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Seduta del 17/2/2011


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Audizione del professor Alberto Zanardi, professore ordinario di scienza delle finanze presso l'Università di Bologna.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del professor Alberto Zanardi, professore ordinario di scienza delle finanze presso l'Università di Bologna.
L'audizione si inquadra nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'anagrafe tributaria nella prospettiva del federalismo fiscale.
Cedo la parola al professor Zanardi, con la riserva per me e per i colleghi di rivolgergli, al termine del suo intervento, eventuali domande o di formulare talune osservazioni.

ALBERTO ZANARDI, professore ordinario di scienza delle finanze presso l'Università di Bologna. Ringrazio il presidente e tutta la Commissione per questo invito e mi scuso di non aver prodotto un testo scritto, che tuttavia avrò cura di far pervenire quanto prima alla Commissione. Confesso di non avere alcuna competenza specifica sui temi più vicini agli interessi della Commissione. Ciò che posso fare è offrire una mia lettura e qualche valutazione personale sulla riforma in atto della finanza decentrata, a livello sia comunale sia regionale, soprattutto nella sua componente tributaria. Il riferimento è ovviamente ai due decreti, il primo sulla fiscalità comunale, il secondo, più ampio, sulle regioni: per quest'ultimo in riferimento in particolare alla parte del sistema tributario delle regioni a statuto ordinario.
Inizierei il mio intervento richiamando qualche falso mito che riguarda il modo in cui dovrebbe essere disegnato un sistema di finanziamento degli enti decentrati coerente con il paradigma del federalismo fiscale, in particolare per quanto riguarda la componente tributaria. Credo che questo approfondimento sia importante, per porre su un binario corretto la discussione sulla componente tributaria del metodo di finanziamento degli enti locali.
Il primo falso mito è che un sistema di finanziamento degli enti decentrati di governo veramente coerente con gli obiettivi del federalismo fiscale non dovrebbe comprendere tra gli strumenti di finanziamento i trasferimenti statali, ovviamente di natura non perequativa. Questo è falso, e il perché ce lo dice innanzitutto l'osservazione empirica. In tutti i sistemi a forte decentramento fiscale che possiamo osservare in Europa e nel mondo, gli enti decentrati mantengono nella loro struttura di finanziamento una componente significativa di trasferimenti dal centro. Che ciò sia falso dovrebbe dircelo anche la logica: infatti, in un sistema di finanza decentrata come il nostro, in cui la copertura dei sistemi perequativi è pervasiva - perché almeno l'80 per cento delle funzioni sia comunali sia, a maggior ragione, regionali sono perequate sui fabbisogni standard e il


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resto è perequato sulla capacità fiscale - è chiaro che gran parte delle risorse dovrebbe essere attribuita senza alcuna autonomia fiscale agli enti decentrati, e nel modo più naturale, che è quello di assegnare loro trasferimenti. La cancellazione totale dei trasferimenti è stata invece la scelta - secondo me sventurata - fatta dalla nostra Costituzione, con la riformulazione dell'articolo 119, poi coerentemente dalla legge delega n. 42 e ora dai decreti legislativi di attuazione. Secondo la mia lettura questa scelta ci condanna a una sorta di finzione, che è la fiscalizzazione dei trasferimenti che attualmente lo Stato eroga a favore dei comuni e delle regioni, cioè la loro trasformazione in fonti di finanziamento tributario. Questa operazione di fiscalizzazione è una delle componenti fondamentali dei decreti sul federalismo fiscale, per quanto riguarda sia i comuni, sia le regioni. Si tratta di un'operazione un po' stravagante che ci costringe a trovare dei gettiti di tributi statali, ma anche talvolta regionali, che possano essere assegnati agli enti decentrati territorializzandoli, cioè ripartendoli tra i vari territori secondo un qualche criterio che abbia un minimo di fondamento economico e soprattutto sia applicabile in senso operativo. Certe volte, questa operazione ci costringe anche a doppi salti carpiati, come nel caso del decreto sulle regioni, in cui ai comuni viene assegnata una compartecipazione su un'altra compartecipazione che le regioni hanno su un tributo statale, nello specifico sull'IRPEF. È difficile cogliere il senso di questa operazione di cancellazione dei trasferimenti e della loro fiscalizzazione, anche perché dai due decreti non mi sembra che le compartecipazioni che vengono attivate possano, in qualche modo, offrire agli enti decentrati maggiori garanzie di certezza nella disponibilità di risorse finanziarie, rispetto ai vecchi trasferimenti. Infatti, le aliquote di compartecipazione potranno essere riviste dal governo centrale di anno in anno, esattamente come prima lo si faceva con i trasferimenti, con di fatto l'unico effetto - rispetto ai vecchi trasferimenti finanziati con la generalità dei tributi - che ora le compartecipazioni insistono su un tributo particolare.
Il secondo falso mito, peraltro strettamente collegato al precedente, è che in un assetto compiuto di federalismo fiscale gli enti decentrati abbiano a disposizione potenti tributi propri, con ampi spazi di autonomia nella determinazione della base imponibile e delle aliquote. Credo che anche questa sia un'affermazione errata, perché ritengo che l'autonomia fiscale di comuni e regioni vada determinata tenendo in chiara considerazione due vincoli fondamentali. Il primo vincolo è quello del coordinamento con il resto del sistema tributario, quindi con il sistema tributario nazionale, per esempio in termini di progressività e di distribuzione dei carichi fiscali fra le grandi aree di tassazione (persone fisiche, persone giuridiche, consumi, redditi). Il secondo elemento, che secondo me indebolisce fortemente il decreto sul federalismo municipale, è che il disegno dei tributi propri deve tenere conto dei requisiti - diciamo così - di buon funzionamento dei sistemi perequativi. I tributi propri sono calati all'interno del meccanismo di funzionamento dei sistemi perequativi. Questo è un punto fondamentale critico del decreto sul fisco municipale che è stato tutto formulato andando a riformare - come dirò dopo - alcuni tributi propri dei comuni, senza tener conto della loro coerenza con il funzionamento del sistema perequativo. Questo è ovvio - come dicevo prima - quando abbiamo a che fare con sistemi perequativi come quelli disegnati dalla legge delega, che sono nel nostro sistema estremamente pervasivi, ad ampia copertura, e che quindi necessariamente non debbono riconoscere agli enti decentrati spazi di autonomia troppo ampi, soprattutto sulla determinazione della base imponibile. In altre parole, non devono lasciare spazi troppo ampi in termini di creatività, per quanto riguarda l'istituzione di nuovi tributi. La ragione di ciò è abbastanza ovvia: tutti questi tributi propri alla fine devono essere valutati in termini di capacità fiscale dei comuni e


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delle regioni che deve essere confrontabile fra i vari enti locali, standardizzata e quindi fondata su elementi omogenei. Credo che l'autonomia debba servire agli enti locali per raccogliere gettiti aggiuntivi che possono servire a finanziare da un lato i disavanzi e dall'altro eventuali livelli di servizi aggiuntivi al di sopra degli standard fissati dai fabbisogni standard nazionali stabiliti dal governo centrale. In altri termini, l'autonomia fiscale degli enti decentrati non può essere decisa in isolamento rispetto ai meccanismi di perequazione con cui deve interloquire.
Il terzo falso mito è che il decentramento fiscale riduca le imposte complessive e quindi la pressione fiscale. Non c'è evidenza nell'esperienza degli altri Paesi a decentramento forte del fatto che il passaggio da strutture di finanza pubblica accentrate a strutture decentrate abbia portato necessariamente a una riduzione del livello del finanziamento tributario. Anzi, in alcuni casi si evidenzia esattamente il risultato contrario. La ragione di ciò è che il federalismo fiscale, se inteso correttamente non serve a ridurre le imposte, ma a rifondare su un terreno più solido, in termini di responsabilizzazione e di scambio fiscale, il rapporto fra gli amministratori locali e i cittadini. Questo scambio fiscale può collocarsi a un livello di fiscalità e di offerta di servizi pubblici più alto rispetto a quello precedente. Questa ambiguità di fondo, si è sviluppato il dibattito attorno al federalismo fiscale nel nostro Paese, ha portato a irrigidire fortemente la riforma della fiscalità comunale e regionale sotto la clausola, che spesso ritroviamo nei decreti legislativi di attuazione, della invarianza della pressione fiscale o della neutralità finanziaria. Si tratta di un vincolo del tutto incoerente con lo spirito del federalismo fiscale e che mi sembra abbia anche distorto l'approccio con cui si è proceduto a questa riforma. Infatti, queste due riforme sono state applicate a piccoli pezzi, cioè si sono presi singoli tributi e si sono sostituiti eventualmente con altri tributi, senza una visione d'insieme che potesse consentire per esempio degli spostamenti di fiscalità da un comparto all'altro e da un livello di governo all'altro. Questo è un approccio un po' cristallizzato che mi sembra sia fondamentalmente un'occasione mancata.
Adesso vorrei dedicare - se il presidente me lo consente - qualche parola ai due decreti, prima a quello sulla fiscalità comunale e poi a quello sulla fiscalità regionale. Anche in questo caso, cercherò di dare la mia lettura dei punti più rilevanti insieme a qualche valutazione personale.
La fiscalità comunale - come ben sapete - segue un percorso articolato in due fasi distinte. La prima prevede a devoluzione, in varia misura, a favore dei comuni di una serie di imposte, che attualmente sono statali e che a vario titolo gravano sugli immobili. Inoltre ai comuni è riconosciuta una compartecipazione all'IVA, secondo un'aliquota che verrà successivamente fissata da un decreto del Consiglio dei ministri. Si tratta di un'operazione pura di fiscalizzazione dei trasferimenti, nel senso che dicevo prima: il totale di questi gettiti compartecipati deve produrre risorse fiscali che nell'insieme dei comuni siano pari ai trasferimenti aboliti. In un'operazione di questo genere ovviamente non si conferisce ai comuni alcuna autonomia fiscale in termini di manovrabilità delle imposte assegnate che restano a pieno titolo tributi statali. C'è poi la previsione di questa compartecipazione sull'IVA, che è difficile da applicare in termini operativi. Vorrei però rimandare questa riflessione sui criteri di territorializzazione della compartecipazione IVA al discorso che farò tra breve sulle regioni.
Questa devoluzione produce ovviamente forti squilibri fra i comuni, dato che i gettiti che vengono in varia misura devoluti hanno una distribuzione sul territorio fortemente sperequata. C'è bisogno allora di un fondo perequativo, per ora temporaneo, in attesa di quello che sarà il fondo perequativo permanente dei comuni, previsto dalla legge delega n. 42. Si disegna poi un meccanismo di aggiustamento - diciamo così - dinamico delle risorse dei comuni, nel senso che si dice che queste compartecipazioni saranno dinamiche,


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termine che significa che le variazioni del loro gettito, di anno in anno, non saranno automaticamente compensate da riaggiustamenti dell'aliquota di compartecipazione, allo scopo di ammortizzare totalmente queste variazioni della base imponibile compartecipata. Si prevede, fra l'altro, che l'aliquota della cedolare secca sulle locazioni possa essere rivista, al fine di garantire che il complesso delle risorse compartecipate sia coerente con il rispetto dei saldi di finanza pubblica, e soprattutto - cito testualmente - «con l'obiettivo di assicurare ai comuni un ammontare di risorse pari ai trasferimenti soppressi». Siamo quindi in presenza di una situazione completamente cristallizzata in cui ci saranno aggiustamenti anno dopo anno per mantenere l'ammontare di risorse complessive esattamente pari ai trasferimenti aboliti. Credo che bisognerebbe garantire ai comuni una programmabilità delle risorse un pochino più a medio termine. Certamente ci deve essere un obiettivo forte di coerenza con gli obiettivi macro finanziari: nel contempo credo che questa revisione dell'aliquota di compartecipazione dei tributi devoluti possa essere esercitata ogni tre o cinque anni, cioè con delle revisioni annuali, analogamente, per esempio, a quello che si fa nell'ambito della sanità con i «patti della salute» in cui c'è una possibilità per le regioni di una programmazione di medio termine delle risorse a loro disposizione.
Nella prima fase, la novità più rilevante è l'introduzione della cosiddetta «cedolare secca» sui canoni di locazione per i fabbricati a uso abitativo. La mia valutazione è che si tratti di un intervento che non ha strettamente a che fare con la finanza locale se non per il fatto che la cedolare sarà un tributo compartecipato. Il dubbio è allora se, in questo caso, non si configuri un eccesso di delega, dato che il decreto legislativo di attuazione dovrebbe riguardare i tributi propri comunali o le aliquote di compartecipazione e non la struttura dei tributi compartecipati. Se così non fosse, tutto il sistema tributario nazionale potrebbe essere riformato dai decreti legislativi del federalismo fiscale soltanto sulla base dell'argomento che si tratta di tributi compartecipati a livello locale. La cedolare può essere scelta dal contribuente in alternativa al regime ordinario dell'IRPEF: credo che questa opzionalità comporti dei problemi non secondari per il calcolo delle capacità fiscali dei comuni. Vi è dunque l'esigenza di tener conto, quando si riforma il sistema di tassazione dei comuni o comunque compartecipato dai comuni, che poi tutte queste risorse vadano a finire nei sistemi perequativi. L'introduzione della cedolare secca credo sia un fatto positivo nel senso che riduce il carico fiscale sugli immobili residenziali dati in locazione. A trarre vantaggio da questa misura nell'immediato saranno i proprietari di immobili con redditi più elevati, ma l'effetto di medio e lungo periodo, sperabilmente, dovrebbe essere quello di rendere più conveniente l'immissione nel mercato di immobili in locazione - dando quindi respiro al mercato un po' asfittico delle locazioni del nostro Paese - e di incoraggiare l'emersione dei canoni irregolari, trasferendo parte di questi vantaggi sugli inquilini. Il decreto prevede poi un ampliamento degli spazi di autonomia tributaria a disposizione dei comuni, per esempio con l'introduzione dell'imposta di soggiorno, che è anch'essa opzionale e che quindi crea anch'essa qualche problema per la perequazione, perché ci saranno comuni che la potranno adottare e altri no. La valutazione della capacità fiscale necessariamente non dovrà quindi tener conto di questo tributo che non sarà ad applicazione generalizzata e che peraltro è anche fortemente sperequato sul territorio tra comuni turistici e non turistici.
Nella fase due scatta la riforma vera e propria, che parte dal 2014. La mia valutazione è che si tratti, tutto sommato, di un intervento di portata relativamente limitata. Un intervento che si risolve fondamentalmente in due innovazioni la patrimonializzazione dell'IRPEF sui redditi immobiliari - relativi a immobili non locati - attraverso l'introduzione dell'IMU al posto dell'ICI e l'attenuazione della tassazione sui trasferimenti immobiliari.


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Dal 2014 viene dunque istituita l'IMU. Si tratta di un'ICI rafforzata che mantiene tutti gli elementi costitutivi dell'ICI attuale (presupposto, base imponibile, soggetti passivi). L'unica vera innovazione riguarda l'aliquota che viene aumentata, in quanto deve generare un gettito superiore per compensare il venir meno dell'IRPEF e anche delle relative addizionali regionali e comunali, per la parte relativa ai redditi fondiari su immobili non locati. Come ICI e IRPEF anche la nuova IMU prevede un'esenzione completa per l'abitazione principale e quindi grava sulle seconde case, a disposizione e locate, e sugli immobili non residenziali. Credo che su questo punto la riforma abbia mancato l'occasione di porre rimedio a una grave distorsione nell'attuale sistema di tassazione immobiliare, cioè l'esenzione della prima casa, soprattutto nella prospettiva della finanza comunale. Questa di cancellare totalmente la tassazione patrimoniale sulla prima casa - e anche quella dell'IRPEF, ovvero la parte reddituale - è una scelta che solleva dal finanziamento dei servizi comunali una larghissima fetta di residenti (il 75 per cento, in media, delle famiglie) con una chiara violazione di uno dei princìpi fondamentali del federalismo fiscale, ovvero l'esistenza di una qualche coincidenza tra contribuenti della finanza locale da un lato e beneficiari dei servizi pubblici locali dall'altro. L'aliquota dell'IMU è stabilita allo 0,76 per cento: è prevista una forte agevolazione, consistente nella riduzione a metà dell'aliquota per gli immobili locati. La ragione di ciò è che sugli immobili continua a gravare una tassazione reddituale, rappresentata dalla cedolare o in alternativa dall'IRPEF, volendo evitare un eccesso di peso fiscale sui proprietari di seconde case date in locazione. Un discorso analogo dovrebbe valere anche nel caso di immobili utilizzati da imprese e da lavoratori autonomi: in questi casi, i redditi fondiari concorrono alla determinazione dei redditi d'impresa o dei redditi da lavoro autonomo e quindi continuano ad essere tassati nell'IRPEF o nell'IRES a seconda della natura giuridica di questi soggetti, ossia non vengono patrimonializzati nell'IMU. Ne deriva dunque che in assenza di variazioni, rese opzionali per i comuni, questi soggetti soffriranno di un aumento di tassazione. L'IMU quindi, in assenza di manovre di detassazione dei comuni nei confronti delle imprese e dei lavoratori autonomi, si risolverà in una manovra redistributiva a favore dei proprietari di abitazioni a disposizione oppure locate, a danno delle imprese e dei lavoratori autonomi. Sulla base di assunzioni abbastanza realistiche, questo non è un aggravio da poco, perché i proprietari, i soggetti IRPEF, le imprese e i lavoratori autonomi subirebbero un incremento del 32 per cento rispetto alla tassazione attuale, mentre i soggetti IRES subiranno un aumento del debito d'imposta del 34 per cento. Un altro punto è che il passaggio dall'ICI, IRPEF immobiliare all'IMU solleva anche qualche dubbio in termini di autonomia fiscale dei comuni. In altre parole, l'abolizione dell'IRPEF e la sua patrimonializzazione nell'IMU, in realtà comporta per tutti i tipi di proprietari e per tutte le tipologie di immobili una riduzione degli spazi di autonomia, cioè una riduzione dei gettiti che possono essere raccolti con lo sforzo fiscale massimo, ovvero tirando al massimo le aliquote di variabilità che sono rese disponibili ai comuni.
Passiamo ora alla fiscalità regionale, ovvero al decreto che è attualmente all'esame della Commissione bicamerale. La riforma, secondo la mia lettura, non comporta alcuna innovazione radicale. Si conferma fondamentalmente l'assetto attuale del sistema tributario delle regioni, per composizione, per dinamica temporale, in termini di IRPEF e di IVA, e anche per grado di manovrabilità dei tributi che sono assegnati alle regioni a statuto ordinario. Viene quindi confermato il «menu» attuale dei principali tributi oggi disponibili alle regioni a statuto ordinario: l'IRAP, l'addizionale all'IRPEF, la compartecipazione IVA e poi ci sono tutte le imposte che non sono investite dalla riforma, in primis la tassa automobilistica. Su alcune di queste imposte vengono riconosciuti spazi di manovrabilità in più, rispetto alla


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situazione attuale, ma con anche alcuni vincoli aggiuntivi, che sono essenzialmente collegati all'obiettivo fondamentale di evitare qualsiasi aumento della pressione fiscale complessiva.
Il primo punto riguarda il potenziamento della manovrabilità dell'IRAP. Quest'ultima viene pienamente confermata, a riprova del fatto che è un po' difficile abolire tout court un'imposta da 36 miliardi di euro. Si prevede un allargamento dei margini di manovrabilità delle aliquote dell'IRAP, ma solo verso il basso, fino addirittura all'azzeramento dell'imposta ovviamente senza compensazioni da parte dello Stato. La riduzione dell'IRAP è però possibile - e qui sta un vincolo - solo se la regione non ha sfruttato i possibili aumenti di aliquota sull'altro strumento fondamentale dell'autonomia regionale e cioè la componente discrezionale dell'addizionale IRPEF al di sopra dei 0,5 punti di aliquota. Ovviamente l'azzeramento dell'IRAP, vista la dimensione del gettito di questa imposta, è più che altro uno scenario di fantasia. Anche per le regioni più ricche in termini di base imponibile sarà difficile rinunciare completamente al gettito dell'IRAP.

MAURIZIO FUGATTI. Mi può chiarire questa questione dell'IRAP e dell'IRPEF nelle regioni?

ALBERTO ZANARDI, professore ordinario di scienza delle finanze presso l'Università di Bologna. Dunque, c'è questo collegamento, secondo me un po' singolare, per cui c'è la possibilità da parte della regione di tirare al massimo la discrezionalità sulla variazione verso il basso dell'IRAP fino addirittura all'azzeramento totale dell'IRAP, e quindi alla sua scomparsa in quella regione, ma solo se la regione non ha aumentato l'addizionale IRPEF oltre il mezzo punto percentuale. Questo vuol dire che non sono possibili manovre fiscali compensative consistenti in una detassazione delle imprese attraverso l'IRAP e un parallelo incremento della tassazione delle persone fisiche.

LUCIO ALESSIO D'UBALDO. Oppure sul contenimento della spesa regionale...

ALBERTO ZANARDI, professore ordinario di scienza delle finanze presso l'Università di Bologna. Ovviamente, però nella lettera del decreto queste due manovre possibili si collegano direttamente. Una regione che volesse ridurre la sua IRAP per incentivare qualche settore o qualche area territoriale svantaggiata, con un aumento della parte manovrabile dell'addizionale IRPEF, non lo può fare. Questo per evitare appunto manovre di questo genere, ovvero di spostamento del carico fiscale da soggetti come le imprese - che non votano, io leggo la cosa in questo modo - ai contribuenti persone fisiche che invece votano. Quindi, una manovra di questo genere dovrebbe essere, già sconsigliata dal punto di vista politico. D'altra parte, forse in questo modo si vuole comunque evitare che ci sia qualsiasi incentivo per gli amministratori locali ad attivare manovre di questo genere. Resta il fatto che l'autonomia regionale sull'IRAP esce da questo vincolo un po' sofferente: l'auspicio sarebbe che un vincolo di questo genere cada.
Il secondo strumento della fiscalità regionale è l'addizionale IRPEF, che però in parte è anche una compartecipazione. Infatti, esattamente come adesso, l'addizionale IRPEF ha una parte obbligatoria, ad aliquota base, e una parte discrezionale. Nella sua componente obbligatoria che equivale a una compartecipazione l'addizionale IRPEF fondamentalmente svolge due compiti: fiscalizzare a partire dal 2012 i trasferimenti statali di parte corrente a favore delle regioni che appunto la riforma provvede a cancellare facendo quindi un'operazione di fiscalizzazione e - secondo punto - compensare il mancato gettito della compartecipazione regionale all'accisa sulla benzina che il decreto abolisce. Questa è un'operazione importante, poiché si tratta di circa 13 miliardi di euro: attualmente, l'addizionale IRPEF, al netto della componente discrezionale, quindi nella sua componente obbligatoria, dà un gettito di 5,3 miliardi di euro,


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mentre così si arriverebbe a circa 13 miliardi. È una compartecipazione, quindi basta alzare l'aliquota base: però stiamo togliendo un pezzo importante dell'IRPEF dal controllo dello Stato centrale. C'è poi la componente manovrabile, quella che oggi è allo 0,5 per cento, verso l'alto o verso il basso: questa componente manovrabile viene rafforzata in varie direzioni. Il primo piano, in cui c'è un allargamento di questa componente manovrabile, consiste nel fatto che si prevede un graduale allargamento dei margini di aumento dell'aliquota - quindi verso l'alto - dell'addizionale dallo 0,5 per cento attuale fino, nel 2015, a un 2,1 per cento. Questa possibilità di aumentare il gettito manovrabile dell'addizionale IRPEF è assoggettata però ad un limite, cioè non deve determinare un aumento, al di sopra di quel livello dello 0,5 per cento, del prelievo per i redditi da lavoro dipendente e da pensione, relativi ai primi due scaglioni dell'IRPEF. C'è dunque una sorta di preoccupazione di natura perequativa, di tipo redistributivo che potrebbe portare, se le regioni attuano questo sforzo fiscale, a un aumento della progressività. Inoltre, c'è un'apertura verso forme di progressività specifiche a livello regionale, nel senso che le regioni - come peraltro fanno già adesso - possono aumentare le aliquote differenziandole per scaglioni e quindi possono introdurre elementi di progressività a propria scelta. Ancora, le regioni hanno la possibilità di introdurre nell'addizionale delle detrazioni per carichi familiari, aggiuntive rispetto alle detrazioni dell'IRPEF erariale e detrazioni per impieghi sociali del reddito dei contribuenti IRPEF, in sostituzione di spesa sociale, coerente però con il principio della sussidiarietà orizzontale, cioè voucher sociali, buoni servizio, ecc. Credo che la possibilità di introdurre detrazioni per impieghi sociali del reddito, coerenti con il principio della solidarietà orizzontale, debba essere intesa in senso non sostitutivo di questi voucher, ma in senso probabilmente integrativo. Infatti, il problema della fiscalizzazione di queste forme di spesa è che ci sono certi beneficiari attuali che soffrirebbero altrimenti di un problema di incapienza fiscale. In altre parole, di queste forme di sostegno alla spesa sociale dovrebbero beneficiare soprattutto i poveri, ma i poveri tipicamente sono incapienti nei confronti della tassazione IRPEF, e quindi queste forme di beneficio sarebbero irrilevanti per loro. Complessivamente, da questa batteria di norme mi sembra che l'IRPEF ne esca un po' sotto stress.
Ci sono alcuni punti su cui riflettere. Il primo è che l'allargamento della manovrabilità dell'addizionale regionale possibile (fra lo 0,5 al 2,1 per cento), unita allo sblocco dell'addizionale comunale che può essere portata fino a un massimo dello 0,8 per cento, alla possibilità di intervenire sulla struttura di progressività e alla possibilità di introdurre detrazioni diversificate per carichi familiari, rischia di concentrare sull'IRPEF delle possibilità di variazione del debito d'imposta che mi sembrano francamente eccessive, per preservare un accettabile grado di equità orizzontale a livello territoriale. In altre parole, due contribuenti uguali per tutto (reddito, carichi familiari) verrebbero a pagare dei debiti di imposta IRPEF complessivi che potrebbero essere troppo diversificati in relazione alla sola residenza. Ancora, la possibilità di modificare elementi dell'imposta che vanno al di là dell'aliquota base (come le detrazioni, la struttura per progressività, e così via) rende oltremodo difficile la determinazione della capacità fiscale standard che sta alla base del funzionamento dei sistemi perequativi. Queste possibilità di variazione comportano un aumento dei costi di adempimento per le imprese che operano su più regioni. La mia opinione è che sarebbe auspicabile concentrare l'autonomia regionale soltanto sulla possibilità di muovere l'aliquota - un'aliquota che deve però essere costante - eventualmente anche allargando gli intervalli di variazione della stessa. L'aliquota deve essere però costante e bisognerebbe probabilmente evitare forme di intervento o di autonomia sulla determinazione della base imponibile. Come dicevo prima, secondo me i tributi propri, e nello specifico l'addizionale,


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dovrebbero servire alla regione per raccogliere gettito che serva fondamentalmente a coprire eventuali deficit e a finanziare servizi aggiuntivi e non per affermare modelli di redistribuzione regionali. Questa possibilità di creare scale di progressività diversificate fra regione e regione, peraltro, mi sembra in contrasto con il segno che pervade un po' tutta la riforma, cioè il fatto che ci sono livelli essenziali di prestazioni fissati dal centro e che devono essere tutelati sull'intero territorio nazionale. Allora, non si capisce perché, di fronte a un sistema perequativo che dovrebbe garantire tutto ciò, si differenziano le strutture di progressività dell'IRPEF.
Infine, credo che, oltre ad essere operativamente non facili da applicare, queste addizionali, che escludono appunto i redditi da lavoro dipendente e da pensione nei primi due scaglioni, di fatto renderebbero attraente lo sforzo fiscale, ovvero l'aumento dell'aliquota, soltanto per le regioni ricche, cioè quelle che hanno una particolare concentrazione dei propri contribuenti negli scaglioni alti. Invece, le regioni povere sarebbero fondamentalmente escluse da queste possibilità perché attraverso il loro sforzo fiscale, avrebbe poco da raccogliere in termini di gettito aggiuntivo. Peraltro, questo è esattamente il contrario di quello che succede in altri sistemi di federalismo fiscale. Spesso si cita il caso della Svezia dove i gettiti corrispondenti agli scaglioni bassi sono attribuiti agli enti locali, poiché tali scaglioni bassi hanno una distribuzione tendenzialmente omogenea sul territorio nazionale, quindi c'è un minore bisogno di perequazione, mentre i gettiti che derivano dagli scaglioni alti, che invece sono distribuiti in modo differenziato sul territorio nazionale, sono riservati al Governo centrale.
Esprimerò qualche considerazione sulla compartecipazione IVA. Il decreto stabilisce che a partire dal 2014, al termine della fase sperimentale del sistema perequativo - fase sperimentale che peraltro non è descritta nel suo funzionamento - la compartecipazione IVA funzionerà come elemento di chiusura del sistema di perequazione delle regioni per la componente che riguarda le funzioni LEP, ovvero la sanità, l'assistenza, l'istruzione (se mai ci sarà), il trasporto pubblico locale per la parte di conto capitale. Dovranno essere fissate due diverse aliquote di compartecipazione per far funzionare questo sistema di perequazione verticale. Una prima aliquota di compartecipazione sarà fissata a quel livello minimo che renderà una regione autosufficiente in termini tributari, con i tributi che vengono indicati dal decreto (cioè IRAP, addizionale IRPEF e questa prima compartecipazione IVA), e questa regione sarà tendenzialmente la Lombardia, che ha la distanza minima fra i fabbisogni standard da coprire e la ricchezza di base imponibile sulle imposte che abbiamo appena citato. Una seconda aliquota di compartecipazione sarà determinata in misura sufficiente per alimentare trasferimenti perequativi a favore di tutte le altre regioni tali da garantire anche ad esse il pieno finanziamento dei fabbisogni standard sulle funzioni LEP. La prima componente della compartecipazione IVA dovrà essere ripartita sulla base di un criterio di territorialità. Su questo punto mi ricollego al discorso che avevo accennato precedentemente a proposito della omologa compartecipazione IVA che riguarda i comuni. Il criterio di territorialità, come specificato nel decreto, è il luogo di consumo, da intendersi come il luogo dove si svolge la transazione economica, lo scambio del bene o, nel caso di servizi, la prestazione del servizio. Come economista, avrei qualche dubbio sull'identificare il luogo del consumo con quello dello scambio, ma dal momento che il tempo è limitato sorvolerò su questo punto. Piuttosto vorrei sottolineare gli aspetti operativi della questione. In termini applicativi la ripartizione secondo il criterio di territorialità, così come ho esposto, non è una cosa semplice, innanzitutto perché esclude totalmente la possibilità di ripartire territorialmente l'IVA sulla base del domicilio fiscale del soggetto IVA. Pochi giorni fa il quotidiano «Il Sole 24 ore» ha pubblicato una tabella un po'


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preoccupante in cui si evidenziava uno squilibrio molto marcato nella distribuzione della compartecipazione IVA tra regioni; la tabella, tuttavia, era costruita sulla traccia territoriale rappresentata dalla sede legale o, per meglio dire, dal domicilio fiscale del soggetto IVA. Avremo molti soggetti IRPEF al nord e pochi al Sud: evidentemente questa soluzione deve essere evitata dal momento che porta a risultati paradossali. Attualmente, come è noto, si cerca di approssimare il criterio di territorialità utilizzando, per ripartire la compartecipazione IVA alle regioni (quella che serve per finanziare la sanità), i consumi delle famiglie rilevati dall'Istat. L'Istat attribuisce i consumi delle famiglie rilevati su base campionaria tra i vari territori regionali sulla base della residenza della famiglia inclusa nel campione, identificando così il luogo di residenza della famiglia e il luogo del consumo. Esistono delle correzioni che riguardano, per esempio, i turisti o i pendolari, per i quali il luogo dello scambio non coincide chiaramente con quello della residenza.
Il riferimento ai consumi Istat, come ben sapete, è stato da lungo tempo criticato, fin dai tempi dell'alta commissione sul federalismo fiscale fondamentalmente sulla base di due argomentazioni: in primo luogo, perché i consumi Istat non coincidono con la base imponibile dell'IVA, cioè il dato statistico non corrisponde al dato fiscale, perché ad esempio ci sono operazioni esenti; in secondo luogo, non si tiene conto della possibile differente incidenza dell'evasione IVA tra i vari territori regionali, per cui utilizzare come criterio di riparto le rilevazioni Istat, che si assume non siano affette da evasione, equivarrebbe a ipotizzare che l'evasione IVA non esista oppure che sia distribuita in modo uniforme fra i vari territori regionali. Per questo motivo, a partire dal 2004 è stato inserito nella dichiarazione dell'IVA il quadro VT, in cui i soggetti IVA devono dichiarare qual è la distribuzione tra territori regionali delle operazioni imponibili a favore di consumatori finali - di non soggetti IVA. Si tratta di un adempimento abbastanza gravoso per i soggetti IVA che riguarda solo un sottoinsieme dei soggetti IVA, cioè le imprese e i lavoratori autonomi che operano su diversi territori regionali. Il dato della distribuzione regionale tuttavia non è rilevante per il calcolo del debito d'imposta IVA, quindi i soggetti IVA talvolta - queste sono dichiarazioni ufficiali anche del Dipartimento per le politiche fiscali - compilano il quadro VT malamente, con dichiarazioni non sempre complete, talvolta non coerenti con il dato reale. Quindi, determinare la compartecipazione IVA sulla base dei dati fiscali, cioè del quadro VT, non è cosa semplice né immediata: soprattutto è opportuno domandarsi se ne valga la pena. Innanzitutto, le rilevazioni del quadro VT non sono mai state pubblicate dal Dipartimento per le politiche fiscali. Soltanto nel primo anno di sperimentazione, nel 2004, è stato riportato nel Bollettino un confronto fra il dato Istat, la distribuzione dei consumi Istat e la distribuzione di queste operazioni finali secondo il quadro VT; queste due distribuzioni, francamente, erano molto simili. Risultava una minore attribuzione a sfavore delle regioni del sud, di qualche decimo di punto, e una percentuale leggermente maggiore a favore del nord. È necessario domandarsi a che cosa siano dovute queste differenze, nel senso che potrebbero essere dovute a variazioni di livelli di evasione fiscale, ma anche semplicemente al fatto che alcune imprese del nord hanno segnato che tutte le loro vendite si realizzavano effettivamente nel territorio della propria sede legale. Apparentemente, dunque, ci sono differenze limitate e, soprattutto, la compartecipazione IVA viene poi perequata sui fabbisogni standard o sulla capacità fiscale, quindi entra nel meccanismo della perequazione, tale che alla fine comunque le risorse sono portate al livello dei fabbisogni standard, se mai questi fabbisogni standard verranno effettivamente calcolati. Bisogna considerare se vale la pena operare questa sorta di accanimento fiscale nell'inseguimento del dato fiscale, che, ripeto, comporta oggettivamente oneri non indifferenti per i contribuenti IVA. Si tenga conto, fra l'altro, che in alcuni Paesi


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federali con forti sistemi perequativi non esiste tutto questo sforzo per realizzare compartecipazioni territorializzate sulla base della distribuzione dei gettiti. In Germania, per esempio, dove è presente una compartecipazione IVA importante, questa viene attribuita sulla base del pro capite.

PRESIDENTE. La ringrazio, professore, per l'esauriente illustrazione della tematica. Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

MAURIZIO FUGATTI. Non ho capito, per quanto riguarda la questione della compartecipazione IVA, la differenza fra il dato Istat e il dato VT. In riferimento al fisco comunale, ha poi parlato di un aumento delle imposte sulle imprese. Come si genera questo meccanismo?

GIAMPAOLO FOGLIARDI. Ringrazio il professor Zanardi perché ha fatto una disamina molto ampia che meriterebbe molto più tempo per il suo approfondimento. Mi limito dunque a una valutazione di carattere generale. Mi pare emerga, professore, una sua valutazione alquanto critica su tutto l'impianto. Non le posso nascondere che, se da un lato questo conferma alcune riserve, dall'altro lascia con il malcontento chi, come nel mio caso, pur appartenendo a una determinata visione, ritiene che un decentramento e una maggiore autonomia in campo fiscale debbano essere attuati. Il problema di fondo infatti rimane pur sempre quello della corresponsabilizzazione e - citando il benedetto articolo 53 della Costituzione - della compartecipazione dei cittadini al sostentamento della cosa pubblica. Il professore ha sottolineato tanti aspetti, come i falsi miti, la cedolare secca. Relativamente a quest'ultima, anch'io ritengo che in partenza sia leggermente anticostituzionale, anche se si spera che, strada facendo, venga rivista, perché al momento sicuramente incentiva solamente i redditi di una determinata capienza rispetto ad altri. Al riguardo, però, il discorso si farebbe più esteso. Quello che soprattutto emerge è il dubbio sull'autonomia fiscale dei comuni che con questa impostazione non viene di fatto applicata. Il comune ha le mani legate. Mi chiedo quali possano essere le linee di azione, gli aspetti su cui l'ente locale possa realmente attuare un'autonomia impositiva, una valutazione e una scelta. Concludo ricordando, come ho fatto diverse volte in questa sede, l'autonomia che esisteva nell'ambito comunale grazie alla vecchia imposta di famiglia, prima della riforma del 1973, che - sono ricordi personali, seppur molto giovanili - lasciava parecchia libertà di azione. Mio padre allora era sindaco (lo sono poi stato anch'io dopo diverso tempo) e ricordo le code dei cittadini davanti alla porta dove ricevevano, appunto, il sindaco e il vicesindaco per ottenere delle riduzioni. Il timore è che non se ne cavi, anche al giorno d'oggi, un ragno dal buco. Come è possibile attuare questa reale autonomia? Quali potrebbero essere, secondo la sua visione di studioso, le linee lungo le quali muoversi, considerando - e concludo, ringraziandola ancora - che il suo giudizio mi sembra alquanto critico e negativo?

LUCIO ALESSIO D'UBALDO. Ringrazio anch'io il professor Zanardi. Ho ascoltato con molto interesse, come i colleghi, d'altra parte, il suo intervento. Peraltro, avendolo casualmente incrociato qui sotto, gli avevo già premesso che, per effetto della concomitante riunione della Commissione bicamerale sul federalismo fiscale, sarei stato costretto a «saltapicchiare» da questa Commissione all'altra. Invece, proprio la densità della sua relazione mi ha spinto a rimanere fino in fondo, con beneficio soprattutto per me in ordine alla comprensione più approfondita dei problemi che abbiamo sul tappeto.
Vorrei raccontare ai colleghi, al presidente e al professor Zanardi un episodio «gustoso». Mi è capitato, nei giorni scorsi, di intercettare una notizia del 1961, di 50 anni fa. In un ciclo politico completamente nuovo, si costituisce il centrosinistra a Milano (la città fa da apripista insieme ad altre). L'assessore neoeletto - non ricordo se alle finanze, ai tributi o al bilancio,


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perché nel tempo sono cambiate le definizioni - annuncia dopo venti giorni una manovra importante: la città, nella sua autonomia, avrebbe provveduto a una riforma organica dell'imposta di famiglia che, come sappiamo bene, era all'epoca il pilastro dell'autonomia fiscale dei comuni, e per inaugurare il nuovo ciclo politico del centrosinistra avrebbe realizzato uno sgravio fiscale su questa imposta per 40.000 famiglie.
Pongo ora una domanda in termini retorici. Oggi, approvato questo decreto legislativo, a Milano (naturalmente come città simbolo) sarebbe possibile attuare una misura analoga? Mi rispondo da solo, con un po' di arbitrio, che non sarebbe possibile, perché il decreto legislativo sul fisco municipale, che stiamo per concludere, non consente nessuno spazio di autonomia per i prossimi tre anni, quindi si torna radicalmente indietro, e nel 2014 aprirà la stessa finestra che già oggi è aperta, cioè la manovrabilità parziale delle aliquote sulla nuova imposta. Dico questo per ricordare sempre a noi stessi che, purtroppo, quando si alza la bandiera della novità bisogna essere consapevoli che abbiamo di fronte a noi problemi di bilancio dello Stato molto seri e che ogni manovra parte bene ma poi impatta su questo enorme macigno: una cosa sono le affermazioni di principio e cosa diversa è l'impatto reale dei provvedimenti.
Infine, voglio ricordare - passo alla seconda parte del mio intervento - una questione sollevata dal professor Zanardi (ne ha sollevate diverse, ma prendo questa come punto a mio giudizio dirimente). Noi legislatori, in senso generale, innovando il titolo V della Costituzione, abbiamo cancellato il pilastro dei trasferimenti. Personalmente sono dello stesso parere del professor Zanardi: abbiamo conquistato l'illusione che questo atto rappresenti un guadagno enorme in termini di autonomia, e invece abbiamo prodotto - ce ne dobbiamo render conto e valutare se è possibile tornare a un diverso equilibrio - un effetto di ingovernabilità sistemica. Adesso, infatti, ragioniamo su quello che accadrà fra uno o due anni, ma quello che accadrà con un regime fiscale che tende a modificarsi anno per anno, non nella sua architettura, ma nel suo effetto in termini di gettito, fa sì che la finanza locale, se va bene, è trainata, se va male rimane ferma.
Non ci sono, dunque, garanzie. Abbiamo creato un sistema che è molto meno garantista in termini di stabilità finanziaria degli enti locali ed è tendenzialmente più ingiusto, perché la stabilità non è un valore astratto, ma è un modo attraverso il quale lo Stato ordinamento - non lo Stato persona - fissa dei criteri di finanziamento dei servizi pubblici, anche di tipo territoriale, che abbiano uno standard di eguaglianza. Questo è il principio che sottostà all'individuazione di una formula come quella del trasferimento. Se togliamo questo, rendiamo il sistema di finanza locale molto più incerto.
Vorrei esprimere un'ultima riflessione, non per voler cogliere una zona d'ombra, ma semplicemente perché, nell'economia generale dell'intervento del professor Zanardi, ho capito che prevaleva la parte della fiscalità locale e regionale. In questi prossimi giorni, come membri della Commissione bicamerale sul federalismo e indirettamente come Parlamento, affrontiamo, nell'ambito del pacchetto che riguarda il fisco regionale, anche la componente sanità. Faccio osservare al presidente e ai colleghi che, in questo caso specifico, a maggior ragione siamo di fronte a una conferma del sistema. La sanità è passata da un finanziamento che aveva determinate caratteristiche (che ora non riassumo) a un finanziamento fondato sulla quota capitaria - accordo con il Ministro Bindi del 1997 o 1998, non vorrei citare una data imprecisa - corretto successivamente con il criterio dell'anzianità della popolazione che ha comportato come conseguenza che alcune regioni del centro Italia, soprattutto del centro-nord, come le Marche e la Liguria, hanno avuto più risorse, avendo una popolazione mediamente più anziana. Infine, c'è stata un'ulteriore correzione attraverso un elemento che ha riequilibrato la situazione a favore delle regioni del sud, ovvero il parametro del disagio sociale, quindi anche il tasso


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medio di povertà. Questa combinazione di fattori non è modificata nel nuovo decreto, ma rimaniamo fermi allo stesso punto: è giusto, in un certo senso, che questi siano i parametri fondamentali. Allora, si annuncia una grande operazione di cambiamento, per cui l'opinione pubblica si attende effettivamente che si trovi la «pietra filosofale» di un cambiamento, ma in realtà quello che si realizzerà e che si sta per realizzare è una conferma dei princìpi, delle modalità, dei criteri che nel tempo sono stati individuati e poi confermati. Rimane, però, una preoccupazione conclusiva: a mio modesto parere, se consideriamo la questione della sanità, dobbiamo essere ammaestrati dal fatto che non è facile conquistare un modello perfetto o quanto meno un modello più perfezionato rispetto a quello che conosciamo fino ad oggi a proposito del finanziamento degli enti locali. Mi riferisco all'idea che il DRG venga assunto come parametro per dire come sia migliorabile un sistema che tende o deve tendere a finanziare ciò che è giusto, quindi il costo effettivo e corretto. Chi ha frequentato il dibattito sulla sanità sa, invece, che il DRG è una formula convenzionale che si avvicina a una plausibile identificazione del costo o dei costi mescolati ed equilibrati in un'unica formula. Tutti, però, si sono ben guardati, negli ultimi quindici anni, dal riaprire questa scatola, per capire se questo sistema funzioni o meno, perché tutti hanno il timore che se si riapre questa scatola siamo tutti costretti a rimetterci le mani, proprio perché si tratta solo di una formula convenzionale che aiuta a identificare una modalità di pagamento del sistema. Dunque, quando si parla di federalismo, di comuni e di regioni, si sostiene che la sanità ha fatto passi avanti per il DRG, ma questo non è vero, perché il DRG, come ho già detto, è un fatto convenzionale. Dobbiamo sforzarci di tornare alla realtà così come essa si presenta effettivamente e, a mio giudizio, è preferibile individuare modalità che aiutino il sistema a organizzare la flessibilità e a recuperare una quota di sovranità nella gestione della stessa. Oggi il sistema non è flessibile. Se pure, come in Sicilia, viene girata all'ente l'intera quota IRPEF, che è identificata sul piano nazionale, si tratta certamente di un finanziamento, ma non significa che l'ente è più autonomo. L'autonomia e la responsabilità consistono nel riuscire a modellare un tributo secondo alcuni princìpi, esigenze e finalità, che potrebbero fondamentalmente consistere nella copertura del fabbisogno e nell'aumento dei servizi, ma è essenziale considerare che l'autonomia impositiva si gioca principalmente sugli investimenti. Anche su questo punto, infatti, abbiamo perso di vista un grande indirizzo: si introduce l'autonomia impositiva perché se l'ente preme di più sulla leva fiscale è tenuto a spiegare ai cittadini che l'obiettivo è la realizzazione di qualcosa che il sistema nella sua organicità oggi non permette di finanziare. L'autonomia, dunque, deve interfacciarsi con uno sforzo in termini di progettazione o di organizzazione degli investimenti; invece, noi comprimiamo gli investimenti a tutti i livelli e quando arriviamo all'autonomia impositiva, essendo questa fondamentalmente una fictio iuris, il finanziamento degli investimenti rimane come i famosi caciocavalli di Benedetto Croce.

PRESIDENTE. Vorrei aggiungere una breve considerazione all'interessante relazione del professor Zanardi. Lei, professore, ha fatto cenno prima a ipotesi di autonomia nella determinazione della base imponibile, mi sembra con riferimento in particolare all'IRAP. Le chiedo se questo, a suo parere, possa portare anche delle difficoltà sul versante del contrasto all'evasione fiscale, nel momento in cui l'organo accertatore deve verificare basi imponibili differenziate. Stiamo vivendo questa vicenda per l'IRAP, laddove dopo le modifiche della finanziaria 2008, la base imponibile IRAP si è diversificata rispetto alla base imponibile dell'imposta sui redditi, quindi il verificatore deve rimettere le mani su qualcosa che prima procedeva in automatico e probabilmente, considerati i


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tempi e l'esigenza di far cassa rapidamente, abbandona oppure fa interventi non proprio centrati.
Le chiedo, dunque, se la concessione di ulteriore autonomia nella determinazione della base imponibile possa creare maggiori difficoltà e aspetti problematici.

ALBERTO ZANARDI, professore ordinario di scienza delle finanze presso l'Università di Bologna. Provo a rispondere ad alcuni degli interessanti quesiti che sono stati sollevati. Onorevole Fogliardi, la mia valutazione sulla riforma del federalismo fiscale non è critica: il sentimento che provo in realtà, è duplice. Un primo sentimento è la delusione rispetto alle aspettative, nel senso che, rispetto agli annunci, mi sembra che sia sul lato dei comuni sia sul lato delle regioni le operazioni di riforma che sono delineate dai due decreti siano oggettivamente marginali; a volte sono un po' pasticciate, nel caso dei comuni, molto meno nel caso delle regioni. Il decreto sulle regioni ha un livello di sviluppo e di assestamento molto migliore rispetto a quello dei comuni e questo riflette l'impostazione della legge delega, che era concepita molto meglio per le regioni rispetto ai comuni. Questo è il mio primo sentimento in qualche modo controbilanciato da una visione un po' più razionale della questione perché, a ben pensarci non c'era molto da fare, in particolare nell'assetto tributario dei comuni e delle regioni. Certamente c'è poco da fare, secondo me, in termini di riforme radicali per quanto riguarda le regioni. Nel caso dei comuni l'unica vera questione da risolvere era quella della tassazione della prima casa. Si trattava di reintrodurre una qualche forma di imposta sulla prima casa - come patrimoniale o in qualche altra forma - che riportasse a tassazione una fetta così ampia degli abitanti dei vari comuni: questo era l'elemento fondamentale da rimettere a posto nella tassazione comunale. Di fatto, le riforme proposte dai due decreti non fanno molto: hanno evitato di sistemare la questione della prima casa, ma per il resto, francamente, mi sembrano operazioni abbastanza marginali. Questo avviene perché i sistemi tributari di comuni e regioni derivano da un processo di affinamento durato almeno vent'anni, dall'inizio degli anni novanta fino ad ora. Per le regioni, secondo me, vi è una struttura abbastanza equilibrata; quanto ai comuni - ma è un problema naturale - c'è una forte concentrazione sulla materia imponibile degli immobili, e questo ovviamente espone la finanza dei comuni agli andamenti di questo particolare mercato. Questo, tuttavia, succede dappertutto ed è un fenomeno connaturato alla dimensione limitata dei comuni. In realtà, come dicevo, forse non c'era molto da fare su questo versante. C'era forse da fare di più sull'altro aspetto richiamato dal senatore D'Ubaldo, cioè sulla spesa: i problemi della standardizzazione delle spese, del dimensionamento dei fondi da ripartire, i criteri di riparto. Sull'aspetto strettamente tributario, lo ribadisco, non c'era granché da fare, salvo che sulla questione della prima casa e, forse, sull'introduzione di incentivi più forti alla partecipazione dei comuni all'azione di contrasto dell'evasione fiscale, cosa che è stata fatta, credo in modo del tutto meritevole, dal decreto sulla fiscalità municipale.
Il decreto sulla fiscalità comunale sblocca l'addizionale IRPEF ma non l'ICI: una scelta che avrebbe riconosciuto un grado di libertà aggiuntivo all'autonomia comunale e che avrebbe portato anche a uno spostamento del carico fiscale dai lavoratori ai proprietari di seconde case. È stata fatta invece la scelta di sbloccare soltanto una delle due leve dell'autonomia regionale.
Maggiori spazi di autonomia fiscale per i comuni dovrebbero essere cercati, secondo me, in qualche forma di tassazione collegata ai servizi effettivamente resi dai comuni, che riguardano la generalità dei cittadini, non necessariamente i proprietari immobiliari, soprattutto se non si vuole ritornare all'ICI che colpisce anche la prima casa.
Non ho trattato la questione della sanità perché mi sono focalizzato sugli aspetti tributari, tuttavia al riguardo occorre


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compiere nell'ambito del decreto sul federalismo fiscale regionale uno sforzo di coordinamento tra la regolamentazione del Fondo sanitario nazionale e le previsioni riguardanti il sistema di finanziamento e di perequazione delle regioni. Nel testo attuale questi due blocchi sembrano ignorarsi. La ragione è ovvia: la sanità è una macchina che sta andando avanti da sola, c'è abbastanza poco da fare. Forse si doveva rifinire il sistema di riparto dell'ex Fondo sanitario nazionale fra le varie regioni, ma il decreto non innova rispetto alla struttura decisionale stabilita dai Patti per la salute. Questo costituiva un altro blocco del federalismo fiscale che già funzionava e, fortunatamente, è stato pienamente confermato. Bisogna, però, coordinarlo con la parte del finanziamento tributario, operazione che non è del tutto immediata e che dovrebbe peraltro essere realizzata anche per le altre funzioni LEP, come assistenza e istruzione.
Il presidente sollevava il problema dell'evasione. Il problema - comincio con una considerazione forse un po' generica - delle difficoltà che il federalismo fiscale comporta per l'azione di contrasto dell'evasione e anche del coinvolgimento degli enti decentrati nell'azione di contrasto credo si ponga in termini abbastanza diversi fra comuni, da un lato, e regioni dall'altro. I comuni, infatti, hanno una materia imponibile che corrisponde agli immobili, e ce l'hanno in forma fondamentalmente esaustiva. Essi agiscono soltanto su quella materia imponibile e di fatto lo Stato, tranne che per la cedolare secca - peraltro compartecipata dai comuni - e per la tassazione reddituale degli immobili nell'IRES, ne è quasi escluso. In questo senso, si può chiedere credibilmente ai comuni di farsi protagonisti nell'azione di contrasto all'evasione.
Le regioni invece, a mio parere, si trovano in una situazione profondamente diversa perché dispongono di una compartecipazione sull'IVA, dell'addizionale IRPEF, dell'IRAP. Questi tributi sono tuttavia profondamente collegati nella catena dell'evasione: chi evade le imposte dirette, IRPEF o IRES, a seconda della sua natura giuridica, evade anche l'IVA e probabilmente una parte dell'IRAP. In questo senso, il ruolo della regione è moto più limitato, gli spazi, di intervento delle regioni nell'azione di contrasto all'evasione più ristretti. Credo che sul problema dell'evasione sia stata fatta un po' di retorica: è vero che in qualche modo bisognerebbe penalizzare i territori in cui c'è maggiore evasione, però bisogna tenere conto anche delle effettive possibilità, da parte delle istituzioni che in quei territori operano - le regioni, nel caso specifico - di partecipare concretamente all'azione di contrasto. Se questa possibilità non c'è, o è di fatto limitata soprattutto in presenza di imposte così complicate come l'IVA, è più difficile sostenere l'opportunità di collegare l'assegnazione territoriale delle risorse fiscali ai comportamenti differenziati di evasione di residenti.

PRESIDENTE. La ringrazio professor Zanardi, anche per il documento che vorrà farci pervenire e che gradiremmo in maniera particolare.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,30.

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