo. Ciò determina anche l'impossibilità di impugnare davanti a esso le sanzioni disciplinari, come invece attualmente previsto, in assenza di procedure collettive di conciliazione e arbitrato, sulla base dell'articolo 56 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, del quale infatti si prevede l'abrogazione.
      Vanno peraltro sottolineate, per un verso, l'esistenza del contratto collettivo nazionale quadro in materia di procedure di conciliazione ed arbitrato tra l'Agenzia per la rappresentanza nazionale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le organizzazioni sindacali, di cui all'accordo 23 gennaio 2001, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 36 del 13 febbraio 2001, per altro verso, la possibilità dell'arbitrato in sede sindacale o presso le direzioni provinciali del lavoro, in base all'articolo 412-quinquies introdotto dal progetto.

Conciliazioni.

      La proposta si fonda, per quanto concerne la disciplina della conciliazione, sui seguenti princìpi-base:

          la fase conciliativa è una fase precontenziosa a giudizio già iniziato (conciliazione endogiudiziale);

          la difesa tecnica è coinvolta nella fase precontenziosa;

          l'ingiustificata assenza del ricorrente o di entrambe le parti all'udienza fissata per la conciliazione comporta l'estinzione del processo, mentre l'assenza della parte convenuta può dar luogo all'emanazione di un'ordinanza provvisoria di pagamento totale o parziale delle somme domandate o a provvedimenti anticipatori della decisione di merito;

          la conciliazione è tentata dal giudice o dal conciliatore appositamente designato tra quelli iscritti a un apposito albo;

          se la conciliazione non riesce viene redatto verbale con l'indicazione succinta delle ipotesi di soluzione della controversia allo stato degli atti;

          se la conciliazione è raggiunta, il relativo processo verbale acquista efficacia di titolo esecutivo con decreto del giudice;

          in qualunque fase della conciliazione, ovvero in caso di esito negativo della conciliazione, le parti possono decidere di affidare allo stesso conciliatore la decisione di risolvere in via arbitrale la controversia.

      Il rifiuto di ragionevoli proposte conciliative determina significativi scostamenti dal principio della soccombenza per quel che riguarda il carico delle spese di lite.
      Resta salva la possibilità di conciliazione in sede sindacale o presso il competente ufficio pubblico, con effetti equivalenti a quella endoprocessuale, a determinate condizioni.
      Il tentativo di conciliazione è modellato in modo uniforme sia nelle controversie di lavoro privato che in quelle di lavoro pubblico.
      Va inoltre rimarcato che l'autorevolezza del conciliatore deriverà dalla sua nomina, da parte del giudice, attingendo a un albo dei conciliatori esperti in materie giuslavoristiche, tenuto dal presidente del tribunale. Quanto alla gratuità, o meno, dell'operato del conciliatore, è prevalsa l'idea dell'indennizzabilità, rinviando a un decreto ministeriale ogni determinazione in ordine al quantum.
      La novella, pertanto, non è senza oneri per lo Stato, essendo l'importo dell'indennità per il conciliatore fissato in 100 euro, qualunque sia l'esito del tentativo di conciliazione, indennità elevata a 150 euro ove il tentativo si concluda con la conciliazione e ridotta a 75 euro ove il tentativo non possa essere espletato per mancata presentazione delle parti o del convenuto.

Arbitrati.

      Pur nella consapevolezza del carattere controverso del tema, per le varie opzioni politico-sindacali che lo caratterizzano, la Commissione ha ritenuto di proporre con l'arbitrato un'alternativa alla decisione giurisdizionale in modo tale da filtrare, in termini selettivi, il ricorso alla giustizia del lavoro, consentendole così di intervenire nelle controversie di maggiore rango con le dovute professionalità e tempestività e di costituire una reale attrattiva per la celerità e la stabilità.
      È stata scartata, peraltro, l'idea di un ampliamento del ricorso all'arbitrato rituale con soppressione del divieto di compromettibilità ad arbitri delle controversie di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile, come anche quella di legittimare clausole compromissorie, trasfuse nel contratto collettivo nazionale e richiamate nel contratto individuale, che consentano la devoluzione ad arbitri anche quando abbiano ad oggetto diritti dei lavoratori derivanti da disposizioni inderogabili di legge o da contratti collettivi.
      La soluzione, più moderata, adottata dalla Commissione contempla:

          la possibilità di affidare il mandato in via arbitrale allo stesso conciliatore in ogni fase del tentativo di conciliazione, anche solo per una parte della controversia;

          la possibilità di ricorso all'arbitrato dopo il fallimento del tentativo di conciliazione;

          la necessità che la richiesta di deferimento ad arbitri risulti da un atto scritto contenente, a pena di nullità, il termine entro il quale l'arbitro dovrà pronunciarsi e i criteri per la liquidazione dei compensi spettanti all'arbitro;

          l'obbligo per l'arbitro del rispetto delle norme inderogabili di legge e del contratto collettivo;

          l'impugnabilità del lodo, per qualsiasi vizio, davanti alla corte di appello, con previsione di un doppio termine, breve, dalla notifica, e lungo, dal deposito del lodo;

          l'esecutività del lodo nonostante l'impugnazione;

          il mantenimento della concorrente disciplina arbitrale eventualmente prevista da accordi o contratti collettivi.

      La conservazione della concorrente disciplina arbitrale, espressione dell'autonomia negoziale collettiva, è volta a favorire un sistema integrato dell'arbitrato nelle controversie di lavoro che si avvalga dell'apporto di importanti accordi già perfezionati, ad esempio l'ARAN, con la Confederazione italiana della piccola e media industria (CONFAPI) e con la Confederazione italiana dei servizi pubblici e degli enti locali (CISPEL), taluni con disposizioni peculiari, qual è la soluzione adottata, tra gli altri, dall'accordo con la CONFAPI, che consente di pervenire, nella medesima sede, a un'interpretazione autentica sull'efficacia e sulla validità di una clausola del contratto collettivo nazionale e che così ha introdotto un efficace strumento di prevenzione delle controversie seriali e ha anticipato analoghe soluzioni poi generalizzate dal legislatore. Peraltro, le divergenze che nei vari accordi emergono in ordine all'ambito di impugnabilità dei lodi vengono risolte, con l'articolato proposto, riconducendo a unità il regime delle impugnazioni, sicché anche per l'arbitrato previsto dalla contrattazione collettiva si applica il regime di impugnazione introdotto con la novella, id est l'impugnabilità, per qualsiasi vizio, davanti alla corte di appello.

IV. Misure di razionalizzazione del processo del lavoro in generale.

      Nell'affrontare la riforma del processo del lavoro si è ritenuto necessario prevedere interventi puntuali che abbiano come finalità la razionalizzazione della normativa vigente. L'eterogeneità delle materie trattate non consente di racchiudere le proposte formulate all'interno di un unico denominatore, in quanto la ratio sottesa ai diversi interventi proposti è diversa, anche se comunque rispondente a comuni esigenze di equità e celerità dell'azione giudiziaria.

Riduzione del termine di decadenza dall'impugnazione.

      Nell'ambito di istanze acceleratorie del processo si propone di ridurre a sei mesi il termine «lungo» (attualmente fissato in un anno) per proporre l'appello, il ricorso per cassazione, la riassunzione della causa e la revocazione (nei casi previsti) avverso sentenze pronunciate in materia di lavoro, previdenza e assistenza obbligatorie.

Accertamento pregiudiziale sull'interpretazione di leggi, regolamenti, contratti e accordi collettivi.

      L'esperienza di questi ultimi anni dimostra che, assai spesso, il contenzioso del lavoro registra accumuli vistosi a causa di persistenti contrasti interpretativi determinati non di rado da oscurità o ambiguità di disposizioni di legge, regolamenti o contratti collettivi, dalle quali deriva il fenomeno delle «cause seriali o di massa» che reclamano interventi rigorosi.
      A un tale inconveniente non potrebbe provvedere il rimedio della «revisio per saltum», già previsto dall'articolo 360, secondo comma, del codice di procedura civile, sia perché esso esaurisce i propri effetti all'interno di una singola controversia, sia perché, essendo affidato esclusivamente alla concorde volontà delle parti, anziché all'iniziativa del giudice, è rimasto del tutto inutilizzato nella pratica.
      Sulla base delle prime esperienze applicative dell'articolo 420-bis del codice di procedura civile - le quali avevano evidenziato difficoltà interpretative e aspetti critici, anche di livello costituzionale, nella sua formulazione attuale - la Commissione, tenendo anche conto delle indicazioni fornite dalla Corte costituzionale (ordinanza n. 252 del 28 giugno 2006) ha proposto le seguenti innovazioni:

          a) estensione della pregiudiziale interpretativa a disposizioni di legge e di regolamento, oltre che a clausole di contratti o accordi collettivi nazionali;

          b) previsione, in caso di contratto o accordo collettivo, del coinvolgimento (conoscitivo e anche processuale) delle associazioni sindacali che hanno sottoscritto il contratto o l'accordo collettivo oggetto di interpretazione;

          c) limitazione al solo giudice di primo grado della possibilità di sollevare la questione pregiudiziale, purché «rilevante e seria» (come sottolineato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 199 del 5 giugno 2003);

          d) limitazione della possibilità di pronunciare l'accertamento pregiudiziale solo sull'interpretazione dei contratti e accordi collettivi e non anche, come previsto nell'attuale formulazione dell'articolo 420-bis del codice di procedura civile, sulle loro efficacia e validità.

      Alle controversie di pubblico impiego resta applicabile l'articolo 64 del decreto legislativo n. 165 del 2001, i cui commi 4, 6, 7 e 8 continuano ad applicarsi, in quanto compatibili, alle controversie di lavoro privato e previdenziale (secondo quanto disposto dall'articolo 146-bis delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368).

Motivazione in forma abbreviata.

      Il crescente interesse collegato all'analisi dei metodi di organizzazione degli uffici e di gestione del processo ha fatto emergere pratiche virtuose che hanno consentito di ridurre il grave arretrato, velocizzando la trattazione dei processi. In particolare, per quanto riguarda il processo del lavoro, si è distinta a livello nazionale l'esperienza della sezione lavoro presso il tribunale di Reggio Calabria, dove, al 30 settembre 1999, risultavano pendenti 10.335 cause di lavoro, pendenza ridotta a 3.785 cause di lavoro al 30 giugno 2005, con un numero di processi definiti in tale anno superiore rispetto alle sopravvenienze dello stesso periodo; inoltre, mentre nel 1999 venivano pronunciate poco più di 990 sentenze l'anno, nel 2002 sono state pronunciate 4.757 sentenze. Tali dati sono tratti dalla relazione «Organizzazione degli uffici e gestione del processo presso il tribunale di Reggio Calabria» tenuta dalla dottoressa Patrizia Morabito, magistrato coordinatore della sezione lavoro del tribunale di Reggio Calabria, a Roma durante il corso di formazione centrale del Consiglio superiore della magistratura, 27 febbraio-1o marzo 2006.
      Tra gli strumenti che hanno consentito il notevole incremento di produttività vi è stato l'ampio utilizzo della motivazione contestuale delle sentenze mutuata dall'articolo 281-sexies del codice di procedura civile, che ben può costituire norma di generale applicazione, e certamente conforme allo spirito del processo del lavoro, che prevede a pena di nullità l'immediata lettura almeno del dispositivo al termine dell'udienza.
      Si è ritenuto altresì di estendere la motivazione contestuale, già prevista nel processo civile, al processo del lavoro, ma prevedendo che in questo ambito la decisione a seguito di trattazione divenga la regola consentendo, solo come mera eccezione, nel caso di particolare complessità della controversia, che il giudice possa fissare nel dispositivo un termine non superiore a un mese per il deposito della sentenza.
      L'utilizzo di questo metodo consentirà di ridurre i tempi per la decisione concentrando il momento decisionale con quello motivazionale, nonché di evitare errori che possono commettersi quando si redige il dispositivo senza aver ricostruito tutti i passaggi della motivazione. Deve, infatti, segnalarsi come la Suprema Corte abbia affermato che, nel rito del lavoro, il principio della non integrabilità del dispositivo con la motivazione, in caso di insanabile contrasto fra le due parti della sentenza, non trova applicazione nel caso in cui sia data lettura in udienza sia della motivazione che del dispositivo in quanto, in tal caso, parte motiva e dispositiva concorrono entrambe a cristallizzare la statuizione consentendo, mediante un'interpretazione complessiva, il passaggio in giudicato anche delle enunciazioni contenute nella motivazione (sentenza n. 1673 del 29 gennaio 2004 della sezione lavoro della Corte di cassazione). Peraltro, l'apposita previsione di una norma che consenta l'immediata redazione della motivazione, nell'ambito del rito del lavoro, permetterà di superare le difficoltà ermeneutiche collegate all'applicazione dell'articolo 281-sexies del codice di procedura civile, norma costruita in riferimento al rito ordinario e poco adattabile al modello del processo del lavoro.
      La proposta avanzata, che prevede un mutamento di prospettiva disponendo che la regola sarà rappresentata dalla motivazione contestuale, mentre la motivazione differita rappresenterà l'eccezione (nel caso di particolare difficoltà della controversia), è, inoltre, in linea con le più recenti modifiche legislative, in particolare con il rito societario previsto dal decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5.
      Nell'ambito dell'esigenza di accelerazione e di snellimento del lavoro del giudice si inserisce l'articolo 45 della presente proposta di legge, che prevede la possibilità di far ricorso alla motivazione in forma abbreviata mediante rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e alla concisa esposizione delle ragioni di diritto, anche riportandosi a precedenti conformi; anche in questo caso non si tratta di una assoluta novità, in quanto la motivazione in forma abbreviata è già prevista dall'articolo 16, comma 5, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, in materia di rito societario.

Procedimento monitorio.

      La necessità di modificare le norme che disciplinano il procedimento monitorio sorge da tre ordini di considerazioni:

          l'esigenza di equiparare il trattamento processuale dei lavoratori subordinati, autonomi manuali e autonomi intellettuali per i quali non esiste una tariffa legalmente approvata a quello per i lavoratori autonomi per i quali la tariffa esiste;

          il rilievo, frutto non solo di intuizione, ma anche dell'esperienza comparata, che allargare il campo di applicazione del procedimento per decreto significa introdurre una notevolissima razionalizzazione. La grande efficienza dell'amministrazione della giustizia in Germania e in Austria deriva anche dalla circostanza che la stragrande maggioranza delle domande di tutela giurisdizionale per crediti pecuniari (in Austria addirittura anche quelli derivanti da fatto illecito!) è filtrata da un procedimento monitorio puro;

          il rilievo empirico che una percentuale molto rilevante dei procedimenti di lavoro si svolge in contumacia; procedimenti i quali, data la disciplina di derivazione francese, per cui l'attore deve provare la propria pretesa per vincere la causa, comportano quasi sempre un inutile dispendio di attività. (Una ricerca svolta alcuni anni or sono alla pretura di Torino, finanziata dal Consiglio nazionale delle ricerche, aveva rilevato che il 34 per cento dei procedimenti di lavoro sono svolti nella contumacia del convenuto).
      È appena il caso di rilevare che la notevole percentuale di procedimenti in contumacia si ribalterebbe, con l'innovazione proposta, nella certezza che, per quanto riguarda quei procedimenti, non vi sarebbe opposizione. E basterebbe già questo dato di fatto, per concludere che l'innovazione darebbe luogo a un guadagno netto di attività giurisdizionale. Senza contare che la chiamata in campo delle associazioni sindacali e professionali per il controllo dei conteggi condurrebbe a una prima scrematura delle pretese e, in generale, con grande probabilità, anzi con ragionevole certezza, a una percentuale di opposizioni non superiore a quella, bassa, che si registra per i decreti ingiuntivi secondo la disciplina vigente.
      Un inconveniente della soluzione proposta potrebbe essere ravvisato nella circostanza che essa può comportare una diminuzione dei redditi professionali degli avvocati dei lavoratori. Ma a questa diminuzione corrisponderebbe una grande semplificazione nel lavoro degli studi, che potrebbero meglio concentrarsi sulle cause in cui viene proposta l'opposizione e su quelle più delicate e complesse che devono seguire la via del processo in contraddittorio (licenziamenti, accertamenti dell'esistenza del rapporto, mansioni, qualifiche, interpretazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro eccetera).
      La soluzione approvata dalla Commissione soddisfa le esigenze illustrate: con le norme proposte si rende «quasi puro» (richiedendo al ricorrente di offrire indizi idonei a far presumere esistenti i fatti costitutivi del proprio diritto) il procedimento avente ad oggetto crediti in denaro traenti origine da uno dei rapporti indicati dall'articolo 409 del codice di procedura civile ovvero da rapporti di lavoro autonomo.

Calcolo di interessi e rivalutazioni.

      Con la modifica dell'articolo 150 delle disposizioni per l'attuazione al codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto n. 1368 del 1941, viene previsto che, ai fini del calcolo della svalutazione monetaria, il giudice applicherà l'indice dell'Istituto nazionale di statistica (ISTAT), nonché gli interessi legali calcolati sul capitale via via rivalutato. In tale modo viene trascritto in apposita norma l'ordinamento così detto «intermedio» espresso dalle sezioni unite della Cassazione (vedi la sentenza n. 38 del 29 gennaio 2001) in ordine alla cumulabilità degli interessi legali con la rivalutazione monetaria.

Repressione della condotta antisindacale ed emersione del lavoro «nero».

      Il lavoro «nero» è stimato in Italia nell'astronomico ammontare di oltre 3 milioni di unità lavorative. La «bonifica» del lavoro «nero» è stato un obiettivo perseguito dal legislatore per più vie, tanto di repressione amministrativa e penale, quanto di normazione «premiale» per i datori di lavoro che avessero deciso di «emergere» dalla clandestinità o di far emergere parte della loro organizzazione imprenditoriale.
      I risultati sono stati, sia sull'uno sia sull'altro versante, costantemente deludenti, e ciò in quanto gli organi repressivi non hanno mezzi, uomini, strutture, procedure e talvolta neanche volontà sufficienti per contrastare capillarmente un fenomeno tanto diffuso, mentre le normative premiali non possono mai raggiungere la convenienza della (ancor poco rischiosa) evasione totale. È inoltre sempre mancata la legittimazione attiva alla repressione del lavoro «nero» di un ente collettivo esponenziale degli interessi dei lavoratori, non soggetto a quei condizionamenti ai quali invece non può sfuggire il singolo lavoratore immerso nella realtà drammatica del lavoro irregolare, ente che non può che essere identificato nell'organizzazione sindacale, la quale certamente incontra nel lavoro «nero» un formidabile quanto ingiusto ostacolo alla sua azione di proselitismo e di organizzazione degli interessi collettivi: l'attività sindacale si ferma o diventa difficilissima se i lavoratori sono «invisibili» perché non regolarizzati, ma allora è evidente che il non regolarizzare i lavoratori costituisce un ostacolo (illegittimo) all'attività sindacale, e l'attività sindacale, per altro verso, è proprio uno dei beni tutelati dall'articolo 28 dello statuto dei lavoratori di cui alla legge n. 300 del 1970, norma che reprime i comportamenti datoriali contrari alla «libertà sindacale, all'attività sindacale ed al diritto di sciopero». Date tali premesse non rappresenterebbe una forzatura concettuale ritenere che dare lavoro in «nero» possa integrare la fattispecie di comportamento antisindacale, ma, anzi, il risultato di una meditata lettura della norma; mentre, per altro verso, proprio questa sembrerebbe la via più convincente per la lotta al lavoro «nero», primo nemico dell'organizzazione e dell'attività del sindacato. Ciò in quanto il singolo lavoratore assunto in «nero» sarebbe troppo debole e troppo ricattato, solitamente, per poter denunciare la sua condizione al giudice o all'autorità amministrativa e dunque dovrebbe esser riconosciuta, accanto ad una legittimazione individuale, una legittimazione «collettiva», quella del sindacato, ossia dei lavoratori coalizzati.
      Nell'ambito di tali premesse si muove la proposta di esplicito riconoscimento legislativo dell'applicabilità dell'articolo 28 dello statuto dei lavoratori all'ipotesi di «lavoro nero». La proposta si «sposerebbe» perfettamente - quale misura repressiva finalizzata, però, ad una uscita concordata e definitiva dalla illegalità - con le previsioni legislative anche recenti (vedi la citata legge finanziaria 2007) circa accordi sindacali di «emersione» del lavoro «nero» che condonano al datore di lavoro, che si impegna con quegli accordi a rientrare nella legalità, gran parte delle sanzioni e dei costi connessi con le violazioni di legge già consumate. Il meccanismo sinergico potrebbe essere il seguente: dopo che il sindacato abbia «scovato» il datore di lavoro «in nero» portandolo in giudizio con il procedimento dell'articolo 28 della legge n. 300 del 1970 per impedimento alla attività sindacale e il giudice gli abbia ordinato di cessare dal comportamento e di «rimuovere gli effetti», la «rimozione» potrebbe consistere, appunto, nella stipula di un «accordo di emersione» con lo stesso sindacato denunziante.
      Dal punto di vista della riforma del testo legislativo, la Commissione suggerisce di introdurre un comma all'attuale formulazione dell'articolo 28 dello statuto dei lavoratori

Lavoro dei detenuti.

      Con la sentenza n. 341 del 27 ottobre 2006 la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'articolo 69, comma 6, lettera a), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (ordinamento penitenziario), nella parte in cui prevede che le controversie concernenti il lavoro carcerario siano decise dal magistrato di sorveglianza, secondo la procedura di cui all'articolo 14-ter della stessa legge. In primo luogo, occorrerebbe chiarire se la sentenza impone semplicemente il rispetto di un rito che garantisca adeguatamente il principio del contraddittorio (con preferenza per il rito del lavoro, stante l'oggetto delle controversie), o se impone anche una diversa competenza in materia di lavoro carcerario.
      La ricognizione del thema decidendum operata dalla Corte e un (sintetico) riferimento alla competenza, sembrerebbero andare in quest'ultima direzione: in effetti, la sentenza della Corte insiste soprattutto nell'insufficienza della procedura de plano, prevista dall'articolo 14-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, ad assicurare il rispetto del principio del contraddittorio, mentre l'altro elemento cardine della motivazione - la pari dignità del lavoro del detenuto e la sua finalizzazione al reinserimento sociale - non escluderebbe con la stessa forza logica la competenza del magistrato di sorveglianza, peraltro riconosciuta dalla prevalente giurisprudenza di legittimità. Ad ogni modo, il tema in esame impone di considerare sia il problema dell'inquadramento generale del lavoro carcerario, sia le implicazioni pratiche della nuova competenza del giudice del lavoro (traduzioni dei detenuti presso i tribunali civili, inadeguatezza delle strutture, aumento dei rischi per la sicurezza, aumento dei costi, incidenza sulla celerità del procedimento eccetera).
      Sul piano generale, si deve rilevare (sentenza della Corte costituzionale n. 1087 del 13 dicembre 1988) che il lavoro carcerario mantiene elementi di perdurante diversità rispetto al lavoro alle dipendenze di terzi (trae origine da un obbligo legale e non da un contratto, costituisce oggetto di una specifica regolamentazione in relazione allo status libertatis del lavoratore e alla qualità del datore di lavoro, è indirizzato alla realizzazione degli obiettivi del reinserimento sociale del detenuto, l'amministrazione datrice di lavoro non persegue l'utile, l'occupazione del detenuto non è regolata dal mercato).
      Inoltre, accanto al classico «lavoro carcerario» (il lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria), sono fiorite nuove figure (lavoro alle dipendenze di imprese pubbliche e private da svolgersi all'interno od all'esterno del carcere, lavoro associato nell'ambito di cooperative, lavoro autonomo, lavoro a domicilio eccetera).
      L'adeguamento normativo, quindi, pone anche un problema definitorio in relazione all'oggetto della cognizione.
      Il riferimento al lavoro carcerario (definizione soprattutto dottrinale) richiama una categoria piuttosto incerta ed eterogenea, comprensiva, come già detto, sia del lavoro intramurario sia del lavoro all'esterno del carcere, sia di forme di lavoro subordinato sia di forme di lavoro «parasubordinato», sia alle dipendenze dell'amministrazione carceraria sia alle dipendenze di terzi. I nuovi esiti della flessibilità potrebbero sminuire ulteriormente la valenza definitoria del sintagma, ed è per questo che nella proposta normativa si è optato per l'ampia locuzione: «rapporti di lavoro dei detenuti» cercando, per quanto possibile, di non indurre nuove incertezze. In ordine alla competenza, una volta assimilate le situazioni dei lavoratori detenuti a quelle dei lavoratori liberi, dovrebbero mantenersi gli stessi criteri di competenza per territorio, valendo per gli uni come per gli altri le medesime esigenze connesse all'accertamento dei fatti (luogo in cui è sorto il rapporto, in cui si trova l'«azienda» o viene effettuata la prestazione).
      L'esigenza di evitare la moltiplicazione degli adempimenti organizzativi, gli aggravi di spesa legati alla traduzione dei detenuti ed i rischi sempre connessi a tale evento potrebbe forse suggerire la competenza territoriale del tribunale nel cui circondario si trova l'istituto in cui il lavoratore è detenuto in un certo momento processualmente significativo (ad esempio il deposito del ricorso); tuttavia, la possibilità (e la frequenza) dei trasferimenti dei detenuti da un istituto all'altro rischia di sortire gli stessi inconvenienti, se non addirittura di peggiorarli, lasciando per giunta senza garanzia le esigenze cui rispondono i criteri di competenza validi per ogni lavoratore. Sulla base delle considerazioni esposte la Commissione ha formulato una proposta che prevede l'estensione del solo rito del lavoro nei giudizi innanzi al magistrato di sorveglianza, sulle controversie relative al lavoro svolto dai detenuti in favore dell'amministrazione penitenziaria, mentre è prevista l'estensione della competenza del giudice del lavoro sui rapporti di lavoro dei detenuti con soggetti terzi datori di lavoro, pubblici o privati.

Partecipazione degli enti previdenziali alle procedure fallimentari.

      La riforma del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, cosiddetta «legge fallimentare», attuata principalmente con il decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, il quale ha dettato una nuova disciplina della formazione e dell'esecutività dello stato passivo nonché delle impugnazioni contro il relativo decreto, dal punto di vista processuale ha introdotto due importanti novità:

          a) da un lato l'effetto solo endoprocessuale attribuito dal quinto comma dell'articolo 96 della legge fallimentare sia al decreto di esecutività dello stato passivo sia alla sentenza che decide il procedimento di impugnazione;

          b) dall'altro l'adozione, per quest'ultimo procedimento, di un rito camerale «ampliato e garantistico» prevedente l'assunzione in contraddittorio di mezzi di prova di ogni tipo.

      Per quanto riguarda il primo aspetto, va ricordato che in precedenza si riteneva che la sentenza emessa nel procedimento di opposizione allo stato passivo avesse efficacia di giudicato, essendo pronunciata al termine di un normale giudizio di tipo ordinario, e ciò aveva un sicuro rilievo in tutte quelle cause in cui, pur trattandosi immediatamente di un credito di lavoro, si accertava però, in via preliminare, la sussistenza di un rapporto di lavoro. Un accertamento di questo genere consentiva pertanto al lavoratore successivamente, anche in sede extrafallimentare, di ottenere la ricostituzione di posizioni previdenziali, a suo tempo non accese per l'irregolarità di contratti di lavoro (atipici o addirittura «in nero») in base ai quali era stata prestata l'opera e anche maturato il credito.
      Con l'efficacia solo endoprocessuale anche della sentenza emessa nel giudizio di opposizione (ora impugnazione) disciplinato dall'articolo 99 della legge fallimentare questa preziosa possibilità andrebbe persa, e occorre in proposito ripensare l'intera problematica dei rapporti tra interessi dei lavoratori, contenzioso lavoristico, vicende concorsuali e procedimento fallimentare.
      Il fatto è, invero, che l'interesse fondamentale dei lavoratori nelle insolvenze e nei procedimenti fallimentari non è tanto quello del recupero dei crediti rimasti impagati, sia perché ad esso si fa fronte in buona parte ricorrendo al Fondo di garanzia di cui all'articolo 2 della legge 29 maggio 1982, n. 297, sia perché esistono il privilegio di primo grado e la decorrenza di interessi e di rivalutazioni fino al riparto finale, quanto piuttosto quello di veder riconosciuto, come premessa del credito, lo status stesso di lavoratore subordinato, e che significa poi poter accedere o meno, in futuro, a un trattamento previdenziale pensionistico.
      Il problema e il fenomeno sociale da comprendere è questo: l'insolvenza dell'impresa e il fallimento costituiscono, per così dire, il «pettine» al quale arrivano assai spesso tutti insieme i nodi dei tanti rapporti irregolari costituiti dall'imprenditore ancora in bonis: false collaborazioni a progetto, false associazioni in partecipazione, falsi contratti di inserimento, rapporti di somministrazione irregolari eccetera. È insomma il caso, talvolta davvero drammatico, di lavoratori che avendo collaborato per molti anni sulla base di rapporti «atipici» rischiano, con il fallimento dell'impresa, di non poter mai ottenere una posizione previdenziale adeguata per il lavoro effettivamente prestato.
      Due possibilità concettuali si aprono per porre rimedio a questa palese grandissima ingiustizia:

          a) accettare la logica introdotta nella legge fallimentare dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, e cioè l'efficacia solo endofallimentare delle pronunce dei giudici fallimentari, che pertanto rispondono solo alla questione di quali crediti debbano essere ammessi al riparto, ma senza pervenire a nessun accertamento con valore di giudicato, e allora portare fuori dalla sede fallimentare, mantenendoli espressamente al giudice del lavoro, tutti i giudizi relativi alla sussistenza del rapporto di lavoro subordinato previa riqualificazione dei rapporti di lavoro atipici irregolari. Scontando, però, allora, continui problemi di interferenza tra le due competenze e sedi visto che la sussistenza del rapporto è, inevitabilmente, il presupposto del credito del lavoratore;

          b) affidarsi, invece, al nuovo procedimento camerale disciplinato dall'articolo 99 della legge fallimentare e prevedere una specifica eccezione all'efficacia solo endofallimentare delle pronunce, allo scopo di dare una risposta, per così dire «veloce e compatta», nella stessa sede fallimentare a quel fondamentale interesse del lavoratore.

      La Commissione ha approvato questa seconda forma di intervento proponendo di modificare, con la sostituzione del quinto comma, l'articolo 96 della legge fallimentare.

Controversie tra socio e cooperativa.

      Con la modifica al comma 2 dell'articolo 5 della legge 3 aprile 2001, n. 142, come sostituito dall'articolo 9 della legge 14 febbraio 2003, n. 30, si intende porre fine a difficoltà interpretative e applicative - testimoniate da una diffusa giurisprudenza di merito - derivanti dall'attribuzione alla competenza del tribunale ordinario delle sole controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica. La Commissione ha, quindi, proposto di modificare l'attuale formulazione della norma richiamata prevedendo che le controversie tra socio e cooperativa siano tutte di competenza del tribunale in funzione di giudice del lavoro.

Sentenze del giudice ordinario.

      Ai sensi dell'articolo 33, quarto comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, introdotto dall'articolo 10 della legge 21 luglio 2000, n. 205, possono essere oggetto del giudizio di ottemperanza le sentenze del giudice amministrativo di primo grado purché non sospese dal giudice di appello.
      Lo stesso non è possibile nel caso in cui l'oggetto di un giudizio di ottemperanza riguardi una sentenza del giudice ordinario (il che potrebbe verificarsi nel caso di controversie di pubblico impiego per il quale la giurisdizione del giudice ordinario costituisce la regola, per effetto della «privatizzazione» operata dal decreto legislativo n. 165 del 2001) che, pur avendo efficacia provvisoriamente esecutiva, non sia ancora passata in giudicato.
      La Corte costituzionale, con ordinanza n. 44 dell'8 febbraio 2006, ha ritenuto manifestamente infondata la questione sulla descritta disparità di trattamento, considerandola frutto di una discrezionalità del legislatore il quale «ha voluto dare concretezza al principio di esecutività delle sentenze di primo grado» e aggiungendo che «sono differenti e, quindi, non comparabili le azioni esecutive davanti al giudice ordinario secondo le norme di procedura civile, trattandosi di sentenze o di provvedimenti esecutivi che non richiedono l'esame di merito proprio del giudizio di ottemperanza (...) pertanto, non può parlarsi di disparità di trattamento fra l'ipotesi di esecuzione di sentenza amministrativa di primo grado, perseguita attraverso il giudizio di ottemperanza, e l'ipotesi di esecuzione delle sentenze di primo grado del giudice ordinario».
      La decisione lascia in disparte l'ipotesi delle sentenze rese dal giudice del lavoro in controversie di lavoro «pubblico», per le quali pure risulta utilizzato il giudizio di ottemperanza.
      Per ovviare a tale lacuna si propone di sostituire il primo comma dell'articolo 37 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, prevedendo che possa farsi ricorso al giudizio di ottemperanza anche nel caso di sentenza emessa dall'autorità giudiziaria ordinaria, dotata di esecutività ai sensi dell'articolo 431 del codice di procedura civile, che abbia riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico.


torna su
PROPOSTA DI LEGGE

Capo I
LICENZIAMENTI, TRASFERIMENTI E LEGITTIMITÀ DEL TERMINE

Art. 1.
(Ambito di applicazione).

      1. Ferma restando la possibilità di agire nelle forme di cui agli articoli 414 e seguenti del codice di procedura civile, nei rapporti di lavoro soggetti alla disciplina prevista dall'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come da ultimo modificato dall'articolo 7 della presente legge, la disciplina di cui al presente capo si applica alle controversie aventi ad oggetto:

          a) l'impugnativa di licenziamenti, individuali e collettivi, anche qualora presuppongano la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro;

          b) la legittimità del termine apposto al contratto;

          c) l'impugnativa dei trasferimenti di cui all'articolo 2103 del codice civile;

          d) l'impugnativa dei trasferimenti di cui all'articolo 2112 del codice civile.

Art. 2.
(Forma della domanda e procedimento).

      1. La domanda si propone con ricorso al tribunale in funzione di giudice del lavoro.
      2. Il giudice, convocate le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili ai fini del provvedimento richiesto e provvede, con ordinanza, all'accoglimento o al rigetto della domanda.
      3. Il giudice, ove rilevi che la causa deve essere trattata secondo le forme ordinarie, dispone, con ordinanza, il mutamento di rito per la prosecuzione del processo ai sensi degli articoli 414 e seguenti del codice di procedura civile.

Art. 3.
(Onere della prova).

      1. Nelle controversie in materia di licenziamento l'onere della prova relativa al numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro grava su quest'ultimo. Resta fermo quanto previsto dall'articolo 5 della legge 15 luglio 1966, n. 604.

Art. 4.
(Reclamo contro l'ordinanza e sospensione).

      1. L'ordinanza di cui al comma 2 dell'articolo 2 è reclamabile davanti al collegio, del quale non può fare parte il giudice che ha emesso il provvedimento reclamato. Il reclamo deve essere proposto entro il termine perentorio di quindici giorni dalla pronuncia in udienza ovvero dalla comunicazione o dalla notificazione se anteriore. La mancata proposizione del reclamo attribuisce all'ordinanza efficacia di sentenza passata in giudicato.
      2. Al giudizio di reclamo si applica il comma 2 dell'articolo 2. L'ordinanza è opponibile, entro il termine perentorio di un mese dalla pronuncia in udienza ovvero dalla comunicazione o dalla notificazione se anteriore, davanti alla corte di appello nelle forme di cui agli articoli 414 e seguenti del codice di procedura civile. La mancata proposizione dell'opposizione attribuisce all'ordinanza efficacia di sentenza passata in giudicato.
      3. Il collegio del tribunale in sede di reclamo e la corte di appello in sede di opposizione, su istanza di parte, possono sospendere l'ordinanza ove sussistano fondati motivi e dal provvedimento possa derivare alla parte un danno gravissimo.

Art. 5.
(Ritardo nell'esecuzione della reintegrazione).

      1. Il giudice, con l'ordinanza o con la sentenza di condanna alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, determina la somma dovuta dal datore di lavoro per l'eventuale ritardo nell'esecuzione del provvedimento, entro il limite massimo di quattro retribuzioni globali di fatto giornaliere ed entro il limite minimo di due retribuzioni globali di fatto giornaliere per ogni giorno di ritardo, tenuto conto delle dimensioni dell'organizzazione produttiva. Tali somme sono dovute decorsi dieci giorni dalla messa a disposizione delle energie lavorative.
      2. Il lavoratore può chiedere, con ricorso al giudice che ha ordinato la reintegrazione, la liquidazione della somma dovuta. L'onere della prova dell'effettiva reintegrazione grava sul datore di lavoro. Il giudice provvede nelle forme di cui al primo comma dell'articolo 669-sexies del codice di procedura civile e decide con ordinanza con la quale liquida le spese del procedimento; il provvedimento è immediatamente esecutivo e contro lo stesso è ammesso reclamo ai sensi dell'articolo 669-terdecies del codice di procedura civile.

Art. 6.
(Riforma del provvedimento di reintegrazione).

      1. In caso di riforma del provvedimento dichiarativo dell'illegittimità del licenziamento, il lavoratore, anche se non reintegrato, ha diritto a trattenere, o a percepire se non ancora corrisposte, solo le somme corrispondenti alla retribuzione per il periodo intercorso tra il provvedimento di condanna alla reintegrazione e il provvedimento di riforma.
      2. In caso di riforma del provvedimento dichiarativo dell'illegittimità del trasferimento il lavoratore è tenuto a restituire le somme già percepite ai sensi dell'articolo 5.

Art. 7.
(Norme di coordinamento).

      1. All'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:

          a) al primo comma, dopo le parole: «il giudice con» sono inserite le seguenti: «l'ordinanza o»;

          b) al quarto comma, dopo le parole: «Il giudice con» sono inserite le seguenti: «l'ordinanza o»;

          c) al quinto comma, dopo la parola: «deposito» sono inserite le seguenti: «dell'ordinanza o».

Art. 8.
(Inapplicabilità del tentativo obbligatorio di conciliazione).

      1. Alle controversie instaurate ai sensi dell'articolo 1 della presente legge non si applicano le disposizioni degli articoli da 410 a 412-bis del codice di procedura civile.

Art. 9.
(Soppressione dell'obbligo di tentare la conciliazione in materia di licenziamenti individuali).

      1. L'articolo 5 della legge 11 maggio 1990, n. 108, è abrogato.

Art. 10.
(Norme in materia di impugnazione del licenziamento).

      1. L'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, è sostituito dal seguente:

      «Art. 6. - 1. Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro quattro mesi dalla ricezione della sua comunicazione, ovvero dalla comunicazione dei motivi ove questa non sia contestuale a quella del licenziamento, con ricorso depositato nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro.
      2. Il termine di cui al comma 1 decorre da ogni altro atto o fatto che manifesti l'inequivoca intenzione del datore di lavoro di porre fine al rapporto di lavoro».

Art. 11.
(Forma e modalità delle dimissioni).

      1. Le dimissioni del lavoratore sono rassegnate con atto scritto comunicato mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento o avente comunque data certa. Eventuali dimissioni in forma orale non possono essere fatte valere dal datore di lavoro quali causa di estinzione del rapporto di lavoro, qualora egli non abbia provveduto a richiedere, entro il termine di due giorni dalla ricezione delle stesse e con atto scritto di data certa, conferma delle dimissioni del lavoratore.

Art. 12.
(Disposizioni finali).

      1. Le controversie, sommarie od ordinarie, relative alle materie di cui all'articolo 1 della presente legge devono essere trattate dal giudice con priorità, con la sola eccezione dei procedimenti cautelari e di quelli previsti dall'articolo 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come da ultimo modificato dall'articolo 49 della presente legge.
      2. Le tempestive trattazione e conclusione delle controversie relative a provvedimenti di cui all'articolo 1 sono assicurate dai responsabili degli uffici anche prevedendo apposite misure organizzative.

Art. 13.
(Licenziamento discriminatorio).

      1. L'articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, è sostituito dal seguente:

      «Art. 3. - (Licenziamento discriminatorio). - 1. È considerato discriminatorio il licenziamento determinato dalle ragioni previste dalle seguenti disposizioni:

          a) articolo 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604;

          b) articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni;

          c) articolo 54 del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni.

      2. Il licenziamento discriminatorio è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni. Si applica l'articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, e successive modificazioni.
      3. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche ai dirigenti».

Capo II
CONTROVERSIE IN MATERIA DI PREVIDENZA E ASSISTENZA OBBLIGATORIE

Art. 14.
(Delega al Governo per la razionalizzazione del procedimento amministrativo contenzioso in materia di previdenza e assistenza obbligatorie).

      1. Al fine di ridurre il contenzioso in materia di previdenza e assistenza obbligatorie, il Governo è delegato ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi per la razionalizzazione della disciplina dei procedimenti amministrativi previsti dal primo comma dell'articolo 443 del codice di procedura civile, sulla base dei seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) armonizzazione e unificazione di tutti i procedimenti e loro articolazione in un unico grado;

          b) uniformazione dei termini;

          c) immodificabilità, nella fase giurisdizionale, delle posizioni assunte dalle parti nella fase contenziosa;

          d) potenziamento qualitativo dell'istruttoria dei ricorsi amministrativi;

          e) presenza negli organi decidenti di rappresentanti delle parti interessate;

          f) istituzione di sedi contenziose esterne rispetto agli enti previdenziali parti della controversia;

          g) costituzione di organi collegiali composti in maniera da assicurare specifiche competenze professionali medico-legali e obiettività di giudizio;

          h) garanzia del contraddittorio e assistenza tecnico-legale;

          i) previsione di un termine massimo entro il quale il ricorso deve essere deciso, o, in ogni caso, concluso, stabilito a decorrere dalla data in cui è stato proposto il ricorso amministrativo previa compiuta verbalizzazione delle posizioni assunte dalle parti nel corso del procedimento, nonché delle eventuali acquisizioni istruttorie;

          l) impugnabilità delle decisioni assunte in esito al procedimento contenzioso amministrativo concernenti unicamente i requisiti medico-legali, davanti al tribunale, in unico grado di merito;

          m) impugnabilità delle decisioni assunte in sede contenziosa amministrativa entro sei mesi dalla notifica delle medesime.

Art. 15.
(Decreto di fissazione dell'udienza nelle controversie di previdenza e assistenza obbligatorie).

      1. Dopo l'articolo 415 del codice di procedura civile è inserito il seguente:

      «Art. 415-bis. - (Decreto di fissazione dell'udienza nelle controversie di previdenza e assistenza obbligatorie). - Nelle controversie di cui all'articolo 442, la cui risoluzione richieda accertamenti medico-legali, il giudice, con il decreto di cui all'articolo 415, secondo comma, ove non ritenga di condividere le conclusioni peritali già acquisite in sede contenziosa amministrativa, nomina il consulente tecnico d'ufficio, invitandolo a prestare giuramento all'udienza di discussione ivi indicata, e fissa i termini per lo svolgimento delle operazioni peritali e per l'espletamento del tentativo di conciliazione».

Art. 16.
(Norma di coordinamento).

      1. All'articolo 442, primo comma, del codice di procedura civile, dopo le parole: «di questo titolo» sono aggiunte le seguenti: «, salvo che non sia diversamente disposto».

Art. 17.
(Introduzione degli articoli 443-bis e 443-ter del codice di procedura civile in materia di accertamenti medico-legali).

      1. Dopo l'articolo 443 del codice di procedura civile sono inseriti i seguenti:

      «Art. 443-bis. - (Accertamenti sanitari connessi a controversie di previdenza e assistenza obbligatorie). - Nei casi in cui l'assicurato o l'assistito abbia presentato ricorso contro un provvedimento relativo a prestazioni previdenziali o assistenziali che comportino l'accertamento dello stato di condizioni psico-fisiche, l'amministrazione competente, ove non ritenga di accogliere il ricorso, sottopone l'accertamento a un collegio medico, composto da un sanitario designato dall'amministrazione competente, da un sanitario nominato dal ricorrente o dall'istituto di patronato che lo assiste, e da un terzo sanitario nominato dal responsabile del competente dipartimento del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali tra i medici specialisti in medicina legale o in medicina del lavoro di cui all'articolo 146 delle disposizioni per l'attuazione del presente codice ovvero tra i sanitari appartenenti ai ruoli di un ente previdenziale diverso da quello che è parte della controversia.
      Espletati gli accertamenti medico-legali, il collegio di cui al primo comma, coerentemente alle risultanze degli accertamenti, tenta la conciliazione della controversia. In caso di esito positivo, è redatto un verbale che, sottoscritto dalle parti, è vincolante per le medesime. In caso di esito negativo del tentativo di conciliazione, il presidente del collegio redige una dettagliata relazione medico-legale nella quale dà atto degli accertamenti effettuati e delle conclusioni raggiunte nonché dei motivi del dissenso. In tale ultimo caso si applica l'articolo 443-ter.
      Il compenso dei componenti il collegio di cui al primo comma, posto a carico dell'amministrazione competente per l'erogazione della prestazione, è determinato in conformità ad apposite convenzioni stipulate con la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri.

      Art. 443-ter. - (Controversie giudiziali che richiedono accertamenti medico-legali). - Nei procedimenti relativi alle controversie previste dall'articolo 442, la cui soluzione richieda l'accertamento delle condizioni psico-fisiche, il ricorso deve contenere, oltre all'indicazione delle generalità delle parti e del diritto che si intende far valere, anche l'indicazione specifica dei quesiti da sottoporre al consulente medico-legale e dei documenti sanitari che si offrono in comunicazione.
      Il giudice, entro cinque giorni dal deposito del ricorso, nomina, con decreto, il consulente medico-legale, fissa l'udienza per il giuramento, nonché i termini entro i quali le operazioni peritali devono svolgersi, e dispone che, a cura della cancelleria, l'istanza e il suddetto decreto siano notificati al convenuto e al consulente medico-legale nominato.
      Al procedimento si applicano, in quanto compatibili, gli articoli da 191 a 195.
      Il consulente tecnico, esperite le operazioni peritali, comunica la propria relazione ai difensori delle parti e, entro quindici giorni da detta comunicazione, esperisce tentativo di conciliazione della lite, del quale redige apposito verbale, che comunica alla cancelleria del tribunale e alle parti».

Art. 18.
(Competenza per il giudizio di opposizione contro il ruolo).

      1. All'articolo 444 del codice di procedura civile è aggiunto, in fine, il seguente comma:

      «Per il giudizio di opposizione contro il ruolo, ai sensi dell'articolo 25 del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46, e successive modificazioni, è competente il tribunale del luogo in cui ha sede l'ufficio dell'ente previdenziale che ha proceduto all'iscrizione al ruolo, anche se tale sede non coincide con il domicilio fiscale del soggetto obbligato».

Art. 19.
(Tentativo di conciliazione da parte del consulente tecnico).

      1. Dopo il primo comma dell'articolo 445 del codice di procedura civile sono inseriti i seguenti:

      «Il consulente tecnico, esperite le operazioni peritali, comunica la propria relazione ai difensori delle parti e, entro quindici giorni da tale comunicazione, esperisce il tentativo di conciliazione della lite e redige un apposito verbale, che comunica alla cancelleria del tribunale e alle parti.
      Nel caso di nomina di più consulenti tecnici, il giudice indica il consulente al quale affidare il tentativo di conciliazione».

Art. 20.
(Controversie in materia di invalidità pensionabile).

      1. L'articolo 149 delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368, di seguito denominato «disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile», è sostituito dal seguente:

      «Art. 149. - (Controversie in materia di invalidità pensionabile). - Nelle controversie di cui all'articolo 442 del codice il giudice deve valutare anche l'aggravamento della malattia, nonché tutte le infermità comunque incidenti sulle condizioni psico-fisiche dell'assicurato, comprese quelle denunciate nel corso del procedimento amministrativo e del giudizio di primo grado e ivi ritualmente dedotte».

Art. 21.
(Comunicazione dei provvedimenti agli enti o istituti previdenziali).

      1. Dopo l'articolo 149 delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile è inserito il seguente:

      «Art. 149-bis. - (Comunicazione dei provvedimenti agli enti o istituti previdenziali). - In tutti i giudizi e procedimenti regolati dagli articoli 442 e seguenti del codice nei quali siano parte, anche non costituita, enti o istituti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie organizzati su base territoriale, all'atto della pubblicazione di ogni sentenza o a seguito della pronuncia di ogni ordinanza deve essere comunicata, a cura del cancelliere o del segretario dirigente della cancelleria o della segreteria dell'organo giurisdizionale presso cui la sentenza è pubblicata o l'ordinanza è depositata, una copia autenticata in carta libera messa a disposizione dei predetti enti o istituti».

Art. 22.
(Decadenza nelle controversie in materia di invalidità civile).

      1. Alle controversie in materia di invalidità civile si applica la decadenza di cui all'articolo 47 del decreto del Presidente della Repubblica 30 aprile 1970, n. 639, e successive modificazioni.

Art. 23.
(Norma di coordinamento).

      1. All'articolo 42, comma 3, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, il secondo periodo è soppresso.

Art. 24.
(Trasferimento all'Istituto nazionale della previdenza sociale di funzioni in materia di invalidità civile).

      1. Le funzioni già di competenza del Ministero dell'economia e delle finanze e delle direzioni provinciali sanitarie in materia di invalidità civile sono trasferite all'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS).
      2. Nei giudizi di invalidità civile in cui è già parte, l'INPS subentra nella posizione processuale del Ministero dell'economia e delle finanze, in deroga all'articolo 111 del codice di procedura civile.

Art. 25.
(Non impugnabilità delle conciliazioni in sede amministrativa).

      1. L'articolo 147 delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile è sostituito dal seguente:

      «Art. 147. - (Non impugnabilità delle conciliazioni in sede amministrativa). - Nelle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie le conciliazioni sottoscritte dalle parti in sede amministrativa con l'assistenza dell'istituto di patronato o davanti al giudice non sono impugnabili».

Art. 26.
(Controversie di serie).

      1. Dopo l'articolo 443-ter del codice di procedura civile è inserito il seguente:

      «Art. 443-quater. - (Controversie di serie). - In caso di controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie riguardanti, anche potenzialmente, un numero consistente di soggetti e aventi ad oggetto questioni analoghe, le amministrazioni interessate sono tenute ad informare i Ministeri competenti e a promuovere incontri anche con gli istituti di patronato che hanno fornito assistenza nelle medesime controversie, al fine di chiarire gli aspetti delle questioni in discussione e di individuare, per quanto possibile, ipotesi di soluzione.
      In attesa dell'esito degli incontri di cui al primo comma, il giudice, su concorde istanza di parte, può rinviare la trattazione della causa.
      Resta salva l'applicazione dell'articolo 420-bis».

Capo III
ARBITRATO E CONCILIAZIONE

Art. 27.
(Tentativo obbligatorio di conciliazione).

      1. L'articolo 410 del codice di procedura civile è sostituito dal seguente:

      «Art. 410. - (Tentativo obbligatorio di conciliazione). - La decisione delle controversie relative ai rapporti di cui all'articolo 409 è preceduta dall'esperimento del tentativo di conciliazione nei termini e con le modalità previsti dal presente articolo.
      Il primo comma non si applica:

          a) alle controversie previdenziali aventi ad oggetto accertamenti sanitari;

          b) alle controversie per le quali sono stabiliti dalla legge procedimenti sommari o da esperire in via d'urgenza.

      Il giudice, ricevuto il ricorso, fissa la comparizione delle parti per condurre personalmente il tentativo di conciliazione entro il termine di due mesi dalla data del deposito del medesimo ricorso.
      Quando non può provvedere ai sensi del terzo comma, il giudice, con proprio decreto, designa un conciliatore, scelto tra quelli iscritti all'albo di cui all'articolo 146-ter delle disposizioni per l'attuazione del presente codice, con il compito di esperire, entro il termine fissato dal decreto stesso, comunque non superiore a tre mesi, il tentativo di conciliazione.
      Il decreto, emanato entro quindici giorni dalla data di deposito del ricorso, fissa il giorno, la data e il luogo stabiliti per la comparizione delle parti e contiene l'avvertimento al convenuto che in caso di mancata comparizione potranno essere emessi, a suo carico, i provvedimenti previsti dall'articolo 412, secondo comma. Il decreto e il ricorso sono notificati al convenuto, a cura dell'attore, entro dieci giorni dalla pronuncia, salvo quanto disposto dall'articolo 417.
      Il convenuto deve costituirsi almeno dieci giorni prima della data fissata per il tentativo di conciliazione, dichiarando la residenza o eleggendo domicilio nel comune presso cui ha sede il giudice adito e depositando in cancelleria una memoria difensiva, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 416.
      Quando il giudice non fissa l'udienza per il tentativo di conciliazione davanti a sé, l'intero fascicolo è trasmesso al conciliatore subito dopo la scadenza del termine per il deposito della memoria difensiva. Il fascicolo è trasmesso anche in caso di mancato deposito della memoria. Il convenuto che si costituisce successivamente può comparire davanti al conciliatore, ferme restando le decadenze verificatesi.
      Il convenuto, se propone domanda in via riconvenzionale, a norma dell'articolo 416, secondo comma, deve, con istanza contenuta nella stessa memoria, a pena di decadenza dalla riconvenzionale medesima, deve chiedere espressamente al giudice lo spostamento della data fissata per esperire il tentativo di conciliazione.
      Il decreto che sposta la data di comparizione, emesso nei successivi cinque giorni, è notificato all'attore unitamente alla memoria difensiva a cura del convenuto, entro dieci giorni dalla data in cui è stato pronunciato.
      Il tentativo di conciliazione di cui ai commi terzo e quarto non deve essere esperito quando il ricorrente dimostri di aver effettuato, prima del giudizio, un tentativo di conciliazione nel rispetto delle modalità di cui all'articolo 412-quater, commi terzo, quarto e quinto».

Art. 28.
(Processo verbale di conciliazione).

      1. L'articolo 411 del codice di procedura civile è sostituito dal seguente:

      «Art. 411. - (Processo verbale di conciliazione). - Il tentativo di conciliazione si svolge in un'unica seduta, che può essere rinviata una sola volta entro un termine non superiore a un mese dalla data iniziale.
      Il giudice o il conciliatore svolgono un ruolo attivo al fine di pervenire alla conciliazione, formulando eventuali proposte di soluzione.
      Se la conciliazione riesce si forma processo verbale che è sottoscritto dal giudice o dal conciliatore, dalle parti e, ove presenti, dai loro difensori. L'autografia della sottoscrizione delle parti, o la loro impossibilità a sottoscrivere, è certificata dal giudice o dal conciliatore.
      Se la conciliazione è raggiunta davanti al conciliatore, questi trasmette entro cinque giorni il relativo verbale alla cancelleria del giudice.
      Il giudice, accertata la regolarità formale del verbale di conciliazione, lo dichiara esecutivo con decreto».

Art. 29.
(Verbale di mancata conciliazione).

      1. L'articolo 412 del codice di procedura civile è sostituito dal seguente:

      «Art. 412. - (Verbale di mancata conciliazione). - Se entrambe le parti, o la parte che ha presentato il ricorso o proposto domanda riconvenzionale, non compaiono personalmente, o tramite procuratore speciale, al tentativo di conciliazione, il giudice, o il conciliatore, ne dà atto nel processo verbale e il giudice dichiara estinto il processo, direttamente o dopo aver ricevuto gli atti dal conciliatore, salvo giustificato motivo. In tale caso il giudice, o il conciliatore, fissa una nuova data per la comparizione entro un termine non superiore a un mese.
      In caso di mancata comparizione del convenuto, costituito o non costituito, o dell'attore, convenuto in via riconvenzionale, davanti al conciliatore o al giudice, quest'ultimo può, su istanza di parte, con accertamento allo stato degli atti, emettere un'ordinanza provvisoriamente esecutiva di pagamento totale o parziale delle somme richieste; il giudice può anche emettere ulteriori provvedimenti anticipatori della decisione di merito.
      Se la conciliazione non riesce il giudice o il conciliatore redige un verbale di mancata conciliazione. In esso le parti possono indicare la soluzione, anche parziale, sulla quale concordano, precisando, quando è possibile, l'ammontare del credito che spetta al lavoratore. In quest'ultimo caso, per la parte su cui si è raggiunta la conciliazione, il processo verbale acquista efficacia di titolo esecutivo ai sensi di quanto stabilito dall'articolo 411, quinto comma.
      Nello stesso verbale il conciliatore espone gli estremi del tentativo, le eventuali proposte indirizzate alle parti per pervenire a un accordo e quanto altro ritenga utile portare alla conoscenza del giudice per il proseguimento del procedimento.
      Il conciliatore, fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 412-bis, trasmette entro cinque giorni il verbale al giudice, il quale fissa con decreto l'udienza davanti a sé entro quindici giorni, attribuendo in via provvisoria ad una della parti o ad entrambe l'onere del pagamento dell'indennità dovuta al conciliatore a norma dell'articolo 146-ter, settimo comma, delle disposizioni per l'attuazione del presente codice.
      Il conciliatore provvede ai sensi del quinto comma anche nel caso in cui le parti gli abbiano affidato il mandato di risolvere solo una parte della controversia.
      Il decreto è depositato nella cancelleria del giudice ed è notificato a cura dell'attore al convenuto non costituito, senza pregiudizio degli effetti processuali già verificatisi.
      Ove il tentativo di conciliazione non abbia esito positivo, il giudice può tenerne conto ai fini della distribuzione delle spese di lite, anche ponendole, in tutto o in parte, a carico della parte formalmente vittoriosa che ha rifiutato ragionevoli proposte conciliative».

Art. 30.
(Arbitrato facoltativo).

      1. L'articolo 412-bis del codice di procedura civile è sostituito dal seguente:

      «Art. 412-bis. - (Arbitrato facoltativo). - In qualunque fase del tentativo di conciliazione le parti possono affidare allo stesso conciliatore il mandato a risolvere in via arbitrale la controversia, in tutto o in parte.
      Il compromesso deve risultare da atto scritto contenente, a pena di nullità, il termine per l'emanazione del lodo, prorogabile per non più di una volta in misura non superiore a quella originariamente prevista, nonché i criteri per la liquidazione dei compensi spettanti all'arbitro. L'arbitro decide sulla controversia nel rispetto delle norme inderogabili di legge e del contratto o accordo collettivo, sulla base dei documenti in suo possesso e acquisendo, ove necessario, altri mezzi istruttori. Si applica la disposizione dell'articolo 429, terzo comma.
      Il lodo acquista efficacia esecutiva con il deposito presso la cancelleria del giudice».

Art. 31.
(Impugnazione del lodo arbitrale).

      1. L'articolo 412-ter del codice di procedura civile è sostituito dal seguente:

      «Art. 412-ter. - (Impugnazione del lodo arbitrale). - Il lodo arbitrale può essere impugnato, per qualsiasi vizio, ivi comprese la violazione e la falsa applicazione della legge, dei contratti e degli accordi collettivi, davanti alla corte di appello in funzione di giudice del lavoro nel cui distretto è situata la sede dell'arbitrato, entro un mese dalla sua notificazione, ovvero entro sei mesi dal suo deposito presso la cancelleria del giudice, ai sensi dell'articolo 412-bis, terzo comma.
      L'impugnazione non sospende l'esecutività del lodo».

Art. 32.
      (Altre modalità di conciliazione).

      1. L'articolo 412-quater del codice di procedura civile è sostituito dal seguente:

      «Art. 412-quater. - (Altre modalità di conciliazione). - Il tentativo di conciliazione nelle controversie di cui all'articolo 409 può essere altresì svolto presso le sedi previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale, nonché presso le direzioni provinciali del lavoro.
      Gli accordi raggiunti nelle sedi di cui al primo comma, sottoscritti dalle parti interessate e dal conciliatore, acquistano efficacia di titolo esecutivo, ove depositati presso la cancelleria del tribunale competente. Si applica l'articolo 411, quinto comma.
      Il tentativo di conciliazione effettuato ai sensi del primo comma, ove non si pervenga ad una conciliazione, tiene luogo del tentativo di cui all'articolo 410 e determina la procedibilità dell'azione giudiziale se è stato esperito da un conciliatore iscritto all'albo di cui all'articolo 146-ter delle disposizioni per l'attuazione del presente codice, su richiesta congiunta delle parti, e se è stato effettuato sulla base di memorie scritte dell'attore e del convenuto che illustrano le ragioni di fatto e di diritto della pretesa e della resistenza.
      Il verbale del tentativo di conciliazione è redatto e sottoscritto dal conciliatore, dalle parti e, ove presenti, dai loro difensori. In tale verbale il conciliatore espone gli estremi del tentativo, le eventuali proposte indirizzate alle parti per pervenire ad un accordo e quanto altro ritenga utile portare alla conoscenza del giudice per il procedimento. Ad esso sono allegate le memorie scritte delle parti di cui al terzo comma.
      Il verbale di mancata conciliazione è depositato presso la cancelleria del giudice competente unitamente al ricorso di cui all'articolo 414. Il giudice, se accerta che sono state rispettate le condizioni di cui al terzo comma e che la domanda corrisponde all'oggetto per il quale è stato esperito il tentativo di conciliazione, procede direttamente a fissare l'udienza di discussione ai sensi dell'articolo 415.
      Il verbale di conciliazione è acquisito agli atti del procedimento e produce tutti gli ulteriori effetti del tentativo di conciliazione esperito ai sensi degli articoli 410, 411 e 412».

Art. 33.
(Arbitrato in materia di lavoro previsto dalla contrattazione collettiva).

      1. Al libro secondo, titolo IV, capo I, sezione I, del codice di procedura civile, dopo l'articolo 412-quater è aggiunto il seguente:

      «Art. 412-quinquies. - (Arbitrato in materia di lavoro previsto dalla contrattazione collettiva). - Nell'ambito delle sedi di cui all'articolo 412-quater, primo comma, le parti possono deferire la controversia ad appositi arbitri.
      Il lodo arbitrale è dichiarato esecutivo dal giudice al quale è trasmesso a cura delle strutture interessate, nei modi e nei tempi stabiliti dall'articolo 412-bis, terzo comma, se è presente la richiesta scritta con la quale le parti dichiarano di richiedere una pronuncia arbitrale, l'indicazione dell'arbitro o del collegio arbitrale al quale viene richiesto il lodo, la delimitazione dell'oggetto sul quale viene richiesto il lodo, il termine entro il quale il lodo dovrà essere pronunciato.
      Ai lodi di cui al presente articolo si applicano le disposizioni dell'articolo 412-ter».

Art. 34.
(Modifica dei termini per le fasi processuali).

      1. All'articolo 415 del codice di procedura civile sono aggiunti, in fine, i seguenti commi:

      «Per i procedimenti per i quali è esperito il tentativo di conciliazione i termini di cui ai commi secondo, terzo, quinto e sesto decorrono dalla data di trasmissione del verbale di mancata conciliazione.
      Il decreto di cui al secondo comma è notificato al convenuto non costituito a cura dell'attore, nel rispetto dei termini di cui ai commi quarto e quinto».

Art. 35.
(Domande in via riconvenzionale).

      1. All'articolo 418 del codice di procedura civile è aggiunto, in fine, il seguente comma:

      «Per i procedimenti per i quali è stato disposto il tentativo obbligatorio di conciliazione, eventuali domande in via riconvenzionale sono proposte, a pena di decadenza, ai sensi dell'articolo 410, ottavo comma».

Art. 36.
(Discussione della causa).

      1. All'articolo 420 del codice di procedura civile sono apportate le seguenti modificazioni:

          a) il primo comma è sostituito dal seguente:

      «Nell'udienza fissata per la discussione della causa il giudice interroga liberamente le parti presenti. La mancata comparizione delle parti, senza giustificato motivo, costituisce comportamento valutabile dal giudice ai fini della decisione. Le parti possono, se ricorrono gravi motivi, modificare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate, previa autorizzazione del giudice»;

          b) il terzo comma è abrogato;

          c) il quarto comma è sostituito dal seguente:

      «Quando il giudice ritiene la causa matura per la decisione, o se sorgono questioni attinenti alla giurisdizione o alla competenza o altre pregiudiziali la cui decisione può definire il giudizio, il giudice invita le parti alla discussione e pronuncia sentenza anche non definitiva dando lettura del dispositivo».

Art. 37.
(Albo dei conciliatori).

      1. Dopo l'articolo 146-bis delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile è inserito il seguente:

      «Art. 146-ter. - (Albo dei conciliatori). - Presso ogni tribunale è istituito un albo dei conciliatori esperti in materie giuslavoristiche, tenuto dal presidente del tribunale.
      All'albo possono iscriversi professori universitari o ricercatori confermati di materie giuslavoristiche, avvocati e commercialisti di comprovata esperienza nel campo del diritto del lavoro, consulenti del lavoro, sindacalisti, funzionari delle direzioni provinciali e regionali del lavoro e magistrati a riposo.
      La domanda di iscrizione, con allegati i titoli che dimostrino il possesso delle necessarie competenze, è presentata al presidente del tribunale, che valuta i titoli ai fini dell'ammissione.
      Gli iscritti all'albo di cui al presente articolo svolgono, su nomina del giudice, la funzione di conciliatori delle controversie di lavoro, ai sensi dell'articolo 410 del codice. Essi possono essere nominati in qualità di conciliatori nelle strutture di cui all'articolo 412-quater, primo comma, del codice.
      I giudici scelgono i conciliatori tenendo conto della loro esperienza in relazione al tipo di vertenza e con modalità tali da distribuire gli incarichi tra gli iscritti all'albo.
      Il presidente del tribunale vigila sul comportamento dei conciliatori, che deve essere improntato all'indipendenza e all'imparzialità. Egli dispone la cancellazione dall'albo se ravvisa che non sussistono più le condizioni per il mantenimento dell'iscrizione.
      Per le conciliazioni effettuate ai sensi dell'articolo 410 del codice spetta ai conciliatori un'indennità per ogni vertenza trattata, senza alcuna distinzione in relazione al valore della controversia. L'indennità è liquidata dal giudice ed è fissata in euro 100 per ogni tentativo di conciliazione esperito, indipendentemente dal suo esito. Se il tentativo si conclude con la conciliazione della controversia, l'indennità è elevata a euro 150. Se il tentativo non ha luogo per la mancata presentazione di entrambe le parti o del convenuto l'indennità è di euro 75. Gli importi indicati sono aggiornati ogni cinque anni con decreto del Ministro della giustizia. Salvo diverso accordo tra le parti l'onere delle spese di conciliazione è diviso in misura uguale tra le parti.
      Per le conciliazioni raggiunte ai sensi dell'articolo 412-quater del codice il compenso è stabilito dalla struttura presso cui il conciliatore è chiamato, ferma restando, in mancanza di diverso accordo per la sua ripartizione, la divisione dell'onere in misura uguale tra le parti».

Art. 38.
(Disposizione in materia di impugnazione delle sanzioni disciplinari).

      1. L'articolo 56 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, è abrogato.

Art. 39.
(Tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie individuali).

      1. L'articolo 65 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, è sostituito dal seguente:

      «Art. 65. - (Tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie individuali). - 1. Per le controversie individuali di cui all'articolo 63, il tentativo obbligatorio di conciliazione si svolge ai sensi dell'articolo 410 del codice di procedura civile».

Art. 40.
(Esonero da responsabilità).

      1. L'articolo 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, è sostituito dal seguente:

      «Art. 66. - (Esonero da responsabilità). - 1. La conciliazione della lite da parte di chi rappresenta la pubblica amministrazione non dà luogo a responsabilità amministrativa».

Art. 41.
(Norme transitorie e finali).

      1. Per gli anni 2008 e 2009 gli oneri per il pagamento dell'indennità di cui all'articolo 146-ter, settimo comma, delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile spettanti ai conciliatori nominati dal giudice ai sensi dell'articolo 410 del codice di procedura civile sono poste a carico dello Stato.
      2. Il presidente del tribunale, entro due mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, esaminate le domande, determina l'elenco degli iscritti all'albo di cui all'articolo 146-ter delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile. L'albo è aggiornato con cadenza semestrale.
      3. Fino alla scadenza del termine di cui al comma 2 il giudice può affidare il tentativo di conciliazione a un soggetto che abbia i requisiti di cui all'articolo 146-ter delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile.

Capo IV
MISURE DI RAZIONALIZZAZIONE DEL PROCESSO DEL LAVORO IN GENERALE

Sezione I
RIDUZIONE DEL TERMINE DI DECADENZA DALL'IMPUGNAZIONE

Art. 42.
(Disposizioni in materia di termini per l'impugnazione).

      1. Dopo il primo comma dell'articolo 327 del codice di procedura civile è inserito il seguente:

      «Il termine di cui al primo comma è ridotto a sei mesi nel caso di sentenze pronunciate in materia di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatorie».

Art. 43.
(Disposizioni in materia di termini per la riassunzione della causa).

      1. Dopo il primo comma dell'articolo 392 del codice di procedura civile è inserito il seguente:

      «Il termine di cui al primo comma è ridotto a sei mesi nel caso di sentenze pronunciate in materia di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatorie».

Sezione II
ACCERTAMENTO PREGIUDIZIALE SULL'INTERPRETAZIONE DI LEGGI, REGOLAMENTI, CONTRATTI E ACCORDI COLLETTIVI

Art. 44.
(Accertamento pregiudiziale sull'interpretazione di leggi, regolamenti, contratti e accordi collettivi).

      1. L'articolo 420-bis del codice di procedura civile è sostituito dal seguente:

      «Art. 420-bis. - (Accertamento pregiudiziale sull'interpretazione di leggi, regolamenti, contratti e accordi collettivi). - Per la definizione di una controversia di cui agli articoli 409 e 442 riguardante, anche potenzialmente, un numero consistente di soggetti, nella quale sia necessario risolvere in via pregiudiziale una questione rilevante e seria concernente l'interpretazione di leggi o di regolamenti ovvero di clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale, il giudice di primo grado decide la questione con sentenza non definitiva, impartendo distinti provvedimenti per l'ulteriore istruzione o, comunque, per la prosecuzione della causa, fissando una successiva udienza in data non anteriore a tre mesi.
      Ove l'interpretazione riguardi un contratto o un accordo collettivo, il giudice dispone, anche d'ufficio, l'acquisizione di informazioni e di osservazioni, orali o scritte, presso le associazioni sindacali che hanno sottoscritto il contratto o l'accordo collettivo.
      La sentenza è impugnabile con ricorso immediato per cassazione da proporre entro due mesi dalla comunicazione dell'avviso di deposito della stessa sentenza.
      Copia del ricorso per cassazione, a pena di inammissibilità, deve essere depositata presso la cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza impugnata, entro venti giorni dalla notificazione del ricorso alle altre parti; il processo è sospeso dalla data del deposito».

Sezione III
MOTIVAZIONE IN FORMA ABBREVIATA

Art. 45.
(Motivazione della sentenza).

      1. L'articolo 430 del codice di procedura civile è sostituito dal seguente:

      «Art. 430. - (Motivazione della sentenza). - La sentenza può essere motivata in forma abbreviata, mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e la concisa esposizione delle ragioni di diritto, anche in riferimento a precedenti conformi».

Sezione IV
PROCEDIMENTO MONITORIO

Art. 46.
(Disposizioni in materia di ingiunzione).

      1. All'articolo 633, primo comma, del codice di procedura civile, è aggiunto, in fine, il seguente numero:

      «3-bis) se il credito riguarda il corrispettivo in denaro per prestazioni di lavoro autonomo, ovvero alle dipendenze di soggetti privati o pubblici».

Art. 47.
(Corrispettivo per prestazioni di lavoro autonomo o dipendente).

      1. Dopo l'articolo 636 del codice di procedura civile è inserito il seguente:

      «Art. 636-bis. - (Corrispettivo per prestazioni di lavoro autonomo o dipendente). - Nel caso previsto dal numero 3-bis) del primo comma dell'articolo 633 la domanda deve essere accompagnata da elementi atti a far presumere l'esistenza del rapporto e dal conteggio delle prestazioni corredato dal parere del competente sindacato o associazione professionale».

Sezione V
CALCOLO DI INTERESSI E RIVALUTAZIONI

Art. 48.
(Calcolo della svalutazione monetaria).

      1. L'articolo 150 delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile è sostituito dal seguente:

      «Art. 150. - (Calcolo della svalutazione monetaria). - Ai fini del calcolo di cui all'articolo 429, terzo comma, del codice, il giudice applica l'indice delle variazioni dei prezzi al consumo per operai e impiegati calcolato dall'Istituto nazionale di statistica, nonché gli interessi legali calcolati sul capitale rivalutato».

Sezione VI

REPRESSIONE DELLA CONDOTTA ANTISINDACALE ED EMERSIONE DEL LAVORO «NERO»

Art. 49.
(Disposizioni in materia di regolarizzazione di lavoratori).

      1. Dopo il primo comma dell'articolo 28 legge 20 maggio 1970 n. 300, è inserito il seguente:

      «Il procedimento di cui al primo comma trova applicazione anche in caso di mancata regolarizzazione contrattuale e previdenziale dei rapporti di lavoro, non risultanti da scritture o da altre documentazioni obbligatorie. In tale caso la rimozione degli effetti del comportamento illegittimo ordinata giudizialmente si intende ottemperata anche con la successiva stipula, entro un mese, o nel diverso termine stabilito dal giudice, di accordi sindacali di regolarizzazione o di emersione previsti dalle leggi vigenti e di cui sia parte il sindacato denunciante».

Sezione VII
LAVORO DEI DETENUTI

Art. 50.
(Disposizioni in materia di funzioni del magistrato di sorveglianza).

      1. Dopo il comma 6 dell'articolo 69 della legge 26 luglio 1975, n. 354, è inserito il seguente:

      «6-bis. Decide le controversie relative al lavoro svolto dai detenuti in favore dell'amministrazione penitenziaria, applicando, in quanto compatibili, le norme contenute nel libro secondo, titolo IV, del codice di procedura civile».

Art. 51.
(Disposizioni in materia di procedura nelle cause di lavoro dei detenuti).

      1. All'articolo 409 del codice di procedura civile è aggiunto, in fine, il seguente numero:

      «5-bis) rapporti di lavoro dei detenuti con soggetti diversi dall'amministrazione penitenziaria».

Art. 52.
(Assistenza all'udienza di lavoratori detenuti).

      1. Dopo il primo comma dell'articolo 420 del codice di procedura civile è inserito il seguente:

      «Il lavoratore detenuto assiste all'udienza libero nella persona, salvo che siano necessarie cautele per prevenire il pericolo di fuga o di violenza».

Sezione VIII
PARTECIPAZIONE DEGLI ENTI PREVIDENZIALI ALLE PROCEDURE FALLIMENTARI

Art. 53.
(Partecipazione degli enti previdenziali alle procedure fallimentari).

      1. Il quinto comma dell'articolo 96 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente:

      «Il decreto che rende esecutivo lo stato passivo e le decisioni assunte dal tribunale all'esito dei giudizi di cui all'articolo 99 producono effetti solo ai fini del concorso, con l'eccezione di quelli che decidono pretese retributive e contributive discendenti da preventivo accertamento della sussistenza di rapporti di lavoro di cui all'articolo 2094 del codice civile. In tali ipotesi, il giudice delegato dispone la previa convocazione all'udienza di cui all'articolo 95, terzo comma, dell'istituto previdenziale, il quale assume, altresì, la veste di litisconsorte necessario nell'eventuale successivo procedimento di cui al citato articolo 99».

Sezione IX
CONTROVERSIE TRA SOCIO E COOPERATIVA

Art. 54.
(Disposizioni in materia di controversie tra socio e cooperativa).

      1. Al comma 2 dell'articolo 5 della legge 3 aprile 2001, n. 142, e successive modificazioni, il secondo periodo è sostituito dal seguente: «Le controversie tra socio e cooperativa sono di competenza del tribunale in funzione di giudice del lavoro».

Sezione X
SENTENZE DEL GIUDICE ORDINARIO

Art. 55.
(Disposizioni in materia di ricorsi per l'adempimento).

      1. Il primo comma dell'articolo 37 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, è sostituito dal seguente:

      «I ricorsi diretti ad ottenere l'adempimento dell'obbligo dell'autorità amministrativa di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, alla sentenza dell'autorità giudiziaria ordinaria, dotata di esecutività, non sospesa dal giudice di appello, ai sensi dell'articolo 431 del codice di procedura civile, che abbia riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico, sono di competenza dei tribunali amministrativi regionali quando l'autorità amministrativa chiamata a conformarsi sia un ente che eserciti la sua attività esclusivamente nei limiti della circoscrizione del tribunale amministrativo regionale».


Frontespizio Relazione Progetto di Legge
torna su