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Seduta del 28/2/2013


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ALLEGATO 4

RELAZIONE FINALE SULL'ATTIVITÀ SVOLTA DALLA COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SULLE ATTIVITÀ ILLECITE CONNESSE AL CICLO DEI RIFIUTI

INDICE

Premessa ... 482
L'istituzione della Commissione e i suoi compiti ... 482
Attività della Commissione ... 482
I rapporti tra la Commissione e l'autorità giudiziaria ... 488

1. Le inchieste svolte dalla commissione su temi specifici ... 491
1.1. La relazione sulla gestione dei rifiuti radioattivi in Italia e sulle attività connesse (approvata in data 18 dicembre 2012) (Doc XXIII n. 15) ... 491
1.2. La relazione sulle bonifiche dei siti contaminati in Italia (approvata in data 12 dicembre 2012) (Doc XXIII n. 14) ... 499
1.3. La relazione sul decesso del capitano di fregata Natale De Grazia (approvata in data 5 febbraio 2013) (Doc XXIII n. 18) ... 522
1.4. La relazione sul fenomeno delle «navi a perdere» (approvata in data 28 febbraio 2013) (Doc XXIII n. 21) ... 525
1.5. La relazione sul Sistri (approvata in data 28 febbraio 2013) (Doc XXIII, n. 20) ... 529
1.6. Gli approfondimenti e le attività di inchiesta svolti dalla Commissione sul traffico transfrontaliero di rifiuti ... 536

2. Le relazioni territoriali ... 541
2.1. Conclusioni relative alle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nella Regione siciliana (approvata in data 20 ottobre 2010) (Doc XXIII n. 2, successivamente fatto proprio dall'Assemblea della Camera dei deputati mediante la votazione della risoluzione 6/00054 il giorno 18 gennaio 2011) ... 541
2.1.1. Le bonifiche nella Regione siciliana: i siti di Gela e Priolo ... 543
2.2. Conclusioni relative alle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nella regione Calabria (relazione approvata in data 19 maggio 2011) (Doc XXIII n. 7,


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successivamente fatto proprio dall'Assemblea della Camera dei deputati mediante la votazione della risoluzione 6/00084 il giorno 23 giugno 2011) ... 544
2.2.1. Le bonifiche nella regione Calabria: il sito di Crotone-Cassano-Cerchiara ... 548
2.3. Conclusioni relative alle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nella regione Lazio (approvate in data 2 marzo 2011) (Doc XXIII, n. 6, successivamente fatto proprio dall'Assemblea della Camera dei deputati mediante la votazione della risoluzione 6-00076 il giorno 19 aprile 2011, indi dall'Assemblea del Senato mediante la votazione della risoluzione 6-00088 il giorno 28 settembre 2011) ... 551
2.3.1. Lo stato di emergenza nella provincia di Roma: relazione di aggiornamento sul Lazio (approvata in data 3 luglio 2012) (Doc XXIII n. 11) ... 554
2.3.2. Le bonifiche nella regione Lazio: il sito della Valle del Sacco ... 560
2.4. Conclusioni sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nella regione Puglia (relazione approvata dalla Commissione in data 20 giugno 2012) (Doc XXIII n. 10) ... 562
2.4.1. Le vicende riguardanti l'impianto Ilva (relazione di aggiornamento sulla Puglia, approvata in data 17 ottobre 2012) (Doc XXIII n. 12) ... 571
2.4.2. Le bonifiche nella regione Puglia: i siti di Brindisi, Taranto, Bari-Fibronit, Manfredonia ... 576
2.5. Le conclusioni sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nella regione Lombardia (relazione approvata il 12 dicembre 2012) (Doc XXIII n. 13) ... 577
2.5.1. Le bonifiche nella regione Lombardia: i siti di Pioltello Rodano, Brescia-Caffaro, Laghi di Mantova e Polo Chimico, Broni, Milano-Bovisa, Cerro al Lambro e Sesto San Giovanni ... 581
2.6. Le conclusioni sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nella regione Basilicata (relazione approvata il 24 gennaio 2013) (Doc XXIII n. 17) ... 586
2.6.1. Le bonifiche nella regione Basilicata ... 589
2.7. Le conclusioni sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nella regione Campania (relazione approvata il 5 febbraio 2013) (Doc XXIII n. 19) ... 590
2.7.1. Gli illeciti nel settore dei rifiuti ... 606
2.7.2. Le bonifiche nella regione Campania: il sito di Bagnoli ... 611


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Premessa.

L'istituzione della Commissione e i suoi compiti.

Con legge 6 febbraio 2009, n. 6, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 39 del 17 febbraio 2009 è stata istituita, ai sensi dell'articolo 82 della Costituzione, una Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti per la durata della XVI legislatura.
La Commissione si compone di dodici senatori e di dodici deputati, nominati rispettivamente dal presidente del Senato della Repubblica e dal presidente della Camera dei deputati, in proporzione al numero dei componenti i gruppi parlamentari, in modo da assicurare la presenza di un rappresentante per ciascun gruppo esistente in almeno un ramo del Parlamento.
presidente della Commissione è l'onorevole Gaetano Pecorella.
I compiti affidati alla Commissione, ai sensi dell'articolo 1 della legge predetta, sono:
 svolgere indagini atte a fare luce sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, sulle organizzazioni in esse coinvolte o ad esse comunque collegate, sui loro assetti societari e sul ruolo svolto dalla criminalità organizzata, con specifico riferimento alle associazioni di cui agli articoli 416 e 416-bis del codice penale;
 individuare le connessioni tra le attività illecite nel settore dei rifiuti e altre attività economiche, con particolare riguardo al traffico dei rifiuti tra le diverse regioni del Paese e verso altre nazioni;
 verificare l'eventuale sussistenza di comportamenti illeciti da parte della pubblica amministrazione centrale e periferica e dei soggetti pubblici o privati operanti nella gestione del ciclo dei rifiuti, anche in riferimento alle modalità di gestione dei servizi di smaltimento da parte degli enti locali e ai relativi sistemi di affidamento;
 verificare l'eventuale sussistenza di attività illecite relative ai siti inquinati nel territorio nazionale;
 verificare la corretta attuazione della normativa vigente in materia di gestione dei rifiuti pericolosi e della loro puntuale e precisa caratterizzazione e classificazione e svolgere indagini atte ad accertare eventuali attività illecite connesse a tale gestione.

Attività della Commissione.

Dalla sua istituzione sino ad oggi la Commissione ha istruito diverse inchieste territoriali su regioni del nord e del sud Italia, nonché indagini tematiche su argomenti specifici di particolare interesse e attualità, quali i rifiuti radioattivi, lo stato delle bonifiche, il Sistri, i traffici transnazionali di rifiuti, il fenomeno delle «navi a perdere», il decesso del capitano di fregata Natale De Grazia.
Nello svolgimento dei suoi compiti si è avvalsa dei poteri istruttori previsti dalla legge istitutiva, corrispondenti a quelli riconosciuti


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all'autorità giudiziaria, escluso il potere di disporre le intercettazioni telefoniche ed ambientali e le misure cautelari personali.
In relazione a ciascuna inchiesta svolta dalla Commissione il presidente ha nominato due relatori appartenenti a diversi partiti politici in modo da giungere all'elaborazione di un testo conclusivo condiviso e valutato da entrambi i relatori, da sottoporre poi alla votazione della Commissione.
La Commissione ha svolto presso la sua sede di Roma, sita in Palazzo San Macuto, 247 sedute.
Complessivamente, nel corso della sua intera durata, si sono svolte presso la sede della Commissione 185 audizioni, cui si devono aggiungere le 569 audizioni effettuate nel corso delle missioni in Italia e all'estero. Di tutte è stato redatto resoconto stenografico, pubblicato sul sito della Camera.
Sono stati auditi magistrati, rappresentanti delle forze dell'ordine, rappresentanti del Governo e delle istituzioni, commissari straordinari, esponenti del mondo imprenditoriale, rappresentanze sindacali, rappresentanti di associazioni ambientaliste, medici legali, professori universitari e, in generale, soggetti in grado di riferire notizie utili in relazione ai singoli argomenti di volta in volta trattati.
Come previsto dall'articolo 6, comma 3, della legge istitutiva e dall'articolo 10 del regolamento interno, in alcuni casi la Commissione si è riunita in seduta segreta. Ciò è avvenuto:
 allorquando sono stati auditi magistrati o rappresentanti delle forze dell'ordine in merito ad indagini ancora coperte da segreto istruttorio;
 ogni qual volta l'audito ha rappresentato l'esistenza di ragioni di riservatezza dell'audizione, ritenute valide dalla Commissione.

Sono stati acquisiti migliaia di documenti, protocollati nell'archivio secondo l'ordine di acquisizione, anche questi classificati come liberi, riservati o segreti a seconda del loro contenuto e/o delle specifiche avanzate in un senso o nell'altro da parte delle autorità o organi trasmittenti.
Come detto, all'attività svolta dalla Commissione presso la sede si deve aggiungere quella effettuata nel corso delle missioni in territorio nazionale ed estero.
La Commissione si è recata ripetutamente in diverse regioni quali Sicilia, Calabria, Campania, Puglia, Basilicata, Lombardia, Emilia Romagna, Lazio, Veneto e Friuli-Venezia Giulia.
Le missioni all'estero si sono svolte in Germania, Francia, Belgio, Danimarca, Olanda, Inghilterra, Cina.
Si riporta, di seguito, l'elenco dettagliato delle missioni effettuate:

20.05.09 Colleferro
13-17.07.09 Campania
14-17.09.09 Sicilia Occidentale
29.09-1o.10.09 Sicilia Orientale
12-15.10.09 Francia

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21-22.10.09 Calabria
4-5.11.09 Bologna
30.11-3.12.09 Calabria
16-18.02.10 Bologna
2-3.03.10 Puglia, Calabria, Basilicata
8-11.03.10 Puglia, Calabria, Basilicata
13.04.10 Bologna
27-29.04.10 Bologna
11-13.05.10  Caserta
8-10.06.10 Sicilia
16-17.06.10 Calabria
23.06.10 Malagrotta
20-21.07.10 Milano
14-16.09.10 Taranto
21-22.09.10 Ferrara
25-26.09.10 Campania
24-29.10.10 Germania
16.11.10 Campania
24-25.11.10 Avellino
20-21.01.11 Palermo – Bari
24-27.01.11 Bari
7-10.02.11 Lombardia
24-25.02.11 Reggio Calabria
28-29.03.11 Paola
3-8.04.11 Danimarca e Olanda
3-5.05.11 Brescia
7-9.06.11 Caserta-Benevento
4-7.07.11 Salerno-Napoli
20-25.09.11 Napoli
28-30.09.11 Emilia Romagna
17-18.10.11 Crotone
10-11.11.11 Caorso e Rimini
14-15.11.11 Milano
22.11.11 Riano e San Vittorino
23-25.11.11 Veneto
5-7.12.11 Napoli e Saluggia
15-20.01.12 Gran Bretagna
10-11.02.12 Sicilia
12-14.03.12 Basilicata
26-28.03.12 Lombardia
16-19.04.12 Milano e Trieste
7-8.05.12 Napoli
17.05.12 Latina
24.05.12 Sistri (Sede)
12.06.12 Riano
21.06.12 Casaccia
10.07.12 Roma
15-20.09.12 Cina
18-20.09.12 Ferrara
21-22.09.12 Campania

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9-11.10.12 Campania
22-23.10.12 Bari
7-9.11.12 Emilia Romagna
4-7.12.12 Lione e Bruxelles

In sede di missione oltre alle audizioni sono stati poi effettuati specifici sopralluoghi presso siti di particolare interesse, quali discariche, siti di stoccaggio provvisorio di rifiuti, centrali nucleari, impianti di incenerimento, impianti di trattamento dei rifiuti, siti individuati quali luoghi ove costruire nuove discariche, siti da bonificare, poli industriali.
In particolare, la Commissione ha effettuato sopralluoghi presso i seguenti siti:

20 maggio 2009 Termovalorizzatore di Colleferro
  Area in cui è prevista la costruzione del gassificatore di Albano (RM)
15 luglio 2009 Termovalorizzatore di Acerra
  Sito di stoccaggio di Taverna del Re
  Impianto di produzione cdr di Giuliano
16 settembre 2009 Discarica di Bellolampo
29 settembre 2009 Discarica di Mazzarà Sant'Andrea (Messina)
30 settembre 2009 Discarica di Motta Sant'Anastasia
  Discarica di Lentini
13 ottobre 2009 Inceneritore della Società Veolia Propreté (La Croix Gilet – Monthyon)
  Sito di stoccaggio della Società Veolia Propreté
  Centro di stoccaggio di Claye Souilly
  Sede della Società Veolia Propreté (Paris)
22 ottobre 2009 Area di spiaggiamento della nave Jolly Rosso
  Torrente Oliva
  Cava in cui si presume siano interrati rifiuti radioattivi
  Sopralluogo marittimo dell'area marina in cui si trova il relitto della presunta «nave a perdere» Cunsky
2 dicembre 2009 Termovalorizzatore di Gioia Tauro
  Discarica privata IAM
  Discarica di Lamezia Terme
  Impianto di compostaggio di Lamezia Terme (DANECO)
  Discarica di Castrolibero
18 febbraio 2010 Inceneritori Ferrara e Granarolo
9 marzo 2010 Sopralluogo in Pisticci con Francesco Fonti, ex collaboratore di giustizia
  Centro Enea di Trisaia di Rotondella
11 marzo 2010 Siti di interesse nazionale Crotone
  Ex-Pertusola di Crotone
  Istituto «Lucifero» e Scuola elementare San Francesco
28 aprile 2010 Inceneritori Ferrara e Granarolo
12 maggio 2010 Sito stoccaggio di Ferrandelle
  Discarica di Maruzzella a San Tammaro
  Depuratore di Villa Literno

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9 giugno 2010 Discarica di Bellolampo
  Siti di interesse nazionale di Gela
  Discarica di fosfogessi di Gela
10 giugno 2010 Siti di interesse nazionale di Priolo
  Sito di Augusta dove era prevista la costruzione del termovalorizzatore
23 giugno 2010 Discarica e termovalorizzatore di Malagrotta
20 luglio 2010 Sito di Pioltello e Rodano
14 settembre 2010 Sito ex ENICHEM di Brindisi
15 settembre 2010 Termovalorizzatore Massafra
  Ilva
  Eni
  Cementir
25 ottobre 2010 Termovalorizzatore Stellinger Moor di Amburgo, gestito dalla Stadtreinigung Hamburg, che ha curato lo smaltimento di rifiuti campani
26 ottobre 2010 Impianto della Bremerhavener Entsorgungsgesellschaft GmbH (BEG) in Bremerhaven
28 ottobre 2010 Discarica di Croebern
8 febbraio 2011 Lombarda Petroli
9 febbraio 2011 Sito di bonifica di Castiglione (La Busa e Cava del pirata)
  Sito di interesse nazionale «Laghi di Mantova e Polo Chimico» (Mantova)
4 maggio 2011 Termovalorizzatore Brescia
8 giugno 2011 Discarica di Sant'Arcangelo
  Impianto Stir di Caivano
  Impianto Stir di Giugliano
5 luglio 2011 Discarica di Macchia Soprana
  Impianto di compostaggio di Salerno
6 luglio 2011 Napoli (siti di trasferenza)
20 settembre 2011 Area industriale di Bagnoli
28 settembre 2011 Impianto biogas Novellara
29 settembre 2011 Ex impianto nucleare di Caorso
10 novembre 2011 Centrale di Caorso
22 novembre 2011 Sito di Quadro Alto (Riano)
  Sito di Corcolle-San Vittorino
24 novembre 2011 Marghera
7 dicembre 2011 Sopralluoghi Saluggia
  Eurex
  Avogadro
  Sorin
16 gennaio 2012 Sito di recupero energetico di SELCHP (Londra)
19 gennaio 2012 Sito di Sellafield
9 febbraio 2012 Sito industriale di Priolo:
Centrale solare termodinamica Archimede
Impianto TAF (Trattamento Acque di Falda)
Cogeneratore del sito ERG della ISAB Energy
13 marzo 2012 Centro Ricerche Enea Trisaia di Rotondella (MT)
14 marzo 2012 Inceneritore La Fenice di Melfi
18 aprile 2012 Siti di interesse nazionale di Trieste – ex Ferriera
  Depuratore Servola

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8 maggio 2012 Siti di San Tammaro
Santa Maria La Fossa
e di Giugliano (già osservati durante il sorvolo)
17 maggio 2012 Discarica di Borgo Montello
24 maggio 2012 Sede del Sistri a Roma
12 giugno 2012 Sito individuato per la costruzione della discarica a Pian dell'Olmo
21 giugno 2012 Centro ricerche Casaccia di Roma
11 settembre 2012 Impianto di incenerimento «Beijing Sheng Tai Dao Science and Technology Co.,Ltd» (Pechino)
  Stabilimento per lo smaltimento di rifiuti organizzato da SEPB di Shanghai
  Impianto di riciclaggio di materie plastiche Eco Park di Hong Kong
9 ottobre 2012 Ex centrale nucleare del Garigliano

La Commissione ha, inoltre, effettuato sorvoli in elicottero delle seguenti aree:

15 luglio 2009 Siti nelle aree del napoletano e del casertano
9 giugno 2010 Sito di Casteltermini individuato per la costruzione del termovalorizzatore
  Sito di Paternò dove era prevista la costruzione del termovalorizzatore
8 maggio 2012 Siti dove sono ubicate le sedi dei depositi di ecoballe:
 Acerra
 Santa Maria La Fossa – località Pozzo Bianco
 Marcianise – Area depuratore comunale
 Giugliano/Villa Literno – loc. Lo Spesso
 San Tammaro «Maruzzella»

Sono stati, infine, organizzati dalla Commissione diversi convegni su temi di particolare interesse ed attualità (oggetto di inchiesta da parte della Commissione), che hanno suscitato un proficuo dibattito tra le istituzioni interessate offrendo spunti e sollecitazioni soprattutto in relazione a problematiche per le quali si impone l'adozione di misure risolutive urgenti, quali ad esempio quella afferente la situazione emergenziale venutasi a creare nella provincia di Roma o quella inerente l'inquinamento ambientale provocato dallo stabilimento Ilva di Taranto.
In particolare, la Commissione ha organizzato i seguenti convegni:
 «La gestione integrata del ciclo dei rifiuti: tra realtà industriale ed ecomafia» (Bologna, 29 aprile 2010)
 «Rifiuti: norme e riforme per contrastare illeciti e mafie» (Avellino, 25 novembre 2010)
 «Rifiuti in Sicilia: esperienze, problematiche e prospettive» (Palermo, 25 gennaio 2011)


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 «L'emergenza rifiuti in Calabria: valutazioni e prospettive» (Crotone, 18 ottobre 2011)
 «La gestione dei rifiuti nella regione Lazio. La relazione della Commissione al Parlamento» (Roma, 10 luglio 2012)
 «La gestione dei rifiuti nella regione Puglia. La relazione della Commissione al Parlamento» (Bari, 23 ottobre 2012)
 «La gestione dei rifiuti nella regione Lombardia. La relazione della Commissione al Parlamento» (Milano, 21 gennaio 2013).

Per lo svolgimento delle attività e l'espletamento dei suoi compiti la Commissione si è avvalsa della collaborazione di consulenti esperti in relazione alle diverse e specifiche materie trattate in ogni singola inchiesta.
Nel corso dei quasi quattro anni di attività della Commissione sono state approvate relazioni territoriali sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nelle regioni Lazio (Doc XXIII n. 6 e Doc XXIII n. 11), Sicilia (Doc XXIII n. 2), Lombardia (Doc XXIII n. 13), Calabria (Doc XXIII n. 7), Puglia (Doc XXIII n. 10 e Doc XXIII n. 12), Basilicata (Doc XXIII n. 17), Campania (Doc XXIII n. 19), nonché relazioni su specifiche tematiche quali i rifiuti radioattivi (Doc XXIII n. 15), lo stato delle bonifiche, con particolare riferimento ai siti di interesse nazionale, (Doc XXIII n. 14), il decesso del capitano di fregata Natale De Grazia, evento questo risalente al mese di dicembre 1995, ma ancora oggi non del tutto chiarito, (Doc XXIII n. 18), Sistri (Doc XXIII n. 20) e «Navi a perdere» (Doc XXIII n. 21).
Deve essere evidenziato che la Commissione ha svolto un'approfondita istruttoria anche in relazione al tema del traffico transfrontaliero di rifiuti.
Pertanto, gli esiti della predetta inchiesta saranno riportati nel presente documento, onde rendere comunque nota l'attività svolta e i risultati raggiunti, fermo restando che ogni ulteriore approfondimento potrà essere svolto consultando la copiosa documentazione acquisita e custodita nell'archivio della Commissione.

I rapporti tra la Commissione e l'autorità giudiziaria.

La Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, nell'esercizio delle sue funzioni, ha intrattenuto sistematicamente rapporti con l'autorità giudiziaria, in particolare con i vari uffici di procura dislocati sull'intero territorio nazionale.
L'interlocuzione costante con gli uffici di procura si è resa indispensabile per gli approfondimenti dei temi specifici rientranti nei compiti attribuiti alla Commissione dall'articolo 1 della legge istitutiva, sopra indicati.
Imprescindibile e di grande ausilio si è rivelata la collaborazione con l'autorità giudiziaria che ha fornito indicazioni sui principali procedimenti penali che hanno riguardato i temi oggetto di approfondimento


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ed ha anche fornito informazioni sulle indagini in corso, in tal modo consentendo alla Commissione, sia pure con le limitate possibilità di utilizzo degli atti coperti da segreto istruttorio, di orientare le inchieste in maniera proficua.
Va d'altronde sottolineato come anche la Commissione abbia inviato all'autorità giudiziaria di volta in volta competente atti, documenti o informazioni utili per le indagini e tale modus operandi è stato apprezzato dai pubblici ministeri interessati.
Le relazioni sino ad oggi approvate sono state in qualche modo utilizzate sia dagli uffici di procura che dalle forze dell'ordine.
In particolare, a seguito dell'approvazione della relazione territoriale sulla Sicilia, il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Messina, dottor Guido Lo Forte, ha inviato alla Commissione una lettera con la quale ha dichiarato espressamente il suo apprezzamento per il lavoro condotto dalla Commissione e l'utilità che ne è derivata anche per gli uffici giudiziari. La relazione sulla Sicilia è stata poi trasmessa a tutte le procure della Regione siciliana e la Commissione ha appreso che il Comandante generale dei Carabinieri ne ha disposto la diffusione presso i presidi territoriali del Corpo, evidentemente apprezzandone i contenuti e ritenendola utile per approfondimenti investigativi.
Analoghe considerazioni valgono per la relazione territoriale sulla Calabria, che ha determinato l'avvio di procedimenti penali. Il livello di approfondimento delle gravi problematiche ancora esistenti in Calabria ha consentito di disvelare vicende caratterizzate dalla «novità», tanto che la relazione ha svolto la funzione di denuncia determinando l'apertura di nuovi procedimenti penali su aspetti sino ad oggi non ancora emersi.
Con riferimento alla situazione di emergenza rifiuti nella provincia di Roma (di fatto determinata dall'esaurimento della discarica di Malagrotta e dalla pendenza di una procedura di infrazione comunitaria) la Commissione ha effettuato uno scambio continuo di informazioni con la procura della Repubblica di Roma, che ha trasmesso in copia provvedimenti di sequestro ed indicazioni utili in merito alle indagini in corso.
Proprio per questa ragione la Commissione si è astenuta dall'adottare provvedimenti di sequestro che avrebbero potuto costituire un intralcio alle indagini penali in corso.
Si tratta di una modalità operativa che è stata adottata in tutte le inchieste senza alcun pregiudizio per l'attività della Commissione e per quella svolta dall'autorità giudiziaria, nello spirito di leale collaborazione tra i poteri dello Stato.
Il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Roma, dottor Pignatone, nel corso dell'intervento effettuato in Campidoglio il 10 luglio 2012 in occasione della presentazione della relazione sull'emergenza rifiuti nel Lazio, approvata dalla Commissione in data 3 luglio 2012, ha sottolineato l'importanza della attività della Commissione parlamentare e l'utilità che gli uffici di procura possono trarre dagli approfondimenti tematici di ampio respiro che la Commissione ha la possibilità di svolgere.
In ossequio a quanto previsto dalla legge istitutiva in merito ai compiti della Commissione, è stato dato un taglio prettamente

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investigativo alle inchieste in modo da focalizzare l'attenzione sugli illeciti che vengono consumati nel settore dei rifiuti, sui territori maggiormente interessati, sulla dimensione del fenomeno in Italia e all'estero.
Come evidenziato nella sentenza della Corte costituzionale n. 26 del 2008, nel giudizio relativo al conflitto di attribuzione tra la Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e il tribunale ordinario di Roma il compito delle Commissioni parlamentari d'inchiesta «non è di “giudicare”, ma solo di raccogliere notizie e dati necessari per l'esercizio delle funzioni delle Camere», attingendo così «lo scopo di mettere a disposizione delle Assemblee tutti gli elementi utili affinché queste possano, con piena cognizione delle situazioni di fatto, deliberare la propria linea di condotta, sia promuovendo misure legislative, sia invitando il Governo a adottare, per quanto di sua competenza, i provvedimenti del caso» (così, incisivamente, la sentenza n. 231 del 1975)».
In ottemperanza a questo principio che connota le funzioni della Commissione si è avuto modo di constatare nelle varie inchieste come sia stato sempre realizzato nei fatti quel principio di «leale collaborazione» tra i poteri dello Stato più volte ribadito dalla Corte costituzionale.
Come detto, la Commissione ha esercitato con grande prudenza i poteri dell'autorità giudiziaria conferiti dalla legge, disponendo l'assunzione di informazioni nella forma della testimonianza nei casi in cui si è riscontrata una scarsa collaborazione da parte del soggetto audito. E ciò al fine, da un lato, di potere ordinare l'accompagnamento coattivo prodromico all'assunzione della testimonianza, dall'altro, per potere acquisire le dichiarazioni in forma rituale e con la formula di responsabilità per le dichiarazioni rese, proprie della testimonianza.
Nell'anno 2009 sono stati emessi alla Commissione due provvedimenti di sequestro probatorio riguardanti i sedimenti del fondo marino e una porzione di relitto di nave nell'ambito dell'inchiesta concernente le cosiddette «navi a perdere».
Il sequestro è stato effettuato a Cetraro ed è stato eseguito dagli ufficiali di P.G. appartenenti alla Guardia costiera, con successivo dissequestro allorquando sono venute meno le ragioni probatorie poste a base del provvedimento. Il tutto senza arrecare alcun pregiudizio alla parallela indagine penale in corso presso la procura della Repubblica di Catanzaro.
In talune occasioni singole delegazioni della Commissione si sono recate presso gli uffici di procura per esaminare direttamente gli atti processuali ed individuare quelli di interesse per la Commissione, in tal modo evitando di acquisire copie di atti di scarso rilievo e di gravare sugli uffici giudiziari attraverso richieste poco mirate.
Conclusivamente, i rapporti con l'autorità giudiziaria sono stati ottimali e hanno reso possibile una reciproca e leale collaborazione utile sia per le indagini giudiziarie e sia per le inchieste della Commissione che, sebbene abbia approfondito tematiche molto ampie, è riuscita, proprio grazie a questo costante scambio di informazioni,

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ad individuare gli aspetti più problematici del settore dei rifiuti, le inadeguatezze normative, le vischiosità procedimentali, potendo elaborare proposte costruttive per un'attività parlamentare coerente con la situazione reale e rispondente alle esigenze attuali.

1. Le inchieste svolte dalla commissione su temi specifici.

Premessa.

In questa parte della relazione conclusiva si riportano sinteticamente le conclusioni cui la Commissione è pervenuta nell'ambito delle inchieste effettuate rispetto ai seguenti temi: lo stato delle bonifiche dei siti contaminati, la gestione dei rifiuti radioattivi, il fenomeno delle «navi a perdere», il sistema di tracciabilità dei rifiuti denominato «Sistri», il decesso del capitano di fregata Natale De Grazia.
Si darà, poi, conto anche dei risultati degli approfondimenti svolti sul traffico transfrontaliero di rifiuti (avvenuti attraverso decine di audizioni, acquisizioni documentali, sopralluoghi effettuati nel corso di missioni in Italia e all'estero), tema per il quale non è stato possibile, in ragione dello scioglimento anticipato delle Camere, redigere un'apposita relazione.

1.1. La relazione sulla gestione dei rifiuti radioattivi in Italia e sulle attività connesse (approvata in data 18 dicembre 2012) (Doc XXIII n. 15).

Nell'ambito della propria attività, la Commissione ha svolto un approfondimento sul tema dei rifiuti radioattivi. Inizialmente la decisione di includere tale settore negli esami da compiere era certamente connessa anche al progettato ritorno dell'Italia all'energia nucleare, che avrebbe riaperto una produzione massiccia di rifiuti, rendendo ancor più impellente l'adozione dei provvedenti necessari per la loro gestione in un ciclo ordinato e sicuro; ma era derivata soprattutto dalla oggettiva, generale rilevanza del tema stesso e dalle voci mai sopite di attività illecite legate ai rifiuti radioattivi o quanto meno di un loro più o meno ampio coinvolgimento in attività illecite centrate sui rifiuti speciali o pericolosi. Tali voci, che hanno avuto notevole eco nell'ampia attività giornalistica e editoriale in materia, se non erano suscettibili di essere definitivamente confermate o smentite da parte della Commissione, erano quanto meno meritevoli di una valutazione in merito alla loro attendibilità. Altri obiettivi dell'approfondimento erano la ricostruzione del quadro generale della situazione in essere, un esame della normativa vigente, della sua efficacia e dell'eventuale necessità di completamenti o di modifiche, una verifica delle attività operative svolte, dei programmi, delle spese sostenute e degli oneri previsti, l'individuazione delle priorità in materia per la futura azione del Governo e del Parlamento. Il venir meno della prospettiva di realizzazione di nuove centrali nucleari sul nostro territorio, sancito dal referendum popolare del giugno 2011,


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non ha quindi alterato sensibilmente i motivi di interesse da parte della Commissione.
Per l'acquisizione dei necessari elementi conoscitivi, la Commissione ha effettuato tredici audizioni, alcune delle quali riprese una o più volte per aggiornamenti o integrazioni; ha compiuto sette missioni su altrettanti siti nucleari; ha ricevuto, a seguito di richiesta o talora su iniziativa dei mittenti, numerosi contributi scritti e ampia documentazione da diversi soggetti, auditi o comunque interessati, a diverso titolo, alla gestione dei rifiuti radioattivi.
Le risultanze dell'attività svolta, che vengono qui sinteticamente illustrate, sono oggetto di un'apposita relazione che la Commissione ha approvato all'unanimità in data 18 dicembre 2012.
Il settore dei rifiuti radioattivi è disciplinato nell'ambito della legislazione generale di sicurezza nucleare e di radioprotezione vigente in Italia. Tale legislazione discende dalle direttive emanate in materia dall'Unione europea, le quali, a loro volta, fanno riferimento alle fonti dottrinali internazionalmente riconosciute come le più autorevoli.
Il quadro normativo appare completo e rigoroso. Per taluni importanti aspetti, come i limiti di esposizione dei lavoratori ed i livelli autorizzabili per l'immissione di radioattività nell'ambiente, le norme vigenti in Italia risultano ancor più stringenti delle corrispondenti disposizioni delle direttive comunitarie e ciò ha determinato standard di radioprotezione ormai consolidati che meritano di essere conservati anche in vista degli aggiornamenti che nel futuro dovranno essere apportati alla legislazione.
L'Italia ha inoltre ratificato, nella stessa materia, i trattati internazionali esistenti, ed in particolare la Convenzione congiunta sulla sicurezza della gestione del combustibile irraggiato e dei rifiuti radioattivi e la Convenzione di Londra sull'affondamento di rifiuti in mare.
Resta da attuare, entro l'agosto 2013, la più recente delle direttive comunitarie, la direttiva 2011/70/Euratom, concernente proprio la gestione dei rifiuti radioattivi, che non richiederà solo un mero atto di formale recepimento, ma anche, tra le risposte ai diversi requisiti, la predisposizione e l'attuazione di un organico programma nazionale per la gestione del combustibile nucleare irraggiato e dei rifiuti radioattivi, attività che in Italia ha spesso sofferto di una qualche estemporaneità.
Sulle centrali nucleari e sugli impianti del ciclo del combustibile, l'esistenza di un sistema regolatorio e di controllo, specifico e dedicato, posto in atto Sin dall'inizio dello sviluppo della tecnologia e l'attenzione che gli impianti nucleari, punti singolari sul territorio, inevitabilmente attirano su di sé hanno impedito illegalità diffuse e possono aver svolto un'azione di dissuasione nei confronti della criminalità, prevenendo possibili tentativi di infiltrazione nella gestione dei rifiuti radioattivi o di traffici illeciti di materie nucleari, queste ultime soggette anche ad un regime di controlli internazionali. Sta di fatto che la Commissione, che non ha omesso di approfondire neppure le voci e le ipotesi giornalistiche, non ha trovato conferme o elementi che possano supportare, anche parzialmente o indirettamente, le dichiarazioni o le semplici voci di smaltimenti illeciti o di coinvolgimenti di impianti italiani in traffici internazionali. Ciò non esclude tuttavia che episodi isolati si possano essere verificati, né che

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la criminalità organizzata possa aver contribuito ad attività illecite originate in paesi dove il sistema regolatorio e di controllo sia meno consolidato.
A fronte del rischio di infiltrazioni di natura mafiosa negli appalti – certamente significativi sotto il profilo economico – per le opere di smantellamento degli impianti nucleari, alcuni dei quali localizzati tra l'altro in aree particolarmente esposte a tale rischio, la Commissione ha potuto prendere atto del protocollo di legalità sottoscritto dalla Sogin con tutti i prefetti delle province interessate. Con esso, la Sogin assume una serie di obblighi nella gestione delle gare e dei contratti, che, se non possono garantire in assoluto contro tali infiltrazioni, possono comunque costituire per queste un ostacolo, tanto più forte quanto più scrupolosa sarà l'attuazione degli impegni che il protocollo prevede.
Certamente meno definita è la situazione per quanto attiene all'impiego delle sostanze radioattive nell'industria, nella ricerca e nella sanità. Si tratta di attività ampie e, soprattutto l'ultima, capillarmente diffuse sul territorio, per le quali non è disponibile, allo stato, neppure un'esatta indicazione del loro numero. Ad oggi, manca infatti per esse un centro nazionale di raccolta delle informazioni, anche a causa di una generalizzata carenza nell'applicazione delle norme da parte delle amministrazioni locali, le quali, in base alle disposizioni di legge, dovrebbero trasmettere all'Ispra i dati relativi alle autorizzazioni da esse rilasciate, trasmissione che, a quanto risulta, è stata Sin qui effettuata in maniera del tutto episodica. I rifiuti radioattivi prodotti in questi impieghi emergono solo nel momento in cui vengono conferiti a un deposito temporaneo autorizzato a riceverli, dove sono inventariati e dichiarati e quindi inclusi nell'inventario nazionale che l'Ispra ha costituito e del quale cura l'aggiornamento.
In questo modo, tra la produzione dei rifiuti ed il loro conferimento a depositi temporanei si crea un potenziale spazio, se non per un'attività criminale organizzata, data l'esiguità dei quantitativi massimi a disposizione per essa (da alcune decine a qualche centinaio di metri cubi all'anno di rifiuti su tutto il territorio nazionale), certamente per smaltimenti illeciti da parte di singoli, uno spazio che merita comunque di essere ulteriormente investigato.
Si tratta infatti di eventualità da non sottovalutare sotto il profilo del rischio radiologico, se si pensa che lo smaltimento potrebbe tra l'altro riguardare sorgenti sigillate, potenzialmente anche molto pericolose per le persone che dovessero essere esposte ad esse.
Casi di questo genere in Italia non risulta si siano verificati. Si sono però verificati diverse volte casi di importazione di rottami metallici all'interno dei quali erano nascoste sorgenti radioattive. Talvolta queste sono state intercettate tempestivamente, ma spesso ci si è accorti di loro solo dopo che erano state fuse all'interno dei forni delle fonderie, insieme ai rottami, provocando contaminazioni anche gravi negli impianti metallurgici.
La legge ha preso in considerazione questo problema dettando diverse disposizioni, che sono però restate in parte inattuate e in parte sono state oggetto di interpretazioni, date dalle amministrazioni competenti, che ne hanno limitato l'efficacia.

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La Commissione ha inoltre dovuto prendere atto che un sistema di rilevazione automatica della radioattività presso i valichi di frontiera, per il quale, al fine di contribuire a ridurre i rischi connessi all'importazione clandestina di sorgenti radioattive, la legge, nel 1996, aveva stanziato 5 miliardi di lire, è stato acquistato ed installato da parte dell'allora Ministero dell'industria, ma, per motivi difficilmente comprensibili, non è mai stato preso in carico dal Corpo nazionale dei vigili del fuoco, che avrebbe dovuto gestirne l'esercizio. Non è noto, anche se è facilmente immaginabile, lo stato di conservazione del sistema.
Per quanto attiene alla gestione dei rifiuti radioattivi presenti sul territorio nazionale, la situazione complessiva non è al momento ottimale.
Il dato negativo di fondo è la perdurante mancanza di un sito nazionale ove i rifiuti possano essere depositati o smaltiti in condizioni di sicurezza.
La realizzazione del deposito nazionale, che, per favorirne l'accettazione da parte delle comunità locali interessate, il decreto legislativo n. 31 del 2010 vuole integrato in un più ampio parco tecnologico, è affidata alla Sogin ed è oggi previsto che si concluda nel 2020, un obiettivo temporale che – per i difficili problemi di natura socio-politica che l'opera comporta e per la conseguente complessità delle procedure di selezione del sito che lo stesso decreto legislativo n. 31 del 2010 stabilisce – potrà essere raggiunto solo con uno sforzo straordinario di tutte le parti interessate.
La mancanza del deposito nazionale fa sì che la stragrande maggioranza dei rifiuti radioattivi prodotti negli impianti nucleari – centrali, installazioni sperimentali, reattori di ricerca – sia ancora conservata presso gli stessi singoli impianti, sparsi sul territorio italiano, nei quali sono stati a suo tempo generati, una situazione che ha già influenzato il processo di decommissioning e che, protraendosi, impedirebbe la liberazione dei siti, trasformando ciascuno di essi nel deposito finale dell'impianto che ha ospitato, inclusi i rifiuti prodotti dal riprocessamento del combustibile nucleare, effettuato in Inghilterra e in Francia, che dovranno rientrare in Italia. Va sottolineata, a fronte di questa prospettiva, la generale inidoneità, in alcuni casi assoluta, degli attuali siti nucleari a svolgere tale funzione.
In alcuni deposti temporanei sono invece raccolti e provvisoriamente stoccati i rifiuti prodotti, e che continuano inevitabilmente a prodursi, nell'impiego di sorgenti radioattive al di fuori degli impianti nucleari: attività industriali, ricerca, impieghi medici.
La tabella seguente mostra l'inventario nazionale dei rifiuti radioattivi, ripartito tra le diverse regioni che ospitano impianti nucleari o depositi temporanei. In termini di volume (metri cubi) il quantitativo maggiore è presente nel Lazio, dove confluisce, nel deposito Nucleco, la gran parte dei rifiuti radioattivi di origine non nucleare prodotti in Italia. In termini di contenuto di radioattività (gigabecquerel – GBq), la maggiore concentrazione è, invece, in Piemonte, soprattutto per la presenza dell'impianto Eurex, a Saluggia, dove sono detenuti rifiuti radioattivi che da soli rappresentano oltre i due terzi dell'inventario nazionale.


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REGIONE
Rifiuti Radioattivi

Attività

Volume

GBq

m3

Piemonte

2.228.202

5.257

Lombardia

111.398

3.244

Emilia Romagna

2.696

3.545

Lazio

55.377

8.297

Campania

396.584

3.119

Toscana

14.503

350

Basilicata

302.364

3.242

Puglia

238

1.140

Sicilia

0,0

0,0

TOTALI

3.111.3621

28.194

Presenza di rifiuti radioattivi nelle regioni italiane al 31 dicembre 2011 (dati Ispra).

Al quantitativo di rifiuti radioattivi mostrato dalla tabella, già presenti sul territorio italiano, vanno aggiunti: un ulteriore quantitativo, stimato in circa 30 mila metri cubi, che verrà prodotto dallo smantellamento degli impianti nucleari esistenti; i rifiuti prodotti all'estero (Regno Unito e Francia), presso gli impianti dove è stato spedito, per essere sottoposto a riprocessamento, il combustibile nucleare a suo tempo utilizzato nelle quattro centrali nucleari italiane, rifiuti che sono destinati a rientrare in Italia; i rifiuti che continueranno ad essere generati, in quantità valutabili in alcune centinaia di metri cubi all'anno, nell'impiego delle materie radioattive a scopi medici, industriali e di ricerca.
In base a questi dati, si valuta che la capacità complessiva del deposito nazionale debba essere pari a circa 90 mila metri cubi.
Ad aumentare l'attuale stato di precarietà vi è il fatto che la maggior parte dei rifiuti radioattivi si trova ancora allo stato in cui sono stati prodotti, senza aver subito, cioè, le operazioni di condizionamento con le quali i rifiuti vengono inglobati – se solidi – o solidificati – se liquidi – in matrici solide inerti, che costituiscono la prima, fondamentale barriera contro la dispersione della radioattività nell'ambiente.
Deputata a queste operazioni, come pure al decommissioning delle centrali nucleari e degli impianti del ciclo del combustibile, è la Sogin, società a capitale interamente pubblico, nata nel 1999 nell'ambito del processo di liberalizzazione del mercato elettrico. La Sogin avrebbe dovuto procedere, nell'arco di dieci anni, al condizionamento dei rifiuti pregressi – circa ventimila metri cubi – presenti negli impianti nucleari dei quali è responsabile. Oggi il lavoro è giunto a poco più di un quarto di strada ed anche i casi più urgenti, come i rifiuti liquidi ad alta attività che nell'impianto Eurex di Saluggia attendono da decenni di essere solidificati, dovranno attendere ancora diversi anni.


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Criticità in attesa di soluzioni da individuare o da attuare sono presenti anche in altri siti, ad esempio nella centrale del Garigliano, dove vi sono rifiuti a suo tempo sepolti in trincee che debbono ora essere recuperati e messi in sicurezza, o nella centrale di Caorso, dove vi è qualche migliaio di fusti di rifiuti già condizionati con un metodo che si è poi rivelato inidoneo, in quanto causa di corrosione dei fusti stessi.
Strettamente connesso con la gestione e la messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi è il decommissioning degli impianti, che, come detto, con gli smantellamenti, produrrà a sua volta alcune decine di migliaia di metri cubi di rifiuti. Qui sino ad oggi le cose non sono andate meglio. Dalla definitiva chiusura delle centrali nucleari, avvenuta nel 1987, l'Enel, che ne era allora proprietario, si era praticamente limitato al loro mantenimento in sicurezza, e la stessa cosa aveva fatto l'Enea per gli impianti del ciclo del combustibile di cui era esercente, per i quali, a quanto risulta, non era stato neppure predisposto un piano di disattivazione. La Sogin, subentrata all'Enel nella proprietà delle centrali nucleari e, dal 2003, all'Enea nella gestione degli impianti del ciclo del combustibile, ha Sin qui svolto, secondo quanto ha comunicato alla Commissione il Ministro dello sviluppo economico, il 12 per cento del lavoro che i programmi del decommissioning prevedono.
Affinché l'attività possa concludersi nei tempi ragionevoli previsti è evidente l'assoluta necessità di un netto cambiamento dei ritmi con i quali le operazioni sono state Sin qui condotte. Ciò richiederà lo sforzo di tutti i soggetti che, con differenti ruoli, partecipano o intervengono: amministrazioni centrali e locali, ente di controllo, esercente. Non possono infatti essere ascritte unicamente alla Sogin le inefficienze che hanno condotto agli scarsi risultati che le cifre mostrano, così come non possono neppure essere attribuite tutte a cause esterne, come la stessa Sogin sembrerebbe invece voler fare.
Va in ogni caso evidenziato l'impulso che le procedure autorizzative hanno ricevuto con l'entrata in vigore di alcuni recenti provvedimenti legislativi, dove è stato in particolare promosso lo strumento della conferenza dei servizi ai fini dell'accelerazione delle procedure stesse.
Nella situazione di inefficienze e di ritardi emersa si inquadrano due aspetti che, se non del tutto determinati da essa, ne risultano comunque favoriti.
Il primo è la Sin qui mancata, vera valorizzazione delle competenze specifiche che operano e che potrebbero invece costituire una risorsa strategica in vista della prossima, forte crescita che l'attività di decommissioning degli impianti nucleari avrà in tutto il continente europeo, dove vi sono quasi cento centrali in attesa di smantellamento, con un mercato valutabile in decine di miliardi di euro.
Il secondo aspetto è la lievitazione dei costi che i ritardi inevitabilmente producono. I costi complessivi per tutte le operazioni di messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi e per il decommissioning degli impianti, nelle previsioni dell'attuale piano a vita intera elaborato dalla Sogin, ammontano a 6,7 miliardi di euro, dei quali 1,7 miliardi già spesi. Vanno evidenziati al riguardo gli incrementi che tali previsioni presentano rispetto alle stime che la stessa Sogin aveva

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prodotto negli anni precedenti. In particolare, secondo i dati forniti dall'Autorità per l'energia elettrica e il gas, il piano a vita intera del 2008 prevedeva una spesa complessiva – riportata alla moneta 2010 – pari a 5.442 milioni di euro: rispetto a essa le previsioni più recenti mostrano, dunque, un aumento del 23 per cento. A loro volta le previsioni del piano 2008 presentavano un incremento del 15 per cento rispetto a quelle del piano 2006, che, sempre rivalutate alla moneta 2010, erano pari a 4.727 milioni di euro. Complessivamente, l'aumento delle stime dei costi dal 2006, a moneta costante, è stato del 42 per cento.
Questi costi sono posti a carico dei clienti finali del sistema elettrico tramite una specifica componente tariffaria, l'A2, che alimenta un apposito conto istituito presso la Cassa conguaglio per il settore elettrico. La raccolta annua ottenuta attraverso questo meccanismo di finanziamento oscilla intorno ai 300 milioni di euro. Di essi, circa 90 milioni sono mediamente spesi dalla Sogin per costi di gestione e per il mantenimento in sicurezza degli impianti, indipendentemente cioè dal procedere delle attività di messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi e delle operazioni di decommissioning.
Per quanto riguarda i rifiuti prodotti nei diversi impieghi delle sorgenti radioattive, va dato atto all'Enea dell'importanza del ruolo svolto dal servizio integrato – da lei organizzato e posto in atto dalla Nucleco, sua società partecipata – per una gestione per quanto più possibile ordinata e controllata di tali rifiuti. Il servizio consente agli esercenti dei depositi temporanei operanti in alcuni punti del territorio nazionale, che raccolgono i rifiuti prodotti negli ospedali, nei laboratori di ricerca o in installazioni industriali, di conferire quei rifiuti ad un unico punto di raccolta che, per organizzazione e per la sua collocazione – all'interno di un centro di ricerche come quello Enea della Casaccia – offre le garanzie migliori che allo stato attuale si possono ottenere. Senza quel servizio, i margini per possibili illeciti nella gestione di quei rifiuti sarebbero probabilmente maggiori.
Va tuttavia rilevato che, nella perdurante assenza del deposito nazionale, il servizio integrato ha finito col trasformare di fatto nel deposito nazionale dei rifiuti radioattivi di origine sanitaria e industriale un deposito costituito da alcun capannoni posti all'interno del comune di Roma, in una zona ormai raggiunta dall'espansione urbana e dotato di strutture del tutto diverse da quelle che un vero e proprio deposito finale dovrebbe avere.
È questo un ulteriore motivo che rende quanto mai urgente la realizzazione del deposito nazionale.
La legge n. 368 del 2003 ha introdotto misure compensative per i comuni e le province nel cui territorio sono localizzate le vecchie centrali nucleari e i vecchi impianti del ciclo del combustibile, da corrispondere sino al loro definitivo smantellamento. L'ammontare complessivo annuo di tali misure è determinato con un'aliquota della componente della tariffa elettrica per ogni chilowattora consumato ed è ripartito tra i diversi siti in base al rispettivo inventario radiometrico e alla relativa pericolosità, secondo le valutazioni effettuate dall'Ispra. Questo meccanismo, dopo la prima assegnazione del 2004, pari a 39 milioni di euro complessivi, ha portato a distribuire annualmente tra gli enti locali interessati – tra i quali sono stati inclusi in una seconda

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fase anche comuni adiacenti a quelli che ospitano i siti – contributi che oscillano intorno a 15 milioni di euro.
La legge citata prevedeva che, alla data della messa in esercizio del deposito nazionale, le misure compensative sarebbero state trasferite al territorio che ospita il deposito, proporzionalmente al progressivo trasferimento dei rifiuti dai siti di origine al deposito stesso. Quest'ultima disposizione, che ovviamente non è stata mai applicata, è stata completamente modificata dalla legge n. 75 del 2011, che ha introdotto, per gli enti locali che saranno direttamente o indirettamente interessati dalla presenza del deposito nazionale, un contributo economico indipendente da quello previsto ed erogato per gli impianti nucleari esistenti. La nuova norma non appare tuttavia sufficiente a disciplinare la materia in modo chiaro e compiuto.
In particolare, oltre alla mancanza della definizione dell'entità del contributo da corrispondere o delle modalità per la sua definizione e alla mancanza di indicazioni sui criteri di ripartizione della quota (35 per cento) complessivamente spettante ai comuni limitrofi a quello di localizzazione, sarà necessario stabilire, in sede legislativa, le modalità di estinzione dell'erogazione dei contributi oggi spettanti agli enti locali interessati dagli impianti esistenti, non essendo più previsto il progressivo trasferimento di tali contributi agli enti locali interessati dal deposto nazionale.
Un ultimo, rilevante problema che la Commissione ha preso in esame è quello concernente le funzioni di controllo. Queste sono svolte dall'Ispra – o dalle agenzie di protezione ambientale che, con denominazioni diverse, hanno preceduto l'Istituto – Sin da quando la prima di tali agenzie, l'ANPA, è stata istituita, nel 1994.
Da qualche anno, tuttavia, l'attribuzione è divenuta precaria. Prima, nel 2009, nel quadro dell'allora programmato ritorno all'energia nucleare, era stata istituita l'Agenzia per la sicurezza nucleare e l'Ispra aveva continuato a svolgere le funzioni di controllo in attesa che il nuovo soggetto diventasse operativo, cosa mai avvenuta; poi, quando nella mutata situazione determinatasi con la nuova chiusura delle prospettive di ritorno al nucleare, l'Agenzia è stata soppressa, la legge ha previsto che tali funzioni vengano incorporate nel Ministero dello sviluppo economico, di concerto con il Ministero dell'ambiente, e le ha nuovamente affidate all'Ispra solo in via transitoria, in attesa che un decreto ministeriale non regolamentare dia attuazione all'incorporazione.
Tale attuazione dovrebbe avvenire nel rispetto di una condizione, che la legge stessa ricorda, che è però inconciliabile con qualsiasi attribuzione di competenze al Ministero dello sviluppo economico: l'indipendenza delle funzioni di controllo sancito dalle direttive comunitarie.
Alla Commissione sono state accennate dal ministro dello sviluppo economico e dal ministro dell'ambiente soluzioni, peraltro non del tutto coincidenti, che tendono comunque alla valorizzazione delle competenze esistenti nell'Ispra e nell'Enea, ma non sarà semplice soddisfare ad un tempo le indicazioni della legge – che ha soppresso un soggetto interamente dedicato ai controlli e ha previsto l'incorporazione delle funzioni nel Ministero – e il principio di indipendenza di tali funzioni. Né apparirebbe peraltro percorribile una via che, con

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un decreto ministeriale e al di fuori di ogni intervento del Parlamento, istituisse di fatto una nuova autorità di controllo.
In tutto questo, le risorse dedicate nell'Ispra alle funzioni di controllo, già notevolmente ridimensionate nel corso degli anni precedenti, sono giunte ai livelli di guardia e sono oggi necessari provvedimenti urgenti, anche interni all'Istituto, affinché questo non divenga un vero e proprio impedimento per le attività di sistemazione dei rifiuti radioattivi e di decommissioning che debbono essere svolte, o non venga addirittura resa inefficace l'indispensabile azione di controllo.
È auspicabile che su tutti i problemi emersi e le criticità qui sinteticamente ripresentate continui ad essere esercitata un'attenta azione di monitoraggio da parte del Parlamento.

1.2. La relazione sulle bonifiche dei siti contaminati in Italia (approvata in data 12 dicembre 2012) (Doc XXIII n. 14).

Nella relazione approvata dalla Commissione in data 12 dicembre 2012 sono esposti i risultati dell'approfondita inchiesta svolta sul tema delle bonifiche dei siti contaminati in Italia.
L'inchiesta ha riguardato, in particolare, i ritardi nell'attuazione degli interventi e i profili di illegalità.
Se ne riportano le conclusioni:
sulla base dei dati raccolti dalla Commissione d'inchiesta ed elaborati da Ispra, sono oltre 15.000 i siti potenzialmente contaminati ed oltre 4.300 quelli per i quali è stato accertato, attraverso indagini di caratterizzazione, lo stato di contaminazione.
In considerazione della mancata istituzione, in numerose regioni, delle anagrafi dei siti contaminati di cui all'articolo 51 del decreto legislativo n. 152 del 2006 e della disomogeneità dei criteri adottati nelle anagrafi già istituite, tale dato appare sicuramente sottostimato.
Si deve poi rilevare che al numero complessivo dei siti «potenzialmente contaminati» e «contaminati» vanno aggiunti gli oltre 1.500 siti minerari abbandonati, oggetto di censimento, e le aree comprese nei 57 siti di interesse nazionale (Sin) ad oggi istituiti dal Ministero dell'ambiente, che corrispondono a circa il 3 per cento dell'intero territorio italiano e a oltre 330.000 ettari di aree a mare.
All'interno dei 57 siti di interesse nazionale ricadono le più importanti aree industriali della penisola, tra cui i petrolchimici di Porto Marghera, Brindisi, Taranto, Priolo, Gela nonché le aree urbane ed industriali di Napoli Orientale, Trieste, Piombino, La Spezia, Brescia, Mantova.
Ebbene, le verifiche e gli approfondimenti effettuati nell'inchiesta che la Commissione ha svolto sul tema delle bonifiche, con particolare riferimento ai siti di interesse nazionale, consentono di formulare una serie di considerazioni in merito alle questioni di volta in volta affrontate.
Va, in primo luogo, sottolineato come siano in corso diverse indagini giudiziarie su importanti siti di interesse nazionale, alcune delle quali hanno rivestito una particolare rilevanza perché, al di là dei reati in relazione ai quali si è proceduto ed alla fondatezza dell'accusa, hanno avuto il merito di porre in luce gravi problematiche di carattere generale che riguardano tutti i siti.


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Anzi, si può fondatamente sostenere che le indagini abbiano avuto un effetto decisamente propulsivo nei confronti degli organi di governo i quali, in diversi casi, solo a seguito dell'intervento della magistratura e del risalto mediatico di talune vicende giudiziarie, hanno focalizzato l'interesse su questo o su quel sito.
E, infatti, deve prendersi atto che è stata la magistratura a rappresentare sovente uno stimolo determinante affinché si smuovesse l'elefantiaca macchina burocratica destinata altrimenti ad un inaccettabile immobilismo.
Il settore delle bonifiche, almeno fino ad oggi, è stato fallimentare e i dati positivi rappresentati alla Commissione dall'ex ministro Prestigiacomo paiono del tutto inconsistenti se non ulteriormente confermativi della pesantezza e della vischiosità delle procedure.
Le 1.200 conferenze di servizi e i 16.000 elaborati progettuali richiamati dall'onorevole Prestigiacomo nel corso di un'audizione, come espressione dell'intensa attività profusa dal Ministero e dagli altri enti, non sono altro che la dimostrazione di quanto possa rivelarsi nei fatti inutile il continuo scambio di carte e di pareri, di richieste e prescrizioni, di deduzioni e controdeduzioni, laddove non siano seguiti da attività di bonifica e da un avanzamento sostanziale delle procedure.
Il ministro Clini si è espresso in termini nettamente più critici e ha sottolineato proprio l'esigenza di snellire le procedure, dare concretezza e definitività alle conferenze di servizi, rendere più semplice e trasparente il sistema anche per evitare che diventi, se non lo è già diventato, un sistema permeabile alle infiltrazioni della criminalità.
Non è un caso che il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, abbia dichiarato alla Commissione che quello delle bonifiche è un vero e proprio business che attira l'interesse sia della criminalità organizzata che di quella comune, attratta dalla movimentazione di ingenti somme di denaro spesso costituite da fondi pubblici.
Ed è stata proprio la magistratura ad accendere l'interesse su taluni siti «dimenticati», nei quali le procedure o erano ferme o erano solo apparentemente attive.
È quello che si è verificato tanto in Calabria quanto in Lombardia, due regioni distanti e differenti per varie ragioni, ma accomunate da questo elemento, a dimostrazione del fatto che, rispetto ai siti di interesse nazionale, l'immobilismo o il finto attivismo della pubblica amministrazione ha riguardato aree dislocate su tutto il territorio italiano.
I casi da elencare sarebbero numerosi, basti richiamare il sito di interesse nazionale della laguna di Grado e Marano in relazione al quale era stata dichiarata l'emergenza ambientale con la creazione di una struttura commissariale, prorogata di anno in anno per ben dieci anni.
Ebbene, l'apertura di un'indagine penale da parte della procura di Udine, che ha, in sostanza, messo fortemente in discussione non solo la struttura commissariale, ma anche la stessa perimetrazione del sito di interesse nazionale (ritenuta in ampia parte ingiustificata), è stata seguita da una serie di eventi che, non è un caso, hanno portato alla revoca della struttura commissariale ed alla riperimetrazione del

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sito di interesse nazionale, alla luce delle modifiche di recente introdotte all'articolo 252 del decreto legislativo n. 152 del 2006.
Il caso più eclatante è quello che riguarda l'Ilva di Taranto, che in questo periodo storico rappresenta uno dei principali nodi da sciogliere a causa dell'inquinamento che pare continui a promanare dagli impianti e della necessità di avviare la bonifica dei terreni. Questi temi sono diventati attuali – è inutile negarlo – solo a seguito del sequestro preventivo degli impianti da parte della magistratura, con le drammatiche ricadute occupazionali che ne sono derivate.
Il ministro Clini, in merito alla riapertura della procedura Aia, non l'ha ricollegata agli esiti delle indagini giudiziarie, ma all'introduzione di due elementi di «novità» che necessitavano di essere presi in considerazione nell'ambito della nuova procedura.
Testualmente, ha dichiarato, all'assemblea della Camera dei deputati, il 1o agosto 2012: «abbiamo avuto, da un lato, nuove informazioni circa la concentrazione in aria nell'area di Taranto, non tanto specificatamente in Ilva, di un inquinante, il benzoapirene, che è un inquinante cancerogeno, e, dall'altro lato, la decisione della Commissione europea dell'8 marzo del 2012, che ha stabilito le migliori tecnologie disponibili nel settore della siderurgia che devono essere adottate dagli impianti industriali in tutta Europa.».
Ebbene, deve osservarsi che questa Commissione parlamentare di inchiesta, già dal 2010, aveva avviato l'inchiesta sull'Ilva di Taranto e, nel corso delle audizioni effettuate in Puglia, era già stata rappresentata l'emergenza relativa alla presenza di benzo(a)pirene in concentrazioni eccessive, soprattutto nel quartiere Tamburi, tanto che il sindaco aveva adottato ordinanze a tutela della salute.
Era stato già interpellato l'Istituto superiore di sanità in merito alla pericolosità del benzo(a)pirene per contatto dermico, e l'Arpa Puglia era stata, anch'essa, investita di questa delicatissima questione.
Quindi, è parso un po’ curioso che il Ministero abbia indicato questo dato come l'elemento di «novità» che ha determinato la riapertura della procedura Aia.
Delle due l'una: o il Ministero non è stato informato di tali questioni, circostanza questa evidentemente grave perché segno di un gap informativo tra il Ministero e gli enti che lo supportano, o non ha sufficientemente valutato il pericolo connesso alle alte concentrazioni di benzo(a)pirene.
Con riferimento alla decisione della Commissione europea (decisione di esecuzione 28 febbraio 2012, n. 2012/135/UE, che stabilisce le conclusioni sulle migliori tecniche disponibili (Bat) per la produzione di ferro e acciaio, ai sensi della direttiva 2010/75/UE del Parlamento europeo e del consiglio relativa alle emissioni industriali), certamente si tratta di dati cui devono uniformarsi gli impianti siderurgici in Europa.
Ma la disposizione della Commissione europea prevede che le migliori tecnologie disponibili debbano costituire il riferimento per le nuove procedure di autorizzazione ambientale a partire dal 2016, allorquando diverranno vincolanti.
Stesse considerazioni in merito al ruolo propulsivo della magistratura valgono per il sito di Bagnoli. In occasione della vicenda relativa all'individuazione di Bagnoli per le regate dell’America's Cup,

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si è avuto modo di constatare l'incoerenza degli organi deputati a verificare l'idoneità del sito, tutti organi che dovrebbero essere composti da persone di elevatissima professionalità.
In una prima fase, il sito era stato giudicato idoneo; dopo l'apertura di un'inchiesta della magistratura in merito alla vasca di colmata e alla bonifica dei sedimenti a mare, i pareri sono stati molto più prudenti se non decisamente negativi, tanto che alla fine è stato individuato un altro sito.
L'impressione che la pubblica amministrazione, la quale dovrebbe essa stessa garantire trasparenza ed efficacia delle procedure, si attivi concretamente solo a seguito dell'apertura di indagini giudiziarie, come se le situazioni di criticità emergessero solo in conseguenza delle stesse, è davvero qualcosa di inaccettabile.
È necessario che nel settore ambientale la pubblica amministrazione riprenda il suo ruolo propulsivo attraverso un'azione di governo mirata al conseguimento di obiettivi che, nel settore delle bonifiche, non possono che riguardare il ripristino ambientale e l'eliminazione delle fonti di contaminazione, a tutela dell'ambiente e della salute.
Non ha senso intervenire su questo o su quel sito (in modo più o meno discutibile) a seconda delle «emergenze giudiziarie» in corso.
All'esito dell'inchiesta della Commissione, il quadro risulta desolante non solo perché non sono state concluse le attività di bonifica, ma anche perché, in diversi casi, non è nota neanche la quantità e la qualità dell'inquinamento e questo non può che ritorcersi contro le popolazioni locali, sia dal punto di vista ambientale sia dal punto di vista economico.
Come già evidenziato, nel nostro territorio i siti di interesse nazionale sono 57, coprono una superficie corrispondente a circa il 3 per cento del territorio italiano e, sebbene il riconoscimento quali siti di interesse nazionale per taluni di essi sia avvenuto diversi anni fa (talvolta anche oltre dieci anni fa), i procedimenti finalizzati alla bonifica sono ben lontani dall'essere completati.
A fronte di questo evidente insuccesso del sistema, numerosi sono stati i soggetti, pubblici e privati, che hanno operato nel settore, numerose le consulenze conferite per questa o per quella analisi, gli affidamenti di servizi per le opere di progettazione, di caratterizzazione, innumerevoli le conferenze di servizi interlocutorie e decisorie che hanno scandito, per lo più senza costrutto pratico, le varie fasi delle bonifiche dei siti di interesse nazionale, in un sistema comunque connotato dalla frammentazione delle competenze, delle responsabilità e, in sintesi, dall'inefficienza.
A ciò deve aggiungersi che territori estesi, dei quali non è nota neppure l'entità e la dimensione dell'inquinamento, sono ricompresi all'interno di perimetrazioni dei siti di interesse nazionale effettuate diversi anni fa in funzione meramente cautelativa e, allo stato, né sono stati bonificati, né sono stati restituiti agli usi legittimi.
Ci si trova di fronte, quindi, ad ampi territori sostanzialmente «congelati», che non possono esprimere le loro potenzialità economiche, urbanistiche, agricole, commerciali, in quanto condizionati dalla presenza del sito di interesse nazionale.
Con riferimento alle bonifiche sono stati individuati alcuni aspetti particolarmente problematici.


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La perimetrazione.

Uno dei primi nodi da sciogliere riguarda proprio la fase di perimetrazione dei siti di interesse nazionale.
Dalla lettura delle norme concernenti i siti di interesse nazionale è agevole comprendere la finalità della perimetrazione secondo l'intenzione del legislatore.
La perimetrazione viene infatti effettuata dal Ministero dell'ambiente, sentiti comuni, province, regioni ed altri enti locali, e i territori vengono individuati sulla base di criteri generali fissati dall'articolo 252 decreto legislativo n. 152 del 2006, mentre non è richiesta un'approfondita istruttoria da parte degli enti locali che devono esprimere il loro parere, né da parte dello stesso Ministero.
La ragione va individuata nel fatto che la perimetrazione dovrebbe essere un atto cautelativo temporaneo, cui dovrebbero tempestivamente seguire le attività di caratterizzazione del sito secondo i criteri di legge, e quindi la ridefinizione del sito di interesse nazionale con successiva predisposizione, approvazione ed esecuzione del progetto di bonifica.
Tutto ciò, di fatto, non è mai accaduto e si è avuto modo di constatare come le perimetrazioni effettuate inizialmente in maniera piuttosto «elastica» abbiano riguardato aree molto estese, per le quali non vi erano e continuano a non esservi motivazioni chiare per l'inserimento nel sito di interesse nazionale.
In sostanza, le perimetrazioni, ad oggi, costituiscono quanto di più definitivo nel procedimento finalizzato alla bonifica.
Sul punto si è espresso chiaramente il ministro dell'ambiente, Corrado Clini, evidenziando che l'estensione dei siti (in termini di perimetrazione ufficiale degli stessi, così come definita ai sensi dell'articolo 252 del decreto legislativo n. 152 del 2006) è in generale superiore rispetto alle aree che effettivamente necessitano di interventi di bonifica.
Occorre, quindi, procedere con urgenza alla riperimetrazione delle aree effettivamente contaminate, in modo da escludere quelle che non necessitano di bonifica, con la possibilità che le stesse vengano restituite agli usi legittimi.
Si deve prendere atto, a questo proposito, della recente modifica dell'articolo 252 del decreto legislativo n. 152 del 2006, operata dall'articolo 36-bis della legge 7 agosto 2012, n. 134, che ha convertito con modifiche il decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, recante «Misure urgenti per la crescita del Paese».
Con questa norma sono stati individuati criteri più restrittivi rispetto a quelli già esistenti sulla base dei quali valutare se un sito possa essere incluso in un sito di interesse nazionale, quale (articolo 36-bis, comma 1) l'insistenza, attualmente o in passato, di attività di raffinerie, di impianti chimici integrati o di acciaierie. Sono in ogni caso individuati quali siti di interesse nazionale, ai fini della bonifica, i siti interessati da attività produttive ed estrattive di amianto.
Sono stati, poi, fissati (articolo 36-bis, comma 2) termini stringenti (120 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge) entro i quali il Ministero dell'ambiente, con decreto, deve effettuare, sentite le regioni interessate, la ricognizione dei siti attualmente classificati di interesse nazionale che non soddisfano i


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requisiti di cui all'articolo 252, comma 2, del testo unico ambientale, come modificato dal comma 1.
Il comma 3 della norma in esame prevede poi che «su richiesta della regione interessata, con decreto del ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentiti gli enti locali interessati, può essere ridefinito il perimetro dei siti di interesse nazionale, fermo restando che rimangono di competenza regionale le necessarie operazioni di verifica ed eventuale bonifica della porzione di siti che, all'esito di tale ridefinizione, esuli dal sito di interesse nazionale».
La questione di fondo, a parere della Commissione, rimane però non del tutto risolta a livello normativo per le seguenti considerazioni:
 la riperimetrazione deve, secondo quanto si legge nella norma, essere sollecitata dalla regione;
 non è chiaro se il parere espresso dagli enti locali debba essere preceduto da un'attività istruttoria di cui si conservi documentazione e, in caso positivo, quale sia il livello di approfondimento richiesto. Se non si chiarisce questo punto nevralgico potranno essere emessi pareri standardizzati, privi di motivazione, ovvero pareri sostanzialmente ignorati dal Ministero, in ogni caso privi di utilità ai fini di una consapevole e ragionata nuova perimetrazione dei siti di interesse nazionale;
 ai sensi del comma 4 dell'articolo 252 del testo unico ambientale, il Ministero dell'ambiente può avvalersi anche dell'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Apat), delle agenzie regionali per la protezione dell'ambiente delle regioni interessate e dell'Istituto superiore di sanità nonché di altri soggetti qualificati pubblici o privati. Occorre però comprendere, anche in questo caso, come si estrinsechi concretamente questa collaborazione, e come si intenda procedere alle riperimetrazioni senza ripetere gli errori del passato;
 non è noto come si intenda intervenire sulla fase successiva alle nuove perimetrazioni che, comunque, continueranno ad avere la medesima funzione cautelativa in attesa di più precise caratterizzazioni. Il problema, evidentemente, non è solo quello di effettuare le nuove e più adeguate perimetrazioni, ma anche e soprattutto quello di accelerare le procedure attualmente in corso e di renderle più efficienti.

Molti presidenti delle regioni interessate e i rappresentanti degli enti locali hanno auspicato la rimozione del vincolo del sito di interesse nazionale che crea, allo stato, solo disagi e nessuna utilità per l'ambiente, in quanto, di fatto, rallenta e blocca le bonifiche ed il successivo riutilizzo delle aree.
Anche il sindaco di Venezia si è espresso a questo proposito con riferimento al sito di interesse nazionale di Porto Marghera, affermando: «Dico senza timore di smentite che il sito di interesse nazionale ha, sostanzialmente, bloccato lo sviluppo di quell'area industriale perché ha creato una situazione di impasse molto forte determinando la necessità di una serie di passaggi per arrivare al riutilizzo di quelle aree assolutamente ingestibile in termini economici


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e imprenditoriali. Nella documentazione che vi abbiamo preparato vedrete che il procedimento per la bonifica a Porto Marghera comprende mi pare che la notizia sia corretta – circa una quarantina di passaggi burocratici, dei quali ciascuno prende circa due mesi e noi in media abbiamo cinque anni per arrivare all'autorizzazione alla bonifica di un'area. Questo ha messo in ginocchio l'area industriale di Marghera».
Il ridimensionamento delle aree ricomprese nei siti di interesse nazionale comporterà, ed è questo un dato certamente positivo, anche il ridimensionamento del numero di interlocutori privati coinvolti per ogni sito.
Basti pensare che per il sito di interesse nazionale della Laguna di Grado e Marano vi è un'area a terra riconducibile a circa 300 proprietari, e non si tratta di un caso isolato.
La nuova perimetrazione è stata oggetto di un decreto del ministro dell'ambiente del 12 dicembre 2012, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 2 del 3 gennaio 2013, che, prendendo atto della nuova proposta di perimetrazione trasmessa dalla regione Friuli Venezia Giulia e deliberata dalla conferenza di servizi del 31 ottobre 2012, di fatto limita l'ambito del sito di interesse nazionale agli impianti Caffaro (chimica di base), a una discarica che vi è collegata, al canale Banduzzi che consente il collegamento del polo chimico con la laguna e il mare.
Sino ad oggi sono state segnalate dagli operatori privati notevoli difficoltà nel sostenere i costi degli interventi di bonifica, costi che molto spesso superano il valore delle aree stesse, e che, in molti casi, devono essere sostenuti da soggetti che hanno acquistato i terreni quando già erano inquinati e che, quindi, non possono essere considerati, almeno in prima battuta, responsabili dell'inquinamento.
Circoscrivere adeguatamente i siti è, dunque, l'attività prioritaria per interventi più celeri, più mirati e, conseguentemente, più efficaci.
Il tutto deve, però, avvenire secondo criteri predeterminati, tenendo presente sempre che l'obiettivo è quello di tutela dell'ambiente e della salute, in modo che le popolazioni interessate possano essere tranquillizzate dall'intervento del Ministero che circoscrive i siti di interesse nazionale. Ed invero, la semplificazione delle procedure e la ridefinizione dei siti di interesse nazionale non possono, ovviamente, avere come prezzo un minore livello di salvaguardia degli interessi costituzionali oggetto di tutela. Si deve infatti rilevare che, all'atto della perimetrazione dei siti di interesse nazionale, si è correttamente tenuto conto anche di valutazioni basate sul principio di precauzione, come rilevato dal dottor Gianfranco Mascazzini nell'ambito dell'audizione dell'11 dicembre 2012, in riferimento all'inquinamento della laguna di Grado e Marano.

I progetti di bonifica e la loro valutazione.

Altri temi importanti sono quelli della adeguatezza del progetto di bonifica rispetto agli obiettivi prefissati nonché delle procedure per l'approvazione.
I costi della bonifica spesso sono molto elevati ed è di fatto impossibile per i soggetti responsabili, siano essi privati o pubblici,


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attuare gli interventi secondo le prescrizioni indicate nel progetto approvato.
Ovviamente non si può immaginare una bonifica parziale, che sarebbe inutile, né una bonifica superficiale e non risolutiva.
Un approccio realistico al problema imporrebbe di individuare per ogni sito quale sia l'obiettivo della bonifica in ragione del possibile uso che di quel sito verrà fatto.
A titolo meramente esemplificativo si richiama la vicenda attinente al sito di interesse nazionale di Bagnoli, in merito alla quale si è espresso il ministro Clini, nel corso di una delle audizioni innanzi alla Commissione: «Sostanzialmente, l'idea di farne un sito destinato a usi diversi da quelli industriali, che sarebbe auspicabile nel senso che la sua posizione è splendida e dunque la cosa migliore potrebbe essere questa, è un'idea che, però, si scontra con una situazione chimico-fisica del sito molto compromessa. L'ipotesi, quindi, assolutamente condivisibile dal punto di vista teorico, di avere l’America's Cup a Napoli con base a Bagnoli si è scontrata con questa realtà. La caratterizzazione dei suoli di Bagnoli ha messo, infatti, in evidenza che questi non erano adatti per consentire nel sito un'attività di quel genere, ancorché un'attività temporanea. Questo pone anche il problema degli obiettivi di riqualificazione di Bagnoli che, evidentemente, in termini di obiettivi di bonifica devono essere finalizzati a un riuso del sito compatibile con la situazione attuale e con un piano di riqualificazione ambientale progressivo che consenta di destinare alcune zone ad attività non industriali e che, invece, deve per forza vedere altre zone destinate ad attività industriali, portuali o comunque non compatibili, almeno per il momento, con l'uso che si vorrebbe fare di un'area per il tempo libero, per attività sportive o per la creazione di parchi naturali».
Ed allora, l'obiettivo della bonifica deve essere dimensionato opportunamente rispetto al prevedibile futuro utilizzo dell'area da bonificare tenendo presente la priorità rappresentata dalla tutela della salute dei cittadini e dell'ambiente.
In questo senso non è concepibile l'elaborazione di progetti di bonifica che, Sin dall'inizio, si sa già che non potranno mai essere attuati perché troppo onerosi sia per il privato che per il pubblico.
L'elaborazione di progetti di bonifica di tal fatta comporta inevitabilmente l'avvio di impugnazioni e ricorsi amministrativi che non fanno altro che rallentare ulteriormente procedure già lente.
L'ipertrofica interlocuzione tra amministrazione e privati, con appesantimento delle procedure, la mancanza di trasparenza che ne deriva e il rinvio sistematico delle decisioni per anni ed anni, infatti, contraddistinguono la fase relativa alla presentazione e approvazione del progetto di bonifica, come è stato riscontrato nei siti oggetto di specifici approfondimenti.
Un sistema così congegnato nel quale vi è un «rimpallo» tra l'amministrazione, che chiede continui aggiornamenti e/o modifiche, e il privato, che si adegua parzialmente sottoponendo all'amministrazione ulteriori modifiche, determina nei fatti tre effetti, tutti aberranti:
 gli organi della pubblica amministrazione mantengono l'esercizio di un potere nei confronti delle imprese che continuano a dipendere dalle loro valutazioni;

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 le imprese, a loro volta, hanno l'alibi per non avviare mai gli interventi, in quanto l'amministrazione non decide;
 tutte le categorie professionali coinvolte nel sistema continuano a beneficiare delle parcelle per il lavoro di consulenza tecnica o giuridica prestato nell'ambito della procedura, spesso a carico dello Stato e, quindi, della collettività.

È evidente che questo «gioco» ha un costo per la collettività altissimo sia in termini economici, per il danaro inutilmente investito, sia in termini di sviluppo, perché le aree non possono essere restituite agli usi legittimi, sia in termini di tutela ambientale, perché le bonifiche non vengono effettuate.
In sostanza, la fase progettuale deve essere funzionale alla concreta attuazione della bonifica, il che significa:
 avere ben chiaro quale sia la destinazione ultima delle aree;
 dimensionare la bonifica in relazione a tale imprescindibile dato;
 effettuare elaborati progettuali realistici, che non vivano solo nel mondo delle idee, ma che possano tradursi in realtà, ben mirati rispetto all'obiettivo e economicamente sostenibili.

Gli illeciti nel settore delle bonifiche.

In base ai dati acquisiti nel corso dell'inchiesta esiste un vero e proprio business delle bonifiche dei siti contaminati, intorno ai quali ruotano molteplici soggetti, pubblici e privati, diversi enti, diverse figure professionali.
In molti casi sono state spese ingenti somme per attività di caratterizzazione, di progettazione, di verifica senza che siano stati poi effettuati concreti passi avanti nell'attività di bonifica.
E ciò è accaduto tanto nelle regioni con elevato tasso di incidenza della criminalità organizzata, quanto in quelle in cui tale fenomeno è meno evidente.
Il che consente di formulare una prima riflessione: le bonifiche dei siti contaminati e, ancor di più, dei siti di interesse nazionale, proprio perché inserite nell'ambito di procedure poco trasparenti per ragioni evidenziate nel corso della relazione consentono a diversi soggetti di lucrare indebitamente senza che venga effettuato alcunché per la tutela dell'ambiente e della salute.
Tale situazione di illiceità, o comunque di illegalità diffusa, e di sperpero del denaro pubblico, è resa possibile da una normativa in diversi modi eludibile, dalla mancanza di adeguati controlli, da situazioni di parziale sovrapposizione tra «controllati» e «controllanti» nell'ambito dei procedimenti, con tutte le evidenti ripercussioni negative in termini di efficacia e garanzia delle attività poste in essere.
Il business, inteso come affare che rientra in una logica di profitti illeciti piuttosto che di salvaguardia ambientale, si amplifica allorquando si deroga alle regole ordinarie attraverso la dichiarazione


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dello stato di emergenza, la creazione di strutture commissariali e l'affidamento diretto di una serie di attività tanto dispendiose quanto inutili.
Le indagini giudiziarie avviate riguardano diversi aspetti che vanno dalla gestione e smaltimento dei rifiuti prodotti dall'attività di bonifica, alle modalità attraverso cui si procede alla caratterizzazione dei siti, al conseguimento di finanziamenti connessi a situazioni di inquinamento, vero o presunto, sicché i reati per i quali si procede, pur riconducibili ad una matrice comune, di fatto sono eterogenei.
L'argomento è particolarmente delicato in quanto rappresenta, per così dire, un passaggio obbligato al fine di comprendere quali siano i meccanismi attraverso cui è possibile infiltrarsi in questo settore e, si badi bene, le infiltrazioni cui si fa riferimento non sono solo quelle riconducibili alle organizzazioni criminali che operano nel settore dei rifiuti, spesso connotate dal carattere della mafiosità, ma sono infiltrazioni da parte di una criminalità che si muove all'interno di quelle stesse strutture che dovrebbero garantire la legittimità delle procedure.
Il ministro dell'ambiente Corrado Clini ha precisato, con riferimento ai possibili illeciti connessi alle attività di bonifica dei siti contaminati, nel corso dell'audizione del 1o febbraio 2012, che, al fine di limitare gli episodi di illegalità, occorre perseguire obiettivi di semplificazione e trasparenza.
È evidente come la farraginosità delle procedure, la moltiplicazione delle competenze, la sovrapposizione di ruoli faciliti la possibilità di sfuggire ai controlli e di operare nell'illecito.
Sembra quasi che il tutto sia finalizzato ad addensare quella fitta nebbia procedimentale prodromica alla consumazione di illeciti.
Il ministro, nel corso dell'audizione citata, ha dato atto dei pericoli che si insidiano negli iter amministrativi complessi, e, con la sua consueta chiarezza e fermezza, si è espresso affermando: «Prima di tutto, è assolutamente chiaro che i siti di interesse nazionale (Sin) oggetto di procedura di bonifica sono anche molto spesso oggetto di indagine della magistratura, indagini di diverso tipo, che a volte riguardano le cause della contaminazione ambientale, a volte entrano nel merito della gestione dei siti. È altrettanto evidente che il ministero mette a disposizione della magistratura tutte le informazioni che ha, attraverso la collaborazione del Nucleo operativo ecologico dei carabinieri partecipa contestualmente ai programmi di bonifica e anche alle valutazioni che riguardano problematiche che hanno a che vedere con le responsabilità penali in materia sia di contaminazione sia di gestione illegale. Non abbiamo, però, ruolo inquirente, per cui, sostanzialmente, siamo di supporto e questo è lo stile che sto continuando ad avere, avendo ben chiaro – vorrei evitare di essere frainteso – che alcune delle procedure che si sono consolidate nel corso degli anni e alcuni degli obiettivi che sono legati ai programmi di bonifica potrebbero essere fonte di vantaggio per la malavita organizzata. Procedure troppo complesse, quantità spropositate di materiale da movimentare possono anche non intenzionalmente essere una sponda per attività illecite».
Un importante obiettivo che il Ministero deve perseguire è quello della semplificazione.

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In questo senso, il ministro Clini ha precisato: «Questo, per quello che ci riguarda, impatta su due aspetti. Il primo è quello della semplificazione. (....) Voi sapete che le procedure per l'approvazione di un piano di bonifica teoricamente prevedono che la conferenza di servizi si convochi una volta e poi una seconda per chiudere la procedura: ci sono conferenze di servizi che sono aperte da anni con molte interlocutorie e questo non fa bene all'ambiente e neanche alla legalità perché si crea un contesto nel quale i margini diventano troppo ampi. Uno dei punti che vogliamo chiarire nell'accordo di programma con la regione Veneto e il comune di Venezia è assolutamente questo: la procedura deve essere trasparente e, se possibile, secca. Il piano di bonifica viene presentato dall'impresa e, se non è adeguato, si dice che non lo è. Non può accadere che l'impresa presenti un piano sapendo che non è adeguato e intanto, dall'altra parte, gli dicono che forse sono necessarie delle modifiche, l'impresa riporta il piano, si segnalano altre modifiche e così si va avanti per anni, non mesi. Credo, quindi, che ci sia un nesso molto forte tra la semplificazione e il recupero di legalità. La semplificazione provoca trasparenza. Certo, questo toglie di mezzo una serie di situazioni intermedie, probabilmente fa diminuire il valore delle parcelle degli avvocati o di quelle delle società di consulenza che aggiornano le loro valutazioni, ma elimina anche un'ambiguità oggi molto forte. C’è, infatti, da un lato, l'amministrazione, che ha sempre o quasi sempre bisogno di aggiornamenti sulle informazioni, ciò che in qualche modo consolida un ruolo dell'amministrazione – più ci sono cose da chiedere, più il funzionario pubblico ha un potere – dall'altro, elimina anche una certa tendenza delle imprese, che in questo modo la tirano molto a lungo e perciò non assumono impegni. Ora, il tentativo è quello di chiudere questo gioco, di riportare la conferenza di servizi a quello che è. Non c’è, dunque, da modificare la 152, ma da applicarla, senza margini di discrezionalità, che, invece, sono troppi».
Occorre ricordare che il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, nel corso dell'audizione del 17 giugno 2009, è stato uno dei primi auditi dalla Commissione che ha evidenziato la stretta connessione tra l'illegalità diffusa nella gestione dei rifiuti e il problema delle bonifiche e del ripristino ambientale.
Più in generale, dalle audizioni di tutti i magistrati sentiti anche nel corso delle ulteriori inchieste svolte dalla Commissione è emersa una grave inadeguatezza della normativa ambientale in sede penale (in verità anche in sede civile ed amministrativa).
Le norme penali, nel ricondurre determinate fattispecie ad ipotesi di reato, sono frutto di una specifica scelta legislativa finalizzata, attraverso la minaccia di una sanzione penale, a dissuadere i consociati dal tenere le condotte previste nelle norme incriminatrici.
Ebbene, la funzione generalpreventiva e specialpreventiva della pena risulta frustrata allorquando le sanzioni sono eccessivamente blande, quando è garantita l'impunità attraverso il decorso dei termini di prescrizione (la maggior parte dei reati ha natura contravvenzionale), quando i reati ambientali sono definibili attraverso la procedura dell'oblazione.

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L'unico reato previsto specificamente in tema di bonifiche è quello di cui all'articolo 257 del decreto legislativo n. 152 del 2006, in forza del quale:
«1. Chiunque cagiona l'inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali o delle acque sotterranee con il superamento delle concentrazioni soglia di rischio è punito con la pena dell'arresto da sei mesi a un anno o con l'ammenda da 2.600 euro a 26.000 euro, se non provvede alla bonifica in conformità al progetto approvato dall'autorità competente nell'ambito del procedimento di cui agli articoli 242 e seguenti. In caso di mancata effettuazione della comunicazione di cui all'articolo 242, il trasgressore è punito con la pena dell'arresto da tre mesi a un anno o con l'ammenda da 1.000 euro a 26.000 euro.
2. Si applica la pena dell'arresto da un anno a due anni e la pena dell'ammenda da 5.200 euro a 52.000 euro se l'inquinamento è provocato da sostanze pericolose».

Si tratta di una fattispecie criminosa omissiva, che si consuma solo nel momento in cui vi sia stato un superamento delle concentrazioni soglia di rischio e il responsabile dell'inquinamento non abbia provveduto alla bonifica in conformità del progetto approvato dall'autorità competente.
È del tutto evidente, anche alla luce di quanto rappresentato fino ad ora in merito alle lentezze procedimentali, come si tratti di un reato difficilmente configurabile nei fatti, presupponendo:
 l'individuazione del soggetto responsabile dell'inquinamento;
 l'effettuazione delle attività di caratterizzazione del sito;
 il superamento delle concentrazioni soglia di rischio;
 la predisposizione di un progetto di bonifica;
 l'approvazione del progetto;
 l'omessa attuazione della bonifica da parte del responsabile dell'inquinamento.

Su questo aspetto si è espresso anche il procuratore della Repubblica di Venezia, dottor Luigi Delpino, il quale ha evidenziato:
«Con riguardo al reato di cui all'articolo 257 del decreto legislativo n. 152 del 2006, il testo letterale dell'articolo che appare punire solamente chi non bonifica avendo cagionato l'inquinamento con il superamento delle concentrazioni soglia di rischio appare rendere rarissima la configurazione di detto reato. Infatti, l'accertamento dell'avvenuto superamento delle concentrazioni soglia di rischio presuppone che il procedimento di bonifica sia già pervenuto ad una fase amministrativa alquanto avanzata, laddove sovente non viene neppure compiuta la caratterizzazione, e gli enti pubblici, a causa delle scarse risorse finanziarie di cui dispongono, non riescono a sostituirsi alla parte inadempiente».
Ed allora, non appare che la norma in esame possa avere alcuna efficacia preventiva, in quanto la consumazione del reato, per come


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è strutturata la fattispecie e per come si manifesta nella realtà la procedura di bonifica, è quasi impossibile.
Prova ne è il fatto che nessuno tra i magistrati auditi dalla Commissione ha segnalato particolari indagini avviate con riferimento alla predetta fattispecie di reato.
D'altro canto, le vicende concrete si articolano sempre in modo complesso, risultando plurioffensive e spesso riconducibili a diverse fattispecie di reato.
Ed, infatti, i reati che vengono consumati nell'ambito dei procedimenti di bonifica sono i più disparati, dai reati contemplati nel testo unico ambientale, ai reati contro la pubblica amministrazione, ai reati a base fraudolenta (per esempio, nell'indagine della procura di Udine sono stati contestati i reati di peculato e truffa ai danni dello Stato).
Un dato che pare importante sottolineare è che le modalità attraverso cui vengono consumati i reati in materia ambientale e in materia di rifiuti (atteso che anche le attività di bonifica producono rifiuti) si basano essenzialmente sul rispetto apparente delle regole, nel senso che la documentazione attinente alla movimentazione dei rifiuti appare regolare, anche se nella sostanza le norme vengono violate.
Si giunge così al paradosso per cui, nell'attività di bonifica di un'area, si spostano gli inquinanti da un sito ad un altro, con la conseguenza che, se all'inizio era inquinata una determinata area, dopo la «bonifica» i terreni inquinati risultano ancora più estesi.
Le situazioni illecite che più di frequente si riscontrano e si sono riscontrate sono risultate correlate:
a) alla mancata effettuazione di analisi sui rifiuti, o all'effettuazione di analisi incomplete;
b) all'avvio a discariche e impianti operanti in regime semplificato di rifiuti che ivi non possono essere conferiti;
c) all'esecuzione, da parte di impianti operanti in regime semplificato, di operazioni insuscettibili di essere svolte da impianti di quel tipo;
d) all'omessa effettuazione da parte di impianti operanti in regime semplificato delle operazioni di effettivo recupero dei rifiuti e trasformazione in materie prime;
e) all'esecuzione di operazioni di «giro bolla», tese unicamente a immutare fraudolentemente il codice Cer dei rifiuti (in carenza di operazioni di effettivo trattamento), per conferirli a impianti che non potrebbero riceverli laddove i rifiuti fossero correttamente catalogati;
f) all'esecuzione di operazioni di «giro bolla», tese a conferire ai rifiuti apparenza di materia prima, per sottrarli alla normativa che disciplina i rifiuti;
g) all'esecuzione di operazioni volte a rendere difficoltosa o impossibile la tracciabilità dei rifiuti, mediante il loro transito attraverso plurimi impianti di trattamento, sempre per conferirli a impianti che non potrebbero riceverli se i rifiuti fossero correttamente catalogati e ne fosse puntualmente specificata l'origine;

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h) all'abusivo conferimento di natura di «materia prima secondaria» a materiali derivati da operazioni di recupero dei rifiuti parziali e incomplete;
i) all'esecuzione di operazioni di deposito incontrollato di rifiuti (in carenza dei presidi ambientali idonei a evitare fenomeni di inquinamento dell'ambiente);
l) all'allestimento di discariche abusive;
m) all'utilizzo alla stregua di materie prime secondarie di materiali provenienti da impianti di recupero rifiuti, contaminati dalla presenza di amianto;
n) alla spedizione all'estero di materiali qualificati fraudolentemente come materie prime secondarie.

Con riferimento alle infiltrazioni della criminalità organizzata di stampo mafioso, è importante sottolineare come la stessa abbia la possibilità di condizionare le attività di bonifica in diversi modi.
Da un lato, la criminalità organizzata di stampo mafioso ha la possibilità di inserirsi nel settore attraverso le modalità che le sono proprie, condizionando le procedure di affidamento degli appalti, inserendosi in maniera subdola nei subappalti, imponendo manodopera e esercitando attività estorsive nei confronti degli imprenditori.
Dall'altro, sfrutta quella che è la sua peculiarità, ossia un controllo radicato del territorio, del quale dispone come se fosse proprio (la Campania ne è un esempio evidente).
Anche le bonifiche dei siti contaminati sono state in qualche modo risucchiate dalle organizzazioni criminali che, ancora una volta, hanno messo a disposizione il territorio per la ricezione di rifiuti pericolosi e tossici provenienti dalle attività di bonifica.
Il caso dell'Acna di Cengio è emblematico: indagini giudiziarie hanno accertato che i rifiuti e il materiale provenienti dall'attività di bonifica del sito di interesse nazionale di Cengio sono stati interrati in un'area ricompresa nel territorio di Giugliano, già ampiamente e forse irrimediabilmente compromesso da un punto di vista ambientale.
Il sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Napoli, dottor Alessandro Milita, nel corso dell'audizione che la Commissione ha effettuato in occasione dell'ultima missione svolta a Napoli (in data 10 ottobre 2012) ha fornito informazioni in merito alla vicenda sopra esposta, affermando: «(...) volevo rapidamente rappresentare un altro dato sintomatico in tema di bonifica. In questo caso il problema delle bonifiche è marcato, perché in questa discarica sono state smaltite 30.700 tonnellate di rifiuti provenienti dalla bonifica dell'Acna di Cengio, che si è attuata traslando il danno ambientale da Cengio a Giugliano, attraverso tutta una serie di condotte artificiose, modulando e modificando i vecchi Fir per evitare lo svelamento della reale sostanza smaltita all'interno della Resit. Questo dato fa comprendere come la bonifica debba essere ben attuata, ma per esserlo abbia bisogno di fondi, perché l'unico limite reale è il fondo, al di là della società che dovrebbe eseguire la bonifica e che si spera sia la migliore possibile. Nel momento in cui si scelgono bonifiche a basso costo, è plausibile che la bonifica verrà compiuta con modalità tali da spostare il problema nel futuro e nel tempo che verrà».


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Altre problematiche sulle quali si è incentrata l'attenzione della Commissione in materia di bonifiche hanno riguardato la normativa vigente in materia di risarcimento del danno ambientale, rivelatasi totalmente inefficace.
Gli avvocati dello Stato interpellati sul punto hanno focalizzato quelle che sono le problematiche più rilevanti, che determinano una sostanziale impunità civile, nel nostro sistema, del responsabile del danno ambientale.
Nella maggior parte dei casi, le cause risarcitorie che lo Stato avvia sono istruite «al traino» di vicende penali, ma anche in sede penale vi sono molte problematiche connesse alla mancata previsione specifica del reato di disastro ambientale, alla pendenza di procedimenti che si concludono con l'estinzione del reato per maturata prescrizione, alla diversa sensibilità dimostrata dai diversi uffici giudiziari rispetto alle problematiche ambientali.
E però, anche l'esercizio dell'azione in sede civile risulta poco produttivo.
Le ragioni possono sintetizzarsi nei seguenti punti:
 la difficoltà della parte attrice di dimostrare, senza disporre di strumenti investigativi, il fatto, la sua antigiuridicità e la colpevolezza;
 la mancanza di criteri univoci per la quantificazione del danno ambientale, il che rappresenta un grosso vulnus nella normativa, non potendo essere utilizzati criteri di valutazione generici e dovendo la quantificazione del risarcimento corrispondere effettivamente all'entità del danno arrecato;
 la difficoltà estrema nell'individuazione del responsabile dell'inquinamento ai fini dell'esercizio dell'azione civile, nel caso in cui l'inquinamento sia «diffuso», problema che peraltro riguarda anche il settore penale («Questo è, per esempio, il paradosso di Marghera, il sito più inquinato d'Italia, in cui il danno ambientale è stato calcolato nell'ordine di 70 mila miliardi delle vecchie lire, che ha visto tutti assolti nel processo petrolchimico. Di certo, i giudici che hanno assolto gli imputati non sono banditi. Questa è la situazione generale. Se le caratteristiche dell'inquinamento sono talmente estese e stratificate nel tempo, diventa impossibile trovare un meccanismo che consenta di attribuire a Tizio piuttosto che a Caio la responsabilità di questo piuttosto che di quell'inquinante. Ne consegue che sono tutti assolti; non c’è nessuna condanna e lo Stato dovrebbe farsi carico di una bonifica da 70 mila miliardi di lire» cfr. le dichiarazioni dell'avvocato Schiesaro nel corso dell'audizione del 20 ottobre 2011);
 nei rari casi in cui si ottiene un titolo esecutivo non lo si può azionare positivamente perché i soggetti nei confronti dei quali esercitarlo o sono falliti o, comunque, non sono intestatari di nulla, quindi la sentenza resta sulla carta.
In alcuni casi, è stata esercitata l'azione civile nei confronti del proprietario dell'area, responsabile ai sensi dell'articolo 2051 del del codice civile, per non avere voluto o saputo adottare misure cautelari atte ad impedire la dispersione ulteriore degli elementi inquinanti e la contaminazione di beni pubblici come la falda, di talché l'onere probatorio a carico della parte attrice è certamente più semplice e il

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convenuto viene individuato nel proprietario dell'area, senza doversi risalire all'autore dell'inquinamento, in quanto viene fatta valere un altro tipo di responsabilità.
Le strade che si sono rivelate, in genere, più utili e proficue sembra che siano quelle extragiudiziarie: gli accordi di programma e le soluzioni transattive, che, ovviamente, devono essere ben ponderate e basate su valutazioni del danno ambientale congrue e motivate.
Inefficace si è rivelata la previsione dell'ordinanza-ingiunzione amministrativa prevista dal testo unico ambientale, in forza della quale si sarebbe dovuto attuare concretamente il principio «chi inquina paga».
Il vizio di fondo, ha dichiarato l'avvocato Schiesaro, è rappresentato dal fatto che, essendo le condotte illecite che legittimano l'emissione dell'ordinanza rilevanti anche penalmente, nella quasi totalità dei casi, tutti gli atti relativi all'accertamento di tali condotte sono coperti dal segreto istruttorio. Pertanto, le notizie sul soggetto responsabile, sulle modalità della condotta, sulle implicazioni ambientali, sulle caratteristiche tecniche, sulle cause e quant'altro sono tutte coperte dal segreto dell'indagine, che dura mediamente due anni (tenuto conto dei tempi ordinariamente necessari in uffici giudiziari spesso non ad organico pieno).
Il decreto legislativo n. 152 del 2006 prevede – per l'emanazione dell'ordinanza ingiunzione – un termine di decadenza di un anno e mezzo dal momento del fatto e, poiché il termine non è sospeso dalla pendenza del procedimento penale, risulta di fatto impossibile emettere le ordinanze ingiunzioni amministrative.
Basterebbe, da questo punto di vista, prevedere la sospensione dei termini fino alla chiusura delle indagini ed alla discovery degli atti.
Sotto altro profilo, non può non evidenziarsi come l'Italia, nonostante l'avvio di una procedura di infrazione da parte dell'Unione europea, non abbia ancora del tutto adeguato la normativa sul risarcimento del danno ambientale ai principi comunitari, contenuti nella direttiva 2004/35/CE.
Ed, infatti, pur essendo state introdotte alcune modifiche alla parte sesta del decreto legislativo n. 152 del 2006, sono rimasti irrisolti alcuni aspetti oggetto di contestazione da parte dell'Unione europea.
In particolare, nonostante la previsione, nel nuovo testo dell'articolo 311, comma 2, del Testo unico ambientale, dell'obbligo, per il responsabile del danno ambientale, di adottare misure di riparazione complementare e compensativa (in mancanza della possibilità di provvedere all'effettivo ripristino), si consente comunque che le misure di riparazione predette possano essere sostituite da risarcimenti per equivalente patrimoniale.
Inoltre, la normativa nazionale non ha attuato quelle forme di responsabilità oggettiva che sono, invece, previste dalla direttiva citata con riferimento ai danni o alle minacce di danno provocati da coloro che esercitano determinate attività pericolose o potenzialmente pericolose (elencate nell'allegato III della direttiva).
Infine, il nostro legislatore ha escluso l'applicazione della disciplina della responsabilità ambientale a quelle situazioni di inquinamento per le quali siano già state avviate le procedure di bonifica. Tale

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eccezione, non prevista dalla direttiva, ad avviso della Commissione europea, appare come un'indebita restrizione del campo di applicazione della disciplina sulla responsabilità ambientale.
Riguardo agli accordi di programma, occorre menzionare la recente introduzione della norma che incentiva tali accordi in determinati settori, prevista dall'articolo 57 della legge 4 aprile 2012, n. 35.
E infatti, come già evidenziato nel corpo della relazione, gli accordi di programma, laddove stipulati, hanno rappresentato un elemento determinante per dare maggiore impulso al procedimento:
«Articolo 57 – Disposizioni per le infrastrutture energetiche strategiche, la metanizzazione del mezzogiorno e in tema di bunkeraggio. – 1. Al fine di ridurre gli oneri sulle imprese e migliorarne la competitività economica sui mercati internazionali, la semplificazione degli adempimenti, anche di natura ambientale, di cui ai commi 3 e 4, nonché assicurare la coerenza dei vincoli e delle prescrizioni con gli standard comunitari, il Ministero dello sviluppo economico, d'intesa con il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, promuove accordi di programma con le amministrazioni competenti, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, per la realizzazione delle modifiche degli stabilimenti esistenti e per gli interventi di bonifica e ripristino nei siti in esercizio, necessari al mantenimento della competitività dell'attività produttiva degli stabilimenti di lavorazione e di stoccaggio di oli minerali strategici per l'approvvigionamento energetico del Paese e degli impianti industriali».
Con riferimento al sito di interesse nazionale di Porto Marghera è stato, di recente, approvato un accordo di programma, stante il ritardo degli interventi di bonifica rientranti nel sito di interesse nazionale.
L'accordo, sottoscritto il 16 aprile 2012 dal Ministero dell'ambiente, del Ministero delle infrastrutture (magistrato alle acque di Venezia), regione del Veneto, provincia di Venezia, comune di Venezia e autorità portuale di Venezia, ha durata di dieci anni e consta di dodici articoli, ed ha come obiettivo «l'accelerazione e semplificazione delle procedure di bonifica» per giungere al ripristino ambientale e allo sviluppo di attività produttive sostenibili, rilanciando l'occupazione.
L'accordo stabilisce anche la tempistica per l'avvio dei progetti di bonifica e per la conclusione dei procedimenti amministrativi di approvazione, prevedendo anche un finanziamento degli interventi.
Introduce, inoltre, alcune modifiche sostanziali alla normativa vigente:
 la non necessità di preventiva approvazione dei piani di caratterizzazione;
 la definizione di valori di riferimento per le aree agricole senza emanazione del decreto interministeriale di cui al decreto legislativo n. 152 del 2006;
 la previsione, con riferimento a taluni passaggi istruttori rilevanti, della procedura del silenzio-assenso;

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 l'indicazione di tempistiche stringenti per le risposte che deve dare la pubblica amministrazione.

L'accordo di programma per il sito di interesse nazionale di Porto Marghera è caratterizzato dagli stessi obiettivi che sono alla base dell'accordo di programma per il sito di interesse nazionale di Trieste, sottoscritto il 25 maggio 2012.
In genere, dai dati acquisiti presso il Ministero dell'ambiente si evince che gli accordi di programma sono spesso prodromici alle transazioni.
Il ministro Clini, in sede di audizione del 1o febbraio 2012, con particolare riferimento alla proposta di «transazione globale» presentata da Eni all'allora ministro Prestigiacomo, ai sensi dell'articolo 2 della legge n. 13 del 2009, ha confermato di aver «congelato» la proposta di transazione in modo da poter valutare in modo opportuno e obiettivo il valore della stessa ed evitare che le aree vengano abbandonate una volta avvenuta la stipula.
A tale proposito, il ministro ha anche segnalato la necessità di chiarire le modalità di utilizzo dei fondi derivanti dalle transazioni, in modo tale che questi possano essere destinati alla realizzazione degli interventi di bonifica.
A parere della Commissione, le transazioni hanno l'indubbio vantaggio di chiudere, per così dire, annose vicende tra pubblico e privati, caratterizzate da numerosissimi ricorsi al Tar e, più in generale, da azioni giudiziarie che limitano fortemente la possibilità di interventi, tenuto anche conto dei tempi particolarmente lunghi della giustizia per la definizione delle controversie.
Deve, però, tenersi conto dell'esistenza di un rischio inaccettabile in un settore così delicato, ossia il rischio di «svendere» il territorio pur di definire procedure complesse.
Quello che si vuole sottolineare è che è necessario che le transazioni avvengano sulla base di una quantificazione del danno ambientale aderente alla realtà e basata su criteri obiettivi e che l'accordo transattivo tenga conto, nel riconoscimento delle reciproche concessioni, dell'esistenza di limiti insuperabili, al di sotto dei quali la trattazione medesima finisce con il frustrare le esigenze di tutela dell'ambiente e della salute.

Il ruolo degli enti di controllo: Ispra, Istituto superiore di sanità (ISS), Arpa.

Alcune considerazioni critiche si impongono per quanto riguarda gli enti di controllo.
Uno dei principali elementi di distorsione è rappresentato, ad avviso della Commissione, dalle convenzioni con soggetti pubblici e privati che Ispra e Istituto superiore di sanità hanno in diversi casi stipulato, rischiando di compromettere così quel ruolo di terzietà e di imparzialità che dovrebbe connotare sia nella sostanza che nella forma l'attività dei predetti enti.
Altro elemento di distorsione riguarda la sovrapposizione di competenze.


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In proposito, il ministro Clini, nel corso dell'audizione del 30 ottobre 2012 davanti alla Commissione, ha espresso la necessità di una riorganizzazione della funzione di tutela dell'ambiente a livello nazionale. Il modello ritenuto razionale dal ministro prevede l'istituzione di un'agenzia per l'ambiente, cioè di un organo tecnico del ministero che operi come agenzia, dal momento che, allo stato attuale, il Ministero si trova ad operare con l'Ispra ossia con un istituto nel quale le funzioni di agenzia sono secondarie rispetto a quello della ricerca.
L'agenzia dell'ambiente nazionale avrebbe, secondo il ministro, anche l'effetto di creare uno standard di riferimento per le agenzie regionali.
Senza entrare nel merito circa l'opportunità di istituire un'agenzia dell'ambiente, si evidenziano, comunque, alcune anomalie ravvisate con riferimento alle attività svolte dagli enti suindicati.

Il ruolo dell'Istituto superiore di sanità.

Dall'analisi delle convenzioni stipulate dall'Istituto superiore di sanità ed analiticamente richiamate nella prima parte della relazione è possibile formulare una serie di considerazioni:
 1. l'Istituto superiore di sanità ha mantenuto e mantiene rapporti convenzionali con soggetti pubblici e privati responsabili, ai sensi della normativa vigente, dell'attuazione degli interventi di bonifica. Tali soggetti operano anche nei siti di interesse nazionale, aree nelle quali l'Istituto superiore di sanità ha funzione di controllore degli interventi in qualità di supporto tecnico del Ministero dell'ambiente;
 2. le attività oggetto di convenzione sono, in molti casi, di competenza istituzionale di altri enti (emblematico, in tal senso, è il caso della convenzione con Bagnoli Futura spa che ha come oggetto anche l'esecuzione di attività di validazione dei dati analitici che sono di competenza dell'Arpa e della provincia);
 3. in alcuni casi l'Istituto superiore di sanità ha operato come vero e proprio «progettista» degli interventi, elaborando l'analisi di rischio che, ai sensi della normativa vigente, è parte della progettazione di bonifica (ad esempio: convenzione con Bagnoli Futura e con l'autorità portuale di Piombino). Tali progetti vengono poi esaminati dal Ministero dell'ambiente con il supporto di Ispra e dello stesso Istituto superiore di sanità che si trova a esprimere un parere su progetti da esso stesso elaborati. Occorre, quindi, riflettere su quanto possa essere imparziale un parere espresso in tali condizioni;
 4. all'interno della «convenzione quadro» con il Ministero dell'ambiente del 19 dicembre 2008 (doc. 1218/11) sono previste attività che rientrano chiaramente nei compiti istituzionali e sono già oggetto di altre convenzioni a titolo oneroso stipulate dall'Istituto superiore di sanità. All'interno della rendicontazione del periodo 29 aprile – 29 giugno 2009 vengono citati, infatti, prodotti di altre convenzioni attive stipulate da Istituto superiore di sanità quali: l'istruttoria per le analisi di rischio sulle aree pubbliche di Bagnoli (per le quali, sulla base della convenzione con Bagnoli Futura, l'Istituto superiore di sanità ha elaborato l'analisi di rischio) e del


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litorale vesuviano (già oggetto della convenzione con il commissario delegato De Biase), l'analisi di rischio per le aree agricole interne al comune di Portoscuso (già oggetto di specifica convenzione tra Istituto superiore di sanità e il comune). E dunque l'Istituto superiore di sanità è stato remunerato (nella maggior parte dei casi con fondi pubblici) per le stesse prestazioni che erano già dovute istituzionalmente.

L'Istituto superiore di sanità, alla luce dei dati e delle considerazioni sopra esposte, rischia di incrinare e rendere poco credibile il delicato ruolo istituzionale che riveste.
È evidente come nessun parere possa essere emesso da chi ha contribuito ad elaborare quanto è oggetto del parere medesimo. Non può ritenersi alto il profilo istituzionale di chi esegue, sulla base di convenzioni ben remunerate, attività che rientrano nei propri compiti istituzionali, creando pericolose commistioni tra pubblico e privato, commistioni che minano alla base la credibilità dell'ente.

Il ruolo dell'Ispra.

L'Ispra svolge la propria attività in un duplice ambito.
Da un lato, vi sono le attività che compie in base ai propri compiti istituzionali e che si estrinsecano, nell'ambito delle procedure di bonifica, essenzialmente in attività di controllo e supporto tecnico al Ministero dell'ambiente; dall'altro, vi sono le attività che effettua con enti pubblici e soggetti privati in regime di convenzione e che si estrinsecano nel supporto tecnico a fini operativi.
Tali convenzioni, sia pure stipulate su autorizzazione e, talvolta, su richiesta del Ministero dell'ambiente, o in esecuzione di previsioni contenute in accordi di programma, pongono inevitabilmente problemi in merito a possibili sovrapposizioni di ruoli.
Infatti, l'Ispra ricopre un ruolo istituzionale di altissimo rilievo qual è quello del controllo sulle attività di bonifica.
La stipula di convenzioni con soggetti, pubblici o privati, può comportare che l'Ispra sia chiamata ad esprimere pareri o ad effettuare controlli proprio su quelle attività oggetto di convenzione.
Sarebbe, dunque, opportuno stabilire regole chiare in materia, che possano soddisfare una duplice esigenza: da un lato, quella di potere utilizzare appieno le risorse culturali e tecniche dell'istituto, dall'altro, quella di non pregiudicare o anche solo offuscare il ruolo di terzietà dell'Ispra nell'attività istituzionale di controllo.

Il ruolo delle agenzie regionali e provinciali per l'ambiente (Arpa/Appa).

Quanto alle agenzie regionali e provinciali per l'ambiente (Arpa/Appa), l'attività più rilevante ed onerosa che svolgono, in termini di risorse e mezzi, è senz'altro quella di «validazione» delle attività di caratterizzazione e bonifica al fine di consentire la certificazione degli interventi.


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Le attività di «validazione» e di «certificazione» degli interventi sono state oggetto di approfondimenti nel corso di diverse indagini giudiziarie, in quanto rappresentano il vero «nucleo» della sfera di competenza della pubblica amministrazione in tema di bonifiche.
Proprio per la delicatezza dei compiti affidati alle Arpa, sarebbe oltremodo importante dotare le stesse di strutture e mezzi adeguati per lo svolgimento dei loro compiti istituzionali.
Il tema relativo ai funzionari Arpa è stato affrontato in numerose inchieste svolte dalla Commissione e i magistrati auditi hanno fatto riferimento alle difficoltà che esistono nel caso in cui i funzionari Arpa non rivestano la qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria. In quest'ultimo caso, infatti, il rapporto tra autorità giudiziaria e funzionari Arpa si è rivelato scarsamente utile.
Senza entrare nel merito circa l'opportunità o meno che i funzionari Arpa siano anche ufficiali di polizia giudiziaria, ciò che si vuole evidenziare è che le relazioni inviate all'autorità giudiziaria, affinché siano proficue, debbano essere elaborate in modo da consentire una valutazione adeguata da parte dell'autorità giudiziaria dei fatti accertati.
Quanto, poi, alle attività svolte nel campo amministrativo, lo stesso ministro Clini ha indicato quale possibile strada quella di rafforzare ulteriormente i compiti dell'Arpa, ma questo obiettivo incontra quale ostacolo il diverso livello professionale che si è avuto modo di constatare nelle Arpa da una regione all'altra.
In sostanza, il ministro ha giustamente sottolineato come non si possa prescindere, nella gestione delle bonifiche, da personale qualificato all'interno di tutte le Arpa.

Il ruolo delle società in house: Invitalia (ex Sviluppo Italia) e Sogesid.

Sul ruolo delle società in house si è espresso in termini molto chiari il ministro Clini, nelle due audizioni avanti alla Commissione del 1o febbraio e del 30 ottobre 2012. In data 1o febbraio ha dichiarato:
 «Mi è stata rivolta una domanda su Sogesid: è una società in house del ministero, ma non è il ministero. La linea che sto seguendo è esattamente questa, una direttiva, che comunque va fatta, a Sogesid, nella quale sono identificate le attività che può svolgere a supporto del ministero, ma nello stesso tempo questo non può assolutamente depauperare e depotenziare il ministero. Questo deve essere molto chiaro e, infatti, lo sforzo che stiamo cercando di fare, anche in merito alla struttura del ministero, è quello di rafforzarlo. A questo proposito, sarà importante il ruolo di supporto di Ispra, che è un istituto pubblico e che deve essere valorizzato a supporto dell'amministrazione superando un certo equivoco che si è creato forse per il contratto. Io sono molto contento che i tecnici di Ispra siano considerati nel contratto della ricerca. È sicuro, infatti, che abbiamo anche bisogno di ricerca, ma abbiamo bisogno di un'agenzia nazionale che dia il passo, che dia input alle agenzie, perciò una struttura fortemente correlata all'amministrazione. Questa situazione, invece, non è ancora chiara e in questa


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direzione va il nostro impegno. Sogesid deve fare quello che fa una società in house, non certamente sostituire il ministero, non soltanto formalmente, ma anche nella sostanza.».

Le parole del ministro depongono per un ridimensionamento delle società in house, il cui ruolo non può, in nessun caso, avere una natura sostitutiva rispetto a quelle che sono le competenze del Ministero.
In occasione della seconda audizione il ministro si è espresso in termini ancora più netti: la Sogesid, ha affermato, ha ricevuto importanti incarichi da amministrazioni pubbliche, soprattutto dai commissari, riguardanti la progettazione e a volte la realizzazione degli interventi. La possibilità di liquidare Sogesid passa necessariamente attraverso l'attenta verifica delle attività in corso e della conclusione delle medesime da parte della società.
Evidentemente, il ministro ritiene necessario un ridimensionamento del ruolo delle società in house. Nel corso dell'audizione ha, infatti, anche sottolineato che Sogesid è una società sganciata dalle regole del mercato in quanto, proprio per la sua natura di società in house può ottenere direttamente l'affidamento dei servizi. La circostanza che la società non si sia mai misurata in una competizione di libero mercato certamente rappresenta una minore garanzia di efficienza e di adeguatezza delle strutture rispetto ai servizi richiesti.
La Commissione, anche alla luce della documentazione acquisita, e dei non sempre soddisfacenti servizi resi dalla società nel settore delle bonifiche effettivamente ritiene doveroso che sia ridimensionato il ruolo delle società in house affinché il Ministero e gli altri enti di supporto riprendano appieno le loro competenze ed affidino eventualmente specifiche attività a soggetti individuati sulla base di gare pubbliche o, comunque, sulla base di valutazioni comparative.
Le medesime considerazioni valgono per la società Invitalia, di cui si è trattato nel corpo della relazione.

Le ulteriori problematiche rilevate dalla Commissione.

Le ulteriori problematiche emerse in relazione alla gestione dei siti contaminati sono:
 gestione dei materiali provenienti da attività di bonifica: la gestione di suoli provenienti da siti contaminati e, più in generale, delle terre e rocce da scavo costituisce un grave problema per gli operatori di settore e per gli enti di controllo. Se da una parte, a fronte di un quadro normativo frammentario, in continua evoluzione e non sempre chiaro, gli operatori di settore reclamano una minore burocrazia al fine di accelerare i procedimenti amministrativi, dall'altra, gli enti di controllo devono garantire una tracciabilità dei rifiuti provenienti dai siti contaminati al fine di evitare fenomeni di illegale smaltimento o di miscelazione con altri flussi di rifiuti.
Occorre, inoltre, evidenziare il problema della classificazione della pericolosità dei rifiuti (ad esempio in relazione al contenuto di idrocarburi o alle caratteristiche di ecotossicità). In assenza di chiare


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indicazioni nella normativa europea, numerosi enti tecnici (Istituto superiore di sanità, Ispra, Arpa) nonché la giurisprudenza amministrativa si sono espressi sul punto, giungendo a conclusioni spesso non coincidenti, con conseguenze giudiziarie pesanti per gli operatori, sia in sede civile che penale.
Nonostante gli interventi normativi, permane, quindi, una disomogeneità di gestione di tali materiali sul territorio nazionale. Anche le indagini giudiziarie per l'accertamento di eventuali illeciti connessi all'attribuzione delle caratteristiche di pericolosità dei rifiuti (si veda il caso del sito di interesse nazionale di Pioltello Rodano) testimoniano l'incertezza in materia, in quanto le interpretazioni normative risultano diversificate;
 costi delle bonifiche: ad oggi non esiste un riferimento nazionale per i costi relativi alle attività di bonifica. Comunemente i soggetti obbligati per la definizione di tali costi fanno riferimento ai prezzari regionali che però non comprendono gran parte delle tipologie di trattamento che possono essere utilizzate per la bonifica di suolo, acque, sedimenti. Ne deriva un quadro disomogeneo a livello nazionale (la stessa tipologia di bonifica applicata ai medesimi contaminanti può costare anche cento volte di più in una regione rispetto ad un'altra). Come evidenziato anche nel rapporto sulle bonifiche di Confindustria (luglio 2009), i costi delle bonifiche sono oggettivamente alti, anche a causa della ridotta capacità impiantistica di trattamento dei terreni sul territorio nazionale (una quantità ingente di terreni contaminati viene inviata in Germania con costi molto elevati) anche se l'introduzione del decreto legislativo n. 152 del 2006, che estende l'utilizzo dell'analisi di rischio a tutti i terreni contaminati, ha in alcuni casi abbassato tali costi. L'assenza di un quadro di riferimento oggettivo per la determinazione dei costi di bonifica rende obiettivamente più semplice la consumazione di illeciti nell'affidamento e nella gestione degli appalti, in assenza di elementi di riferimento certi;
 contenziosi amministrativi tra enti di controllo (Ministero dell'ambiente, Arpa, regioni, comuni) e soggetti obbligati: i contenziosi amministrativi tra enti di controllo centrali e locali e soggetti obbligati alla bonifica (con particolare riferimento ai soggetti imprenditoriali) sono ancora numerosi, anche se nell'ultimo anno si è avvertito un decremento apprezzabile degli stessi. Le motivazioni principali sono riconducibili, secondo Confindustria, a:
soluzioni tecniche individuate dagli enti di controllo, spesso (soprattutto in passato) ritenute – anche dalla giurisprudenza- carenti di motivazioni solide ed argomentate;
riutilizzo dei suoli puliti in presenza di contaminazione della falda difficilmente attuabile (la quasi totalità dei siti di interesse nazionale presenta contaminazione diffusa della falda);

Tali contenziosi portano in alcuni casi alla sospensione dei procedimenti amministrativi con evidente rallentamento delle attività di bonifica, permanenza di potenziali rischi sanitario-ambientali e, di conseguenza, blocco di qualsiasi ipotesi di riutilizzo produttivo delle aree, ivi compresi potenziali interventi di miglioramento ambientale degli impianti.


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Si osserva, per completezza di informazione, che, proprio allo scopo di consentire il riutilizzo delle aree oggetto di bonifica a fini produttivi, il Ministero dell'ambiente ha stabilito, compatibilmente con la normativa vigente, dei criteri tecnico-amministrativi. Il riutilizzo delle aree è consentito previa presentazione del progetto di bonifica dei suoli e/o delle acque, ove necessario, e attestazione dell'assenza di rischi significativi per i lavoratori dell'area in relazione agli inquinanti presenti nelle matrici ambientali. In questo senso è ovvio come, in assenza di idonea documentazione tecnica presentata al Ministero dell'ambiente, il riutilizzo non possa essere concesso;
gestione dei sedimenti contaminati: secondo quanto riportato da Confindustria (Confindustria 2009), una delle principali voci di spesa nell'ambito dei procedimenti di bonifica è quella relativa al dragaggio e al trattamento dei sedimenti (di acque marine e/o interne) contaminati. La normativa vigente in tema di bonifica dei siti contaminati (decreto legislativo n. 152 del 2006, parte IV, Titolo V) non riporta dei limiti di riferimento per le concentrazioni dei contaminanti nei sedimenti. Pertanto, è necessario fare ricorso, in conformità con quanto disposto dalla disciplina sulla tutela delle acque, a criteri specifici che vengono stabiliti per i sedimenti marini dei siti di interesse nazionale da Ispra. Per le acque interne la definizione di valori di riferimento è ancora oggetto di approfondimenti tecnici.

Confindustria, nel rapporto sulle bonifiche recentemente pubblicato (2009), ha evidenziato che il dragaggio e il conferimento in discarica di sedimenti marini, fluviali e/o lacustri rappresenta per le imprese associate una delle principali problematiche in relazione ai costi elevatissimi associati a tale operazione (centinaia di milioni se non miliardi di euro) e, pertanto, ha contestato l'imposizione di tale scelta nell'ambito dei procedimenti di bonifica e/o danno ambientale.

1.3. La relazione sul decesso del capitano di fregata Natale De Grazia (approvata in data 5 febbraio 2013) (Doc XXIII n. 18).

Il capitano di fregata Natale De Grazia era un ufficiale della Marina militare, in servizio presso la Capitaneria di porto di Reggio Calabria.
Al momento della sua morte era applicato alla sezione di polizia giudiziaria presso la procura circondariale di Reggio Calabria e faceva parte di un pool investigativo, coordinato dal sostituto procuratore Francesco Neri, costituito per effettuare le indagini avviate a seguito di un esposto presentato da Legambiente, concernente presunti interramenti di rifiuti tossici in Aspromonte.
Nel corso dell'inchiesta condotta dalla procura di Reggio Calabria si aprirono subito scenari inquietanti legati al fenomeno delle «navi a perdere», indicandosi con tale espressione le navi affondate dolosamente con carichi di rifiuti radioattivi o comunque tossici, smaltiti illegalmente nelle profondità marine. (Secondo un dossier di


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Legambiente trasmesso alla Commissione gli affondamenti sospetti di navi, tra il 1979 ed il 2000, sarebbero stati ottantotto).
L'approfondimento svolto sulle cause del decesso del capitano De Grazia si inserisce nel contesto dei più ampi accertamenti che la Commissione ha effettuato sul fenomeno delle «navi a perdere».
Nell'ambito di questa più ampia inchiesta, di cui si tratterà nel prosieguo, sono emerse talune peculiarità relative alle circostanze che hanno accompagnato il decesso del capitano De Grazia ritenute meritevoli di ulteriori approfondimenti sia perché le indagini effettuate all'epoca furono carenti sotto molteplici aspetti, lasciando insoluti interrogativi in ordine alle cause del decesso sia perché tale tragico evento si inserisce in un contesto investigativo del tutto particolare in ragione degli interessi in gioco e dei personaggi coinvolti (dalle indagini sulle «navi a perdere» condotte dalle procure di Reggio Calabria e Matera emersero, infatti, per la prima volta indizi di un disegno criminoso di respiro sovranazionale, nel quale apparivano coinvolti diversi Stati, riguardante il presunto inabissamento in mare di rifiuti tossici).
La Commissione, oltre ad aver acquisito copia degli atti del procedimento aperto presso la procura della Repubblica di Nocera Inferiore relativo al decesso del capitano nonché degli atti riguardanti le indagini alle quali lo stesso capitano De Grazia aveva preso parte, ha svolto direttamente una serie di attività mirate a far luce sugli aspetti poco chiari della vicenda.
In primo luogo, si è cercato di comprendere come mai, dopo la morte del capitano, il gruppo investigativo si fosse progressivamente sfaldato, come se, ad un certo momento, tutti coloro che ne avevano preso parte non fossero più interessati a proseguire, nonostante si trattasse di un'indagine particolarmente rilevante sia per l'oggetto trattato (smaltimento illecito di rifiuti radioattivi) sia per le dimensioni sovranazionali del traffico illecito sia, ancora, per la collaborazione prestata non solo da diverse forze di polizia operanti sul territorio nazionale, ma anche dai servizi segreti, in particolare dal Sismi.
Contestualmente, si è cercato di comprendere se effettivamente, all'epoca, vi fosse un clima di intimidazione che gli stessi inquirenti hanno dichiarato di aver percepito durante lo svolgimento del loro lavoro.
Ancora, sono stati oggetto di approfondimento da parte della Commissione alcuni aspetti emergenti proprio dall'indagine avviata dalla magistratura in ordine al decesso del capitano e conclusasi con provvedimento di archiviazione.
Gli approfondimenti della Commissione sono stati effettuati attraverso:
 l'acquisizione dei documenti afferenti le indagini dell'autorità giudiziaria (tra i più rilevanti si segnalano gli atti delle indagini svolte dalle procure circondariali di Reggio Calabria e di Matera in merito allo smaltimento di rifiuti radioattivi; gli atti dei procedimenti relativi al decesso del capitano De Grazia; gli atti dei procedimenti iscritti dalla procura presso il tribunale di Reggio Calabria e dalla procura presso il tribunale di Paola);
 l'acquisizione di documenti utilizzati da precedenti Commissioni parlamentari di inchiesta (Commissione di inchiesta sulla morte di

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Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, Commissioni parlamentari di inchiesta sul ciclo dei rifiuti presediute dall'On. Russo e dall'On. Scalia);
 audizione di persone in grado di riferire elementi utili ai fini dell'inchiesta.

È stato, infine, conferito un incarico di consulenza tecnica al prof. dottor Giovanni Arcudi (direttore dell'Istituto di medicina legale nella facoltà medica dell'Università di Roma «Tor Vergata» nonché consulente della Commissione) al fine di operare una rivalutazione delle attività medico legali svolte dai consulenti nominati dal pubblico ministero e dalle parti civili nell'ambito del procedimento aperto presso la procura della Repubblica di Nocera Inferiore, volto ad accertare le cause del decesso del capitano De Grazia.
Le conclusioni della consulenza medico-legale del prof. Arcudi impongono di valutare le risultanze dell'inchiesta precedentemente svolta in una chiave nuova e non poco allarmante.
È vero che, come si ricorderà tra poco, già emergevano elementi di sospetto in relazione alla morte del capitano De Grazia, per tutto ciò che l'ha preceduta, e che non appare trasparente, e per ciò che è accaduto dopo la sua scomparsa.
La consulenza del prof. Arcudi, che appare analiticamente motivata, e scientificamente inattaccabile, arriva ad una conclusione inequivoca: escluse le altre cause, per l'assenza di elementi di riconoscimento, la morte è la conseguenza di una «causa tossica». Aggiunge il prof. Arcudi: «quale essa potrà essere stata, e se c’è stata, non lo si potrà accertare».
Ciò che risulta è che il capitano De Grazia ha ingerito gli stessi cibi di chi lo accompagnava nel viaggio, salvo una fetta di torta: queste almeno sono state le dichiarazioni dei testimoni. Se così è, appare difficile ricondurre la tossicità ad una causa naturale, anche se non lo si può escludere in forma assoluta.
Il capitano De Grazia, come risulta dalla ricostruzione dei fatti, stava conducendo indagini su tutte le vicende più oscure riguardanti il traffico illecito di rifiuti pericolosi ed aveva costituito un gruppo di lavoro assai efficiente. Ciò nonostante, come ha riferito il maresciallo Moschitta, «quando le indagini arrivarono a picco, e quindi stavamo mettendo le mani su fatti veramente gravi, coinvolgenti anche i livelli della sicurezza nazionale», «De Grazia non venne più a effettuare le indagini con noi, perché il suo comandante lo aveva bloccato».
Elementi di poca chiarezza sono stati riscontrati altresì in relazione alle ragioni del viaggio a La Spezia, essendo state fornite alla Commissione versioni del tutto diverse, tra le quali anche un contatto con un confidente.
Ma ciò che è parso inquietante alla Commissione è stato l'improvviso smembramento del gruppo investigativo che faceva capo a De Grazia, subito prima e subito dopo il suo decesso.
Pochi giorni prima della morte del capitano De Grazia il colonnello Martini, che aveva avuto un ruolo di primo piano nell'attività investigativa, lasciò l'incarico di colonnello del Corpo forestale dello Stato per assumere il ruolo di direttore operativo


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della Società municipalizzata di Milano impegnata nell'emergenza rifiuti. Le perplessità, in ordine alle ragioni di questa scelta, sono già state illustrate.
Dopo la morte del capitano De Grazia il maresciallo Moschitta andò in pensione all'età di quarantaquattro anni. Il carabiniere Francaviglia chiese il trasferimento a Catania.
L'ispettore superiore del Corpo forestale dello Stato, Claudio Tassi, dopo qualche mese dal decesso del capitano De Grazia, non si occupò più dell'indagine: a suo dire, non per sua iniziativa.
Lo smembramento del nucleo investigativo, che stava operando in profondità sul riciclo illegale dei rifiuti, se si unisce alla causa della morte, identificata in un evento tossico, getta una luce inquietante sull'intera vicenda.
Non è compito di questa Commissione pronunciare sentenze, né sciogliere nodi di competenza dell'autorità giudiziaria: tuttavia, non si può non segnalare che la morte del capitano De Grazia si inscrive tra i misteri irrisolti del nostro Paese.

1.4. La relazione sul fenomeno delle «navi a perdere» (approvata in data 28 febbraio 2013) (Doc XXIII n. 21).

La Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti ha avviato una serie di approfondimenti sul fenomeno delle «navi a perdere».
La determinazione ad approfondire questo tema è stata assunta a seguito del rinvenimento di un relitto nel mare antistante la costa di Cetraro ad opera di alcuni pescatori della zona, in conseguenza del quale la procura della Repubblica presso il tribunale di Paola aveva aperto un procedimento penale, ipotizzando originariamente che il relitto potesse identificarsi con una delle navi cariche di rifiuti e dolosamente affondate di cui aveva parlato negli anni precedenti (in particolare, a partire dall'anno 2003) il collaboratore di giustizia Fonti Francesco all'autorità giudiziaria. Il procedimento penale avviato dalla procura di Paola, poi proseguito dalla procura di Catanzaro, si è concluso con un provvedimento di archiviazione.
Francesco Fonti, collaboratore di giustizia già appartenente alla ’ndrangheta calabrese, aveva infatti reso una serie di dichiarazioni relative ai presunti affondamenti di tre navi (la Cunsky, la Voriais Sporiadais e la Yvonne A) ai quali avrebbe partecipato personalmente.
Una delle tre navi, secondo il racconto di Fonti, sarebbe stata affondata proprio dinanzi alle coste di Cetraro, nell'anno 1992. L'operazione, finalizzata allo smaltimento illecito di rifiuti tossici, sarebbe stata realizzata dalla ’ndrangheta calabrese che in quel periodo si occupava, oltre che delle consuete attività illecite quali il traffico degli stupefacenti e l'attività estorsiva, anche del traffico illecito di rifiuti radioattivi (o comunque tossici).
A seguito degli accertamenti effettuati dal Ministero dell'ambiente e dalla magistratura si è potuto constatare come effettivamente il relitto antistante le coste di Cetraro non si identificasse con la nave di cui aveva parlato Fonti.


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Nonostante ciò, la Commissione ha, comunque, ritenuto di approfondire il tema delle «navi a perdere» ossia dell'esistenza di navi affondate in mare cariche di rifiuti tossici e radioattivi, e, più in generale, il fenomeno del traffico di questo genere di rifiuti verso i paesi africani, come la Somalia, in quanto tema di grande attualità, rispetto al quale permangono molti aspetti oscuri oltreché di notevolissima rilevanza per la salute e l'ambiente.
Nella relazione è stata svolta un'approfondita analisi delle indagini svolte dalla magistratura a partire dall'anno 1994 nel corso delle quali gli investigatori arrivarono a focalizzare l'attenzione in modo particolare su quale dovesse essere stato il carico della motonave affondata dolosamente denominata «Rigel» nonché sulle reali cause e sull'effettivo carico della motonave «Rosso», spiaggiatasi nel dicembre 1990 sulle coste calabresi.
Una parte della relazione è poi dedicata agli accertamenti e alle indagini compiute sullo smaltimento illecito di rifiuti tossici avviati da diverse procure distrettuali antimafia in conseguenza delle dichiarazioni dell'ex collaboratore di giustizia Francesco Fonti.
Infine, sono stati esposti i risultati delle indagini giudiziarie condotte in merito al rilevamento del relitto sul fondale marino antistante la costa di Cetraro.
All'esito dell'inchiesta si può affermare che da circa 25 anni si affrontano in ambito giudiziario temi di grandissima rilevanza quali lo smaltimento illecito di rifiuti radioattivi e tossici in ambito transnazionale e mediante l'affondamento in mare di navi cariche di rifiuti di tal fatta.
Ciò che ha sempre rappresentato il filo conduttore delle pur variegate indagini giudiziarie svolte dalle più disparate procure italiane è stata la presa di coscienza della inadeguatezza degli strumenti a disposizione per proseguire oltre in inchieste che coinvolgevano persone, interessi, ambiti geografici ben più ampi di quelli riconducibili entro i limiti di competenza dei singoli uffici di procura.
I temi che si intrecciano sono quelli dello smaltimento di rifiuti tossici da parte dei paesi più sviluppati ai danni di paesi sottosviluppati ovvero ai danni di territori che, essendo controllati di fatto dalla criminalità organizzata, sono caratterizzati dall'assenza dello Stato e, quindi, per certi versi assimilabili ai paesi del terzo mondo.
Non può ritenersi casuale che diverse indagini, pur avviate in territori distanti tra di loro, in epoche differenti e sotto la direzione di diversi magistrati, siano confluite quasi come se si trattasse di un'unica indagine su un percorso e un binario già noto, ma, da un punto di vista giudiziario, morto.
Quello che si vuole sottolineare è che gli sforzi investigativi profusi nello svolgimento delle indagini concernenti i traffici internazionali di rifiuti tossici e radioattivi si sono puntualmente arrestati allo stesso punto, ovverosia allorquando si è introdotto il tema Somalia e il tema attinente ai traffici internazionali di armi e rifiuti.
Questi ultimi due temi sono risultanti, almeno nelle prime fasi investigative, connessi tra di loro, essendo stato ipotizzato che vi fosse uno scambio tra la fornitura di armi ad opera dei paesi «moderni» e l'accettazione di rifiuti da parte dei paesi meno sviluppati.

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Ed allora, fatta questa premessa e tenuto conto delle difficoltà che ancora oggi si percepiscono nelle indagini di questo tipo, è possibile ripercorrere le inchieste che venti anni fa hanno avuto la «pretesa» di entrare in un mondo inaccessibile.
A ciò deve aggiungersi un dato. Negli anni novanta vi era terreno fertile per traffici di natura illecita riguardanti i rifiuti in quanto vi era la necessità di adeguare la realtà fattuale alla nuova realtà normativa introdotta dal referendum abrogativo del 1987 che portò alla chiusura delle centrali nucleari nel nostro Paese. Inoltre, la normativa europea, in continua evoluzione in materia ambientale, aveva introdotto ulteriori limiti allo smaltimento di rifiuti radioattivi.
Si è registrato uno sforzo da parte della magistratura di venire a capo di una serie di vicende che hanno lasciato intravedere l'esistenza di traffici illeciti di rifiuti tossici interessanti il Mediterraneo e paesi africani.
Tuttavia deve essere evidenziato che nessuna di queste indagini ha portato a risultati concreti o soddisfacenti, nonostante il grande impegno profuso dagli investigatori.
Il dato che risulta evidente è che la magistratura non è stata adeguatamente supportata per affrontare indagini così complesse sia per l'oggetto sia per l'estensione territoriale, trattandosi di traffici transazionali. Ne è un esempio significativo l'indagine portata avanti dalla procura circondariale di Reggio Calabria, che poteva contare sull'apporto di un gruppo investigativo composto da pochi uomini, seppur qualificati.
In proposito, sono chiarificatrici le dichiarazioni rese dal sostituto procuratore Alberto Cisterna nel corso dell'audizione del 9 dicembre 2009 avanti alla Commissione:
  «L'indagine sostanzialmente mi arriva con questa incompiuta: era necessario recuperare questa motonave. Il procuratore presso la pretura era, al tempo, il dottor Scuderi; ebbi un colloquio con lui e con il dottor Neri, durante il quale chiesi anche le ragioni di questa trasmissione, in quanto si trattava di un fascicolo impegnativo. D'altra parte, la procura distrettuale in quegli anni era impegnata con un centinaio di processi e migliaia di indagati, e dunque arrivava un processo importante. Sono state date alcune spiegazioni. Innanzitutto, si parlò delle difficoltà incontrate nel reperire i fondi e i finanziamenti necessari al ritrovamento della motonave e sostanzialmente – ricordo con precisione questo dato, sebbene siano passati tanti anni, quasi quattordici – si disse che non ci si sentiva tranquilli nello scaricare a Modello 12 (il capitolo delle spese di giustizia a disposizione di ogni procura) una spesa impegnativa pari ad alcuni miliardi delle vecchie lire. Quindi, questa attività avrebbe comportato una spesa davvero consistente. Dunque, immaginate un piccolo ufficio, con il peso di un'indagine complessa e con l'impegno di una spesa considerevole, in un clima di grande preoccupazione dovuta anche alla morte del comandante De Grazia, che aveva segnato anche psicologicamente i protagonisti di questa vicenda. Lo scenario indubbiamente avvalorava queste preoccupazioni. Ricordo che si temeva di essere in qualche modo sorvegliati o intercettati. Vennero fatte delle bonifiche negli uffici che si trovavano distanti dai nostri proprio per questo motivo».

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L'attività investigativa svolta per l'accertamento dei fatti di criminalità transnazionale aventi per oggetto lo smaltimento illecito rifiuti radioattivi o comunque tossici si è, quindi, costantemente scontrata con difficoltà insormontabili, nel senso che, per usare una facile metafora, si è dovuta spingere verso i confini conosciuti del diritto, ed è giunta sempre in luoghi posti al di là delle Colonne d'Ercole, dove semplicemente il diritto non esiste.
Pertanto, un'attività, quella investigativa, che pur discrezionale è comunque soggetta alla legge ed alla legge deve conformarsi si è rivelata un'arma del tutto spuntata ove non ha trovato lo stampo a cui conformare la propria azione.
Quindi la conclusione se il fenomeno investigato esista o non esista non può essere tratta dai risultati dell'attività d'indagine perché l'attività di indagine produce dei risultati alla stregua di regole che il fenomeno illecito non conosce.
In sostanza, non conducente è l'approccio al fenomeno in termini di acquisizione di elementi probatori da utilizzare in un processo, per la semplice ragione che gli eventi investigati accadono in una dimensione in cui l'unica regola che vige è quella dei rapporti di forza.
In effetti il contrasto nei confronti di comportamenti ed azioni qualificabili in definitiva come pirateschi non può trovare una formula efficace nella pretesa vana della risposta giudiziaria penale perché i soggetti e i fatti accadono in luoghi irraggiungibili dal diritto penale di uno stato democratico (gli episodi relativi alla Somalia in questo senso sono emblematici di quanto appena detto).
Come si può pensare, sempre per restare in metafora, di assicurare alla giustizia dei pirati inviando rogatorie all'isola di Tortuga.
È ovvio che in un contesto siffatto un ruolo necessariamente predominante lo abbiano avuto i servizi di sicurezza.
Si tratta del loro privilegiato campo d'azione, quello cioè in cui è necessario agire in modo determinato, e imbastire una fitta rete di relazioni funzionali ad avere consapevolezza degli accadimenti e quindi funzionale alla possibilità di interagire con essi.
Sembra però che la dedotta «ignoranza ufficiale» dei servizi di sicurezza in ordine a vicende che di per sé appaiono come assai sospette (morte del capitano De Grazia, spiaggiamento della motonave Jolly Rosso) debba necessariamente ascriversi o ad uno svolgimento di tale attività in modo non esauriente o negligente, ovvero a ragioni inconfessabili, non necessariamente illecite.
Per concludere appare doveroso sottolineare come recentissime indagini stiano lentamente alzando il velo su una realtà inquietante e drammatica per ciò che concerne i traffici internazionali di rifiuti. Le modalità operative che sono emerse a livello investigativo sono espressione di meccanismi talmente consolidate e radicati che necessariamente affondano le loro radici in epoche precedenti a quello dell'indagine medesima.
È verosimile, quindi, che oggi, grazie agli strumenti investigativi a disposizione della Direzione distrettuale antimafia, ai canali informativi favoriti dalla Direzione distrettuale antimafia, sia possibile avvicinarsi ad un mondo, quello del traffico transazionale dei rifiuti tossici, sul quale per troppo tempo non vi sono stati che fondati sospetti e nulla di più.


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1.5. La relazione sul Sistri (approvata in data 28 febbraio 2013) (Doc XXIII, n. 20).

La Commissione parlamentare d'inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti si è determinata ad avviare un'inchiesta specifica sul «sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti», meglio noto con l'acronimo Sistri, che si è conclusa con l'approvazione di una specifica relazione, dal titolo «Il Sistri: l'evoluzione normativa e le problematiche connesse alla sua attuazione».
Si è avvertita, infatti, la necessità di approfondire una serie di problematiche attinenti alla effettiva funzionalità del sistema e, a monte, alla regolarità della procedura di affidamento del servizio.
Le due questioni, come è evidente, sono strettamente connesse in quanto, laddove vi siano state violazioni nella procedura di affidamento del servizio, le stesse hanno inevitabilmente inciso sulla individuazione del soggetto affidatario e sulla garanzia della scelta del contraente maggiormente idoneo.
L'introduzione di un sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti risponde all'esigenza di disporre in tempo reale dei dati relativi alla movimentazione dei rifiuti al fine di un più efficace controllo da parte delle autorità preposte e, quindi, di un più efficace contrasto dei fenomeni di illegalità nel settore del trasporto e dello smaltimento dei rifiuti.
Si è più volte osservato, infatti, che il punto, per così dire, debole nel procedimento di smaltimento dei rifiuti è rappresentato dalla mancanza di un sistema idoneo al tracciamento degli stessi.
Si riportano di seguito le conclusioni cui è giunta la Commissione al termine dell'inchiesta, rinviando, per l'approfondimento dell'intera vicenda, alla lettura integrale della relazione.
Le numerose inchieste che la Commissione ha avuto modo di effettuare hanno dimostrato, senza ombra di dubbio, l'assoluta inadeguatezza della normativa attualmente vigente a fronteggiare traffici imponenti di rifiuti che, ormai, non coinvolgono solo le diverse regioni italiane ma che hanno assunto la connotazione della transnazionalità.
In un certo senso, l'approfondimento sul SISTRI nasce proprio dall'assoluta presa di consapevolezza che nessun serio ed efficace sistema normativo di contrasto alla criminalità ambientale può prescindere da un sistema di tracciabilità dei rifiuti idoneo a seguirne il percorso e, quindi, idoneo a consentire controlli puntuali, effettuabili in tempo reale.
Il sistema attuale di tracciamento dei rifiuti si può considerare tamquam non esset, tanto agevole ne risulta l'elusione da parte degli operatori del settore.
Sul punto si sono espressi in maniera molto netta i magistrati che hanno svolto importanti indagini in materia ambientale e che hanno quindi verificato sul campo la fragilità e l'inconsistenza del sistema attuale.
Ed infatti, oggi, l'unica traccia identificatrice del ciclo del viaggio effettuato dai rifiuti è rappresentata dal FIR (formulario d'identificazione dei rifiuti), che rappresenta il documento cardine finalizzato al controllo delle varie fasi del trasporto dei rifiuti dal produttore/


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detentore fino al sito finale. Il formulario, come noto, deve essere redatto in quattro copie, compilate, datate e firmate dal produttore dei rifiuti oppure dal detentore; le copie devono essere altresì controfirmate dal trasportatore.
Il FIR dovrebbe consentire la tracciabilità dei rifiuti in quanto contiene informazioni non solo attinenti al produttore/detentore del rifiuto, alla quantità e qualità del rifiuto stesso e all'impianto di destinazione, ma anche informazioni attinenti alla data, al percorso dell'instradamento, nonché al nome e all'indirizzo del destinatario. La quarta copia del FIR viene inviata dallo smaltitore al produttore del rifiuto in modo che colui che lo ha prodotto possa verificare e controllare che sia stato adeguatamente gestito e smaltito.
Questo sistema, che teoricamente dovrebbe consentire di individuare tutti i responsabili dei traffici illeciti, di fatto si è rivelato del tutto inefficace.
Mentre da un lato è estremamente facile falsificare i formulari, dall'altro è estremamente difficile, a livello investigativo, riuscire a incrociare una documentazione cartacea ipertrofica e facilmente falsificabile.
Uno dei sistemi più comuni adottato per i traffici illeciti di rifiuti è quello del «giro bolla» o «triangolazione», che consiste nel far transitare i rifiuti solo cartolarmente da un sito di stoccaggio all'altro ovvero da impianti di recupero e compostaggio a siti di smaltimento, con la finalità di declassificarne la tipologia.
La dottoressa Ribera della procura di Napoli, ad esempio, ha evidenziato le modalità attraverso cui vengono organizzati i traffici illeciti di rifiuti.
Com’è noto, dalla natura del rifiuto e dalla sua origine discende l'attribuzione della «carta d'identità» del rifiuto stesso, il CER, che dovrebbe essere riprodotto nel documento di trasporto, ossia il formulario di identificazione dei rifiuti (FIR).
Nella pratica investigativa, si è constatato come il traffico di rifiuti funzioni sistematicamente mediante la declassificazione del rifiuto con la tecnica del girobolla sopra indicata.
Al rifiuto viene, infatti, modificato il codice CER riprodotto nel FIR, in modo da classificarlo formalmente affinché possa essere gestito, trasportato e alla fine smaltito in maniera illecita, il tutto grazie alla fittizia classificazione da pericoloso a non pericoloso.
Si tratta di trasformare solo documentalmente la disciplina giuridica del rifiuto in modo da renderla compatibile con la destinazione prescelta, diversa da quella che sarebbe stata legittima ove il rifiuto avesse mantenuto le sue reali caratteristiche.
Le esperienze tecnico/investigative hanno messo in luce che, costantemente, il programma criminoso prevede la realizzazione di una serie indeterminata di reati di falso in certificazioni di analisi (oltre che nei documenti di trasporto) e di una serie di attività dirette fittiziamente a far risultare come avvenuti i passaggi presso gli impianti di intermediazione al fine di realizzare un organizzato traffico illecito di rifiuti.
L'assoluta inadeguatezza del sistema attuale a fronteggiare la criminalità ambientale rende l'Italia permeabile alle infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore dei rifiuti con una progressiva e,

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nel tempo, irrimediabile compromissione del territorio. Questa situazione è ancora più grave se si tiene conto di come i traffici illeciti di rifiuti abbiano ormai assunto dimensioni transnazionali, coinvolgendo diversi Paesi. I Paesi destinatari degli illeciti smaltimenti sono, in base all'esperienza investigativa maturata, quelli privi di una normativa adeguata in materia ambientale.
Ciò che si intende sottolineare è che l'introduzione di un efficace sistema di tracciabilità rappresenta la conditio sine qua non per avviare una seria attività preventiva e repressiva nel settore dello smaltimento dei rifiuti, consentendo agli organi di controllo e agli organi investigativi di seguire in tempo reale e in via telematica il ciclo di vita del rifiuto, dalla sua produzione fino al suo smaltimento o recupero.
Di ciò è stato preso atto anche dalla Unione europea con la direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008. La cosiddetta direttiva rifiuti stabilisce misure volte a proteggere l'ambiente e la salute umana prevenendo o riducendo gli impatti negativi della produzione e della gestione dei rifiuti. In particolare, l'articolo 17 della direttiva («Controllo dei rifiuti pericolosi») richiede agli Stati membri di adottare «le misure necessarie affinché la produzione, la raccolta, il trasporto, lo stoccaggio e il trattamento dei rifiuti pericolosi siano eseguiti in condizioni tali da garantire la protezione dell'ambiente e della salute umana, al fine di ottemperare le disposizioni di cui all'articolo 13, comprese misure volte a garantire la tracciabilità dalla produzione alla destinazione finale e il controllo dei rifiuti pericolosi».
Nel recepire i dettami della direttiva 2008/98/CE, il Governo italiano ha posto particolare attenzione proprio alla tracciabilità dei rifiuti di cui al sopra citato articolo 17 della direttiva 2008/98/CE.
Il SISTRI avrebbe quindi dovuto rappresentare la risposta normativa e pratica alla soluzione di un problema riconosciuto non solo a livello italiano ma anche a livello europeo. E tuttavia, il progetto, avviato sin dal 2007 e reso operativo sin dal 2010, ad oggi non ha avuto concreta applicazione e si sono susseguiti nel tempo una serie di interventi legislativi che ne hanno rinviato sistematicamente l'entrata in vigore.
Da ultimo, secondo quanto disposto dall'articolo 52 del decreto legge 26 giugno 2012, n. 83, recante «Misure urgenti per la crescita del Paese», convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012 n. 134, l'entrata in vigore del sistema è stata sospesa fino al 30 giugno 2013, al fine di consentire i necessari approfondimenti, a livello governativo, delle problematiche rilevate nella relazione della DigitPA.
Dall'anno 2007, dunque, anno di avvio del procedimento per la realizzazione del SISTRI, ad oggi sono decorsi sei anni senza che sia stato possibile praticare il sistema così come progettato, per una serie di ragioni analiticamente riportate nella relazione.
In sede di conclusioni non si può non evidenziare il peccato originale del procedimento in questione. Invero la procedura di segretazione del progetto, a prescindere dalla sua legittimità, ha comportato l'individuazione del soggetto affidatario del servizio, la Selex Service Management S.p.A., senza alcuna scelta comparativa, sia pure nella forma indicata dall'articolo 17, comma 4, del decreto

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legislativo n. 163 del 2006 (in base al quale l'affidamento dei contratti a cui è attribuita una classifica di segretezza avviene previo esperimento di una gara informale a cui sono invitati almeno cinque contraenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto del contratto e sempre che la negoziazione sia compatibile con le esigenze di segretezza).
Dai documenti acquisiti è emerso, infatti, che il Ministero ha ritenuto necessario un affidamento diretto del contratto de quo, basandosi sui seguenti presupposti:
 le esigenze di segretezza e di riservatezza sono tali da non legittimare la negoziazione plurima e la gara informale;
 la natura tecnica oggettiva del «sistema integrato per la sicurezza e la tracciabilità dei rifiuti (SISTRI) richiede l'adozione di misure di segretezza e di misure speciali di sicurezza non compatibili con una negoziazione plurima;
 che i dati dei rilevamenti vengano messi a disposizione esclusivamente delle forze di polizia in servizio presso il predetto Ministero, e cioè del comando dei Carabinieri per la tutela dell'ambiente.

Non v’è dubbio, anche alla luce delle audizioni svolte nel corso dell'inchiesta, che la procedura di segretazione abbia rappresentato una delle questioni che hanno investito la fase procedimentale dell'affidamento del servizio, gli aspetti concernenti il contenuto del regolamento contrattuale nonché la stessa fase esecutiva del contratto.
La procedura della segretazione, infatti, ha determinato a cascata una serie di effetti, connessi:
 alle modalità di individuazione dell'affidatario del servizio;
 alla mancanza della procedura di collaudo e di verifica sullo stato di avanzamento lavori, tanto più necessari in ragione del valore elevato dell'appalto.

Dai dati acquisiti sembra che la Selex sia stata scelta senza che fossero state preventivamente contattate altre imprese, aventi analoghe capacità imprenditoriali sia a livello tecnico, sia a livello economico.
Come è emerso dalla documentazione prodotta dagli auditi, il Ministero dell'ambiente ha avuto rapporti, sin dalla fase preliminare, esclusivamente con la Selex e dunque, anche a voler ritenere legittima la procedura di segretazione, risulta non sempre chiara la ragione per la quale non sia stata osservata la procedura prevista dall'articolo 17 del codice del contratti, sopra richiamato, e non sia stata effettuata una valutazione comparativa, sia pure nei limiti indicati dalla procedura semplificata dell'affidamento diretto.
La Commissione ha inteso dunque comprendere se il segreto avesse un suo fondamento, tenuto conto delle modalità operative del sistema e della successiva desecretazione del progetto.
Ci si è interrogati, in particolare, sulla compatibilità della procedura di segretazione con un sistema che dovrebbe essere conosciuto, spiegato e reso pubblico a tutti gli utenti obbligati a utilizzarlo.


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Tale profilo può essere, in particolare, al cambiamento in itinere delle caratteristiche del SISTRI. Se in una prima fase, coincidente con la decisione originaria di sottoporre a segretazione il sistema, il SISTRI doveva configurarsi essenzialmente come un sistema di intelligence, finalizzato al controllo e alla repressione degli illeciti connessi alla gestione dei soli rifiuti pericolosi (dunque, con una prevalenza delle finalità repressive rispetto a quelle di trasparenza), il progetto è stato poi modificato e ampliato nel tempo, per divenire un articolato strumento di ausilio alle imprese nella gestione di tutti i rifiuti speciali. Da qui sono derivati i principali problemi degli operatori i quali, a causa della segretazione e quanto meno nella prima fase di avvio del SISTRI, hanno dovuto confrontarsi con un sistema non sufficientemente conosciuto e sperimentato.
Ulteriori perplessità sono emerse in relazione alla previsione, all'interno del contratto concluso tra il Ministero dell'ambiente e la Selex, della possibilità di ricorrere al subappalto e all'affidamento di servizi ad altre imprese.
Invero, l'attività investigativa condotta dalla procura di Napoli in materia di SISTRI si inserisce in un procedimento iscritto per i delitti di associazione a delinquere, truffa ai danni dello Stato e emissione e utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti a carico allo Stato. Sono destinatari di avvisi di garanzia e provvedimenti di perquisizione e sequestro i signori Stornelli Sabatino, ex amministratore delegato della Selex, Stornelli Maurizio, Pelaggi Luigi, Capo della Segreteria tecnica del Ministero dell'Ambiente pro tempore, e Di Martino Francesco Paolo.
La complessità della vicenda, il numero delle società coinvolte e gli intrecci societari hanno reso necessaria un'attività di indagine meticolosa con la verifica, attraverso gli opportuni incroci, della documentazione contabile e bancaria delle persone fisiche o giuridiche coinvolte.
La procedura della segretazione, dunque, ha determinato a cascata una serie di effetti, connessi:
 alle modalità di individuazione dell'affidatario del servizio;
 alla mancanza della procedura di collaudo e di verifica sullo stato di avanzamento lavori, tanto più necessari in ragione del valore elevato dell'appalto.

Le problematiche relative all'intero procedimento sono state stigmatizzate anche nella relazione della Digit PA.
In data 10 agosto 2011, infatti, il Ministero dell'Ambiente ha inviato in valutazione alla DigitPA la documentazione tecnica e operativa attinente al Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti, e la DigitPA ha redatto una relazione (articolata in tre parti fondamentali: considerazioni su contenuti e procedure avviate nelle varie fasi dell'iniziativa; considerazioni sulla congruità economica delle forniture inserite nel contratto; indicazioni all'amministrazione per il futuro dell'iniziativa), nella quale sono state espresse critiche pregnanti rispetto a una serie di fattori che vanno dal procedimento di affidamento del servizio alla quantificazione dei costi, fino alle forniture dei mezzi necessari per l'attuazione del progetto.


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Per quanto concerne specificatamente gli aspetti economico-finanziari, la valutazione della DigitPA ha evidenziato la significativa carenza e incongruità dei dati forniti dal Ministero, nonché un ingiustificato dimensionamento dei costi per le attività di progettazione, sviluppo e integrazione/test del sistema, nonché per i servizi operativi.
In merito, il Ministro Clini ha riferito alla Commissione di aver richiesto all'Avvocatura generale dello Stato di chiarire se il contratto sottoscritto dal Ministero dell'ambiente con la società Selex sia da considerarsi vigente ovvero debba considerarsi superato in quanto viziato da procedure non regolari.
Ed allora i profili di criticità da esaminare sono fondamentalmente due: da un lato, la regolarità della procedura finalizzata all'affidamento e alla concreta esecuzione del progetto, con particolare riferimento ai costi sostenuti dal Ministero dell'ambiente e dalle imprese per un sistema mai entrato in vigore; dall'altro, l'idoneità del sistema, così come progettato, a soddisfare quelle esigenze di tracciabilità dei rifiuti non più rinviabili.
In proposito, diverse sono state le opposizioni delle associazioni di categoria rispetto a questo specifico sistema di tracciamento, in quanto ne è stata sottolineata l'inadeguatezza, la scarsa fruibilità da parte degli operatori e l'ingerenza con i sistemi informatici già in uso.
Allo stato non è possibile affermare se il sistema così come progettato sia o meno efficace e praticabile, non essendo stata mai avviata una seria fase di sperimentazione, tale da consentire una verifica sul campo dell'efficacia del sistema, né può ritenersi significativo quanto emerso all'esito del cosiddetto click day, i cui risultati, peraltro, sono stati variamente interpretati.
Conclusivamente, deve prendersi atto del fallimento, almeno fino ad oggi, del SISTRI, per ragioni riconducibili non solo a una non corretta gestione delle varie fasi procedimentali, ma anche per un'opposizione più o meno esplicita dei vari operatori rispetto all'entrata in vigore del sistema. Proprio con riferimento a questo secondo aspetto, non deve sottovalutarsi la posizione di chi concretamente si troverà a operare con questo sistema, ossia tutti coloro che operano nel campo dei rifiuti. Ebbene, se da un lato è giusto e legittimo prendere in considerazione e valutare proposte correttive da parte dei futuri fruitori del servizio, dall'altro lato, non si può consentire, né con riferimento al sistema attuale né con riferimento agli eventuali futuri sistemi, che condotte ostruzionistiche possano paralizzare il sistema di tracciamento dei rifiuti. Ove ciò accadesse, significherebbe, peraltro, che il sistema è inadeguato, dovendo essere progettato in modo da poter funzionare anche laddove vi siano resistenze da parte degli operatori.
È opportuno riportare, in sede di conclusioni, le dichiarazioni rese dai ministri direttamente coinvolti, ossia dal Ministro dell'Ambiente, Corrado Clini e dal Ministro dello sviluppo economico, Corrado Passera.
Il Ministro Clini ha sottolineato la solidità degli argomenti a sostegno della decisione di sospendere l'operatività del SISTRI:
 «È assolutamente chiaro che SISTRI, come ogni sistema di questo tipo, non sia molto gradito. ... La verità è che c’è un'opposizione forte, ben chiara, ben identificata perché pubblica, a quella che, sostanzialmente, è una procedura di controllo.

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«Nei mesi scorsi abbiamo lavorato per rendere ancora più semplici queste procedure. (...).
«Devo aggiungere, tuttavia, che le motivazioni che hanno determinato la sospensione sono molto solide. Quello di DigitPA non è un rapporto che possa essere considerato senza conseguenze. Stiamo lavorando nel merito delle obiezioni sollevate da DigitPA per chiarire i punti e rendere anche evidenti quali sono eventualmente quelle aree incerte nella procedura che devono essere chiarite.
«Abbiamo informato Selex e chiesto la collaborazione del nuovo management di Finmeccanica per avere tutte le informazioni che ci consentano di farci un quadro chiaro per prendere una decisione, che vorremmo prendere molto rapidamente, possibilmente anche prima della fine del 2012. Le questioni che vanno affrontate sono ben chiare, ben identificate e con una certa celerità stiamo chiarendo i termini della questione.
«Se dovessimo trovarci di fronte a un contratto non valido, dobbiamo, in parte anche consigliati da DigitPA nella parte finale della relazione, chiudere una transazione con Selex e bandire una nuova gara pubblica, che però consenta di utilizzare quanto è già stato realizzato. Personalmente, non ho, da questo punto vista, speranze, non ho una mia valutazione, ma aspetto che sia completata quest'istruttoria, sulla base della quale decideremo».

Va tuttavia rilevato che, in data 26 settembre 2012, l'Avvocatura generale dello Stato ha reso, su richiesta del Ministero dell'Ambiente, un parere sulla relazione della DigitPA citata in cui, tra l'altro, eccepisce l'infondatezza giuridica dei rilievi ivi evidenziati.
In conclusione il Ministro ha inteso confermare la necessità, imposta anche in sede europea, di predisporre un valido ed efficace sistema di tracciabilità dei rifiuti: «Anche quelli che si sono opposti in maniera molto consistente e visibile all'avvio del SISTRI dovrebbero forse tener presente che, in ogni caso, se non sarà questa, sarà comunque un'altra l'infrastruttura di controllo, ma che le modalità di controllo saranno esattamente identiche. L'obiettivo stabilito dalla direttiva europea è la tracciabilità dei rifiuti e questo è quello che dobbiamo fare».
Il Ministro Passera, infine, ha precisato di non voler intervenire sugli aspetti contrattualistici, di competenza del Ministero dell'ambiente, che sono stati determinanti nella decisione di sospendere l'entrata in operatività del SISTRI. Si è limitato ad esprimere la preoccupazione del mondo delle imprese. Infatti il Ministro ha sottolineato l'importanza, nell'interesse delle stesse imprese, di un sistema di tracciabilità dei rifiuti ma, al tempo stesso, si è fatto per così dire portavoce delle principali istanze delle imprese, che richiedono una maggiore semplificazione delle procedure e una più razionale selezione di quelle a cui applicare il sistema di tracciabilità dei rifiuti (escludendo le imprese per le quali, attesa la loro modesta dimensione, un sistema di tal fatta risulterebbe non solo inutile ma anche dannoso).
A prescindere dai profili di validità e/o efficacia del contratto concluso tra il Ministero dell'ambiente e la Selex, entrambe le amministrazioni, dunque, hanno concordato sulla necessità di avviare un sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti, quale obiettivo imposto anche dalla normativa europea, che, da un lato, sia idoneo


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a rendere trasparenti le movimentazioni dei rifiuti e, dall'altro, fruibile dalle imprese senza eccessivi sovraccarichi organizzativi.
Di una cosa bisogna prendere atto: non creare un sistema di tracciabilità dei rifiuti significa condannare l'Italia a diventare una sorta di Paese del terzo mondo, ove, in assenza di regole efficaci, chiunque può utilizzare a proprio piacimento il territorio nella consapevolezza dell'impunità.
I disastri ambientali ad oggi accertati in Italia sono innumerevoli e, sebbene in taluni casi siano cessate le condotte inquinanti, tuttavia, gli effetti dannosi per l'ambiente non solo permangono ma si prevede che si amplificheranno con il passare degli anni, per una serie di effetti a catena inarrestabili.
Il quadro, così come delineato, è, nella sua drammaticità, talmente nitido, da non consentire ulteriori «se e ma» da parte di chi ha il compito di individuare e dettare le regole del settore. Qualunque inerzia o anche scarsa attività propositiva in merito non potrà essere giustificata. Chi, rivestendo ruoli istituzionali e disponendo dei necessari mezzi e competenze, non si attiverà in questo senso, porterà su di sé la responsabilità per i danni, talvolta incalcolabili, all'ambiente, alla salute e all'economia di questo Paese.

1.6. Gli approfondimenti e le attività di inchiesta svolti dalla Commissione sul traffico transfrontaliero di rifiuti

La Commissione ha approfondito il tema delle spedizioni transfrontaliere dei rifiuti e dei connessi illeciti penali previsti dal decreto legislativo n. 152 del 2006.
Nel corso delle audizioni dei magistrati e delle forze dell'ordine sono emerse le importanti problematiche che caratterizzano il settore delle spedizioni e dei traffici transfrontalieri dei rifiuti, con particolare riferimento alla facilità con cui vengono eluse le norme che regolamentano le spedizioni all'estero di rifiuti e alla difficoltà dei controlli incrociati che necessariamente devono essere effettuati in modo sostanziale e non meramente formale. Allo stato, infatti, i controlli si sostanziano pressoché esclusivamente nell'esame dei documenti di accompagnamento delle varie spedizioni.
La Commissione ha avuto modo di constatare la carenza di una normativa adeguata con riferimento, in particolare, al profilo della tutela penale.
Le norme che nel codice ambientale prevedono condotte penalmente rilevanti in merito al traffico transfrontaliero e, in generale, al traffico illecito di rifiuti sono gli articoli 259 e 260 del decreto legislativo n. 152 del 2006. Queste sono le norme che maggiormente trovano applicazione nei procedimenti relativi ai traffici transfrontalieri di rifiuti, ma non sono certamente le uniche.
A seconda di come si atteggi concretamente la condotta degli indagati, del livello di organizzazione, delle dimensioni nazionali o transnazionali del gruppo organizzato, della capacità degli indagati di penetrare all'interno delle procedure amministrative con condotte corruttive, possono configurarsi i reati di associazione a delinquere, reati di falso, reati contro la pubblica amministrazione, reati a base


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fraudolenta, reati fiscali e quant'altro riconducibile ad una struttura finalizzata all'elusione delle norme poste a tutela delle procedure di smaltimento e recupero dei rifiuti.
Va Sin d'ora evidenziato come il sistema di tutela penale dell'ambiente si atteggi nel testo unico ambientale in modo schizofrenico, attraverso la previsione, da un lato, di fattispecie contravvenzionali di dubbia efficacia generalpreventiva e specialpreventiva, dall'altro, di un'unica fattispecie delittuosa, quella di cui all'articolo 260 del decreto legislativo n. 152 del 2006, gravemente sanzionata e affidata alla competenza della Direzione distrettuale antimafia. Si tratta di norme che coesistono in un sistema punitivo del quale non è ben chiara la politica criminale che ne rappresenta o ne dovrebbe rappresentare il substrato.
Paradossale è che non sia stato contemplato il reato di disastro ambientale, sicché è l'interprete che ha dovuto rinvenire nel codice penale norme che si attagliassero a casi specifici riconducibili a fattispecie di reato poste a tutela di beni giuridici diversi dall'ambiente, ma che si prestano a tutelare anche ulteriori beni. Un esempio eclatante è fornito dall'articolo 434 del codice penale, reato posto a tutela della pubblica incolumità e, per così dire, utilizzato dall'interprete per punire la condotta di disastro ambientale, che non è contemplata in una specifica norma del codice penale o di leggi speciali.
Le indagini svolte dalla magistratura italiana hanno dimostrato come l'interesse della criminalità organizzata, anche di di stampo mafioso, nel settore dei rifiuti sia molto forte, trattandosi di un settore che, da un lato, consente di conseguire profitti considerevoli, dall'altro, avendo i reati previsti dal codice ambientale essenzialmente natura contravvenzionale, non comporta, almeno teoricamente, particolari rischi sotto il profilo del trattamento sanzionatorio.
La Commissione, attraverso le indagini svolte in merito alle infiltrazioni della criminalità organizzata di stampo mafioso nel settore dei rifiuti, ha acquisito uno spaccato allucinante della situazione attuale, essendo emerso come la criminalità organizzata possegga una straordinaria capacità di avere contezza di quelli che sono gli affari più importanti del settore, e questo presuppone l'esistenza di un'area di contiguità estremamente estesa e consolidata che abbraccia interi settori delle professioni, della politica e della pubblica amministrazione.
A ciò deve aggiungersi un altro dato, particolarmente significativo, emerso nel corso dell'attività di approfondimento.
I reati ambientali, al pari di altre tipologie di reati, quali il traffico di stupefacenti, il traffico di esseri umani, il riciclaggio, sono reati a vocazione tipicamente transnazionale, il che significa che spesso gli organi investigativi si trovano di fronte alla necessità di superare i confini nazionali e instaurare collegamenti di indagine con l'autorità giudiziaria e la polizia giudiziaria di altri paesi.
La recente attribuzione della competenza in merito al reato di cui all'articolo 260 del decreto legislativo n. 152 del 2006 (traffico organizzato illecito di rifiuti) alle procure distrettuali antimafia è il segno del recepimento da parte del legislatore del dato fattuale che caratterizza il traffico di rifiuti, ossia la naturale tendenza a superare i confini regionali e nazionali, sicché gli investigatori necessitano degli

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strumenti di indagine più incisivi di cui sono dotate le procure distrettuali antimafia.
Il mercato dei rifiuti, con particolare riferimento ai rifiuti destinati al riciclo, è un mercato ormai globalizzato, ma privo di regole omogenee e di adeguati controlli, che si connota per la presenza di ampie maglie attraverso le quali è molto facile per i trafficanti di rifiuti operare liberamente creando le premesse per il verificarsi di situazioni di vero e proprio disastro ambientale, con tutte le conseguenze immaginabili per la salute umana e per la salubrità dell'ambiente.
I più importanti porti europei, compresi quelli italiani, rappresentano il punto di snodo dei traffici illeciti transazionali di rifiuti. Il trasporto via mare è infatti più economico di quello terrestre e rende obiettivamente più difficili i controlli.
Dalle indagini in corso, che peraltro hanno avuto risalto anche sulla stampa, risulta come in diversi casi il porto di Rotterdam (ove la Commissione si è recata nel corso di una missione) abbia rappresentato la via di transito, di partenza o di arrivo di rifiuti oggetto di illecito traffico e smaltimento.
I problemi principali riguardano il flusso di rifiuti elettronici, che sembrerebbe vengano inviati in Africa, dove però le condizioni di lavoro non garantiscono la salute dei lavoratori (spesso rappresentati da minori).
Altro problema riguarda il trasporto di rifiuti plastici in Cina, ove vengono «riciclati» in violazione di tutte le regole vigenti.
In sostanza, le modalità attraverso cui vengono consumati i traffici illeciti si basano essenzialmente sulla possibilità di far perdere ai rifiuti le loro tracce, facendoli passare di mano in mano, attraverso l'opera di intermediari, e facendo in modo che i rifiuti seguano percorsi collaudati che vanno dall'Italia in Germania, Olanda, Hong Kong, Cina.
Risulta evidente l'importanza di un coordinamento normativo tra i vari paesi, della presenza di polizia specializzata, e della necessità di un approccio globale al problema, che involge evidentemente gli interessi di organizzazioni criminali radicate nei diversi paesi interessati, che riescono ad avere un controllo capillare del territorio, aspetto questo fondamentale nella gestione dei traffici illeciti transnazionali di rifiuti.
Non è un caso che i paesi destinatari dei rifiuti siano tendenzialmente i paesi del terzo mondo o paesi privi di una legislazione rigorosa in materia, nonché di organi di controllo adeguati.
Con riferimento al nostro paese e, in particolare alle indagini effettuate dalla magistratura italiana in merito al traffico illecito di rifiuti, è emersa l'importanza fondamentale che hanno acquisito nella materia in oggetto le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, dichiarazioni che, con i dovuti riscontri, hanno consentito di connotare in termini di mafiosità diversi traffici illeciti che, prima facie, apparivano gestiti da organizzazioni criminali «comuni».
Si è anche avuto modo di constatare come il reato di traffico illecito di rifiuti sia normalmente accompagnato dalla consumazione di altri reati, come i reati fiscali, i reati di falso ed il reato di riciclaggio.
Proprio con riferimento ai connessi reati fiscali, si sono palesate necessarie le indagini finanziarie, svolte dalla Guardia di finanza, da effettuare parallelamente alle indagini sul traffico di rifiuti.

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Poiché il traffico di rifiuti comporta utili enormi, è infatti indispensabile per l'imprenditore che opera illecitamente abbassare il reddito imponibile e creare costi fittizi attraverso fatture per operazioni inesistenti. Si tratta di un'attività che che viene organizzata in maniera «più rozza» e semplice con una società cartiera laddove il traffico è di piccole dimensioni, in maniera molto più ampia, con un carosello di società tutte collegate tra di loro da rapporti di dare e avere falsi, nel caso di traffici di grandi dimensioni.
Connessi sono anche i reati di riciclaggio e di reimpiego dei profitti illeciti, reati questi che hanno un'elevata potenzialità offensiva essendo in grado di incidere sul corretto funzionamento del mercato, alterandone le regole basilari.
Nell'ambito delle singole relazioni territoriali è emerso come diverse regioni italiane siano interessate dal traffici transfrontalieri illeciti di rifiuti, soprattutto quelle regioni che dispongono di porti di dimensioni tali da rendere difficile un controllo capillare da parte delle forze dell'ordine. In questo senso, dunque, si rimanda a quanto esposto nelle relazioni territoriali.
In questa sede si vuole, comunque, evidenziare come l'accertata problematicità dell'avvio di indagini di ampio respiro sia da ricondurre anche alla disomogeneità delle risposte repressive vigenti nei diversi paesi coinvolti dai traffici illeciti.
Si è, inoltre, accertato che non in tutti i paesi vi sono organi di polizia giudiziaria specializzata, il che rende ancora più complicato il coordinamento investigativo.
Conclusivamente, la mancanza di un approccio normativo unitario a livello europeo, e non solo, sia dal punto di vista preventivo che dal punto di vista repressivo, nei confronti dei crimini ambientali e la mancanza di un'efficace e sistematica attività di coordinamento tra le autorità giudiziarie dei vari paesi rappresenta un gravissimo limite allo svolgimento di indagini che necessiterebbero di un approccio unitario nonché dell'impiego di forze comuni, sia dal punto di vista informativo, sia dal punto di vista normativo, sia, infine, dal punto di vista operativo.
Tale procedimento di integrazione si rende quanto mai necessario in una fase, come quella attuale, in cui il settore dei rifiuti rappresenta uno dei principali business per le organizzazioni criminali di stampo mafioso e non, italiane e straniere.
La Commissione, come evidenziato, ha approfondito questi temi anche nel corso di missioni effettuate all'estero, in particolare in Germania, Danimarca, Belgio, Olanda, Francia, Cina e Hong Kong.
Particolare attenzione è stata rivolta al sistema di smaltimento dei rifiuti in Germania, rispetto al quale si impongono talune osservazioni: la Germania è riuscita ad attribuire valore economico non già al ciclo di smaltimento dei rifiuti, inteso come procedimento che consente alle imprese del settore di ricavare profitto, ma al risultato del ciclo medesimo, ossia a ciò che dal rifiuto si può ricavare (energia o materie prime da riutilizzare); il sistema economico agisce, anche in questo delicato settore, secondo la fisiologia che se ne deve attendere, ossia la produzione e la vendita di un prodotto.
In Germania, i rifiuti rappresentano una ricchezza perché da essi si ricava energia elettrica (attraverso la termovalorizzazione) o materie

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prime da riutilizzare (attraverso il riciclo), e dunque i rifiuti stessi vengono trasformati in nuovi prodotti da reimmettere nel circuito economico.
Secondo dati forniti dal Ministero federale dell'ambiente, l'indotto legato alla raccolta e ciclo dei rifiuti occupa oggi in Germania complessivamente circa 160.000 persone e genera un fatturato annuale di oltre 40 miliardi di euro.
Il settore dei rifiuti è considerato in Germania di fondamentale importanza, non solo dal punto di vista sociale ed ambientale, ma anche dal punto di vista economico.
Se il rifiuto resta tale (come accade in Italia, salvo qualche zona virtuosa) non solo ne deriva un grave pregiudizio per l'ambiente e per la salute delle persone, ma non vi è neppure alcun profitto per alcuno.
L'unico profitto che può essere ricavato, in un sistema del genere, è quello che la criminalità, organizzata e non, riesce a conseguire infiltrandosi, ed in certi casi sostituendosi agli apparati statali. In Italia i rifiuti rappresentano una ricchezza, ma si tratta di una ricchezza verosimilmente riservata solo a pochi che speculano, anche illecitamente, sulle carenze strutturali, impiantistiche ed organizzative che caratterizzano questo settore in Italia.
Si è inoltre registrata una maggiore duttilità della normativa tedesca sia per quanto riguarda la realizzazione degli impianti che l'attività di termovalorizzazione dei rifiuti.
Le indagini di corruzione che pure sono state segnalate dalla polizia federale tedesca con riferimento alla realizzazione degli impianti di termovalorizzazione non pare abbiano pregiudicato in modo significativo la tenuta complessiva del sistema, nel senso che gli impianti sono stati realizzati secondo le prescrizioni normativamente previste.
In merito ai rapporti tra l'Italia e la Germania per lo smaltimento dei rifiuti, da più parti nel corso della missione è stato sottolineato come i termovalorizzatori tedeschi abbiano bisogno di ricevere rifiuti da altri paesi, in quanto i rifiuti della Germania non sono sufficienti. A tal punto vi è una richiesta di rifiuti da incenerire che vi è stato un radicale abbattimento dei prezzi per il conferimento dei rifiuti nei termovalorizzatori (prezzi che nel giro di poco tempo si sono infatti abbassati da una media di 100/150 euro a tonnellata ad una media di 50/55 euro a tonnellata).
Il trend, in ossequio alla direttiva quadro europea in materia di ambiente, è comunque quello di privilegiare il riciclo del rifiuto rispetto alla termovalorizzazione.
Un importante risultato della missione, proprio con riferimento alle indagini giudiziarie che hanno coinvolto sia l'Italia che la Germania, è costituito dal fatto che si è stabilita una forma stabile di collaborazione tra la questa Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e la Commissione parlamentare d'inchiesta costituita in Sassonia.
Nel corso dell'incontro con i componenti della Commissione sassone è stato, infatti, concordato di mantenere una sorta di collegamento investigativo, attraverso lo scambio di informazioni, documenti, e qualsiasi dato che possa apparire rilevante nell'ambito delle rispettive indagini, indagini che evidentemente sono connesse, trattandosi di rifiuti provenienti dalla Campania e conferiti in una discarica tedesca.


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2. Le relazioni territoriali.

La Commissione, oltre ad aver approfondito le tematiche specifiche di cui si è dato conto nella parte prima, ha svolto inchieste territoriali sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nelle regioni Lazio, Sicilia, Lombardia, Calabria, Puglia, Basilicata, Campania, approvando le relative relazioni.
In questa sede si riportano le conclusioni cui la Commissione è pervenuta nelle inchieste territoriali unitamente agli approfondimenti sui siti contaminati esistenti in ciascuna regione, rimandandosi per la trattazione completa al testo delle relazioni approvate.

2.1. Conclusioni relative alle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nella Regione siciliana (approvata in data 20 ottobre 2010) (Doc XXIII n. 2, successivamente fatto proprio dall'Assemblea della Camera dei deputati mediante la votazione della risoluzione 6/00054 il giorno 18 gennaio 2011).

Le verifiche in relazione alla problematica dei rifiuti nella Regione siciliana hanno dimostrato la necessità di una scrupolosa applicazione della legge nella gestione del ciclo dei rifiuti.
Infatti, l'inefficienza che si è avuto modo di constatare non è dipesa da ipotetiche complicazioni di natura burocratica conseguenti alle procedure disciplinate dalle norme, ma dalla assoluta inettitudine di un regime in deroga a realizzare lo scopo finale di uno smaltimento dei rifiuti in sintonia con la salvaguardia di quegli interessi che la legge intende tutelare in materia ambientale.
Il problema dello smaltimento dei rifiuti non può considerarsi risolto per il solo fatto, per così dire, che per gli stessi vengano trovati luoghi ove concentrarli, perché la questione non è di spostare i rifiuti da un luogo ad un altro, ma di smaltirli senza danno per l'ambiente.
Attualmente in Sicilia il ciclo dei rifiuti può, più realisticamente, essere definitivo un non ciclo, in quanto i rifiuti vengono conferiti in discarica e vi sono percentuali bassissime in quasi tutti i comuni siciliani di raccolta differenziata.
Tamponare, nell'emergenza, le problematiche relative alle discariche attraverso il regime in deroga ad oggi non ha avuto altro effetto che aggravare ulteriormente la situazione e la discarica di Bellolampo in qualche modo ne è l'emblema.
In Sicilia il settore dei rifiuti si caratterizza perché esso stesso organizzato per delinquere.
È la più eclatante manifestazione della legge dell'illegalità, cioè l'illegalità si è fatta norma che permea negli aspetti più minuti e capillari qualsivoglia aspetto afferente al ciclo dei rifiuti.
Il sistema si pone come obiettivo non già lo smaltimento dei rifiuti ma il «non smaltimento» dei rifiuti medesimi.
Il rifiuto, infatti, in questo paradossale sistema, è esso stesso la ricchezza e come tale va conservato e tutelato affinché non si disperda.
La vicenda relativa al percolato prodotto dalla discarica di Bellolampo è un esempio lampante di come il rifiuto (che in quel caso ha anche determinato una situazione di disastro ambientale) si trasformi in «ricchezza» e consenta di far conseguire illeciti profitti alla criminalità organizzata e non.


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A questo punto appare talmente organizzato il disordine organizzativo da far nascere la fondata opinione che esso stesso sia intenzionalmente architettato al fine di funzionare come generale giustificazione per l'inefficienza di ciascuna articolazione della macchina burocratica, in modo che ciascun ufficio può giustificare la propria inefficienza con la presunta inefficienza di un altro ufficio, e così via all'infinito, in una perversa spirale, e comunque in modo da far perdere a chi eventualmente volesse capirci qualcosa il bandolo della matassa.
Il ciclo dei rifiuti in Sicilia è un esempio di «disfunzione organizzata».
Si tratta di un sistema che si fonda su una materia apparentemente assai dura, ma in realtà assai fragile, come l'argilla, e riesce a preservarsi nella misura in cui nessun serio meccanismo di tutela svolga la sua funzione.
Laddove fosse minimamente efficace un'attività programmatica di controlli preventivi, l'intero sistema crollerebbe.
Quali le soluzioni ? In questo contesto l'estrema ratio della norma penale assolve alla sua funzione di prevenzione generale e speciale e di retribuzione del male compiuto.
Vanno, come evidenziato da diversi procuratori della Repubblica nel corso delle audizioni, potenziati gli strumenti di accertamento, sia nella fase preventiva, sia nella fase propriamente investigativa.
Solo in questo modo è possibile avviare tutte quelle attività di verifica che farebbero crollare, come un castello di sabbia, il sistema dell'illegalità che caratterizza il settore dei rifiuti nella regione.
La vicenda dei termovalorizzatori, poi, dà uno spaccato allucinante della situazione in Sicilia, perché dimostra come la criminalità organizzata abbia una straordinaria capacità di avere contezza di quelli che sono gli affari, e questo presuppone l'esistenza di un'area di contiguità estremamente estesa e consolidata che abbraccia interi settori delle professioni, della politica e della pubblica amministrazione.
Laddove la criminalità organizzata fosse riuscita effettivamente ad ottenere la gestione dei termovalorizzatori, tutte le varie fasi del ciclo dei rifiuti in Sicilia ne sarebbero state condizionate.
La gestione, da parte della criminalità organizzata, dell'intero ciclo dei rifiuti in Sicilia, attraverso la realizzazione e la gestione a monte dei termovalorizzatori, avrebbe avuto conseguenze disastrose non solo per l'economia del settore, ma soprattutto per la salute dei cittadini siciliani e per l'ambiente.
In questo senso certamente meritoria è stata la scelta del governo attuale della Regione siciliana di presentare presso gli uffici della procura della Repubblica di Palermo un dossier nel quale sono stati evidenziati gli elementi di distorsione della procedura per l'aggiudicazione della gara concernente i termovalorizzatori, sia sotto il profilo prettamente amministrativo che sotto il profilo delle possibili infiltrazioni della criminalità organizzata (con conseguente nullità delle convenzioni stipulate dal Commissario delegato).
La summenzionata denuncia ha consentito l'apertura dell'indagine presso la procura di Palermo, ove, fino a quel momento, non era stata aperto alcun procedimento penale in merito a questa vicenda.

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Vanno altresì apprezzati alcuni recenti sforzi della regione di introdurre norme rigorose con la previsione di altrettante rigorose sanzioni in caso di mancata osservanza da parte dei destinatari.
Assolutamente inutile, anzi deleteria, appare allo stato la dichiarazione dello stato di emergenza nella Regione siciliana nel settore dello smaltimento dei rifiuti e la nomina di un commissario delegato, come peraltro avvenuto in passato senza alcun risultato, se non quello di alimentare l'emergenza medesima, e quindi l'inefficienza nel settore.
Nonostante le argomentate problematiche connesse alla dichiarazione di emergenza rifiuti esposte nella relazione della Commissione, il Governo ha nuovamente dichiarato lo stato di emergenza nella Regione siciliana.

2.1.1. Le bonifiche nella Regione siciliana: i siti di Gela e Priolo.

L'esperienza siciliana in materia di bonifiche è la prova lampante dell'assoluta inettitudine delle strutture commissariali ad affrontare le problematiche connesse alla bonifica dei siti inquinati e, in generale, all'ambiente.
Il territorio rientrante nel sito di interesse nazionale di Gela è ben lontano dall'essere bonificato e la magistratura sta svolgendo un attento lavoro finalizzato alla verifica della liceità delle condotte tenute dagli enti interessati alla bonifica medesima. La procura della Repubblica di Gela ha inviato una nota relativa alle indagini in corso da cui si desume la particolare attenzione e sensibilità che la locale procura ha manifestato e manifesta con riferimento alla materia ambientale. Ciò è tanto più meritorio in quanto si tratta di un ufficio giudiziario di piccole dimensioni che evidentemente risente, come altri uffici giudiziari, di risorse inadeguate rispetto alle attività di indagine che il territorio richiede.
I gravissimi ritardi che si sono registrati nel sito di interesse nazionale di Gela sono analoghi a quelli registrati nel sito di interesse nazionale di Priolo.
Il dato allarmante che riguarda entrambi i siti è quello concernente l'esistenza di una situazione sanitaria gravemente compromessa, che continuerà a rimanere tale fino a quando non si procederà efficacemente alla bonifica.
Di ciò ha dato atto lo studio Sentieri1, evidenziando per il sito di interesse nazionale di Gela «...un eccesso di tumori polmonari sia tra gli uomini sia tra le donne; tra gli uomini sono in eccesso anche il tumore dello stomaco e l'asma; tra le donne il tumore del colon-retto e l'asma.» e, per il sito di interesse nazionale di Priolo, «eccesso negli uomini di tumori del polmone e della pleura, causa, quest'ultima, in eccesso anche nelle donne; mortalità è in eccesso in entrambi i generi per le malattie respiratorie acute ...».
1 Il progetto sentieri-Studio epidemiologico nazionale territori e insediamenti esposti a rischio da inquinamento-coordinato dall'Istituto superiore di sanità tra il 2007 e il 2010 nell'ambito del programma strategico ambiente e salute, promosso dal Ministero della salute, è stato realizzato in collaborazione con il centro europeo ambiente e salute dell'Organizzazione mondiale della sanità, il dipartimento di epidemiologia del Servizio sanitario regionale del Lazio, il consiglio nazionale delle ricerche di Pisa e l'Università di Roma – La Sapienza


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Lo stesso studio Sentieri raccomanda tra le attività urgenti per i due siti l'acquisizione di dati per la valutazione dello stato attuale di inquinamento ambientale e dell'esposizione, dando, di fatto, conto delle inadeguatezza delle pur numerose indagini di caratterizzazione ad oggi condotte.
Emblematico del ritardo nella bonifica dei siti regionali è il caso della messa in sicurezza dell'amianto derivante dalle baraccopoli allestite per il terremoto della valle del Belice.
Sul punto è sufficiente sottolineare che le attività sono state in gran parte (non del tutto !) completate nel 2008-2009: il tragico evento sismico risale alla notte tra 14 e il 15 gennaio 1968. I dati non richiedono ulteriori commenti.

2.2. Conclusioni relative alle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nella regione Calabria (relazione approvata in data 19 maggio 2011) (Doc XXIII n. 7, successivamente fatto proprio dall'Assemblea della Camera dei deputati mediante la votazione della risoluzione 6/00084 il giorno 23 giugno 2011).

La Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività connesse al ciclo dei rifiuti, all'esito di ben tre missioni svolte in Calabria, delle numerose audizioni dei rappresentanti delle istituzioni effettuate sia sul territorio calabrese, sia a Roma negli uffici di Palazzo San Macuto, nonché della notevole mole di documenti acquisiti ha predisposto una relazione apposita.
La relazione contiene la disamina attenta e rigorosa delle carenze amministrative e gestionali del ciclo integrato dei rifiuti nella regione Calabria, a partire dall'anomala, quanto del tutto arbitraria e ingiustificata, suddivisione del territorio calabrese in tre macroaree denominate, rispettivamente, «Calabria Nord», «Calabria Centro» e «Calabria Sud», che non solo non corrispondono alla realtà geografica, ma sono anche prive di caratteristiche omogenee.
Sulla base delle indagini svolte dalla Commissione di inchiesta si può affermare con assoluta serenità che in Calabria l'emergenza rifiuti non è stata ancora oggi superata, nonostante il commissariamento della regione nello specifico settore della gestione dei rifiuti solidi urbani, avvenuto con decreto dal presidente del consiglio dei Ministri del 12 settembre 1997, e la conseguente nomina di ben undici Commissari delegati del Governo, che si sono succeduti nel tempo, a partire dal 21 ottobre 1997.
Purtroppo, i risultati sono stati del tutto insoddisfacenti rispetto ai numerosi piani rifiuti predisposti dall'ufficio del commissario delegato sia per quanto riguarda la raccolta differenziata, sia in ordine allo smaltimento finale dei rifiuti solidi urbani, con conseguente spreco del denaro pubblico, come puntualmente posto in evidenza nella stessa relazione.
Invero, deve essere sottolineato, per un verso, che la raccolta differenziata dei rifiuti urbani, dopo il fallimento delle società miste pubblico-private costituite ad hoc dal commissario delegato, è del tutto inesistente sul 90 per cento del territorio calabrese e, per altro verso, non solo non vi sono inceneritori di tali rifiuti, ma sussiste un'assoluta carenza di discariche pubbliche, posto che nel corso dell'intera gestione commissariale non sono state punto realizzate.


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Di conseguenza, tutto il sistema delle discariche è rimasto affidato ai privati.
Nella regione infatti sono operative le discariche private: 1) Pianopoli (CZ), gestita dal dalla Eco Inerti del gruppo Unendo, che fa capo alla società Daneco; 2) Catanzaro - Alli; 3) Crotone, località Columbra, la più grossa della Calabria, gestita dalla Sovreco srl, facente parte del gruppo Vrenna, mentre tutte le altre discariche, pubbliche e private, sono praticamente esaurite.
In tale contesto si assiste al continuo via vai di camion carichi di rifiuti, gestiti in modo incontrollato, che percorrono in lungo e in largo l'intera regione che, per di più, è afflitta da gravi problemi di viabilità.
Tale situazione deve, ancora una volta, far riflettere sul fatto che la gestione dei rifiuti urbani deve ormai essere impostata e realizzata, esclusivamente, mediante una raccolta differenziata molto spinta, fatta a monte, per destinare a recupero le frazioni raccolte ovvero mediante lo smaltimento «certo» delle frazioni non differenziabili in impianti consolidati nella loro progettazione e realizzazione, quali impianti di incenerimento/termovalorizzazione e, solo in ultima istanza, discariche controllate.
Sulla base di quanto riscontrato da questa Commissione di inchiesta, la cosiddetta «filiera corta» nella gestione del rifiuto indifferenziato – basata quindi sulle sole fasi di raccolta/smaltimento – è l'unica garanzia sul piano tanto dell'efficacia della gestione, quanto sul piano delle migliori garanzie di legalità e trasparenza delle operazioni eseguite.
In un contesto di acclarata inefficienza e di disservizio pubblico devono, inoltre, essere sottolineati, in negativo, i costi della struttura commissariale, indicati nella relazione della Corte dei conti-sezione regionale di controllo per la Calabria, che – con riferimento al periodo compreso tra il mese di gennaio 2006 e il mese di agosto 2009 – sono stati complessivamente pari a 13.838.659,64 euro, mentre le spese «per la gestione di discariche, impianti e stazioni» in un decennio sono state complessivamente pari a euro 249.144.297,53, con un crescendo costante.
Se si volessero fare dei rapidi confronti per ogni cittadino calabrese sono stati spesi ben 123,89 euro solo per la gestione delle discariche e delle stazioni di trasferenza da parte del commissario, cui vanno ad aggiungersi le somme pagate a titolo di tariffa dai comuni: il tutto per un servizio non reso, ovvero reso male.
Naturalmente, i costi sopra indicati prescindono dalle condanne, contenute in ben tre lodi arbitrali, del complessivo importo di oltre 100 milioni di euro – importo che, paradossalmente, è pari al costo di un inceneritore da 120 mila tonnellate all'anno – subite dall'ufficio del commissario delegato, a causa:
a) della mancata realizzazione del termovalorizzatore di Bisignano;
b) dei ritardi e degli inadempimenti relativi alla costruzione degli impianti di trattamento e delle discariche di servizio, nonché al raddoppio del termovalorizzatore di Gioia Tauro (lodo n. 121/10);
c) dei crediti vantati dalla Tec -Veolia per maggiori costi di gestione degli impianti (lodo 101/10).


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La Commissione di inchiesta esprime perplessità in merito al previsto raddoppio dell'impianto di incenerimento di Gioia Tauro.
Invero, tale impianto non è destinato a bruciare il «tal quale», bensì solo il «cdr», nonostante che in Calabria, nell'assenza o quasi della raccolta differenziata, non venga prodotto «cdr» a sufficienza.
Di conseguenza, nel breve/medio periodo e in attesa che anche in Calabria si produca «cdr» di adeguata qualità e in quantità sufficiente a saturare la capacità di trattamento dell'impianto di Gioia Tauro raddoppiato, si assisterà all'importazione da altre regioni italiane del «cdr» che, in quanto rifiuto speciale, non è sottoposto a vincoli territoriali, come i rifiuti solidi urbani (rsu).
Dettagliata e documentata è la descrizione delle numerose zona d'ombra, determinate a volte dalla contiguità di rappresentanti delle istituzioni con ambienti malavitosi, altre volte, dalla mancanza di controlli da parte dei pubblici poteri, nonché da diffusi atteggiamenti di omertà, che consentono alla criminalità mafiosa, non solo, di inserirsi nel circuito dello smaltimento illegale dei rifiuti, anche pericolosi (la Calabria è terra di smaltimento per eccellenza di tale tipologia di rifiuti, nonostante la carenza di insediamenti industriali), ma di gestire enormi discariche, che non sempre sono abusive.
Invero, le inefficienze del sistema pubblicistico hanno finito con il favorire l'inserimento nel ciclo dei rifiuti della criminalità organizzata, che è particolarmente presente nella provincia di Reggio Calabria, laddove, a fronte di un giro d'affari di complessivi 150 milioni di euro all'anno, pari al 2 per cento del PIL del territorio, solo 12 imprese delle 161 che si occupano di rifiuti hanno ottenuto la certificazione antimafia negativa, mentre 115 imprese risultano addirittura sconosciute al sistema.
Dal che si desume agevolmente che – in una terra che vede la «presenza asfissiante» della ’ndrangheta, con le regole descritte in modo particolareggiato dal dottor Gratteri – le suddette imprese prosperano in modo anonimo con i subappalti o con la prestazione di manodopera.
Sul punto, sono significative le dichiarazioni rese, nel corso della sua audizione, dal dottor Giuseppe Pignatone, il quale ha riferito dell'esistenza di connivenze, infiltrazioni e condizionamenti, talvolta a livello di amministratori dei comuni, a volte, molto più semplicemente, della struttura amministrativa, che spesso si intreccia con la prima, tanto che nell'ultimo periodo, nella sola provincia di Reggio, sono state sciolte le amministrazioni comunali di cinque o sei comuni, sulla base delle risultanze di indagini della direzione distrettuale antimafia, poi utilizzate in sede amministrativa.
Infine, la relazione è esaustiva anche in ordine alle cause della mancata bonifica dei siti inquinati di Crotone, di Cassano allo Ionio e di Cerchiara, ricompresi nel Sin (sito di interesse nazionale) affidata, dapprima, al commissario per l'emergenza rifiuti e, poi, al Ministero dell'ambiente.
Potrebbe rivelarsi non risolutiva, se non addirittura dannosa la costruenda discarica di Giammiglione, località sita a ridosso della città di Crotone in una zona collinare, al confine del comune di Scandale, a 350 s.l.m., destinata ad accogliere molti milioni di metri cubi di materiali contenenti scoria cubilot, fosfogessi e fibretta


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d'amianto, provenienti dal dismesso sito industriale «ex Pertusola» di Crotone.
Viceversa appare preferibile la bonifica in situ e, cioè, l'opportunità di chiudere all'interno di un volume confinato i materiali inquinanti e di trattarli sul posto, evitando escavazione e trasporto degli stessi.
In conclusione – a distanza di oltre tredici anni (ordinanza del Presidente del consiglio dei ministri in data 21 ottobre 1997 n. 2696 in Gazzetta Ufficiale del 25 ottobre 1997, n. 250) dall'istituzione dell'ufficio del commissario delegato per l'emergenza rifiuti in Calabria nel settore dello smaltimento di rsu, poi ampliato ad altri settori, quali quello delle acque e delle bonifiche – non è stato realizzato nessuno degli obbiettivi previsti dal piano regionale per i rifiuti, predisposto dal Commissario, obiettivi che sono stati ribaditi anche davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta presieduta dall'on. Paolo Russo nella XIV Legislatura.
Né l'ufficio del commissario ha proposto – o anche solo indicato – un piano alternativo, che consenta alla regione Calabria di uscire dallo stato di emergenza.
Inoltre, come è emerso nel corso delle numerose audizioni e come si legge nella stessa relazione della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti, la presenza dell'ufficio del commissario, a partire dal 1997, ha finito con il deresponsabilizzare gli stessi amministratori degli enti locali, in quanto la tematica dei rifiuti in Calabria è stata vissuta quale problema della gestione commissariale, e non dei comuni, province e regione.
È così mancata ogni forma di cooperazione, se non di collaborazione, tra tutte le istituzioni interessate al problema dei rifiuti, ma si è innescata una forma oziosa di «scaricabarile».
In un contesto – che vede il fallimento di ogni intervento pubblico nel settore delle discariche e degli impianti di trattamento e di incenerimento dei rifiuti, asseritamente determinato dalla opposizione della popolazione locale – le uniche realtà funzionanti sono quelle private, rappresentate, dagli impianti di trattamento e dal termovalorizzatore della «Tec – Veolia», dalle sopramenzionate discariche del «gruppo Vrenna» e dalla discarica di Pianopoli della società Daneco.
Infine, va sottolineato che al commissario per l'emergenza rifiuti, con il decreto ministeriale 26 novembre 2002 del Ministro dell'ambiente, che ha definito la perimetrazione dei siti inquinati, già inseriti nel Sin di Crotone, Cerchiara e Cassano, sono stati attributi anche i poteri in merito alla messa in sicurezza d'emergenza, bonifica e ripristino ambientale dei siti industriali contaminati, compresi nel Sin.
L'incarico per la bonifica dei suddetti siti inquinati ha avuto la durata di sei anni, essendo cessato in data 23 giugno 2008, con la riconsegna delle aree inquinate alla Syndial.
Tuttavia, nel corso di tanti anni, l'ufficio del commissario per l'emergenza rifiuti non ha provveduto a porre in essere iniziativa alcuna per la messa in sicurezza e/o la bonifica dei siti inquinati, lasciando ineseguite le decisioni assunte nelle varie conferenze di servizio tenute presso il Ministero dell'ambiente, probabilmente, per deficienze strutturali connesse all'enormità dei problemi da affrontare.

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Invero, le uniche attività svolte sono state quella della caratterizzazione dei siti inquinati di Crotone, Cerchiara e Cassano compresi nel sito di interesse nazionale e quella della esecuzione di una barriera di pozzi di emungimento delle acque di falda contaminate antistante l'area dello stabilimento ex Pertusola, fronte mare, che però non sono stati attivati.
In tema di bonifiche l'unica nota positiva è data dall'impegno profuso dai competenti uffici del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare nel corso del 2009 e del 2010, con la riacquisizione delle competenze dirette sul sito di interesse nazionale da parte del Ministero medesimo. Sono state infatti promosse riunioni tecniche, sopralluoghi e conferenze di servizi (istruttorie e decisorie) a seguito delle quali, anche attraverso lo strumento della decretazione di urgenza da parte del Ministro dell'ambiente, è stato definito un cronoprogramma per la conclusione delle attività di bonifica sulle aree incluse all'interno del sito di interesse nazionale. Tale cronoprogramma, seppure fortemente condizionato dalla possibilità effettiva di reperire le risorse economiche per poter effettuare gli interventi, costituisce un punto di riferimento importante per gli enti di controllo locali e nazionali e per l'opinione pubblica.
Infine, in un contesto di tale degrado, non poche perplessità desta il fatto che – come si è visto – la Calabria sia destinataria di enormi quantità di rifiuti speciali, posto che l'agenzia nazionale per l'ambiente, l'Ispra, ha calcolato nell'anno 2006 una capacità di smaltimento di rifiuti speciali calabrese molto alta e, cioè, di quasi 43 mila tonnellate, pari a circa il 7 per cento dei rifiuti nazionali, quantitativo che non corrisponde assolutamente alla produzione di rifiuti speciali locali.

2.2.1. Le bonifiche nella regione Calabria: il sito di Crotone-Cassano-Cerchiara.

Gli inadempimenti del commissario delegato all'emergenza rifiuti in Calabria hanno investito anche il sito di interesse nazionale (Sin) di Crotone, Cerchiara e Cassano, comuni afflitti da un grave inquinamento ambientale, determinato:
a) dalla «ferrite di zinco» dello stabilimento «ex Pertusola» di Crotone;
b) dalla «fibretta di amianto in polvere», usata fino agli anni Novanta negli stabilimenti «ex Montedison» di Crotone;
c) dalla «fosforite» derivante dalla produzione di fertilizzanti in questi ultimi stabilimenti.

Nel periodo di competenza – che va dal mese di novembre 2002 al mese giugno 2008, anno in cui l'esecuzione degli interventi di bonifica è stata demandata a Syndial spa, quale soggetto responsabile della contaminazione – l'ufficio del commissario per l'emergenza rifiuti non ha provveduto a porre in essere alcuna iniziativa per la messa in sicurezza e/o la bonifica dei siti inquinati,


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lasciando cadere nel vuoto le decisioni assunte nelle varie conferenze di servizi tenute presso il Ministero dell'ambiente e le conseguenti prescrizioni.
Le varie conferenze di servizi, istruttorie o decisorie, e le riunioni operative effettuate nella realtà hanno avuto solo carattere di mera interlocutorietà, senza alcun segnale di concretezza nell'affrontare e risolvere l'annosa questione dell'inquinamento dei terreni, delle falde acquifere e dei fondali marini, determinato dalle pregresse attività industriali all'interno del sito in questione.
Né la situazione è migliorata nel corso di questi ultimi tre anni di gestione del sito di interesse nazionale da parte del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, posto che la Syndial è in forte ritardo nell'attività di bonifica dei siti inquinati e che il Ministero stenta a esercitare i poteri sostitutivi di azione in danno, che la legge gli conferisce per l'adempimento delle obbligazioni assunte dalla società proprietaria dei siti inquinati.
A loro volta, le numerose riunioni tecniche e i sopralluoghi degli enti di controllo nazionali e locali, effettuati su richiesta del Ministero, sembrano non avere altro effetto che quello di fornire alla Syndial un giustificativo per dilazionare i tempi di intervento, probabilmente in previsione della stipula di un atto di «transazione globale» tra l'Eni e il Ministero, che ricondurrebbe a quest'ultimo l'esecuzione di tutti gli interventi.
Sulla congruità degli importi di tale transazione rispetto alle necessità di intervento sulle aree di proprietà Eni-Syndial presenti nei siti di interesse nazionale in generale e a Crotone in particolare, si dovrà attentamente vigilare.
E, tuttavia, a questo punto, questa Commissione di inchiesta – anche alla luce delle osservazioni del dottor Gianfranco Mascazzini, ex direttore generale della direzione generale qualità della vita del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, nel corso della sua audizione del 12 aprile 2011 – non può non esprimere tutte le sue perplessità sulla scelta operata dalla Syndial e approvata dal Ministero dell'ambiente, circa il trasferimento dei rifiuti nocivi dalle aree inquinate dell’ex Pertusola e dell’ex Fosfotec alla costruenda discarica di Giammiglione, località sita a ridosso della città di Crotone in una zona collinare, al confine del comune di Scandale, comune interno a 350 m. s.l.m., inserito nella comunità montana «Alto Marchesato Crotonese».
In pratica, nel caso di specie, il piano prevedeva il trasferimento dell'inquinamento dalla zona costiera a quella collinare dello stesso comune di Crotone, con centinaia di migliaia di viaggi di camion che avrebbero dovuto attraversare l'intera costa crotonese, carichi di molti milioni di metri cubi di materiali contenenti scoria cubilot, fosfogessi e fibretta d'amianto, da trasferire nella discarica di Giammiglione.
Viceversa – come ritenuto anche dallo stesso dottor Mascazzini nel corso della sua audizione – appare preferibile la bonifica in situ e, cioè, l'opportunità di chiudere all'interno di un volume confinato i materiali inquinanti e di trattarli sul posto, evitando escavazione e trasporto degli stessi.
Tanto più che il meccanismo dell'isolamento e del marginamento con tecniche sempre più raffinate – che oggi presentano un ragionevole

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rapporto costi/benefici – consente di attivare e scommettere sulle tecnologie di bonifica in situ.
In tal modo si evita il pericolo della fuoriuscita dell'inquinante grazie all'isolamento – chi se ne occupa sa quali regole rispettare – ed è anche possibile costruire nuovamente sui siti interessati, sia pure con una serie di cautele.
In sede di conclusioni pare opportuno dare atto dell'esito in primo grado del procedimento avviato dalla procura della Repubblica di Crotone in merito ai reati di disastro ambientale, di avvelenamento di acque e di gestione di discarica abusiva in relazione all'utilizzo del Cic per la realizzazione di opere pubbliche, compresi istituti scolastici.
In data 16 ottobre 2012 il Gup presso il tribunale di Crotone, dottoressa Gloria Gori, ha infatti emesso sentenza di non luogo a procedere all'esito dell'udienza preliminare.
Dalla lettura della sentenza si evince che gli elementi dirimenti sono stati tratti dalla perizia disposta dal Gup in sede di incidente probatorio.
La questione più importante affrontata nel processo è stata quella della attribuzione del codice Cer alla scoria cubilot. Il perito, al riguardo, anche a seguito di specifici sopralluoghi all'interno dell'ex Pertusola sud, ha ricostruito il ciclo produttivo dello zinco nonché il procedimento dal quale residuava la scoria cubilot. Lo zinco, infatti, secondo il perito, veniva prodotto non attraverso un processo termico di fusione (circostanza questa che avrebbe sì attribuito alla scoria cubilot la caratteristica di rifiuto pericoloso), ma attraverso un processo elettrolitico.
Senza entrare nel merito di una perizia evidentemente tecnica e specialistica, in questa sede si vuole sottolineare come il giudice abbia aderito pienamente alle conclusioni del perito ritenendo del tutto inutile sia le integrazioni alla perizia richieste dalla procura nel corso dell'udienza preliminare sia il vaglio dibattimentale.
Scrive, infatti il Gup: «dunque, in estrema sintesi, la perizia ha reso possibile accertare che, se anche il Cic utilizzato nei modi descritti e nei siti in sequestro deve considerarsi un rifiuto speciale e come tale deve essere rimosso da tali “ siti discarica non autorizzata ”, tale rifiuto non è pericoloso, non è di per sé ecotossico o nocivo ed in quanto tale non possono attribuirsi al Cic quelle potenzialità richieste per dar luogo ad una situazione di effettivo pericolo per la salute pubblica in termini di disastro ambientale. Allo stesso modo la perizia ha fatto comprendere come non sia stata riscontrata, nel Cic esaminato dal perito, la presenza di sostanze inquinanti di qualità ed in quantità tali da determinare il pericolo, scientificamente accertato, di effetti tossico-nocivi per la salute.
Probatio diabolica sarebbe poi quella, laddove in concreto si accertasse l'avvelenamento delle acque e della falda, di fornire al giudice elementi di prova univoci al fine di dimostrare che il Cic è causa o concausa di tale avvelenamento, soprattutto all'esito dell'analisi effettuata su tale materiale dal perito del giudice ben oltre dieci anni dopo la posa di tale materiale.».
Deve osservarsi come la sentenza del Gup sia stata lapidaria, nel senso che, da un lato, ha ritenuto inutile e dispendioso ogni ulteriore approfondimento anche in sede dibattimentale, dall'altro, ha con

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estrema chiarezza aderito alle conclusioni del perito, facendole proprie, superando in tal modo ogni altra diversa valutazione tecnica emersa nel corso delle indagini.
L'impressione che si trae dalla vicenda in esame è che, a fronte di una situazione ambientale decisamente compromessa, con effetti evidenti anche rispetto alla salute delle persone, ancora non si hanno certezze né in merito alla estensione e alla gravità dell'inquinamento né in merito alle cause dello stesso.
È certamente meritorio, in ogni caso, lo sforzo e l'impegno profusi dalla procura nell'approfondire una vicenda che, comunque, ha destato grave allarme nella popolazione ed altrettanto meritoria è, ad avviso della Commissione, la gestione celere del procedimento nonostante il numero degli imputati e le note carenze di risorse a disposizione degli uffici giudiziari del sud, tra cui quello di Crotone.
Per completezza di esposizione, deve specificarsi che nella medesima sentenza citata è stata riconosciuta l'esistenza del reato di gestione di discarica non autorizzata (di cui agli articoli 256 comma 3, del decreto legislativo n. 152 del 2006) nei siti ove il Cic è stato utilizzato per la pavimentazione stradale, per i sottofondi e per i riempimenti. Il reato, peraltro, è stato dichiarato prescritto in quanto l'utilizzo e la posa in opera del Cic si è esaurita tra il 1998 e il 1999-2000.
Con riferimento ai reati di disastro ambientale e di avvelenamento di acque, il proscioglimento è avvenuto con la formula «il fatto non sussiste» in quanto non è risultata provata l'attitudine del Cic a mettere in pericolo l'ambiente e la salute pubblica né è stato ritenuto dimostrato che possa ricondursi univocamente al Cic l'inquinamento della falda e del sottosuolo.

2.3. Conclusioni relative alle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nella regione Lazio (approvate in data 2 marzo 2011) (Doc XXIII, n. 6, successivamente fatto proprio dall'Assemblea della Camera dei deputati mediante la votazione della risoluzione 6-00076 il giorno 19 aprile 2011, indi dall'Assemblea del Senato mediante la votazione della risoluzione 6-00088 il giorno 28 settembre 2011).

La gestione dei rifiuti nella regione Lazio, contrariamente agli orientamenti, alle scelte, alle strategie dettate dalle direttive comunitarie in materia di rifiuti e dalla normativa nazionale, è andata nel verso opposto a quello della «gestione integrata».
Nella regione Sin dal 1999 è stata decretata l'urgenza e la gestione commissariale.
La più che decennale durata dell'emergenza rifiuti ha dimostrato sia il fallimento dei poteri d'urgenza, sia la difficoltà di riportare a una gestione ordinaria la raccolta, il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti prodotti.
Infatti, la dichiarata cessazione dell'emergenza rifiuti nel Lazio sembra rispondere più a motivazioni politiche che al superamento delle criticità nella gestione del ciclo, che sono essenzialmente rappresentate dallo scarso sviluppo della raccolta differenziata, dalla


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lavorazione di bassa qualità dei rifiuti, dalla commistione tra parte politica e parte gestionale.
È stato privilegiato il ricorso allo smaltimento in discarica (con richieste di ampliamenti, deroghe e nuove installazioni) e non il ricorso al revamping, all'ammodernamento e potenziamento delle strutture di trattamento esistenti, in parte obsolete, per la separazione secco-umido del rifiuto tal quale, alla stabilizzazione della frazione umida con produzione di fos da destinare alla ricopertura delle discariche e/o al ripristino delle cave esaurite, al tmb (trattamento meccanico biologico).
Gli interventi effettuati in questi anni sono stati mirati più al superamento della contingenza, con la realizzazione di discariche, impianti di cdr (combustibile derivato da rifiuto) e di inceneritori, che sulla necessità di una efficace programmazione della raccolta differenziata che si attesta su valori del 12-13 per cento fino al 2010, con il fallimento di tutti gli obiettivi fissati dal decreto legislativo n. 22 del 1997 e dalla stessa programmazione regionale.
I vari impianti per la produzione di cdr forniscono per lo più «ecoballe», che finiscono prevalentemente in discarica in quanto di scarsa qualità e non idonei per la termovalorizzazione.
Nonostante ciò, per la gestione integrata del ciclo, si continua, anche con il piano della nuova giunta regionale, a scommettere troppo sugli impianti di termovalorizzazione che sembrano sovradimensionati e che lo saranno ancora di più col raggiungimento di obiettivi accettabili di raccolta differenziata.
Le scelte relative alla localizzazione degli impianti non possono essere imposti dall'alto, solo sulla base di logiche industriali e senza tenere in considerazione i problemi del territorio e le possibili alternative.
Le inadempienze del governo regionale hanno comportato, da parte della Unione europea, l'attivazione di una procedura d'infrazione cui la giunta regionale ha cercato di porre rimedio con l'emanazione di un piano di gestione dei rifiuti avvenuta il 19 novembre del 2010.
Tale piano regionale perseguiva essenzialmente l'obiettivo di autosufficienza del sistema attraverso l'organizzazione di un ATO regionale e cinque sub-ATO provinciali, della chiusura del ciclo secondo i criteri della gestione integrata attraverso i quali, a fronte di un forte potenziamento della raccolta differenziata, del trattamento di separazione del rifiuto tal quale, della termovalorizzazione della frazione secca raffinata (cdr), la discarica avrebbe dovuto avere nel tempo un ruolo decisamente residuale.
Il piano ha posto quindi come obiettivo centrale e prioritario da raggiungere entro il 2011 il 60 per cento di raccolta differenziata sul territorio regionale. Vi è tuttavia da considerare che essendo stato assai basso negli ultimi anni il trend di crescita della raccolta differenziata, il traguardo del 60 per cento è apparso subito pressoché irrealizzabile e irraggiungibile nei tempi previsti.
Anche il ricorso al conferimento in discarica, che rappresenta il fallimento della gestione virtuosa del ciclo, è divenuto problematico per l'esaurirsi della capacità di Malagrotta e delle altre discariche del Lazio. Da ciò la necessità di individuare un'area alternativa, per il

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comune di Roma, al polo di Malagrotta che con le sue strutture impiantistiche (tmb, tmv) e la discarica rappresenta l'unico sistema imprenditoriale su scala regionale, seppure gestito in condizioni di monopolio di fatto.
Ed è peraltro necessaria una convinta e coerente azione per determinare l'aumento della raccolta differenziata. I positivi risultati raggiunti in molti comuni della provincia di Roma dimostrano che tale risultato si può ottenere con il concorso e il finanziamento di programmi sostenuti dai comuni, dalla provincia e dalla regione.
In materia di gestione dei rifiuti speciali la situazione attuale è stagnante con evidenti carenze impiantistiche. Vi è la necessità di riavviare un piano credibile di bonifica delle aree contaminate pur considerando che le risorse economiche da mettere in campo non sono trascurabili.
Secondo Federlazio, che ha minacciato la serrata delle discariche, le imprese di trattamento e smaltimento dei rifiuti sono creditrici, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, di oltre 250 milioni di euro.
Non a caso le maggiori criticità nella regione si sono riscontrate nella gestione dell'impianto di termovalorizzazione di Colleferro, dove gli illeciti ivi accertati sono stati evidentemente favoriti dalla carenza nel sistema dei controlli da parte del comune, della regione e della provincia, carenza per la verità dovuta anche al fatto che l'impianto per lungo tempo aveva operato con la procedura semplificata prevista dai previgenti articoli 31 e 33 del decreto legislativo n. 22 del 1997, il cosiddetto «decreto Ronchi».
Sempre, poi, con riferimento allo stesso impianto di Colleferro è emblematico che un'altra indagine della procura della Repubblica di Velletri abbia evidenziato una serie di illeciti che coinvolgevano anche la pubblica amministrazione, riguardanti la gestione e le difficoltà finanziarie della società Gaia spa, poi commissariata.
Nello specifico, sotto il profilo degli illeciti nel campo della gestione dei rifiuti riferibili alla criminalità organizzata, va rilevato che il Lazio si presenta come una regione particolarmente interessata a questo tipo di illegalità, sia per la presenza di ampie porzioni di territorio morfologicamente adatte alla discarica e all'occultamento illecito dei rifiuti e sia per la vicinanza con quelle aree della provincia di Caserta ad alto rischio ambientale, dove in passato e ancora oggi nell'attualità sono state individuate presenze criminali nel settore.
Relazioni di precedenti Commissioni sul ciclo dei rifiuti avevano indicato località quali Cassino, Latina, Formia, Pomezia ed Ardea come territori nei quali, dalla fine degli anni ’70, si erano insediati ed ingranditi molti gruppi appartenenti alle organizzazioni più pericolose della criminalità organizzata calabrese, siciliana ed, in particolare, campana.
Anche il procuratore aggiunto di Roma, coordinatore della direzione distrettuale antimafia, ha riferito che nel Lazio si riscontra la presenza della ’ndrangheta, della camorra e della mafia siciliana, presenza accertata ed evidenziata in numerose indagini e che danno conto dell'esistenza anche nel Lazio del fenomeno delle ecomafie.

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Nella sua relazione della cerimonia d'inaugurazione dell'anno giudiziario 2011, il procuratore generale della corte d'appello ha affermato che nel Lazio tutte le mafie operano in convivenza tra loro e con la tradizionale criminalità organizzata.
Tuttavia, l'ipotesi di filiere criminali operanti nel settore dello smaltimento illecito di rifiuti non hanno avuto particolare riscontro nei procedimenti penali attivati nel distretto giudiziario del Lazio. Si riscontrano invece connessioni tra attività imprenditoriali e fenomeni di corruzione della pubblica amministrazione.
Non vi sono attualmente in corso procedimenti strutturati concernenti il ciclo dei rifiuti e riguardanti la criminalità organizzata di stampo mafioso.
Questo dato, che per certi versi può sembrare confortante, ha trovato conferma nelle audizioni dei magistrati delle procure, dei prefetti, dei questori e dei responsabili dei corpi di polizia giudiziaria che, a vario titolo, si sono occupati di inchieste concernenti i traffici illegali di rifiuti, i quali hanno fornito uno spaccato della realtà ambientale abbastanza grave, che coinvolge la criminalità comune ed economica, ma che non vede, almeno allo stato, l'infiltrazione della criminalità organizzata nel ciclo dei rifiuti.
Va comunque rilevato che sul territorio della regione molte discariche sono ormai in via di esaurimento, vi sono impianti obsoleti che richiedono forti investimenti per tornare ad essere produttivi e che in molti comuni, compreso quello di Roma, la situazione si avvicina pericolosamente all'emergenza.
A ciò si aggiunge la grave difficoltà economica di società che gestiscono gli impianti.
Nel Lazio troppe aziende e consorzi pubblici sono stati costituiti su iniziativa degli enti locali in assenza di un piano industriale, di un organico riferimento territoriale per la gestione integrata del ciclo dei rifiuti. Tali aziende e consorzi hanno determinato sprechi e inefficienze, duplicato centri di potere, generato assunzioni in contrasto con la normativa vigente e giustificate ogni volta con l'emergenza.
E purtroppo sono molte le società e i consorzi pubblici che operano nel settore a trovarsi in grandi difficoltà economiche. Tutto ciò contribuisce ad aggravare la gestione del ciclo, a distrarre risorse necessarie a favorirne l'efficienza e rischia di preparare il terreno alle infiltrazioni delle consorterie mafiose nel ciclo dei rifiuti, le quali possono movimentare capitali sporchi e denaro riciclato per acquisire aziende in difficoltà e condizionare il libero mercato.
La gestione del ciclo dei rifiuti nel Lazio presenta gravi elementi di criticità che non potranno essere superati senza precise assunzioni di responsabilità nel rispetto delle competenze di ciascuno.

2.3.1. Lo stato di emergenza nella provincia di Roma: relazione di aggiornamento sul Lazio (approvata in data 3 luglio 2012) (Doc XXIII n. 11).

La Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, a seguito della grave situazione di emergenza ambientale che ha interessato la provincia di Roma, ha


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svolto ulteriori approfondimenti in merito al ciclo dei rifiuti nella regione Lazio, approvando, all'esito, una specifica relazione, integrativa della precedente (relazione approvata in data 3 luglio 2012)
Invero, dopo quasi dieci anni di commissariamento per la gestione dei rifiuti, la regione Lazio – nel giugno 2008 – era tornata a una gestione ordinaria, sicché le funzioni di programmazione, attuazione e controllo erano state assunte di nuovo dagli enti istituzionalmente competenti (regione, province e comuni).
Tale fase, tuttavia, è durata, solo tre anni. Nell'estate del 2011, infatti, in seguito alla procedura di infrazione del 17 giugno 2011 n. 2011/4021, avviata dalla Commissione europea nei confronti dell'Italia anche per la non conformità della discarica di Malagrotta alla direttiva sulle discariche (dir. 1999/31/CE), è stato nuovamente dichiarato lo stato di emergenza nella provincia di Roma.
Il 6 settembre 2011 la Presidenza del consiglio dei ministri ha nominato un commissario straordinario per l'emergenza rifiuti, nella persona del prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, il quale, dopo circa otto mesi dall'assunzione dell'incarico, ha rassegnato le dimissioni. Al suo posto, è stato nominato il prefetto Goffredo Sottile.
Deve osservarsi che da tempo era prevista la saturazione della discarica di Malagrotta, tenuto conto del fatto che il ciclo dei rifiuti nella regione Lazio sostanzialmente si esaurisce nel conferimento in discarica e che sono ancora molto bassi i livelli di raccolta differenziata.
L'approfondimento svolto dalla Commissione ha riguardato:
 le procedure adottate dal Governo per la nomina di un commissario straordinario per l'emergenza, con il compito di individuare un sito temporaneo alternativo alla discarica di Malagrotta, in attesa dell'individuazione da parte degli enti locali competenti del sito definitivo di discarica;
 l'opportunità (o per meglio dire l'inopportunità) di ricorrere ancora una volta alla creazione di strutture emergenziali che, ad oggi, in tutta Italia, non solo sono risultate totalmente inefficienti, ma hanno consentito agli enti locali di sottrarsi a decisioni politiche non delegabili ad altri, soprattutto quando, come nel caso di specie, la situazione emergenziale nasce proprio dall'incapacità degli enti predetti di programmare ed attuare efficacemente una politica concreta sul ciclo virtuoso dei rifiuti;
 la difficoltà, anche da parte della struttura commissariale, di individuare siti, sia pure temporanei, ove conferire i rifiuti, stante l'inadeguatezza, per varie ragioni, di quelli indicati in via preliminare dalla regione Lazio.

La situazione che la Commissione ha registrato al momento della stesura della prima relazione depositata nel marzo 2011, non solo non è cambiata, ma nel tempo si è solo aggravata.
L'ennesima proroga della discarica di Malagrotta operata dal nuovo commissario nominato, il prefetto Goffredo Sottile, rappresenta, ad avviso della Commissione, il segno evidente di un fallimento della politica ambientale nella regione.


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L'obiettivo della Commissione è stato quello di fornire – attraverso un esame analitico e critico dei dati acquisiti – una chiave di lettura utile a comprendere quali siano state le ragioni per le quali la provincia di Roma versi nuovamente in stato di emergenza e quale sia lo stato di programmazione e di attuazione delle misure idonee a ricondurre (realmente) il ciclo dei rifiuti nella provincia di Roma a una gestione ordinaria.
La Commissione ha avuto modo di constatare, anche nel corso di altre indagini territoriali su regioni del sud Italia, come la politica in materia ambientale sia del tutto inesistente. Nella migliore delle ipotesi viene approvato il piano regionale dei rifiuti che, però, resta esclusivamente sulla carta e che, di per sé, non è certo idoneo a risolvere le situazioni di degrado ambientale inevitabilmente legate alla mancanza di programmazione e/o attuazione del ciclo integrato dei rifiuti.
L'unico obiettivo che pare essere stato perseguito e, puntualmente, raggiunto è quello di una generalizzata «deresponsabilizzazione» attraverso complesse e disparate modalità, che vanno dalla creazione di strutture commissariali a reiterate e sterili interlocuzioni fra gli enti.
In questo preciso momento storico, nella provincia di Roma, deve essere necessariamente trovata una soluzione, sia pure temporanea, non solo perché occorre ottemperare alle prescrizioni indicate nel provvedimento di contestazione dell'Unione europea, ma anche per evitare che Roma e provincia possano trovarsi in situazioni drammatiche analoghe a quelle che, in diverse occasioni, si sono registrate nella città di Napoli.
La Commissione ha svolto gli approfondimenti sia acquisendo documentazione da parte degli enti e delle autorità coinvolte (regione Lazio, struttura commissariale, Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, procura della Repubblica di Roma), sia effettuando sopralluoghi sui siti oggetto di indagine, sia, infine, attraverso numerose audizioni effettuate presso la sede della Commissione e in occasione dei sopralluoghi stessi.
Si riportano, di seguito, le conclusioni della relazione approvata sullo stato di emergenza nella provincia di Roma.
All'esito dell'inchiesta svolta è possibile affermare che le diverse amministrazioni succedutesi negli anni sul territorio non hanno affrontato la politica sul ciclo dei rifiuti in modo compiuto, per cui l'attuale situazione di crisi può dirsi essere la naturale conseguenza di una carente programmazione e attuazione di un ciclo integrato dei rifiuti conforme alla normativa ambientale.
È sufficiente esaminare la situazione emergenziale che attanaglia ormai da quasi un anno la città di Roma e la provincia, per percepire nitidamente il pregiudizio di fondo che sta alla base del sistema di smaltimento: questo si è semplicemente trasformato, per taluni, in un business tanto più conveniente quanto più gli enti preposti non hanno realizzato un ciclo integrato dei rifiuti finalizzato al loro smaltimento nel rispetto dell'ambiente.
La situazione che si è avuto modo di constatare, con riferimento alla provincia di Roma ed allo stato di emergenza dichiarato poco meno di un anno fa, presenta connotazioni, per certi versi, paradossali.

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Il termine «emergenza», com’è noto, evoca l'idea di circostanze e difficoltà impreviste; il che vuol dire, conseguentemente, che l'emergenza rifiuti nella provincia è stato un evento inaspettato che ha determinato una difficoltà improvvisa nella gestione del settore con conseguente necessità di nomina di un commissario con poteri straordinari da esercitare nel contesto di una normativa in deroga.
Ebbene, mai il termine «emergenza» è stato utilizzato più a sproposito.
Questa Commissione, nella relazione territoriale sul Lazio approvata il 2 marzo 2011, in sede di conclusioni, ha affermato testualmente: «Va comunque rilevato che sul territorio della regione molte discariche sono ormai in via di esaurimento, vi sono impianti obsoleti che richiedono forti investimenti per tornare ad essere produttivi e che in molti comuni, compreso quello di Roma, la situazione si avvicina pericolosamente all'emergenza».
Il dato era più che evidente da tempo, né poteva essere diversamente, tenuto conto dei quantitativi di rifiuti prodotti da Roma e provincia, dei livelli bassi di raccolta differenziata, dello smaltimento dei rifiuti prevalentemente attraverso il conferimento nella discarica di Malagrotta, prossima alla saturazione.
Si è trattato, quindi, di un'emergenza «annunciata» da più parti e attesa con evidente immobilismo, nelle more della dichiarazione ufficiale, dagli enti che avrebbero avuto il dovere di neutralizzarla. E questa è una delle tante contraddizioni che si registrano nella vicenda in oggetto.
Con riferimento alla dichiarazione dello stato di emergenza e alla nomina di un commissario il ministro Clini, nel corso dell'audizione innanzi alla Commissione, si è espresso in termini molto critici: «(...) è stato dato un incarico a un commissario per affrontare un tema che avrebbe dovuto essere gestito con procedure ordinarie. Non si può sfuggire a questo, anche se ho grande stima per il prefetto Pecoraro che si è fatto carico di questa situazione. (...) Questo è un caso su cui riflettere perché ripropone ancora una volta una tematica, che avevo già sollevato la volta scorsa, circa il ricorso a procedure straordinarie per cercare di superare difficoltà di carattere non tecnico, ma politico, visto che riguardano la capacità di governare con un processo normale (...). Oggi ci troviamo, infatti, con il prefetto di Roma che ha su di sé una responsabilità non tecnica, ma politica di supplenza rispetto a una carenza di governance di una situazione molto complicata. Ora, se immaginiamo che tutte le volte che si presenta una situazione complicata, invece di affrontarla con le misure ordinarie, dobbiamo ricorrere a quelle straordinarie, allora abbiamo una visione quantomeno singolare del funzionamento delle istituzioni e della stessa democrazia (...)».
Le parole dure del ministro non possono che essere condivise alla luce dei dati obiettivi che la Commissione ha acquisito Sin dal 2009, ovvero da quando è stata avviata l'istruttoria per l'inchiesta territoriale sul Lazio.
La situazione attuale, dunque, testimonia gli scarsi risultati raggiunti non solo dagli enti preposti alla gestione ordinaria del ciclo dei rifiuti, ma anche delle strutture commissariali che non sono state in grado di individuare per tempo un sito di discarica alternativo a Malagrotta.

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Occorre necessariamente partire dall'ordinanza di nomina del commissario straordinario al quale è stato attribuito il compito di «garantire l'individuazione, la progettazione e la successiva realizzazione, mediante l'utilizzo di poteri straordinari e derogatori, di una o più discariche e/o l'ampliamento di discariche esistenti indicate dalla regione, nonché di un impianto di trattamento meccanico – biologico dei rifiuti urbani necessarie a garantire la piena copertura del fabbisogno dell'area interessata dallo stato di emergenza, di cui alla citata ordinanza, per il tempo necessario all'avvio degli impianti di smaltimento e trattamento definitivi da parte dei soggetti competenti e nelle more della messa in esercizio, del sistema impiantistico previsto dal piano regionale di smaltimento dei rifiuti».
Nel provvedimento è specificato che l'individuazione di uno o più siti di discarica dovrà avvenire, «in via prioritaria, nell'ambito dei siti indicati nel documento “Analisi preliminare di individuazione di aree idonee alla localizzazione di discariche per rifiuti non pericolosi”, redatto dalla regione Lazio».
La necessità di individuare un sito idoneo in tempi molto ristretti giustificherebbe, astrattamente, la previsione per cui la scelta del commissario debba essere effettuata «in via prioritaria» tra i sette siti indicati dalla regione Lazio nel documento summenzionato.
In sostanza, la logica posta alla base della previsione contenuta nell'ordinanza dovrebbe essere quella di facilitare e, quindi, accelerare il compito del commissario.
Tale finalità sarebbe stata realizzata laddove il documento di analisi preliminare avesse individuato siti astrattamente idonei o con criticità superabili e fosse stato il frutto di un'attività istruttoria attuale caratterizzata da verifiche di carattere scientifico e da sopralluoghi sul campo.
Nulla di tutto ciò è avvenuto.
Nella parte iniziale del documento si legge: «Il presente documento ha lo scopo di perimetrare, dal punto di vista della compatibilità tecnico-amministrativa, alcune aree, meglio dettagliate in seguito, individuate in via preliminare quali potenziali insediamenti del nuovo sito di discarica, di proprietà pubblica». Si legge altresì che: «la compatibilità accertata ha carattere esclusivamente preliminare, basandosi su considerazioni di carattere documentale, avendo essa il solo scopo di illustrazione dei siti. Ad essa farà seguito ogni campagna di indagine e ogni iter procedurale necessario, così come previsti dalla normativa di settore e dalla tecnica progettuale e realizzativa».
Si fa, dunque, riferimento a una compatibilità tecnico-amministrativa dei siti ai fini di una possibile destinazione a discarica provvisoria.
La dizione «compatibilità tecnico-amministrativa» sembrerebbe, secondo i comuni criteri interpretativi, far riferimento a una compatibilità sia dal punto di vista amministrativo, nel senso che non dovrebbero sussistere vincoli giuridici insuperabili (nonostante la normativa emergenziale), sia dal punto di vista tecnico, ossia i siti dovrebbero essere compatibili, sotto il profilo delle caratteristiche geologiche e idrogeologiche, con una loro potenziale destinazione a discarica.
Al contrario, come detto nello stesso documento, le verifiche necessarie non sono state effettuate, rinviandole a un momento successivo sicché il documento di analisi preliminare della regione, richiamato

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nell'ordinanza di nomina del commissario straordinario, risulta essere del tutto inadeguato al diverso scopo conferitogli dall'ordinanza stessa, sia dal punto di vista tecnico che dal punto di vista giuridico.
La Commissione non può che evidenziare che tale documento preliminare, ripreso nell'ordinanza del presidente del consiglio dei ministri, ha poi condizionato le successive fasi della procedura, non avendo le strutture commissariali proceduto all'analisi di altri siti rispetto a quelli ivi indicati.
Al di là delle indagini attualmente in corso presso la procura della Repubblica di Roma in merito al documento di «Analisi preliminare dei siti» (peraltro oggetto di sequestro da parte della magistratura), la Commissione non può che evidenziare una iniziale anomalia, che ha poi condizionato le successive fasi della procedura.
Infatti, la regione ha predisposto un documento di analisi dei possibili siti da adibire a discarica basato esclusivamente su studi di carattere documentale, dunque, privo dei necessari riscontri sul campo e non preceduto da alcuna verifica di carattere tecnico.
Nonostante ciò il documento è stato determinante in quanto ha orientato la scelta dei tecnici nominati dal commissario, i quali si sono concentrati ad analizzare solo questi sette siti, senza valutare la possibilità di individuare una soluzione al di fuori di essi.
D'altra parte, ben avrebbe potuto la struttura commissariale, verificata ulteriormente la non idoneità di tutti i siti indicati nel documento regionale, individuare altre località con caratteristiche compatibili con la realizzazione di una discarica. La prescrizione contenuta nell'ordinanza di nomina del commissario per l'emergenza rifiuti, infatti, lascia spazio, evidentemente, anche ad una scelta diversa, seppur certamente motivata.
Un altro rilievo riguarda la metodologia seguita dalla struttura commissariale per l'individuazione dei siti, metodologia che non può essere condivisa perché prima sono stati individuati i siti e poi è stata approfondita la loro utilizzabilità quali discariche.
In una fase emergenziale, caratterizzata dalla necessità di intervenire in tempi molto ristretti, non vi era motivo di posticipare la verifica dell'idoneità effettiva dei siti preventivamente individuati. Tutto ciò ha comportato una ulteriore perdita di tempo.
È così accaduto che la struttura commissariale, nata al fine di risolvere con estrema urgenza una situazione al collasso, non ha ottenuto alcun risultato dopo diversi mesi di lavoro comportanti, come è evidente, spese per la collettività.
Sarebbe stato certamente preferibile impiegare maggior tempo, all'inizio, in attività tese a verificare effettivamente lo stato dei luoghi e la possibilità di trovare un sito al di fuori di quelli elencati dalla regione per poi procedere a una scelta che, verosimilmente, non avrebbe lasciato spazio a così tante critiche e non avrebbe costretto la struttura commissariale a rivedere continuamente le sue decisioni.
Ulteriore riprova della metodologia seguita dal commissario si è avuta con l'iniziale scelta di Pian dell'Olmo, ove la Commissione ha effettuato un sopralluogo incontrando i sindaci del luogo.
Ebbene, il sito di pian dell'Olmo non solo era stato sconsigliato, ma addirittura scartato dai tecnici nominati dal commissario Pecoraro.

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Ed allora le domande che rimangono senza risposta sono le seguenti:
 per quale motivo sono stati indicati come oggetto di valutazione prioritaria siti che già all'origine risultavano essere inidonei;
 quale utilità si è tratta dalla nomina di un commissario con poteri straordinari;
 quanto è costata alla collettività la gestione commissariale, tenuto conto del fatto che il primo commissario è stato in carica per otto mesi senza giungere ad alcuna soluzione;
 qual è stato il costo delle attività di indagine che la struttura commissariale ha avviato con riferimento ai siti (consulenze tecniche, sopralluoghi, analisi del territorio, istruttoria nel suo complesso), tutte attività che si sono rivelate inutili.

Le scelte operate dai commissari straordinari che si sono succeduti sono state contestate da più parti, compresi enti istituzionali.
Ad oggi, l'unico risultato che si è raggiunto, se così può essere definito, è costituito dal susseguirsi di proroghe del funzionamento della discarica di Malagrotta, nonostante la procedura di infrazione europea e nonostante la struttura commissariale operi, ormai, Sin dal settembre del 2011.
Le continue proroghe della discarica di Malagrotta sono il segno della mancanza di una efficiente programmazione da parte degli enti a ciò preposti, secondo la normativa in vigore: è mancata, infatti, una politica ambientale di ampio raggio proiettata non solo alla soluzione delle problematiche contingenti, ma alla realizzazione di un ciclo integrato dei rifiuti.
Tuttavia, la recente approvazione di un nuovo piano rifiuti della regione Lazio rappresenta il primo passo di un percorso che non si esaurisce di certo nella redazione di un documento, ma che deve necessariamente essere seguito da una attuazione concreta.
Anche per il Lazio, come per altre regioni d'Italia, si è accertata la inadeguatezza di un regime in deroga a realizzare lo scopo finale di uno smaltimento dei rifiuti in sintonia con la salvaguardia di quegli interessi che la legge intende tutelare in materia ambientale.
Quand'anche venisse individuato un sito idoneo ove allocare temporaneamente i rifiuti in attesa dell'attuazione del ciclo programmato nel piano regionale, vi sarebbe comunque la necessità di procedere con urgenza per incentivare la raccolta differenziata e la realizzazione dell'impiantistica.
Il problema dello smaltimento dei rifiuti non può, invero, considerarsi risolto per il solo fatto che per gli stessi vengano trovati luoghi ove concentrarli, perché la questione non è di spostare i rifiuti da un luogo ad un altro, ma di smaltirli senza danno per l'ambiente.

2.3.2. Le bonifiche nella regione Lazio: il sito della Valle del Sacco.

La procura della Repubblica presso il tribunale di Velletri ha condotto un'indagine sull'inquinamento del fiume Sacco ed ha esercitato l'azione penale rispetto al reato di disastro ambientale colposo riconducibile alle attività industriali della zona.


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Il dato particolarmente grave della vicenda è che gli inquinanti sono passati nel ciclo alimentare, determinando danni, oltre che all'ambiente e alla salute, anche all'economia della zona, basata sull'allevamento e sull'agricoltura.
Le contestazioni dell'autorità giudiziaria, infatti, riguardano non solo il reato di disastro ambientale, ma anche quello di avvelenamento di acque.
Deve, al riguardo, sottolinearsi che le acque del fiume Sacco sono destinate all'irrigazione dei terreni circostanti e all'abbeveraggio degli animali ovini e bovini sicché, come sopra evidenziato, gli inquinanti sono facilmente confluiti nella catena alimentare.
Gli studi epidemiologici effettuati dall'ufficio commissariale, pur con i limiti insiti in qualsiasi studio di questo genere, consentono di affermare che la popolazione ha subito e subisce gli effetti dell'inquinamento per la maggiore incidenza di malattie e di mortalità.
La struttura commissariale ha effettuato attività per la messa in sicurezza e il contenimento degli inquinanti agendo anche in danno del soggetto obbligato Caffaro.
Il danno ambientale provocato è particolarmente elevato in quanto non è possibile, allo stato, fruire di alcune risorse naturali a causa dell'inquinamento.
Proprio con riferimento alla quantificazione del danno ambientale, l'Ispra lo ha determinato in circa di euro 660.902.973,60, tenendo conto, peraltro, solo delle spese di ripristino e di messa in sicurezza.
Qualche precisazione si impone con riferimento ai risultati degli studi epidemiologici.
Un primo studio sulla «salute della popolazione nell'area della Valle del Sacco» è stato effettuato dal dipartimento di epidemiologia della Asl Roma E.
Le conclusioni riportante sono certamente allarmanti.
Si afferma infatti che il complesso industriale ha causato nel tempo inquinamento dell'aria e i lavoratori sono stati esposti a sostanze tossiche in ambiente di lavoro, in particolare prodotti chimici ed amianto.
Le persone che hanno risieduto lungo il fiume hanno assorbito ed accumulato nel tempo pesticidi organo clorurati, soprattutto tramite la via alimentare.
L'area dei tre comuni di Colleferro, Segni e Gavignano presenta nel suo complesso un quadro di mortalità e morbosità peggiore rispetto al resto del Lazio.
Il quadro di mortalità e di morbosità dei residenti nell'area di Colleferro, se paragonato a quello delle aree dei comuni vicini, mostra valori più elevati per le patologie cardiovascolari e respiratorie in possibile rapporto con la contaminazione cronica ambientale.
È stato inoltre rilevato un eccesso di tumori della pleura per la pregressa esposizione ad amianto.
Data la molteplicità dei potenziali effetti tossici del beta-esaclorocicloesano (alterazione delle funzioni epatiche, renali, endocrine, neurologiche, immunitarie e della riproduzione) e delle possibili proprietà cancerogene, nello studio si raccomanda un programma di biomonitoraggio e di sorveglianza sanitaria di tutte le persone residenti nelle aree critiche.

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Anche il commissario delegato ha commissionato un progetto di monitoraggio sulla «salute della popolazione nell'area della Valle del Sacco», da cui è emerso che 246 abitanti sottoposti ad accertamento, pur non evidenziando patologie in corso, sono portatori sani del pesticida che può aver effetti sul sistema nervoso, sul sangue, i reni ed il fegato. Peraltro lo studio registra un'impennata di alcune gravi patologie e, nel tempo, potrebbero manifestarsi forme di tumori, morbo di Parkinson e risultano diffuse forme di asma bronchiale.
I dati suesposti danno la misura dell'entità dell'inquinamento della Valle del Sacco che ha inciso ed incide sull'ambiente, non essendo più fruibili talune risorse naturali, sulla salute umana tenuto conto della maggiore incidenza di malattie sull'economia, risultando gravemente compromesse le attività agricole e di allevamento nella zona.

2.4. Conclusioni sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nella regione Puglia (relazione approvata dalla Commissione in data 20 giugno 2012) (Doc XXIII n. 10).

Gli illeciti ambientali e la criminalità organizzata nel settore dei rifiuti.
L'attività della Commissione ha consentito di verificare una sostanziale corrispondenza tra una sorta di naturale «vocazione» del territorio pugliese (per collocazione geografica e caratteristiche geomorfologiche) per un uso in vista di traffici transnazionali dei rifiuti, preceduti da una ricezione infraregionale degli stessi da parte delle organizzazione fortemente radicate nei territori limitrofi ad essa, ed un effettivo sfruttamento illecito del territorio che si presta, per le ragioni sopra sintetizzate (e analiticamente esposte nel corpo della relazione), a tali tipologie di traffici.
La regione appare funzionare come una sorta di «trampolino di lancio» verso le più disparate destinazioni dei rifiuti illecitamente convogliati verso di essa; con riferimento ai traffici transnazionali, il territorio pugliese viene quindi utilizzato quale mero luogo di transito dei rifiuti. Quando esso stesso costituisce il sito di destinazione dei rifiuti, l'azione criminale va sovente ricondotta ad organizzazioni malavitose radicate in altre regioni, e quindi le attività di indagine prendono le mosse prevalentemente presso le sedi giudiziarie territorialmente competenti.
Sebbene vi siano state indagini giudiziarie, anche recenti, nelle quali sono stati accertati condizionamenti della criminalità organizzata locale nel settore dei rifiuti, la regione è anche permeabile all'operatività di organizzazioni criminali radicate in altri territori, che non devono, per così dire, fare i conti con grosse organizzazioni locali.
Il dato che è emerso chiaramente nel corso dell'inchiesta della Commissione è che il fenomeno criminale del traffico illecito dei rifiuti (e, più in generale, dei reati ambientali), proprio perché si articola attraverso diversi punti di riferimento geografici, diverse tipologie di organizzazioni, diversi luoghi di produzione e di destinazione dei rifiuti, sfugge nella sua dimensione complessiva, ma si manifesta per via sintomatica.
L'approccio investigativo deve quindi essere di particolare attenzione rispetto a tutti i fenomeni sintomatici dell'esistenza di più ampie


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problematiche criminali con un'azione di monitoraggio e di lettura contestualizzata di tutti quei fatti che potrebbero sembrare «microfatti» ma che, letti in un contesto unitario, conducono ad un'attività investigativa di ampio raggio.
Gli approfondimenti relativi al distretto di Bari hanno consentito di individuare alcuni punti nevralgici, specifici del territorio preso in considerazione, attinenti allo smaltimento illecito dei rifiuti e, più in generale, ai reati ambientali:

 la difficoltà delle forze dell'ordine a monitorare un territorio che si caratterizza per la presenza di vaste aree disabitate, ove non viene esercitato quel controllo sociale, spesso prodromico ad un intervento mirato della polizia giudiziaria, che viceversa caratterizza le zone urbanizzate;
 la condizione di sotto-organico della procura della Repubblica presso il tribunale di Bari, in quanto il numero dei magistrati non è adeguato alla gravità e pervasività dei fenomeni criminali, anche legati alla criminalità organizzata di stampo mafioso, che si verificano in questo territorio;
 la sussistenza di gravi indizi circa la penetrazione della criminalità campana nel territorio pugliese, penetrazione facilitata sia dalle caratteristiche geomorfologiche della regione (presenza di numerose cave abbandonate) sia dalla collocazione geografica, sia ancora dal crescente sviluppo economico che il territorio sta registrando e che attira gli interessi della criminalità organizzata;
 l'utilizzo del porto di Bari quale luogo di partenza e di transito per i traffici transfrontalieri di rifiuti effettuati da organizzazioni criminali ampiamente ramificate ed operanti utilizzando diversi porti italiani;
 mancati controlli sugli impianti di compostaggio, spesso oggetto di indagini concernenti l'illecito smaltimento di rifiuti falsamente qualificati come compost riutilizzabile in agricoltura;
 esistenza di posizioni di «controllo» nel settore dei rifiuti da parte di imprese che hanno, evidentemente, tutto l'interesse a continuare a gestire il settore della raccolta, del trasporto e dello smaltimento dei rifiuti, piuttosto che vedere incrementare la raccolta differenziata (si vedano, al riguardo, le dichiarazioni rese alla Commissione dal sindaco di Bari, dottor Emiliano);
 illecito smaltimento dei rifiuti con conseguente contaminazione di vaste aree a seguito dell'utilizzo di cave abbandonate o dismesse;
 presenza di una criminalità mafiosa endogena, in particolare nel territorio del foggiano, che è penetrata nel settore dei rifiuti, come dimostrano le recenti indagini svolte dalla procura distrettuale di Bari.

Proprio con riferimento alla criminalità organizzata mafiosa «endogena», deve segnalarsi, anche in sede di conclusioni, il procedimento avviato dalla procura distrettuale di Bari, nell'ambito del


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quale sono stati contestati fatti estorsivi aggravati dal metodo mafioso ai danni di società a capitale pubblico operanti nel settore dei rifiuti, nonché ai danni dei rappresentanti degli enti locali.
In data 3 aprile 2012 il Gip presso il tribunale di Bari, nella persona del dottor Giovanni Anglana, ha emesso un'ordinanza applicativa di custodia cautelare di particolare interesse per la Commissione per un duplice ordine di motivi:
 da un lato, sono stati acquisiti gravi indizi in merito all'esistenza di associazioni a delinquere di stampo mafioso riconducibili alla fattispecie delineata dall'articolo 416-bis del codice penale (sul punto infatti, nel corso delle missioni in Puglia, precedenti alla discovery degli atti dell'indagine, sono state fornite dagli auditi informazioni talora contraddittorie, essendo stata anche messa in dubbio la presenza di una criminalità organizzata di stampo mafioso endogena sul territorio pugliese);
 dall'altro, le indagini hanno, allo stato, dimostrato una forte ingerenza ed un forte condizionamento operato dagli indagati nei confronti della società Amica spa, società a capitale pubblico che si occupa nel comune di Foggia della raccolta dei rifiuti solidi urbani, e di talune cooperative sociali alla stessa collegate. Le attività estorsive sarebbero state commesse con metodo mafioso ed al fine di agevolare le attività delle associazioni mafiose di appartenenza.
Già nel corso della prima missione in Puglia il sindaco e il questore di Foggia avevano rappresentato una serie di problematiche attinenti al servizio di raccolta rifiuti e ai conseguenti riflessi sull'ordine pubblico, tutte problematiche riconducibili alla società Amica spa (totalmente partecipata dal comune di Foggia). Mentre in una prima fase dell'inchiesta della Commissione le problematiche venivano attribuite unicamente ad una situazione di grave crisi economica della società, teoricamente riconducibile solo ad una cattiva gestione, l'indagine summenzionata ha disvelato l'origine del «male».
Le indagini, nella prospettazione accusatoria, riconoscono l'esistenza di associazioni di tipo mafioso (note come Batterie, formatesi per scissione dall'originaria compagine mafiosa denominata Società Foggiana), attive in territorio dauno, i cui membri si sarebbero resi responsabili, agendo d'intesa tra loro, ovvero in modo sostanzialmente autonomo gli uni dagli altri, di taluni episodi criminosi caratterizzati dal ricorso al metodo mafioso, che si sono verificati all'interno della società Amica spa e delle cooperative sociali alla stessa collegate, con particolare riferimento alla Centesimus Annus e alla Fiore Service.
In sostanza, vi sarebbe stata una lunga serie di estorsioni ai danni del comune di Foggia, della ditta municipalizzata di raccolta dei rifiuti solidi urbani in città, la Amica, e della cooperativa Centesimus Annus, delegata dall'amministrazione comunale alla gestione del verde pubblico e dei parcheggi nel capoluogo dauno.
Le indagini hanno quindi disvelato le infiltrazioni della mafia foggiana nel tessuto amministrativo della città e nelle sue aziende produttive.
La forma che ha assunto la penetrazione delle organizzazioni criminali di stampo mafioso nel ciclo dei rifiuti è da considerarsi parassitaria in quanto è consistita nella massiccia introduzione nel

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settore dei rifiuti di personale privo di qualifica e competenza e perciò inerte, con la conseguenziale paralisi dell'efficienza del servizio.
Come si può pensare che funzioni un servizio nel quale operano soggetti appartenenti alla criminalità organizzata di stampo mafioso e che è fortemente condizionato sia dal punto di vista organizzativo che gestionale ?
Quanto al distretto di Lecce, diverse imprese sono oggi attenzionate dalla prefettura in quanto direttamente od indirettamente riconducibili a soggetti presumibilmente affiliati o vicini ad associazioni mafiose locali, il che evidenzia l'attualità del pericolo inerente ad una pervasiva ingerenza di organizzazioni criminali nel settore dei rifiuti.
Sebbene con riferimento al distretto di Lecce le informazioni fornite dagli auditi paiano in taluni casi divergenti, soprattutto con riferimento alle infiltrazioni della criminalità organizzata di stampo mafioso (così come già registrato nell'approfondimento relativo al distretto di Bari), tuttavia talune indagini che hanno riguardato sia il traffico transregionale che quello transnazionale dei rifiuti hanno fornito uno spaccato, necessariamente parziale, ma emblematico, della ingerenza di associazioni criminali, locali e non, nel settore dei rifiuti.
La Commissione ha acquisito un provvedimento giudiziario (in particolare la sentenza n. 278 emessa dalla Corte d'appello di Lecce il 21 febbraio 2011) nel quale è stato riconosciuto il reato di traffico illecito di rifiuti aggravato dal metodo mafioso.
La condotta contestata agli imputati è di avere commesso il reato di traffico illecito di rifiuti avvalendosi delle condizioni di cui all'articolo 416-bis del codice penale, attraverso la pressoché costante evocazione della figura di un soggetto, capo riconosciuto della frangia mafiosa appartenente alla «sacra corona unita» operante in quel territorio, che avrebbe consentito alle imprese del gruppo Rosafio di intimidire, anche in virtù di rapporti di corruttela e clientelari con le forze dell'ordine e con i gestori degli impianti, le imprese concorrenti imponendo così una sorta di monopolio nell'attività di smaltimento dei rifiuti.
Il dato particolarmente significativo, emerso anche in questa vicenda, è rappresentato dall'inserimento di soggetti riconducibili alla criminalità organizzata nelle imprese del settore. La caratura criminale di alcuni di essi si traduce a volte in una vera e propria ingerenza sulle dinamiche aziendali, specie nella gestione e controllo delle risorse organiche.
Sono infatti in corso, secondo quanto riferito sia dal prefetto che dal questore di Lecce, accertamenti finalizzati a verificare in che misura sussistano interessenze dei clan di stampo mafioso nel controllo del settore dei rifiuti attraverso società apparentemente riferibili ad altri soggetti.
La Puglia, purtroppo, si caratterizza, come si è detto, perché il territorio è oggetto di sfruttamento non solo da parte delle organizzazioni locali, ma anche da parte delle organizzazioni criminali di stampo mafioso operanti in altre regioni.
In questa sede, dunque, quello che interessa al fine di comprendere la situazione realmente esistente sul territorio pugliese non è solo di capire se vi siano organizzazioni endogene che presentino le

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connotazioni tipiche della criminalità organizzata di stampo mafioso; quello che è importante comprendere è se, nel momento in cui le organizzazioni criminose che operano sul territorio pugliese si interfacciano con la camorra napoletana o con la ’ndrangheta calabrese (o con altre associazioni che presentino caratteristiche riconducibili all'articolo 416-bis del codice penale), consentano l'introduzione nel territorio pugliese di quelle stesse modalità di sfruttamento e inquinamento del territorio tipiche delle organizzazioni di stampo mafioso (devastazione del territorio, eliminazione della concorrenza, riciclaggio dei proventi illeciti attraverso investimenti nel settore dei rifiuti, sfruttamento delle cave abbandonate o dismesse per farvi convogliare sia rifiuti prodotti in loco, sia rifiuti provenienti da altre regioni).
A questa domanda si deve rispondere affermativamente, e di questo si ha ampia dimostrazione dalle indagini segnalate dai magistrati.
Di questa situazione è perfettamente consapevole il presidente della regione Puglia che ha stipulato, in tale qualità, protocolli d'intesa con le forze di polizia e gli organi di controllo al fine di intensificare le forme di tutela ambientale, sia in via repressiva che in via preventiva.
Nel corso dell'audizione ha dichiarato che «di sicuro la dittatura delle discariche che vorrebbe imporsi sul territorio pugliese ci ha reso territori a disposizione sia dei traffici leciti che dei traffici illeciti, pattumiera del mondo e abbiamo provato a mettere un punto e a capovolgere la situazione».

Le infiltrazioni della camorra nel settore dei rifiuti.
I dati forniti, in particolare, dalla magistratura pugliese, con riferimento alle indagini concernenti il traffico illecito di rifiuti dalla Campania alla Puglia, consentono di elaborare una serie di considerazioni in merito alle infiltrazioni della criminalità organizzata nel ciclo dei rifiuti in Puglia.
Il fenomeno della criminalità organizzata in relazione allo smaltimento dei rifiuti in Puglia risulta evidente dal fatto che in questo territorio vengano trasferiti in modo illecito ed organizzato i rifiuti provenienti dalla regione Campania ed a mezzo di organizzazioni criminali radicate in quel territorio.
Il fatto che si tratti di associazioni criminali nate in Campania ed ivi operanti non significa che, nel momento in cui operano nel contesto territoriale pugliese, la sola diversa dimensione territoriale del fenomeno abbia rilievo rispetto al fatto che il fenomeno stesso si manifesti come espressione di criminalità organizzata.
Merita poi di essere approfondita la questione se tali associazioni criminali si avvalgano nel territorio pugliese di soggetti genericamente disponibili allo svolgimento di attività illecite e rudimentalmente aggregati in relazione a contingenti azioni illegali, ovvero se anche la sponda dell'organizzazione criminale campana sia a sua volta, ed essa stessa, una vera e propria organizzazione criminale.
Da questo punto di vista, le risultanze dell'azione repressiva nella regione Puglia (secondo quanto dichiarato alla Commissione dal procuratore della Repubblica di Bari, dottor Laudati) non hanno


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portato ad un accertamento pieno dell'esistenza di organizzazioni criminali strutturate nel senso di un totalizzante controllo del territorio, come avviene invece nelle tre regioni sicuramente permeate dalla presenza radicata di associazioni di stampo mafioso (Calabria, Sicilia e Campania).
Tuttavia il fenomeno è stato ampiamente investigato ed è divenuto tema di importanti procedimenti dai quali è emersa comunque una forte aggregazione tra gli adepti dei sodalizi presi di mira, come sopra già evidenziato.
Tali sodalizi, pur non avendo acquistato sempre una forza tale da potere di per sé funzionare avvalendosi di una forza di intimidazione e di omertà proveniente dal vincolo associativo, tuttavia hanno importato, per così dire, sul territorio, le caratteristiche di tal fatta che qualificano le organizzazioni campane.
Fungendo da base materiale per l'operato delle organizzazioni campane hanno provocato, sia pur in modo indiretto, l'espansione dell'efficacia del metodo mafioso nel ciclo illecito dei rifiuti, per come dimostrato dalla circostanza che fenomeni quali mega-interramenti di rifiuti o esportazioni degli stessi in paesi esteri con strumentazione imponente nel territorio pugliese, necessita di una rete di accordi, di complicità, di connivenze, di controllo del territorio, di controllo del settore dei trasporti, che sono tutti aspetti peculiari delle organizzazioni mafiose.
In sostanza, conclusivamente, la situazione che si è avuto modo di constatare è che, sebbene il fenomeno dell'organizzazione criminale di stampo mafioso sul territorio pugliese non sia stato giudizialmente accertato nelle sue reali dimensioni (lo stesso procuratore Laudati ha fatto riferimento alla distanza, in campo processuale, che esiste tra «il fatto» e «l'accertamento del fatto»), tuttavia vi sono associazioni criminali che fanno da sponda alla camorra, ne consentono l'espansione sul territorio pugliese che, per le sue caratteristiche geomorfologiche, si presta al traffico illecito di rifiuti così come per anni effettuato dalle associazioni camorristiche campane in Campania (attraverso tombamenti o interramenti in cave abbandonate o dismesse, spargimento sui terreni di rifiuti anche pericolosi).
La Commissione ha acquisito informazioni circa la pendenza di indagini attinenti precipuamente ai legami tra la criminalità pugliese e la criminalità organizzata delle regioni vicine.

Reati ambientali ordinari.
Con riferimento ai reati ambientali cd. ordinari, i dati forniti dalla magistratura e dalle forze dell'ordine sono più che inquietanti e forniscono lo spaccato di un territorio sistematicamente violentato sia per le numerosissime discariche abusive accertate, sia per le non corretta gestione di quelle «autorizzate».
Vi sono numerose aree in Puglia, per così dire, professionalmente asservite alla ricezione illecita di rifiuti, in particolare le cave dismesse e gli ampi territori disabitati ove risulta particolarmente facile creare discariche abusive anche di notevoli dimensioni.
Ma, anche con riferimento alle discariche «autorizzate», la Commissione ha avuto modo di constatare come molte siano periodicamente


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sequestrate dall'autorità giudiziaria in relazione a violazioni nell'attività di gestione.
Non può non darsi voce al vero e proprio grido di aiuto che talune comunità locali hanno elevato nel corso delle missioni svolte dalla Commissione in Puglia per le inaccettabili condizioni di vita in cui si trovano a causa della presenza di discariche fortemente maleodoranti, oltre i limiti della normale tollerabilità.
È evidente che, laddove vi fosse una corretta gestione della discarica, sarebbero del tutto ingiustificabile le esalazioni denunciate.
Ci si riferisce in particolare alle esalazioni odorigene che promanano dalla discarica gestita dalla società Vergine spa e che investono diversi comuni della zona. La discarica Vergine spa è stata al centro di indagini condotte dalla procura di Milano e dalla procura di Lanciano in merito al traffico illeciti di rifiuti provenienti dal centro e dal nord Italia e smaltiti in detta discarica.
È più che lecito quindi chiedersi se i rifiuti conferiti siano effettivamente quelli per i quali la discarica è stata autorizzata, se la diversa tipologia di rifiuti abbia influito sulle esalazioni odorigene e in quale misura, se, ancora, tali esalazioni siano nocive per la salute.
Una pediatra del comune di Lizzano (uno dei comuni vicini alla discarica) ha registrato diversi e anomali casi di ipertiroidismo congenito e malattie respiratorie nei bambini al di sotto di cinque anni. La testimonianza della dottoressa deve rappresentare un punto di partenza per studi epidemiologici più approfonditi, in quanto i dati acquisiti da chi opera sul territorio da anni non devono essere sottovalutati e devono, invece, essere ritenuti preziosi per chi intenda realmente comprendere quale sia la situazione sanitaria ed ambientale della zona.
In questo, come in altri casi, è la stessa dignità umana ad essere calpestata dall'indifferenza di coloro che avrebbero il potere e il dovere di intervenire.
Deve segnalarsi che è stato richiesto alla regione di trasmettere eventuali provvedimenti adottati con riferimento alla predetta discarica, ma non si è avuta risposta.
Situazioni a dir poco paradossali riguardano la discarica di Manduriambiente e il termovalorizzatore di Massafra. La discarica gestita dalla società Manduriambiente spa è munita di una piattaforma per la separazione di rifiuti idonea alla produzione di cdr che, teoricamente, avrebbe dovuto essere smaltito nel termovalorizzatore di Massafra. Il dato particolare, del tutto incredibile, è che il cdr prodotto non è adeguato per il termovalorizzatore di Massafra, sicché, evidentemente, viene destinato altrove. Il tutto, è evidente, incide sensibilmente sui costi di smaltimento che poi vanno a gravare sui cittadini.
Ed ancora, discariche nella fase post mortem, risultano totalmente abbandonate e, cosa ancora più grave, continuano ad essere destinatarie di rifiuti ivi smaltiti illecitamente.
Gli illeciti ambientali ordinari sono numerosi e in taluni casi sono resi possibili da complicità di soggetti che operano all'interno delle pubbliche amministrazioni, laddove dietro una parvenza di regolarità formale si cela una sostanza di illegalità e di totale dispregio per l'ambiente.

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Va segnalato che uno dei principali procedimenti (in materia di pubblica amministrazione) avviati dalla procura della Repubblica presso il tribunale di Bari veda tra gli imputati l'ex assessore regionale alla sanità, Alberto Tedesco, il quale, secondo l'impostazione accusatoria, avrebbe condizionato, in concorso con altri e sulla base di accordi corruttivi, la gara indetta dall'Asl di Bari per il servizio triennale di raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti speciali prodotti nelle strutture sanitarie ed amministrative dell'ente. In relazione a tale vicenda sono state emesse misure cautelari personali.
Pur tenendo conto del fatto che il procedimento è ancora in corso, deve rilevarsi come il condizionamento degli appalti pubblici per l'affidamento dei servizi di raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti rappresenti la base per l'inefficienza successiva dei servizi medesimi. Il rispetto delle regole nelle procedure d'appalto è funzionale proprio all'individuazione dell'impresa che offre le migliori garanzie di professionalità e competenza.
Nel caso di specie, i fatti appaiono particolarmente gravi per un duplice ordine di motivi: da un lato, poiché risulta imputato l'ex assessore regionale alla sanità (nei cui confronti è stata emessa una misura cautelare personale), e dunque un soggetto con un ruolo istituzionale di rilievo all'interno della regione; dall'altro, perché le condotte contestate hanno riguardato lo smaltimento dei rifiuti ospedalieri prodotti dall'Asl di Bari, quindi di quantitativi considerevoli di rifiuti, molti dei quali da qualificarsi pericolosi.
Occorre, ovviamente, attendere l'esito del processo ma, al tempo stesso, deve darsi atto che gli atti di indagine sono già passati al vaglio del giudice nella fase cautelare.
Pur apprezzando lo sforzo della regione di stipulare accordi e convenzioni con le forze di polizia per intensificare i controlli sul territorio, deve però rilevarsi l'insufficienza di un approccio esclusivamente investigativo rispetto alla tutela dell'ambiente, sia perché, come più volte evidenziato, il territorio pugliese è difficilmente controllabile in modo capillare, sia perché l'origine dell'illegalità si annida anche e soprattutto nella mancata attuazione di un ciclo virtuoso dei rifiuti. È evidente quindi l'importanza per la Commissione di analizzare e valutare quale sia lo stato di attuazione della programmazione regionale.

Considerazioni sulla attività della regione.
La Commissione, ancora una volta, ha verificato non solo la sostanziale inutilità ma anche le conseguenze negative del commissariamento ai fini del superamento della situazione di emergenza, che si protrae da anni e che pertanto non può più nemmeno definirsi tale. Nuovamente si è constatata la stretta connessione tra gestione commissariale, mancanza di una politica ambientale e deresponsabilizzazione degli enti locali.
Si tratta di un'emergenza che alimenta se stessa e contro la quale sono state espresse dure parole anche dal presidente della regione, Nichi Vendola, il quale ha sottolineato, in sede di audizione, la necessità del superamento della fase di commissariamento.
Il piano rifiuti della regione Puglia non prevede più la realizzazione dei tre impianti di incenerimento originariamente previsti ed


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introduce una serie di attività finalizzate al rispetto della direttiva comunitaria n. 2008/98.
La politica adottata dalla regione è quindi quella di eliminare in radice le condizioni che rendono la Puglia permeabile ai traffici illeciti di rifiuti:
 intensificando i controlli;
 limitando al massimo l'utilizzo delle discariche;
 incentivando la raccolta differenziata;
 destinando alla termovalorizzazione solo il combustibile derivato dai rifiuti;
 realizzando un'impiantistica che privilegi il riciclo e il riutilizzo dei materiali.

È stata, tra le altre, stipulata una convenzione per il controllo delle cave, che oggi viene eseguito mediante osservazioni dai satelliti, dagli aeroplani, georeferenziazione, planimetrie che vengono digitalizzate e controllate dal Politecnico di Bari, definite e verificate con l'ufficio minerario della regione per accertare se effettivamente la cava sia coltivata o meno, se siano rispettate le condizioni autorizzative, in modo da monitorare con maggiore efficienza il fenomeno.
Il piano rifiuti e la politica ambientale, dal punto di vista della programmazione, è qualcosa di totalmente diverso, però, rispetto alla concreta attuazione delle misure previste nel piano.
È sufficiente osservare come la raccolta differenziata, passaggio fondamentale per il riciclo dei rifiuti e per la diminuzione dei rifiuti da destinare in discarica, si attesti su livelli bassissimi.
A fronte di manifestazioni di principio del tutto condivisibili, finanche scontate (ossia che le discariche debbano rappresentare la soluzione residuale per i rifiuti non altrimenti smaltibili, che il riciclo sia indispensabile per la riduzione dei quantitativi di rifiuti, che la produzione di compost possa rappresentare una valida soluzione per il riutilizzo della frazione organica), vi è una realtà profondamente diversa, caratterizzata, in sostanza, dall'utilizzo quasi esclusivo delle discariche per lo smaltimento dei rifiuti.
Come possa questo definirsi «ciclo dei rifiuti» non è dato sapere.
La situazione impiantistica è sostanzialmente ferma, anche se il presidente della regione ha sottolineato come la responsabilità sia da ascrivere anche ai numerosi ricorsi amministrativi pendenti che avrebbero «appesantito» le procedure per la messa in esercizio degli impianti. Di certo, però, non può essere questa l'unica causa del mancato avvio di un ciclo virtuoso dei rifiuti.
Si è inoltre registrato una sorta di scollamento tra la regione e gli enti locali nella concreta attuazione della raccolta differenziata.
Gli enti locali denunciano il disinteresse sostanziale della politica regionale, mentre la regione sottolinea come vi sia una resistenza delle comunità locali ad avviare la raccolta differenziata.
Il dato di sintesi è che il piano regionale sul ciclo dei rifiuti, le pur apprezzabili affermazioni di principio in materia ambientale, il perseguimento di obiettivi ambiziosi nell'incrementazione della raccolta


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differenziata, la limitazione nell'uso delle discariche per lo smaltimento dei rifiuti, sono, allo stato, poco più che slogan.

2.4.1. Le vicende riguardanti l'impianto Ilva (relazione di aggiornamento sulla Puglia, approvata in data 17 ottobre 2012) (Doc XXIII n. 12).

La Commissione ha svolto un ulteriore approfondimento in relazione alle vicende riguardanti l'impianto Ilva occorse dopo l'approvazione della relazione, redigendo un documento di aggiornamento, integrativo della stessa. Anche in questo caso se ne riportano le conclusioni:
La vicenda attinente all'Ilva di Taranto ha visto l'intervento, a diverso titolo, della magistratura, del Governo, del Parlamento, degli enti locali (regione, provincia e comune), nonché dei sindacati dei lavoratori, intervenuti per sostenere le ragioni di coloro che, a seguito del provvedimento di sequestro emesso dalla magistratura, subiranno inevitabilmente effetti negativi sulla loro posizione lavorativa.
Il primo, imprescindibile dato, è costituito dalle conclusioni della perizia chimica ed epidemiologica depositata all'esito dell'incidente probatorio disposto nel procedimento penale condotto dalla procura di Taranto.
La perizia descrive una grave ed attualissima situazione di emergenza ambientale e sanitaria, imputabile alle emissioni inquinanti, convogliate, diffuse e fuggitive, dello stabilimento Ilva spa e, segnatamente, di quegli impianti ed aree del siderurgico costituiti dall'area parchi, area cokerie, area agglomerato, area altiforni, area acciaierie ed area grf (gestione rottami ferrosi).
Risulta processualmente come gli inquinanti siano entrati anche nella catena alimentare, tanto da determinare l'abbattimento di migliaia di animali, nei quali si erano riscontrate imponenti tracce di diossina.
Ed è proprio in ragione di tale situazione che il Gip di Taranto ha emesso un provvedimento di sequestro preventivo delle aree interessate, sequestro la cui esecuzione deve consistere, come precisato dal procuratore Sebastio nel corso dell'audizione presso questa Commissione, nella eliminazione delle emissioni inquinanti e pericolose attraverso l'inibizione di qualunque attività produttiva degli impianti sequestrati.
Le principali problematiche sono emerse proprio a seguito dell'esecuzione del provvedimento di sequestro che incide:
 sull'utilizzo attuale degli impianti;
 sul blocco dell'attività produttiva con effetti dirompenti anche rispetto all'attività futura;
 sul mantenimento dei livelli occupazionali all'interno dell'impresa;
 sulle nefaste prospettive economiche di un settore produttivo che, soprattutto in un periodo di crisi economica quale quello attuale, avrebbe potuto rappresentare un'eccezione rispetto al trend generale.


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In sostanza, gli interessi coinvolti nella vicenda in esame sono molteplici, tutti di rilevanza costituzionale, ma non tutti bilanciabili fra di loro, sì da determinare la frustrazione di un interesse rispetto ad un altro.
In particolare, fondamentale oggetto di tutela è la salvaguardia del diritto alla salute, contemplato dall'articolo 32 della Costituzione che recita: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività».
Si tratta di un diritto insopprimibile, che non può essere bilanciato o sacrificato con nessun altro diritto o libertà, sia pure di rango costituzionale.
La salvaguardia della salute umana è definita come fondamentale diritto dell'individuo.
Come è stato da più parti sottolineato, anche altri valori costituzionali sono chiamati in causa, primo fra tutti la tutela del lavoro.
Non solo l'articolo 1 della Carta costituzionale afferma il principio per cui l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, ma ben cinque articoli della Costituzione sono dedicati alla tutela del lavoro (compresa l'organizzazione sindacale e il diritto di sciopero).
Senza considerare poi che la tutela del lavoro rappresenta la condizione indispensabile per la tutela della dignità umana. Nessuna dignità può esistere laddove manchino i mezzi di sussistenza e la garanzia delle condizioni minimali di vita che possano consentire all'uomo di esprimersi come singolo e nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, prima fra tutti la famiglia.
E nessuna dignità vi può essere nel caso in cui il lavoro non venga effettuato in condizioni di sicurezza per la salute del lavoratore medesimo.
Ed allora, è proprio dalla lettura delle norme che si comprende come la tutela della salute abbia un posto preminente e debba essere salvaguardata anche, e soprattutto, nell'ambiente lavorativo che rappresenta certamente un luogo in cui le forze in campo sono sbilanciate: da un lato, vi è il datore di lavoro che si trova in una posizione, per così dire, di «forza»; dall'altro, il lavoratore che sarebbe tendenzialmente disposto ad accettare condizioni lavorative insalubri e pericolose per la salute, pur di lavorare.
Altro interesse coinvolto è quello relativo all'iniziativa economica privata (contemplato dall'articolo 41 della Costituzione), iniziativa che è definita «libera», ma che non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana.
Ancora una volta si ha la conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la tutela del diritto alla salute è insopprimibile, non limitabile, non comprimibile, rappresentando non solo un diritto fondamentale per il singolo, ma un interesse per l'intera collettività, di tal che non è disponibile.
Fatta questa precisazione che rappresenta, per certi versi, il filo conduttore delle conclusioni della Commissione, è necessario valutare quelle che sono state le posizioni dei vari attori in campo.
Prima fra tutte la posizione della magistratura, che ha avuto un ruolo particolarmente rilevante nel caso in esame, non solo per il procedimento penale avviato nei confronti dei vertici dell'Ilva spa,


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quanto per il provvedimento di sequestro che, di fatto, ha inibito l'ulteriore prosecuzione dell'attività dell'acciaieria. Ebbene, il provvedimento di sequestro adottato dall'autorità giudiziaria non può che assolvere alla funzione che gli attribuisce la legge, ossia di eliminare il pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati (articolo 321 del codice di procedura penale).
Di ciò si dà ampiamente conto nel provvedimento laddove è riportato: «Le dimensioni dello stabilimento siderurgico Ilva di Taranto, i suoi livelli di produzione, la sua ubicazione geografica, che lo vede situato a ridosso dell'abitato cittadino, a pochi metri di distanza dai primi edifici del quartiere Tamburi, la acclarata pericolosità dell'attività siderurgica, le accertate, gravi criticità strutturali e funzionali degli impianti Ilva e le loro pesantissime ricadute in termini di impatto ambientale: tutto converge nell'evidenziare come non possa più essere consentito al siderurgico tarantino del gruppo Riva di sottrarsi al dovere di anteporre alla logica del profitto, sino ad oggi così spregiudicatamente e cinicamente seguita, il rispetto della salute delle persone – lavoratori e popolazione residente – e della salubrità dell'ambiente nel suo complesso, risorsa irrinunciabile per qualunque comunità».
Il problema delle ricadute occupazionali che discendono dal provvedimento di sequestro e dall'esigenza di evitare l'aggravamento o la protrazione delle conseguenze di reati contro la salute e l'integrità dell'incolumità pubblica è un problema la cui soluzione appartiene esclusivamente alla pubblica amministrazione ed al soggetto imprenditoriale, secondo le rispettive competenze di valutazione (per la pubblica amministrazione) e di adeguamento (per l'imprenditore) ad un modello aziendale che garantisca una produzione nel rispetto del diritto alla salute.
La magistratura, in questo contesto, non può che esercitare le sue funzioni giurisdizionali, così come è accaduto nel caso in oggetto.
Ed allora, se la magistratura è intervenuta doverosamente nella fase repressiva, adottando provvedimenti che sono stati valutati e riesaminati nelle sedi competenti, occorre puntare l'attenzione su quella che è stata l'attività di Governo con riferimento all'Ilva spa non solo nella fase successiva all'emissione del provvedimento di sequestro, ma anche nella fase precedente, con particolare riferimento alla procedura per il rilascio dell'autorizzazione integrata ambientale (Aia).
Alcune considerazioni si impongono proprio in relazione alla procedura per il rilascio dell'Aia da parte del Ministero dell'ambiente.
Dopo una lunga attività di istruttoria, avviata nel 2007, il provvedimento di rilascio dell'Aia da parte del Ministero dell'ambiente è stato emanato il 4 agosto 2011 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 23 agosto 2011. La notifica del gestore è avvenuta con nota del 31 agosto 2011 con la quale l'Ilva chiedeva, tra l'altro, un incontro esplicativo con gli organi di controllo Ispra relativamente alle definizione delle modalità tecniche per la piena applicazione del piano di monitoraggio e controllo.
Con decreto del 15 marzo 2012, e quindi a distanza di pochi mesi dal rilascio dell'autorizzazione, il Ministero dell'ambiente ha disposto l'avvio del procedimento amministrativo per il complessivo riesame

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dell'Aia, in ragione dei dati emersi dalla perizia effettuata in sede di incidente probatorio nel corso del procedimento penale pendente presso la procura di Taranto ed avente ad oggetto una serie di reati riconducibili, secondo l'ipotesi accusatoria, all'attività dell'Ilva.
È lecito, quindi, domandarsi cosa sia potuto accadere, in pochi mesi, nella situazione di fatto oggetto degli approfondimenti effettuati, in un primo momento, da parte dei componenti della commissione Aia, e, in secondo momento, da parte dei periti del tribunale. La risposta è quasi scontata. In realtà non è accaduto nulla di diverso, ma sono stati diversamente valutati gli stessi fenomeni.
L'apertura della procedura per il riesame complessivo dell'Aia, e quindi la messa in discussione dell'attività svolta dai competenti soggetti del Ministero dell'ambiente, avrebbe dovuto comportare, secondo banali principi di consequenzialità logica, l'individuazione per il riesame dell'Aia di soggetti diversi rispetto a quelli che avevano già composto la commissione. Non risulta che ciò sia avvenuto, se non in minima parte.
Solo dopo l'intervento della magistratura, attraverso i provvedimenti cautelari già menzionati, vi è stato un cambiamento nella composizione della commissione.
La vicenda suesposta pone gravi interrogativi sulla efficienza di una attività amministrativa di tutela di interessi costituzionalmente garantiti, in particolare quello alla salute ed all'integrità fisica, che si concretizza in procedure da cui esitano provvedimenti autorizzativi costituenti una sorta di «patente» per lo svolgimento di attività intrinsecamente pericolose.
Si tratta di una procedura che teoricamente consente che la problematica concreta rimanga «silenziata», come se l'esistenza del «pezzo di carta» (autorizzazione amministrativa) possa assumere un ruolo salvifico, in termini di assicurazione della non incidenza dell'attività sulla salute e sulla vita delle persone.
Un tale sistema può funzionare solo a condizione che l'istruttoria che precede il rilascio o il diniego del provvedimento sia posta in essere in modo inequivocabilmente rigoroso da parte di soggetti di altissima professionalità e di indiscutibile moralità.
Nel caso di specie, invece, si è dovuto constatare che all'Ilva era stata rilasciata un'autorizzazione sulla base di risultanze tecniche positivamente smentite dai risultati dell'attività di indagine posta in essere dall'autorità giudiziaria, peraltro con la procedura garantita dell'incidente probatorio, quindi con la garanzia del contraddittorio tra le parti interessate.
Il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ha successivamente emanato una nuova autorizzazione integrata ambientale recependo, secondo quanto dichiarato dal ministro Clini, le indicazioni contenute nella perizia.
Con decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, recante «Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale», (Gazzetta Ufficiale n. 282 del 3 dicembre 2012) si è inteso assicurare che, in presenza di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale, qualora vi sia una assoluta necessità di salvaguardia dell'occupazione e della produzione, il Ministro dell'ambiente

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possa autorizzare mediante autorizzazione integrata ambientale la prosecuzione dell'attività produttiva di uno o più stabilimenti per un periodo di tempo determinato non superiore a 36 mesi e a condizione che vengano adempiute le prescrizioni contenute nella medesima autorizzazione, secondo le procedure e i termini ivi indicati, al fine di assicurare la più adeguata tutela dell'ambiente e della salute secondo le migliori tecniche disponibili.
La continuità del funzionamento produttivo dello stabilimento siderurgico Ilva spa è stata ritenuta una priorità strategica di interesse nazionale, in considerazione dei prevalenti profili di protezione dell'ambiente e della salute, di ordine pubblico, di salvaguardia dei livelli occupazionali.
Il decreto si compone di cinque articoli e all'articolo 1 è previsto che le disposizioni di cui al comma 1 trovano applicazione anche quando l'autorità giudiziaria abbia adottato provvedimenti di sequestro sui beni dell'impresa titolare dello stabilimento. In tale caso i provvedimenti di sequestro non impediscono, nel corso del periodo di tempo indicato nell'autorizzazione, l'esercizio dell'attività d'impresa a norma del comma.
L'articolo 3 del decreto riguarda specificatamente l'efficacia dell'autorizzazione integrata ambientale rilasciata in data 26 ottobre 2012 alla società Ilva spa ed è stato previsto che, a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, la società Ilva spa di Taranto è immessa nel possesso dei beni dell'impresa ed è in ogni caso autorizzata, nei limiti consentiti dal provvedimento di cui al comma 2, alla prosecuzione dell'attività produttiva nello stabilimento ed alla conseguente commercializzazione dei prodotti per un periodo di 36 mesi, ferma restando l'applicazione di tutte le disposizioni contenute nel presente decreto.
A seguito dell'emanazione del provvedimento predetto e dell'istanza presentata dai legali dell'Ilva, la procura della Repubblica di Taranto ha disposto la reimmessione dell'Ilva nel possesso dell'impianto, pur precisando che permane il sequestro (non inficiato dalla norma sopra richiamata).
Quanto al sequestro dell'acciaio prodotto dall'impresa (già sottoposto a vincolo reale da parte del Gip in quanto bene sottoposto a confisca ai sensi dell'articolo 240 del codice penale) la medesima istanza di restituzione non è stata accolta dal Gip sulla base del parere contrario espresso dalla procura.
Deve evidenziarsi come, dopo il sequestro degli impianti «a caldo» (sequestro disposto per evitare che il reato fosse portato a conseguenze ulteriori), sia stato emesso un altro provvedimento di sequestro avente ad oggetto l'acciaio prodotto dall'Ilva nella fase in cui gli impianti avrebbero dovuto cessare di operare in forza del vincolo reale già gravante sugli stessi.
Ebbene, con riferimento a questo ultimo sequestro avente ad oggetto «il prodotto» dell'acciaieria, il provvedimento della magistratura è stato di segno negativo, nel senso che l'impresa non è stata reimmessa nel possesso dell'acciaio prodotto, e ciò sulla base di argomentazioni giuridiche basate essenzialmente sulla considerazione dell'ultrattività del decreto legge n. 207 del 2012, che non fa riferimento alla produzione precedente alla sua entrata in vigore. Di talché

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l'acciaio già prodotto ed oggetto di precedente provvedimento di sequestro non può essere restituito in quanto non ricade nelle previsioni normative del decreto legge, entrato in vigore dopo la produzione dell'acciaio sequestrato.
Tale ultimo provvedimento, di fatto, potrebbe bloccare l'attività produttiva, che si basa su un ciclo continuo e che non può prevedere che quanto già prodotto resti «fermo» determinandosi altrimenti il «fermo» dei vari stabilimenti connessi nel ciclo produttivo.

2.4.2. Le bonifiche nella regione Puglia: i siti di Brindisi, Taranto, Bari-Fibronit, Manfredonia.

È apprezzabile lo sforzo conoscitivo operato dalla regione Puglia nella costruzione ed aggiornamento dell'anagrafe dei siti contaminati che, seppure con alcune criticità, peraltro comuni alle elaborazioni effettuate da altre regioni, consente di definire un quadro della distribuzione geografica e della tipologia dei siti potenzialmente contaminati e contaminanti.
Tuttavia il piano stralcio delle bonifiche, pubblicato sul bollettino ufficiale della regione Puglia n. 124 del 9 agosto 2011, non riporta né una definizione degli interventi prioritari né un quadro chiaro dei meccanismi di finanziamento degli stessi, almeno per la parte di competenza pubblica.
Pertanto, a fronte di un approccio mirato alla pianificazione, si rileva un forte ritardo nell'attuazione degli interventi, con l'unica eccezione delle attività di bonifica delle discariche pubbliche del sito di interesse nazionale di Manfredonia che hanno avuto la loro spinta propulsiva nella procedura di infrazione da parte della Commissione europea, dopo uno stallo di 13 anni.
Come in altre regioni, anche in Puglia la gestione commissariale in tema di rifiuti e bonifiche ha prodotto, in generale, scarsi risultati, dal momento che il primo censimento dei siti contaminati della regione Puglia è stato pubblicato nel 1994 dall'Enea e, quindi, già da allora si aveva contezza dello stato di degrado ambientale del territorio.
In particolare, in Puglia, attraverso la costituzione della banca-dati tossicologica e l'elaborazione di vari studi di carattere sanitario ed epidemiologico, sono note da tempo anche le conseguenze sulla salute di tale stato di degrado ambientale.
In riferimento alla bonifica dei siti di interesse nazionale si valutano positivamente l'approccio delineato dall'accordo di programma sottoscritto nel 2007 per il sito di interesse nazionale di Brindisi e l'attuazione degli interventi di competenza pubblica nel sito di interesse nazionale di Manfredonia; si osserva tuttavia un forte ritardo nelle operazioni di risanamento delle aree incluse nel sito di interesse nazionale di Taranto e, in generale, delle aree perimetrate a mare che rappresentano una risorsa economica e sociale particolarmente rilevante per la Puglia.
Infine, con riferimento agli studi sanitari ed epidemiologici condotti per le aree di Bari-Fibronit, Brindisi, Taranto e Manfredonia, appare accertata la correlazione tra attività industriali ed incremento


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della morbilità e mortalità per i siti di interesse nazionale di Brindisi e Taranto, quest'ultimo definito nello studio Sentieri «area insalubre», così come la correlazione tra malattie polmonari e presenza di amianto (sito di Bari Fibronit). È quindi evidente come, anche dal punto di vista sanitario, misure urgenti debbano essere intraprese per la bonifica delle aree.

2.5. Le conclusioni sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nella regione Lombardia (relazione approvata il 12 dicembre 2012) (Doc XXIII n. 13).

La relazione della Commissione sulla Lombardia costituisce il frutto di un intenso e costante lavoro svolto dalla Commissione d'inchiesta mediante numerose missioni a Milano, Monza, Mantova e Brescia, a partire dal quella milanese del 20 e 21 luglio 2010, seguite da altrettanto numerosi sopralluoghi presso i principali siti inquinati nel territorio milanese, bresciano e mantovano.
Sono stati auditi i principali rappresentanti delle istituzioni politiche, giudiziarie e amministrative della regione con un totale di centoquaranta audizioni.
È stata, inoltre, acquisita un'ampia documentazione, oltre 500 documenti, ivi comprese le relazioni dei prefetti, dei questori, dei comandanti dei Carabinieri e della Guardia di finanza, nonché molti provvedimenti di sequestro di aree inquinate, numerose e rilevanti sentenze concernenti sia l'illecito smaltimento di rifiuti speciali da parte di singoli imprenditori, sia le attività svolte dalla criminalità organizzata (’ndrangheta) nel traffico illecito di tali rifiuti.
Invero, il principale problema della regione Lombardia attiene soprattutto alla gestione e allo smaltimento dei rifiuti speciali effettuati, molto spesso, nella più completa illegalità.
Nella relazione si dà atto del fatto che, sulla base dei dati riportati nell'annuario Ispra 2012 (riferiti all'anno 2010), la regione Lombardia rappresenta una delle poche eccellenze del panorama nazionale in tema di gestione dei rifiuti urbani.
La produzione pro-capite di rifiuti urbani in Lombardia si attesta sui 500 kg/ab per anno, valore al di sotto della media nazionale.
La percentuale regionale di raccolta differenziata, riferita all'anno 2010, superava già l'obiettivo nazionale fissato al 2008, attestandosi al 48 per cento circa, con un incremento, rispetto al 2009, di oltre un punto.
Quanto alla potenzialità di trattamento dei rifiuti urbani, la Lombardia, con 13 impianti di trattamento, si colloca al primo posto tra le regioni del nord e a livello nazionale.
Particolarmente interessante è il dato relativo alla percentuale di rifiuti urbani, frazione stabilizzata e cdr destinati all'incenerimento, pari al 41,8 per cento, che colloca la Lombardia al primo posto a livello nazionale.
Ne deriva un ricorso assolutamente residuale allo smaltimento in discarica, rispetto al totale dei rifiuti prodotti, che pone la regione Lombardia al più basso utilizzo di discariche a livello nazionale.
Non a caso la Lombardia è tra le cinque regioni italiane ad aver raggiunto, con un anno di anticipo, l'obiettivo 2011 di riduzione


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progressiva dello smaltimento in discarica per i rifiuti biodegradabili (115 kg/anno per abitante).
Diverso e più complesso è il discorso sui rifiuti speciali, che rappresentano l'80 per cento del totale dei rifiuti prodotti nella regione. In questo settore il rischio di attività illecite connesse al traffico di rifiuti è elevato, come pure l'interesse delle cosche, posto che la regione Lombardia risulta coinvolta da numerose inchieste.
Del resto, va sottolineato che da quando, nel 2001, è stato introdotto nel nostro ordinamento il delitto che punisce le attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, nella provincia di Milano si sono svolte circa il 10 per cento di tutte le inchieste italiane, ciò che ha posto in evidenza la presenza della criminalità ambientale, anche di tipo mafioso, nello smaltimento delle scorie industriali e negli appalti relativi al movimento terra nei cantieri pubblici e privati.
Il quadro generale in Lombardia, quale emerge dalle indagini, soprattutto quelle della procura della Repubblica in Milano, è che il rischio di infiltrazioni criminali viene alimentato da alcuni elementi, quali la sempre minore disponibilità di impianti di smaltimento finale per tale tipologia di rifiuti, ossia le discariche, l'aumento costante dei prezzi di smaltimento, la sempre maggiore presenza di figure imprenditoriali che praticano sistemi illeciti di gestione, che in passato sembravano utilizzati, soprattutto e soltanto, dai principali sodalizi criminali.
Nelle aree della regione a più elevata concentrazione industriale – Brescia si segnala in maniera particolare da questo punto di vista – gli illeciti nella gestione dei rifiuti speciali industriali attengono alla scorretta attribuzione del rango di «materia prima secondaria» a tutta una serie di scarti industriali che, per le caratteristiche di pericolosità e per la classificazione anche di carattere amministrativo, avrebbero dovuto essere considerati rifiuti speciali e, in molti casi, rifiuti speciali pericolosi.
Le casistiche viste nell'ampia attività di inchiesta della Commissione sono descritte dettagliatamente nella relazione.
In questa sede deve essere sottolineato che la contaminazione di queste cosiddette materie prime secondarie (mps) si è rivelata in moltissimi casi di dimensioni e qualità importanti: dalla presenza del cromo esavalente, oggetto di rilascio nelle falde, a quella di diossine in materie successivamente bruciate a temperature non adeguate, con conseguente rilascio in aria, fino al riutilizzo di rottami metallici radioattivi, anch'essi riutilizzati in cicli produttivi, con conseguenti rischi per i lavoratori e per la comunità.
I comportamenti criminosi di soggetti economici, consistenti nel sottrarre rifiuti allo smaltimento, ricorrendo alla pratica della dequalificazione del rifiuto a materia prima secondaria, con conseguente risparmio dei costi di smaltimento, vedono come motore primario la volontà di delinquere dei soggetti che attuano queste condotte (e si tratta spesso di imprenditori incensurati e con un curriculum di rispettabilità alle spalle), ma sono resi possibili anche da una normativa complessa, intricata, contraddittoria, ricca di

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margini interpretativi troppo ampi, priva di istruzioni tecnico-operative chiarificatrici e comprensibili dai soggetti che devono attuarle.
Questo vale sia per quanto attiene la classificazione del rifiuto speciale (pericoloso/non pericoloso), sia rispetto alla possibilità di riutilizzo.
Peraltro, l'attività della Commissione in Lombardia ha posto in evidenza che non appaiono risolutive della problematica neanche le più recenti novità introdotte dalle norme in tema di classificazione di rifiuti, com’è stato sottolineato dagli interlocutori maggiormente qualificati e impegnati su questi aspetti e, cioè, dai tecnici dell'Arpa Lombardia.
L'auspicio della Commissione è quello che la prossima evoluzione normativa possa contribuire a risolvere le tantissime questioni aperte in ordine alla classificazione dei rifiuti, sottoprodotti, end of waste e, in particolare, che possa essere prodotta ed emanata – anche con il contributo dei tanti organismi tecnici pubblici, come l'Ispra, l'Istituto superiore di sanità e le agenzie ambientali regionali – una norma specifica solo sui rifiuti, senza ricomprenderli all'interno di non efficaci testi unici ambientali che non hanno risolto le problematiche già preesistenti.
Un altro tema importante affrontato nei lavori dalla Commissione di inchiesta in Lombardia è quello sulle aree contaminate e sulle bonifiche, oggetto di altra e specifica relazione, oltre a quanto già indicato nella presente relazione.
In sede di commento si intendono riprendere le criticità strutturali, emerse e ben argomentate nel corso delle tante audizioni riguardanti la regione Lombardia. In primis la constatazione, da parte praticamente di tutti, della inefficacia dell'azione amministrativa e tecnica della istituzione nei cosiddetti «siti di interesse nazionale».
In Lombardia molti amministratori hanno dichiarato che «il sito di interesse nazionale è fermo, come tutti gli altri».
In alcuni casi è stato presentato alla Commissione l'auspicio che si possa «depotenziare» in un certo senso il sito da bonificare dal rango di Sin (sito di interesse nazionale), mediante un ritorno della delega alle realtà territoriali, allo scopo di accelerare i procedimenti.
La problematica della insostenibile lentezza dei procedimenti dei Sin, gestiti a livello centrale di Ministero dell'ambiente, è stata peraltro riscontrata dalla stessa Commissione in altre regioni, potendo quindi anche in questo caso trarsi una prima conclusione di indicare al legislatore la necessità di ripensare la normativa vigente sotto questo profilo.
Nella regione Lombardia, i casi da richiamare sicuramente a sostegno di questa tesi sono quelli del sito milanese dell'ex Sisas di Pioltello-Rodano, con le connesse vicende giudiziarie oggetto di attenta valutazione anche da parte della Commissione, nonché dei siti di Brescia-Caffaro, di Mantova e di Broni (PV), come riportati in dettaglio nella relazione.
Particolare attenzione la Commissione di inchiesta ha dedicato alle infiltrazioni mafiose nel ciclo dei rifiuti in Lombardia.

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Invero, la presenza della ’ndrangheta calabrese trova il suo punto di forza negli appalti e subappalti, anche pubblici, relativi allo specifico settore del movimento terra, come hanno posto bene in evidenza le numerose inchieste della Dda di Milano.
Lo stesso procuratore della Repubblica presso il tribunale di Milano, dottor Edmondo Bruti Liberati, nel corso dell'audizione del 20 luglio 2010, ha posto in evidenza che le indagini della procura della Repubblica sulle infiltrazioni mafiose nel settore dei rifiuti investono lo specifico settore del movimento terra, nel quale la ’ndrangheta di fatto opera in regime di monopolio.
L'infiltrazione mafiosa nel movimento terra, con il controllo dei camion e dei mezzi utilizzati in tale settore, comporta quale diretta conseguenza il controllo del traffico dei rifiuti pericolosi e non pericolosi, che vengono gestiti in modo del tutto arbitrario e in violazione di ogni regola o criterio di corretto smaltimento.
Come sottolinea il Gip di Milano, dottor Giuseppe Gennari, nell'ordinanza del 3 marzo 2011 nel procedimento n. 9189/08 c.d. «Caposaldo» (doc. 1174/2), il movimento terra costituisce il settore primigenio di interesse della ’ndrangheta imprenditrice, grazie alla presenza sul mercato lombardo e, in particolare su quello milanese (ma – come si è visto – anche sul territorio piemontese), di un vero e proprio esercito di «padroncini calabresi», tutti collusi e sempre disponibili i quali, per un verso, costituiscono un serbatoio pressoché inesauribile cui attingere a piene mani per il controllo dell'intero settore e, per altro verso, forniscono alla ’ndrangheta un altrettanto notevole serbatoio di voti da far valere al momento opportuno nei rapporti con la classe politica.
Tutto ciò è possibile in quanto l'organizzazione mafiosa esercita sui cosiddetti «padroncini» un vero e proprio controllo gerarchico.
Invero, la presenza dei «padroncini calabresi», ovvero dei proprietari o gestori in leasing di camion di origine calabrese, presenti in pressoché tutti i cantieri in Milano e nell’hinterland costituisce un problema socio/politico, prima che giudiziario, in quanto massa di manovra delle famiglie calabresi operanti al Nord.
Naturalmente, la ’ndrangheta interveniva anche sullo smaltimento delle macerie e della «terra sporca», posto che tale smaltimento veniva effettuato in modo assolutamente illegale e, cioè, non nelle apposite discariche, bensì nei siti più disparati e conseguente inquinamento di cave, terreni e falde, con il coordinamento delle famiglie mafiose in costante contatto telefonico con ciascun autista per suggerire siti ed evitare i controlli dei Carabinieri o dell'Arpa.
In tale contesto, il passaggio della ’ndrangheta dal settore economico a quello politico diventa molto breve e del tutto automatico, anche in virtù dei consensi elettorali che la ’ndrangheta è in grado di procacciare e il riferimento ai «padroncini calabresi» non è casuale.
E questo spiega i rapporti tra i mafiosi e alcuni referenti politici a livello regionale, quale è emerso in numerose inchieste giudiziarie.
Il quadro che ne emerge non è incoraggiante, alla luce del fatto che l'attività di contrasto da parte dello Stato all'attività illecita nello specifico settore dello smaltimento dei rifiuti derivanti dall'attività di movimento terra e, in particolare, alla ’ndrangheta, presenta serie difficoltà, a fronte di un mercato, che in Lombardia vede la presenza

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dei calabresi, direttamente o indirettamente collegati alla ’ndrangheta, operare in regime di monopolio negli appalti delle opere pubbliche e private, per quanto riguarda gli specifici settori del movimento terra, del recupero dei materiali di risulta, della produzione e fornitura di conglomerato bituminoso e del nolo dei mezzi.
Per usare le parole degli inquirenti, le organizzazioni criminali sono state abbastanza scaltre, precedendo di gran lunga l'attività di contrasto.
Di conseguenza, le modalità operative degli organi inquirenti devono tradursi in un costante scambio di informazioni tra tutti gli operatori. In pratica qualunque irregolarità venga riscontrata dovrebbe essere segnalata anche ai Carabinieri del Noe.
Invero, come già accade in Calabria nei lavori autostradali, solo con l'intervento sul cantiere si individuano i conduttori dei mezzi, si risale alla proprietà di questi e, mediante un approfondimento informativo non solo in loco, ma anche nei luoghi di origine dei soggetti, si riescono a individuare riscontri e collegamenti a supporto di quanto emerge dai dati documentali.
Allo stato, le tecniche operative sono costituite dal controllo dei formulari, posto che abitualmente, com’è emerso nell'indagine «Tenacia», i conducenti falsificano i documenti di trasporto e dal pedinamento dei camion dal sito di partenza a quello di stoccaggio.
Tutto ciò comporta un notevole impegno investigativo, sicché solo la messa in funzione del Sistri (sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti) sarebbe di grande aiuto, alla luce del controllo «da remoto» che è possibile fare via gps del percorso del rifiuto sui vari mezzi censiti.

2.5.1. Le bonifiche nella regione Lombardia: i siti di Pioltello Rodano, Brescia-Caffaro, Laghi di Mantova e Polo Chimico, Broni, Milano-Bovisa, Cerro al Lambro e Sesto San Giovanni.

Anche in Lombardia si è constatata la totale inefficacia dell'azione amministrativa e tecnica delle istituzioni nei siti di interesse nazionale.
In Lombardia molti amministratori hanno dichiarato che «il sito di interesse nazionale è fermo (n.d.r.), come tutti gli altri». In alcuni casi è stato presentato alla Commissione l'auspicio che si possa «depotenziare» in un certo senso il sito da bonificare dal rango di siti di interesse nazionale, mediante un ritorno della delega alle realtà territoriali allo scopo di accelerare i procedimenti.
La problematica della insostenibile lentezza dei procedimenti dei siti di interesse nazionale, gestiti a livello centrale di Ministero dell'ambiente, è stata peraltro riscontrata dalla stessa Commissione in altre regioni, potendo quindi anche in questo caso trarsi una prima conclusione di indicare al legislatore la necessità di ripensare la normativa vigente sotto questo profilo.
Nella regione Lombardia, i casi da richiamare sicuramente a sostegno di questa tesi sono quelli del sito milanese dell'ex Sisas di Pioltello-Rodano, con le connesse vicende giudiziarie oggetto di attenta valutazione anche da parte della Commissione, nonché dei siti di Brescia-Caffaro, di Broni (PV), del polo chimico – laghi di Mantova,


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di Milano-Bovisa, di Cerro al Lambro e di Sesto San Giovanni, come riportati in dettaglio nella relazione.
Sul tema bonifiche la realtà molto interessante e i contatti con i vari soggetti istituzionali impegnati in queste attività nella regione Lombardia ha anche messo in luce una problematica tecnica specifica e significativa, che qui si intende richiamare, in quanto di interesse generale.
Com’è noto, la contaminazione di un sito è quella relativa al suolo, alla falda o, nella quasi totalità dei casi, relativa ad entrambe le matrici ambientali.
Nel caso di contaminazione di suolo e falda, la bonifica del suolo e il risanamento della falda sottostante – all'esito di un'attività tecnica di bonifica on site ovvero mediante asportazione del suolo e conferimento a smaltimento e, quindi, ad avvenuta bonifica del suolo – può richiedere per ragioni tecniche oggettive tempistiche molto lunghe.
La restituzione del sito in questi casi costituisce un aspetto di grande problematicità per gli enti preposti, la provincia e l'Arpa.
Da un lato, infatti, a rigore, la restituzione definitiva dovrebbe avvenire solo ad avvenuta bonifica sia del suolo che della falda acquifera; d'altro canto è evidente che tempistiche di lustri risulterebbero incompatibili con le aspettative del soggetto privato investitore, il quale bonifica il sito per realizzare un'urbanizzazione, con il risultato che, se tutti tali investitori abbandonassero i siti o li scartassero dalle loro iniziative immobiliari, ci si ritroverebbe con moltissime aree ancora contaminate, destinate a rimanere tali, stante la totale assenza di risorse pubbliche, mentre le iniziative immobiliari andrebbero a interessare aree nuove con conseguente consumo di suolo.
Pare opportuno, anche in questa sede, riportare le considerazioni di sintesi in merito ai siti oggetto di approfondimento.

Pioltello e Rodano.
Con riferimento al sito di Pioltello e Rodano si sono alternate varie vicende, dalla condanna della Corte di giustizia dell'Unione europea per la mancata bonifica dell'area ex Sisas, alla nomina di diversi commissari per l'emergenza ambientale, fino all'affidamento delle attività di bonifica alla Daneco Impianti Srl.
Proprio in relazione alla bonifica effettuata dalla Daneco è in corso un'indagine penale da parte della procura della Repubblica di Milano per il reato di cui all'articolo 640-bis del codice penale in relazione al cambio di codice Cer dei rifiuti rimossi nell'attività di bonifica in quanto il cambio di codice Cer avrebbe comportato per la Daneco Impianti l'abbattimento dei costi di smaltimento rispetto a quelli previsti nel contratto di appalto che, viceversa, sono rimasti inalterati.
Il dato particolarmente preoccupante in questa vicenda è costituito dalla condotta tenuta dagli organi di controllo. Ed, infatti, molti dubbi sono emersi anche con riferimento ai pareri forniti dagli enti interpellati in merito alla possibilità di effettuare il cambio del codice Cer, quanto meno sotto il profilo dello scarso livello motivazionale e della sospetta tempestività dei pareri stessi, rilasciati lo stesso giorno o il giorno successivo all'interpello.


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Naturalmente deve evidenziarsi che le indagini sono in corso e, dunque, non possono trarsi conclusioni in merito alla commissione o meno di reati prima di una pronuncia del giudice penale. Può però, alla luce della sequenza temporale degli avvenimenti e dello stato attuale del sito, concludersi che, ancora una volta, le procedure di bonifica dei siti di interesse nazionale risultano essere tanto complesse quanto inefficaci.
Non può inoltre non rilevarsi che il sito di interesse nazionale di Pioltello Rodano comprende anche altre importanti realtà industriali, tra le quali Antibioticos (oggi Olon), Air Liquide, Energheia che presentano problematiche relative alla contaminazione dei terreni e delle acque sotterranee assolutamente analoghe rispetto a quelle dell'area ex Sisas e che, ad oggi, non hanno ancora attuato alcun intervento di bonifica.

Laghi di Mantova e Polo Chimico.
I risultati di una recente campagna di monitoraggio effettuata dall'Arpa hanno evidenziato il permanere in molte aree di un grave stato di contaminazione delle acque sotterranee.
Presso lo stabilimento Belleli Energy Cpe non è attivo alcun sistema di messa in sicurezza d'emergenza per il recupero del prodotto organico «surnatante» né vi è uno sbarramento idraulico delle acque sotterranee inquinate che, di conseguenza, fluiscono indisturbate verso le aree umide e il fiume Mincio.
Presso la raffineria Ies, la messa in sicurezza è costituita da una serie di pozzi, che svolgono contemporaneamente la funzione di barriera idraulica e di recupero del prodotto surnatante.
Le analisi condotte da Arpa Lombardia mostrano come l'attuale sistema di messa in sicurezza della falda in questa porzione del sito, che comprende la raffineria Ies e lo stabilimento Belleli Energy, sia del tutto insufficiente a trattenere le acque sotterranee contaminate e a impedire, quindi, che vengano raggiunti i bersagli ambientali, costituiti dalle aree umide e dal fiume Mincio.
La situazione è aggravata dalla presenza di contaminanti organici a valle della discarica di fusti contenenti fanghi mercuriosi, area in cui è stata recentemente rinvenuta una terza vasca in calcestruzzo, non denunciata e in condizioni di deterioramento, anch'essa riempita con fusti di fanghi mercuriosi (nota Arpa prot. n. 74650 del 30 maggio 2011).
È stata, inoltre, rilevata la presenza in concentrazioni elevate di benzene proveniente dall'area di proprietà Syndial e, cioè, dall’«Area Collina».
In conclusione, regna una confusione generale e, mentre l'inquinamento della falda avanza in modo inesorabile verso le acque del Mincio, il Ministero dell'ambiente, avvalendosi della Sogesid spa, si limita a elaborare progetti relativi all'intero sito, che non avranno alcuna possibilità di realizzazione in ragione dei costi non sostenibili.
Risulta alla Commissione di inchiesta che le attività condotte da Sogesid spa, affidate tra il 2008 e il 2011, hanno portato all'elaborazione di progetti, nessuno dei quali attuati.
Poiché tale circostanza si verifica sistematicamente allorquando i progetti di bonifica vengono elaborati da Sogesid (cfr. il sito della


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laguna di Grado e Marano) è lecito chiedersi se la progettazione più che essere finalizzata ad una futura attuazione non costituisca invece un mero esercizio tecnico privo di concretezza.
Del tutto inefficace è, poi, nei fatti, il regime delle prescrizioni nei confronti dei privati, posto che:
1) i privati responsabili non appaiono disposti a sobbarcarsi gli oneri di bonifica;
2) vi sono contestazioni da parte dei proprietari di alcune aree, i quali assumono di non essere responsabili dell'inquinamento della falda;
3) il Ministero dell'ambiente non dispone dei fondi necessari per eseguire le relative opere di bonifica, ex articolo 252, comma 5, del decreto legislativo n. 152 del 2006 e successive modifiche e integrazioni.

La situazione ha effetti evidenti anche sulla salute della popolazione.
Gli studi epidemiologici hanno rilevato un abnorme aumento di un particolare tumore, il sarcoma dei tessuti molli (stm), che alcuni studi scientifici associano alla presenza della diossina, prodotta in passato dal petrolchimico di Mantova per effetto della combustione dei residui di produzione, contenenti sostanze clorurate e di difficile smaltimento, posto che anche nei pesci dei laghi di Mantova sono stati rinvenute concentrazioni di diossine.
Mentre l'aumento complessivo della mortalità per tumore maligno e l'incidenza particolarmente elevata di stm (sarcoma dei tessuti molli) depongono per un rischio storico che attualmente potrebbe anche essersi ridimensionato, trattandosi di effetti a lunga latenza, la stessa valutazione non può, invece, essere effettuata per le «malformazioni congenite», che pure sono state rilevate con maggiore incidenza nella zona, in cui il tempo che intercorre tra inizio dell'esposizione e malattia è sostanzialmente riferibile alla durata di una gravidanza.

Sesto San Giovanni.
Con riferimento al sito di Sesto San Giovanni, mentre i suoli di alcune aree, per le quali vi era un forte interesse immobiliare o produttivo, sono stati bonificati e certificati, per le acque sotterranee una vera e propria bonifica è ancora lontana per mancanza di risorse da parte degli enti pubblici incaricati della bonifica.
In sostanza, anche il quadro fornito dalla provincia di Milano non fa che confermare i forti ritardi nell'attuazione degli interventi di bonifica necessari nei siti di interesse nazionale e le lungaggini amministrative alle quali i procedimenti relativi sono sottoposti.
Il dato preoccupante deriva dall'essere il sito di interesse nazionale collocato in una delle zone più popolose e urbanizzate della regione Lombardia.


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Brescia Caffaro.
Gli accertamenti effettuati nel sito di interesse nazionale di Brescia Caffaro hanno dimostrato come gli inquinanti siano entrati nella catena alimentare.
In particolare, sono stati dimostrati i seguenti fenomeni relativi al pcb:
 l'evaporazione e la condensazione nel fieno, il quale resta a contatto diretto con il terreno, limitatamente ad alcuni congeneri di pcb (più volatili);
 il deposito a seconda della tipologia di vegetale e la ripartizione all'interno dei tessuti;
 l'accumulo negli organismi animali che hanno assunto vegetali contaminati;
 l'assunzione da parte dell'uomo, il trasferimento nel flusso ematico e la ripartizione in tessuti ed organi.

Nonostante l'evidente gravità dell'inquinamento, anche con riferimento a questo sito deve prendersi atto della attuazione di Mise che riguarda solo il 5 per cento del territorio ricompreso nel perimetro del sito di interesse nazionale. Per il resto il sito di interesse nazionale è interessato o da attività di caratterizzazione o da attività di progettazione della bonifica, ma senza nessun ulteriore sviluppo.
L'attività svolta per valutare lo stato di salute dei lavoratori dello stabilimento Caffaro ha, infine, posto in luce livelli di PCBemia costantemente elevati nei soggetti, dovuta alla consistente esposizione a composti organo clorurati avvenuta in passato, ma in diminuzione.

Sito di Broni.
La situazione drammatica del sito di Broni emerge della richiesta di rinvio a giudizio, in data 16 aprile 2011, della procura della Repubblica preso il tribunale di Voghera nei confronti degli amministratori e dirigenti della Fibronit Srl per i reati di disastro ambientale e di omicidio colposo aggravato dalla previsione dell'evento, provocati dall'amianto, che è stato immesso nell'ambiente di lavoro e in ambienti di vita su vasta scala, causando decessi e patologie asbesto correlati (mesoteliomi pleurici e peritoneali, tumori polmonari, asbestosi o patologie non di origine polmonare) di un elevato e indeterminato numero di lavoratori, nonché di cittadini residenti nel comune di Broni, oltre che di persone che, comunque, prestavano la loro attività lavorativa nello stesso comune.
La richiesta di rinvio a giudizio riguarda numerosissime persone offese tra deceduti e persone affette dalle patologie sopra indicate e l'elenco è destinato, purtroppo, ad allungarsi in quanto la latenza delle malattie è di decenni.
In tale contesto si appalesa gravemente inopportuna la realizzazione di un impianto di smaltimento dell'amianto a Broni, prima della completa bonifica dell'area.


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Quanto allo stato di attuazione degli interventi, ad oggi sono stati eseguiti in area ex-Fibronit ed ex Ecored gli interventi di messa in sicurezza di emergenza di prima fase.

2.6. Le conclusioni sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nella regione Basilicata (relazione approvata il 24 gennaio 2013) (Doc XXIII n. 17).

La Basilicata, nel quadro generale della gestione dei rifiuti in Italia presenta delle caratteristiche del tutto peculiari.
Rappresenta l'esempio lampante di quanto possa essere inefficiente la gestione dei rifiuti anche in una regione ove vi è una produzione contenuta degli stessi per ragioni riconducibili sia al numero di abitanti sia alla crisi economica che porta, evidentemente, ad un contenimento dei consumi e, quindi, della produzione dei rifiuti.
Il problema, dunque, in questo caso, non è tanto quello relativo ai quantitativi di rifiuti prodotti, che sono infatti in diminuzione, quanto piuttosto quello della razionale predisposizione di un sistema di gestione idoneo a consentire lo smaltimento e/o il riciclo dei rifiuti in ossequio alle prescrizioni imposte a livello europeo e nazionale.
Ancora una volta si assiste ad un'attività amministrativa imperniata principalmente sulla ricerca di nuove volumetrie per le discariche ove conferire i rifiuti, e ciò pur nella piena consapevolezza che il conferimento in discarica, lungi dall'essere un sistema di smaltimento, è il criterio assolutamente residuale nella gestione del ciclo dei rifiuti.
Il dato sorprendente, ma che poi non sorprende più di tanto alla luce delle altre inchieste effettuate dalla Commissione, è la sovrapponibilità tra la situazione così come fotografata nella relazione sulla Basilicata approvata nel 2000 dalla Commissione sul ciclo dei rifiuti della XIII legislatura e i risultati dell'inchiesta che questa Commissione ha svolto a dodici anni di distanza.
Ed, infatti, all'esito delle numerose audizioni, acquisizioni documentali, sopralluoghi effettuati, le problematiche riscontrate appaiono pressoché le stesse, se non aggravate.
Nell'arco di dodici anni, infatti, nessuna soluzione concreta appare essere stata adottata rispetto alle problematiche emerse e conclamate.
Il dato aggiuntivo è stato rappresentato dalla inquietante vicenda che ha coinvolto l'inceneritore La Fenice, i suoi dirigenti nonché i funzionari dell'Arpab deputati al controllo dell'impianto.
Si tratta di una vicenda che, oltre ad essere grave in sé, in relazione all'inquinamento provocato e all'esigenza di tempestivi interventi di bonifica nella zona coinvolta dall'inquinamento, è emblematica dell'inefficienza spesso colposa, talvolta dolosa, che si registra in un più ampio sistema di controlli preventivi che, in Basilicata, come in altre regioni, ha dimostrato di non funzionare.
A prescindere dal caso giudiziario specifico, del quale si è dato conto nel corpo della relazione e che ancora è sub iudice, la Basilicata è un territorio che si caratterizza per una strutturale e congenita refrattarietà al controllo.


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I magistrati che sono stati auditi, anche quelli che provengono da uffici giudiziari di altre regioni, hanno sottolineato proprio la difficoltà materiale di controllare un territorio caratterizzato dalla presenza di ampie zone disabitate e di luoghi difficilmente accessibili.
Se, dunque, a questa refrattarietà naturale del territorio si aggiunge anche la negligenza o l'incompetenza o, ancora, la complicità di chi è deputato al controllo, ci si trova effettivamente di fronte ad un territorio trasformato in terra di nessuno, come tale depredabile da chiunque abbia una necessità di smaltire rifiuti di varia natura (e, come, si è avuto modo constatare la necessità di trovare luoghi ove smaltire rifiuti è diffusa su tutto il territorio nazionale).
Fatta questa premessa, si impone un'ulteriore considerazione.
La circostanza che la regione sia scarsamente abitata non deve portare a ritenere che le esigenze di salvaguardia ambientale siano inferiori rispetto a quelle di altre regioni, perché – se è vero che la salute delle popolazioni è un valore prioritario e fondamentale, costituzionalmente garantito – è anche vero che l'ambiente è un valore in sé, tanto che l'articolo 9 della Costituzione dispone al comma 2 che la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».
Quello che si vuole esprimere è che non bisogna abbassare la guardia nella tutela dell'ambiente sol perché i territori interessati non sono abitati o perché non vi sono popolazioni che manifestano con azioni di protesta rispetto all'apertura di discariche, siano esse legali o illegali. Non si possono, infatti, sottovalutare gli effetti che l'inquinamento anche di zone scarsamente abitate può determinare attraverso un meccanismo inarrestabile per cui l'inquinamento dall'ambiente passa alla catena alimentare e, attraverso un effetto di moltiplicazione, va ad incidere sulla salute dell'uomo.
Le inchieste che la Commissione ha svolto, non solo sul territorio nazionale, ma anche all'estero, hanno dimostrato come i traffici dei rifiuti siano molto intensi e rappresentino un elemento di grave allarme sociale a livello globale.
Anche il legislatore nazionale ha compreso la portata del problema non solo attribuendo alla procura distrettuale antimafia la competenza per il reato di traffico illecito organizzato di rifiuti, disciplinato dall'articolo 260 del decreto legislativo n. 152 del 2006, ma anche introducendo la predetta fattispecie criminosa tra i «reati presupposto» per l'avvio dell'azione di responsabilità amministrativa nei confronti degli enti e delle persone giuridiche (di cui al decreto legislativo n. 231 del 2001), in tal modo allineandosi alla normativa comunitaria. In particolare, sono state così recepite le direttive n. 99 del 2008 sulla tutela penale dell'ambiente e n. 2009/123/CE (che modifica la direttiva 2005/35/CE relativa all'inquinamento provocato dalle navi e all'introduzione di sanzioni per violazioni).
Le innovazioni normative sono il frutto della presa di coscienza dell'inadeguatezza degli strumenti investigativi fino ad ora messi a disposizione degli inquirenti per l'accertamento dei reati ambientali.
E dunque, la maggiore forza investigativa delle procure distrettuali antimafia, in una con il potere di coordinamento della direzione

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nazionale antimafia, rappresenta il punto di partenza di una fase di maggiore approfondimento di tematiche e di reati particolarmente difficili da accertare.
La Basilicata è il crocevia di tre regioni che sono caratterizzate dalla presenza endemica della criminalità organizzata di stampo mafioso; tre regioni rispetto alle quali la Commissione ha effettuato approfondite inchieste rilevando un controllo pressoché capillare del settore dei rifiuti da parte della criminalità organizzata.
È proprio la criminalità organizzata di stampo mafioso che ha il potere di controllare il territorio e, quindi, di deciderne la destinazione a fini di discarica.
Le numerosissime indagini condotte dalla magistratura che la Commissione ha esaminato hanno sfatato alcuni falsi convincimenti che per lungo tempo hanno condizionato anche le strategie investigative.
I rifiuti oggetto di traffico illecito, invero, non sono solo quelli che dal sud Italia giungono al nord, ma anche quelli che dal nord vengono illecitamente smaltiti nelle regioni del sud.
E, in molti casi, le indagini sono state avviate proprio da uffici di procura siti in regioni diverse da quelle destinatarie dei rifiuti oggetto degli illeciti traffici. Ciò è avvenuto con riferimento a discariche pugliesi ove sono stati illecitamente smaltiti rifiuti campani prodotti nella fase emergenziale e fatti prima transitare presso impianti del nord ove venivano solo fittiziamente sottoposti a trattamento.
È stata la procura presso il tribunale di Milano ad avviare e portare a termine un'indagine che si è conclusa in via definitiva in senso sostanzialmente conforme all'ipotesi accusatoria.
Non solo.
Anche le regioni italiane caratterizzate dalla presenza dei porti rappresentano sistematicamente luogo di transito di rifiuti, oggetto di traffici illeciti transazionali, indirizzati verso le più disparate località.
La circostanza che in Basilicata non vi siano o, comunque, non siano state accertate organizzazioni criminali di stampo mafioso non significa che in questa regione non esistano soggetti pronti ad interloquire con le organizzazioni criminali di stampo mafioso e non, che sul territorio nazionale sono in grado di gestire un ciclo di smaltimento dei rifiuti parallelo rispetto a quello statale, svincolato da qualsiasi regola, condotto illecitamente e in grado di far risparmiare ai produttori dei rifiuti i costi di smaltimento.
Per questi motivi, la Commissione non può che rappresentare la situazione di estrema pericolosità in cui versa la regione, pericolosità che rischia di restare oggetto solo di dibattiti e di esercitazioni teoriche e che, invece, deve smuovere e allertare gli enti territoriali, le forze di polizia e gli organi investigativi affinché presidino il territorio e non sottovalutino episodi di inquinamento ambientale che in Basilicata possono avere un significato più drammatico di quello apparente.
Dal punto di vista della gestione dei rifiuti, in Basilicata la discarica è ancora utilizzata come forma prioritaria. La percentuale di rifiuti inviati in discarica, come si ricava dal «rapporto rifiuti urbani 2012» dell'Ispra (riferito però all'anno 2010), è dell'83 per cento.

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Questo dato, di per sé, sarebbe sufficiente per dimostrare l'arretratezza della regione nella gestione del ciclo dei rifiuti.
Da parte degli organi di governo regionali vi è la consapevolezza della necessità di realizzare un'impiantistica adeguata attraverso la realizzazione di almeno tre impianti di compostaggio in grado di trattare la gran parte dell'umido prodotto dalla regione.
Questo obiettivo si unisce a quello di un rafforzamento della raccolta differenziata, in modo da potere perseguire una duplice finalità:
 separare il secco dall'umido per la produzione di compost;
 diminuire il quantitativo dei rifiuti da destinare in discarica.

Deve tenersi conto del fatto che in Basilicata vi è un unico impianto di incenerimento, che però non incide sulla gestione del ciclo dei rifiuti, tenuto conto del dato fornito da Ispra, secondo cui solo lo 0,5 per cento dei rifiuti viene destinato all'incenerimento.

2.6.1. Le bonifiche nella regione Basilicata.

Le questioni emerse nel corso dell'inchiesta permettono di formulare una serie di considerazioni in merito alle principali problematiche esistenti nella regione Basilicata sul tema delle bonifiche:
 i procedimenti di bonifica dei Sin di Tito e Val Basento sono, sostanzialmente, fermi per ragioni riconducibili alla mancanza di finanziamenti statali ed all'insufficienza di quelli regionali;
 esistono numerose aree altamente inquinate che necessitano di interventi di bonifica; i fenomeni di inquinamento sono particolarmente diffusi, soprattutto se si tiene conto delle dimensioni territoriali della regione;
 i controlli appaiono carenti e/o inadeguati a coprire efficacemente l'intero territorio, che risulta dunque esposto a rischio di infiltrazione da parte della criminalità organizzata, particolarmente presente nelle regioni limitrofe;
 le indagini giudiziarie danno conto, allo stato, di un inquinamento provocato per lunghi anni dall'inceneritore La Fenice, inquinamento protrattosi nel tempo con effetti disastrosi per l'ambiente e reso possibile da condotte illecite poste in essere da parte degli stessi organi deputati al controllo ambientale;
 sono state caratterizzate le acque di falda che necessitano di attività di bonifica e, allo stato, sempre con riferimento all'inquinamento provocato dall'inceneritore, risultano essere state effettuate attività di messa in sicurezza d'emergenza;
 si è conclusa la fase istruttoria dell'analisi del rischio sanitario-ambientale. I risultati presentati da Fenice indicano livelli di rischio, per tutte le sostanze, per tutti i processi di trasporto e per tutti i possibili bersagli, inferiori ai livelli di accettabilità (risultano rispettati sia il criterio di accettabilità rischio cancerogeno per singola sostanza


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sia il criterio di accettabilità rischio cancerogeno cumulato, fissati dal decreto legislativo n. 152 del 2006). Tuttavia, trattandosi di rischi potenzialmente subiti in modo involontario, ovvero secondo processi di esposizione indipendenti dalla volontà dei soggetti potenzialmente esposti, questi vengono percepiti e devono essere considerati come rischi inaccettabili. Per questi motivi la regione, superando gli obblighi imposti dalla legge, ha proposto nella Conferenze di servizi del 31 marzo 2011 come obiettivo di bonifica il ripristino dello stato ambientale originario del sito, con la totale eliminazione delle sostanze inquinanti. Le integrazioni richieste sono finalizzate ad escludere anche rischi sanitari ed ambientali meno probabili.

2.7. Le conclusioni sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nella regione Campania (relazione approvata il 5 febbraio 2013) (Doc XXIII n. 19).

Le storture della gestione emergenziale e le indagini della magistratura
La catastrofe ambientale che è in atto e che sta sconvolgendo la città di Napoli e cospicue parti del territorio campano costituisce ormai un fenomeno di portata storica, paragonabile soltanto ai fenomeni di diffusione della peste secentesca.
Il paragone non sembri azzardato, in considerazione del fatto che anche per i rifiuti a Napoli emergono, sia pure con connotazioni moderne, le figure degli untori che popolavano le tragedie cui si è fatto riferimento.
In Campania gli untori, per non uscire dalla metafora, devono identificarsi in numerosi soggetti che hanno operato nel settore.
La gestione commissariale ha costituito il terreno di coltura in cui hanno trovato alimentazione i bacilli poi esplosi, infine, nell'attuale situazione.
La gestione commissariale è stata caratterizzata, per molti versi, da una finalità di «uso» del problema rifiuti, e non di soluzione dello stesso.
L'uso è consistito nel controllo degli spazi occupazionali e decisionali per finalità di agevolazione di soggetti titolari di interessi privati, in totale spregio dell'interesse pubblico.
Non è questa la sede per individuare singole responsabilità di questo o di quel commissario, di questo o di quel funzionario.
Sembra una storia tipicamente italiana di malcostume, e tuttavia risulta emblematica del fatto che in determinati settori la pubblica amministrazione non può tollerare in alcun modo che il suo agire venga affidato a soggetti scelti sulla base di meri rapporti clientelari o para-clientelari, né che il suo agire venga indirizzato verso scopi di favoritismo, e ciò proprio per la materia che in questo contesto la pubblica amministrazione deve gestire.
L'aspetto particolarmente allarmante della vicenda è che il settore dei rifiuti non è paragonabile ad altri settori dell'amministrazione, in quanto si tratta di un settore che attiene al soddisfacimento di quelli che sono i bisogni primari dell'uomo, ossia la salute e la salvaguardia ambientale.


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Le indagini svolte dalla procura di Napoli, alcune delle quali attualmente in fase dibattimentale, stanno dimostrando (come precisato dal magistrato titolare delle indagini, dottor Noviello) come siano stati collocati in varie articolazioni, anche di vertice, della struttura commissariale soggetti completamente incompetenti, e la loro incompetenza l'hanno candidamente dichiarata in sede dibattimentale.
In sostanza, usando una metafora, è come se in un ospedale fossero stati collocati ad occuparsi della chirurgia d'urgenza semplici infermieri alle prime armi.
Il paragone non è casuale, perché in entrambi i casi si tratta di tutelare la salute delle persone e garantire il diritto di tutti alla salute.
Emblematica del «sistema operativo» radicalizzatosi nella struttura commissariale è l'indagine «Marea Nera». Secondo l'impostazione accusatoria, gli organi commissariali e gli organi regionali avrebbero sostanzialmente deliberato di gettare, così com'era, il percolato in mare, dando così vita ad uno dei più imponenti e pericolosi traffici illeciti di rifiuti posti in essere in Campania.
I rifiuti in Campania hanno assunto dimensioni talmente colossali da avere acquistato, per così dire, una sorte di vita autonoma, tale da avere inquinato non solo i luoghi, ma anche le persone.
Gli uomini preposti alla soluzione dell'emergenza rifiuti, invece di risolvere il problema, sono rimasti loro stessi inquinati nelle loro coscienze.
Nel procedimento sopra indicato è contestato il reato di disastro ambientale. Il disastro che si è avuto modo di constatare è però un disastro umano oltre che ambientale, come se la contaminazione abbia avuto la capacità di estendersi dalle cose alle persone ed abbia tracimato nel mare.
Si è dimostrato ancora una volta come situazioni così gravi e radicalizzate, quali sono quelle campane, non possano essere affrontate risolvendole con il tratto di penna della legge, nel senso che non basta che per legge vengano prefissati degli obiettivi da raggiungere «ad ogni costo».
Assegnare ad un soggetto un obiettivo, senza che esso possa essere concretamente realizzabile, provoca l'effetto che l'obiettivo formale venga perseguito a tutti i costi, con la conseguenza che la soluzione sia quella, semplicisticamente, di nascondere la polvere sotto il tappeto.
La montagna di rifiuti in Campania (comprese le ecoballe) è ormai un «ente» che ha acquisito una sua soggettività ed una sua potenza corruttiva inarrestabile.
Una potenza corruttiva che ha portato le persone preposte alla gestione dei rifiuti e alla soluzione delle emergenze a ricercare esclusivamente un modo per «nascondere» i rifiuti, «nascondere» le responsabilità avendo come obiettivo reale la mera apparente soluzione del problema.
Il sistema di smaltimento dei rifiuti nella regione Campania si è articolato prevalentemente in due fasi:
 spostare i rifiuti da un posto ad un altro;
 nascondere i rifiuti;

mentre non vi è traccia alcuna di una forma di smaltimento nel rispetto delle norme poste a tutela dell'ambiente.


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Paradossale è che le persone che si sono rese responsabili di una gestione così dissennata, abbiano poi rivestito incarichi delicati e, per certi versi, «di prestigio», nel settore dei rifiuti, evidentemente in ragione degli «ottimi» risultati raggiunti.
Lo stato di emergenza in Campania ha alimentato ulteriormente l'emergenza e tutto il sistema di gestione dei rifiuti non può che apparire, allo stato (per come emerge dalle indagini giudiziarie), esso stesso organizzato per delinquere.

Il passaggio dalla stagione emergenziale a quella ordinaria.

La dichiarazione dello stato di emergenza ambientale in Campania è cessata in data 31 dicembre 2009.
Si è trattato, come si è avuto modo di constatare, di una cessazione di emergenza effettuata con un tratto di penna su un foglio, ma, in realtà, le emergenze ambientali si sono susseguite sistematicamente negli anni con punte di criticità assolute.
Ripercorrere le dichiarazioni rese dai Ministri dell'ambiente, dall'inizio dell'inchiesta (2009) fino ad oggi, consente di comprendere la mancanza di consapevolezza, in primo luogo, e di lungimiranza, poi, nell'esame della situazione campana.
Oggi, come noto, ci troviamo in una situazione di fatto, ancora emergenziale, e le numerose «crisi rifiuti» che si sono avvicendate dopo la formale chiusura dello stato di emergenza ne sono, purtroppo, la prova.
Lo stadio cui si è arrivati oggi era di gran lunga prevedibile dagli organi di Governo che nel 2010, in Commissione, hanno parlato in termini pressoché entusiastici della cessazione dello stato di emergenza in Campania dal 31 dicembre 2009.
Il problema vero da affrontare, e che ci si sarebbe aspettati di potere affrontare lucidamente anche con i rappresentanti del Governo, non è certamente quello, meramente formale, della chiusura dello stato di emergenza, circostanza questa rilevante sotto il profilo del taglio delle risorse statali finalizzate alla gestione del ciclo dei rifiuti in Campania, meno rilevante sotto il profilo della soluzione dei problemi; il vero problema è quello dell'avvio di una gestione ordinaria.
Ancora oggi, nel 2012, esistono organi «straordinari» deputati all'individuazione dei siti di discarica, piuttosto che alla bonifica dei siti contaminati o alla realizzazione del termovalorizzatore per lo smaltimento di quantitativi abnormi di rifiuti «stoccati» (per così dire) nei vari siti campani.
Non può non constatarsi drammaticamente la poca aderenza alla realtà delle dichiarazioni rese dal Ministro dell'ambiente pro tempore Stefania Prestigiacomo alla Commissione nel mese di novembre 2009 e nel mese di aprile 2010.
In data 11 novembre 2009, lo stesso ministro Stefania Prestigiacomo ha dichiarato, ottimisticamente:
 «per quanto riguarda le regioni sottoposte a regimi commissariali, si registra, comunque, un'evoluzione positiva. In particolare,


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sebbene risultino tuttora in regime di emergenza le regioni Campania, Calabria e Puglia, nonché la provincia di Palermo, si osserva che, sia per la Puglia che per la Campania, le criticità maggiori sono ormai superate ed è già in atto il passaggio dalle competenze straordinarie a quelle ordinarie».

Ed ancora, in modo più entusiastico (pur dando atto di talune difficoltà), ha dichiarato il 14 aprile 2010:
«Per quanto riguarda la ricognizione dello stato dell'arte sull'emergenza dei rifiuti in Campania, possiamo affermare con soddisfazione che l'anno 2010 rappresenta davvero un importante traguardo per la regione Campania, perché è l'anno in cui viene sancita definitivamente la chiusura della fase emergenziale che l'ha interessata per ben quindici anni».

In termini più realistici si è, invece, espresso il ministro Clini, il quale ha più volte affrontato la questione dello smaltimento delle ecoballe, le procedure di infrazione avviate dalla comunità europea, le difficoltà gestionali nella regione.

Le situazioni di emergenza rifiuti approfondite dalla Commissione.

Ciclicamente sono esplose nella provincia di Napoli e, a cascata anche nelle altre province, situazioni di gravissima emergenza determinate dal fatto che tonnellate di rifiuti si sono accumulate per le strade della città di Napoli e di altre città della provincia per giorni e giorni.
Si è trattato di situazioni che hanno dimostrato – se ce ne fosse stato ancora bisogno – l'estrema fragilità su cui poggia il sistema di smaltimento di rifiuti in Campania.
La Commissione, nel corso degli anni, si è recata sui luoghi dell'emergenza ripetute volte constatando come le situazioni di criticità, pur riconducibili nella contingenza a fattori diversi, fossero in realtà da ricondurre ad una matrice comune che è, per l'appunto, l'estrema fragilità di un sistema di smaltimento connotato dalla non autosufficienza.
Una delle prime crisi affrontata dalla Commissione è stata quella verificatasi nel mese di novembre 2010, allorquando, nella città di Napoli, vi erano circa 2.900 tonnellate di rifiuti non raccolti e, nella provincia, circa 6.000 tonnellate (quantitativi che si incrementavano di 600 tonnellate al giorno a Napoli e di 1.000 tonnellate nella provincia).
Il dato che è emerso chiaramente nel corso delle audizioni è che la crisi del sistema dei rifiuti a Napoli e provincia non poteva in alcun modo essere risolta senza un'immediata collaborazione da parte delle altre province, collaborazione resa più «difficile» dal sistema di provincializzazione del ciclo dei rifiuti.
Si è trattato di un momento drammatico, nel quale si è presa consapevolezza del fatto che la realtà di Napoli è una realtà non riducibile all'interno di una semplice provincia, dovendosi interfacciare con l'intero tessuto regionale.


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Non può ignorarsi quella che è la peculiarità di Napoli rispetto alle altre città della Campania, trattandosi non di una cittadina di provincia, ma di una vera e propria area metropolitana.
E pertanto è evidente l'inidoneità di una risposta secondo una logica meramente provincialistica per la soluzione del problema dei rifiuti, così come si è manifestato in quella fase emergenziale.
Una situazione di fibrillazione in relazione al ciclo dei rifiuti può assumere, come ha assunto, nella città di Napoli dimensioni tali per cui la provincia di riferimento possa non risultare, nella contingenza, sufficiente.
I presidenti delle province sono stati investiti della soluzione della problematica in essere, quanto meno nella fase acuta.
È bene sottolineare che la dimensione del problema, ingravescente senza soluzione di continuità, può assumere, ove non contrastata, una portata tale da travolgere direttamente le minimali condizioni per la pubblica incolumità, per la salubrità dell'ambiente, per la salute dei cittadini, determinando un disastro ambientale con riferimento all'intero territorio regionale.
Altra crisi si è verificata nel mese di luglio 2011 con cumuli di rifiuti per strada e il pericolo del propagarsi di epidemie. Questa crisi è stata determinata dal divieto, a seguito di un provvedimento del TAR, di trasferire i rifiuti fuori regione a prescindere da un'intesa tra le regioni stesse, il che ha creato un intasamento degli Stir, nella mancanza di siti di destinazione alternativi.
A prescindere dai successivi provvedimenti emanati sia dagli organi di giustizia amministrativa sia dagli organi di governo, è emerso in modo lampante ancora una volta come il problema sia quello della attuazione di un piano adeguato di gestione dei rifiuti che consenta di smaltirli in un sistema che sia autosufficiente.
Il dato che ha colpito la Commissione è che, proprio la crisi del mese di luglio 2011, era una crisi annunciata, nel senso che in precedenti audizioni gli organi istituzionali auditi dalla Commissione avevano già paventato l'imminenza di situazioni emergenziali.
L'inevitabilità della crisi dà la dimensione esatta di come non esista un sistema di gestione dei rifiuti reale in Campania. E questo perché si è continuato per anni sempre e solo a tamponare le contingenti emergenze senza che, correlativamente, si sia riusciti ad affrontare in una prospettiva di lungo periodo quella che è la gestione del ciclo dei rifiuti nelle sue connotazioni ordinarie.
Senza entrare nel dettaglio, in sede di conclusioni, delle singole ulteriori crisi di volta in volta esplose, l'elemento comune è costituito da un'evidente mancanza di attuazione di politiche ambientali adeguate che, laddove fossero state avviate per tempo, quantomeno a partire dalla chiusura della fase emergenziale, avrebbero consentito – a distanza di due anni – almeno l'avvio di soluzioni impiantistiche idonee.

La situazione attuale.

All'esito di un'inchiesta durata circa tre anni si può fondatamente sostenere che la provincia di Napoli, per lungo tempo (e con essa la regione Campania) non è uscita dalla fase emergenziale.


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Nella relazione si è dato conto delle varie missioni effettuate da parte della Commissione rifiuti a Napoli e provincia al fine di fornire uno spaccato reale e non filtrato di quanto la Commissione ha avuto modo di constatare.
Se solo si confrontano le dichiarazioni rese nel corso delle audizioni dai rappresentanti istituzionali nel 2009 con quelle rese più recentemente sembra quasi che il tempo non sia trascorso, come se si ascoltasse un disco rotto che ricomincia sempre dal principio.
Ossessivamente è stato ripetuto alla Commissione che le gravissime emergenze registrate periodicamente a Napoli e provincia e caratterizzate da un'insostenibile permanenza di tonnellate di rifiuti per le strade erano dovute alla mancanza di impianti ove conferire i rifiuti, di impianti ove trattarli, di livelli bassi di raccolta differenziata.
Solo di recente sembrano essere state avviate attività volte nel loro insieme a riportare il ciclo dei rifiuti ad una gestione ordinaria che, però, è ancora lontana dal realizzarsi in quanto i rifiuti vengono prevalentemente smaltiti fuori dalla regione o all'estero.
Non è compito della Commissione valutare la maggiore o minore idoneità di una politica ambientale rispetto ad un'altra né se le uniche soluzioni possibili per l'avvio di un ciclo integrato dei rifiuti siano quelle connesse alla realizzazione di termovalorizzatori. Tutto ciò che è orientato alla riconduzione dello smaltimento dei rifiuti nell'ambito di un ciclo ordinario in ottemperanza ai criteri dettati dalle direttive europee è auspicabile che si realizzi in tempi rapidi, pur nella consapevolezza che vi sono tempi tecnici per la realizzazione degli impianti (tempi peraltro che erano stati già preannunciati nel 2009 come tempi di attesa nelle more della realizzazione dell'impiantistica e che, ad oggi, sono decorsi invano).
Si impongono delle scelte politiche responsabili da parte di coloro che sono stati eletti dalle popolazioni interessate e che a queste devono rispondere nell'adozione delle politiche ambientali medesime.
Sono state espresse molte critiche in merito ai trasferimenti dei rifiuti fuori regione e all'estero e, peraltro, non si tratta di critiche fuori luogo, tenuto conto del fatto che molte indagini giudiziarie hanno verificato quanto i traffici di rifiuti si alimentino maggiormente nel caso in cui i rifiuti stessi debbano essere trasportati in luoghi diversi e lontani da quelli di produzione.
E però, in una fase, si ribadisce, di perenne emergenza con pericolo che i rifiuti tornino ad occupare le strade e ad essere fonte di danni all'ambiente e alla salute, le soluzioni di smaltimento economicamente sostenibili non possono essere ignorate in attesa, ovviamente, che la Campania e la provincia di Napoli possano tornare ad una gestione dei rifiuti in linea con quanto previsto nel piano regionale.
Nella regione Campania la problematica rifiuti ha assunto, nel corso degli anni, una dimensione di tipo accentuatamente dinamico nel senso che le emergenze sono diventate talmente gravi da avere direttamente interessato le popolazioni residenti che si trovavano a dover convivere con cumuli enormi di rifiuti per strada, per giorni e giorni.
La fase dinamica (e per fase dinamica si intende proprio quella legata alle più virulente emergenze) è stata in qualche modo arginata o, comunque, si è fatto quanto possibile per arginarla, adottando soluzioni improntate anch'esse all'emergenza.

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Tuttavia, rimane una gravissima problematica attinente alla dimensione che possiamo definire «statica» rappresentata da due situazioni di evidente gravità.
La prima, costituita dalla necessità di provvedere allo smaltimento degli enormi cumuli di rifiuti quantificati in 6 milioni di tonnellate, ancora depositati nei siti di stoccaggio che definire provvisori è del tutto incongruo, giacché si tratta di rifiuti ivi allocati ormai da anni. Si fa, evidentemente, riferimento alle cosiddette ecoballe che rappresentano una fonte permanente di inquinamento.
Altra situazione è costituita dalla necessità di provvedere allo smaltimento dei rifiuti in Campania in regime ordinario attuando un ciclo coerente con la normativa italiana e comunitaria.
Ebbene, si deve rilevare che, in relazione a questioni di tal fatta, diverse da quelle caratterizzate dalla immediatezza e contingenza delle soluzioni da adottare, le procedure non possono che essere incalanate in quelle ordinariamente previste per lo smaltimento dei rifiuti.
Questo non sta a significare che la situazione attualmente esistente in Campania non debba considerarsi di estrema gravità. Significa soltanto che si tratta di una situazione la quale, in considerazione anche del fatto che le soluzioni da adottare, qualunque esse siano, non si appalesano realizzabili entro un limitato arco temporale, non può che essere affrontata all'interno della più ponderata gestione ordinaria.
Tutto questo perché la gestione ordinaria, facendo interloquire all'interno delle procedure i soggetti politicamente espressivi dei territori in cui andrebbero a ricadere le scelte adottate, comporterebbe una maggiore blindatura delle soluzioni stesse.
Le determinazioni assunte dai soggetti politici, non potendo essere avvertite come imposte dall'alto, sarebbero meno permeabili rispetto alle eventuali prese di posizione di fatto da parte dei residenti delle zone interessate per la realizzazione delle opere necessarie per l'avvio di un ciclo ordinario dei rifiuti.
In merito alla gestione «ordinaria» devono essere però espresse delle considerazioni di carattere generale.
È ovvio, infatti, che il rischio possa essere quello di formulare proposte in termini di politica ambientale che risultino irrealistiche a causa della pervasiva compromissione del territorio campano.
E, dunque, una gestione ordinaria che, si ribadisce, sarebbe quella ottimale per una responsabile ponderazione degli interessi in gioco presuppone che, a monte, le più alte istanze politiche provvedano a ripensare la politica ambientale della regione Campania, se del caso anche azzerando il groviglio normativo attualmente esistente, in tal modo ripianificando la risposta ambientale alla problematica dei rifiuti.
Nella regione Campania, purtroppo, il dato di realtà, per come impostosi attualmente, ha finito per provocare una rapida obsolescenza dell'armamentario normativo di volta in volta approntato. In un certo senso, l'unica evenienza ordinaria in Campania e nella provincia di Napoli è l'emergenza.
Quello che in altre regioni è «un problema» in Campania è «il problema» che, pertanto, non può che essere affrontato, una volta per tutte, con la rivalutazione critica di tutte quelle opzioni che nel corso degli anni hanno dimostrato nei fatti il loro fallimento.

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Fatta questa premessa si intendono qui affrontare separatamente le problematiche che la Commissione ha avuto modo di constatare attraverso un'inchiesta che è durata tre anni e che si è voluto deliberatamente concludere a fine legislatura in modo da potere disporre di un quadro ampio della situazione campana. Solo attraverso un'inchiesta di tal fatta è possibile, ad avviso della Commissione, tentare di comprendere il groviglio normativo cui si è accompagnata una certa confusione operativa sia in termini di distribuzione delle competenze tra i vari soggetti istituzionali sia in termini di sovrapposizione di decisioni poco coerenti tra di loro.
La situazione attuale è caratterizzata dalla permanenza degli eventi che la gestione commissariale ha lasciato in eredità.
Mentre la struttura commissariale può essere cancellata, modificata o sostituita con un tratto di penna, quello che con un tratto di penna non può essere cancellato sono i disastri ambientali che la gestione commissariale ha contribuito a creare.
Purtroppo, non è con la descrizione di migliori e futuristiche procedure di smaltimento dei rifiuti che si può oggi risolvere tempestivamente il problema.
Il fatto più grave è che il problema deve essere risolto dall'oggi al domani, i rifiuti devono essere rimossi dalle strade tempestivamente, e non possono attendersi soluzioni di lungo periodo.
A ciò deve aggiungersi un fenomeno altrettanto insidioso legato alla criminalità comune.
Ed infatti, a fronte di questa situazione disastrosa, la Commissione ha avuto modo di verificare come in Campania si assista, a ben vedere, ad un ciclo di smaltimento dei rifiuti parallelo a quello cosiddetto «legale».
I rifiuti vengono in parte smaltiti, ma vengono smaltiti secondo una procedura che si è imposta per vie di fatto, in considerazione dell'incapacità dimostrata dagli organi deputati a risolvere il problema. Questo «sistema di smaltimento» si manifesta con caratteristiche di peculiare insidiosità, in quanto si concretizza in una serie nutrita, ma di dimensioni ridotte, di fenomeni di microsmaltimenti dei rifiuti.
Si ha il timore di una megadiscarica sul territorio perché la discarica evoca, in termini fisici e tangibili, la dimensione preoccupante ed invasiva sul territorio, della problematica relativa allo smaltimento dei rifiuti.
Tale effetto, invece, non è prodotto da un'azione di smaltimento che si concretizza in focolai di ridotte quantità di rifiuti, che però, per la loro persistenza, reiterazione, minuta diffusione nella realtà sono fonte di un disastro senza precedenti, in quanto finiscono per fare assolvere all'intero territorio la funzione di discarica, compresi i centri urbani.
La diffusione di discariche abusive sul territorio, di inceneritori a cielo aperto (si pensi alla cosiddetta «terra dei fuochi») hanno effetti devastanti sul territorio medesimo comportando inevitabilmente la distruzione di tutte le risorse che quel territorio sarebbe in grado di produrre.
Quali le ragioni della ferma opposizione manifestata dalle popolazioni locali in merito all'apertura di nuove discariche ?
In primo luogo, la pessima esperienza riconducibile alla gestione delle discariche utilizzate anche dalla struttura commissariale.

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È certamente comprensibile, soprattutto a fronte delle gravi illegittimità che in generale hanno caratterizzato la gestione delle discariche, l'atteggiamento di allarme o comunque di sospetto delle popolazioni rispetto alla possibilità che sul loro territorio vengano impiantate appunto delle discariche.
E tuttavia, la soluzione con cui si ovvia alla non eludibile necessità di smaltire i rifiuti appare come la peggiore delle azioni possibili, tale da fare rimpiangere anche la più disastrata ed insicura discarica.
Se qualcosa di buono si può ricavare dalla gestione del ciclo dei rifiuti in Campania è che essa ha scolasticamente dimostrato in che modo lo smaltimento dei rifiuti non debba essere effettuato e, quindi, per converso, quali sono le condotte e le omissioni da non ripetere per una efficiente azione amministrativa in un campo ormai divenuto cruciale rispetto ai basilari diritti costituzionali dei cittadini.

La provincia di Caserta e le problematiche attinenti ai consorzi di bacino.

La provincia di Caserta si può ritenere l'emblema del fallimento totale delle istituzioni che avrebbero dovuto gestire il ciclo dei rifiuti, degli organi che avrebbero dovuto effettuare i controlli, delle amministrazioni a livello locale e a livello centrale.
Il territorio, infatti, è stato oggetto per anni di una vera e propria depredazione, messa in atto dalla criminalità organizzata e non, resa possibile da quel fallimento degli organi istituzionali cui sopra si è fatto riferimento.
Con largo anticipo la camorra napoletana e quella casertana hanno compreso quali enormi guadagni sarebbero potuti derivare dal settore dei rifiuti, tenuto conto della crisi economica globale e dell'opportunità offerta agli imprenditori dalla criminalità medesima di smaltire (illecitamente) i rifiuti a costi concorrenziali.
Il territorio della provincia di Caserta, anche per la assoluta carenza di adeguate strutture pubbliche e di adeguati controlli, ha rappresentato per anni il luogo privilegiato per la realizzazione di discariche abusive attraverso l'utilizzo di cave abbandonate.
Tutto ciò è stato reso possibile dalla presenza radicata della criminalità organizzata, dalla assoluta insufficienza dei controlli, da una normativa ambientale che si è rivelata inadeguata, dal forte interesse dei produttori di rifiuti a risparmiare sui costi dello smaltimento, nonché dalla perenne situazione di emergenza che la Campania ha vissuto per quindici anni e che ha avuto, quale unico merito, quello di perpetuare e aggravare l'emergenza medesima.
In sostanza, uno dei territori a più alto tasso di criminalità d'Europa ha rappresentato il terreno ideale per lo smaltimento illecito di enormi quantitativi di rifiuti tossici.
Si è avuto modo di constatare che la situazione esistente in provincia di Caserta non è solo frutto d'incapacità amministrativa da parte di chi gestisce gli enti, ma anche la conseguenza dell'illecita resistenza all'avvio del ciclo legale e virtuoso dei rifiuti da parte dei soggetti potenzialmente lesi nelle rispettive posizioni economiche dall'attivazione della raccolta differenziata.


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Dalle informazioni fornite dalla procura di Santa Maria Capua Vetere si evince come esista una forza esattamente opposta all'avvio della raccolta differenziata e di un ciclo ordinario dei rifiuti costituito da chi ha interessi esattamente contrari a quelli posti alla base di un ciclo lecito.
Si tratta degli interessi di chi lucra sulla base dei quantitativi di rifiuti indifferenziati, che dunque vanno implementati, mentre, d'altra parte, chi dovrebbe provvedere alla raccolta differenziata lucra a sua volta nonostante l'inettitudine e l'inefficienza del servizio. E ciò perché il servizio di raccolta differenziata reso viene comunque remunerato a prescindere dalla sua regolarità.
La parola d'ordine in Campania e in provincia di Caserta è stata da sempre quella della moltiplicazione dei costi. Se ipoteticamente un rifiuto avrebbe potuto essere trasferito dal punto di raccolta fino al sito di smaltimento secondo un percorso a-b, in Campania e nella provincia di Caserta si è scelta sempre la via della moltiplicazione delle competenze, moltiplicazioni dei passaggi dei rifiuti, moltiplicazioni dei costi.

I consorzi di bacino.

Una trattazione autonoma meritano in sede di conclusioni le problematiche attinenti ai consorzi di bacino. In particolare, in questo preciso periodo storico si registrano problemi di ordine pubblico legati alla difficoltà di mantenimento dei livelli occupazionali all'interno dei consorzi medesimi, ciò in quanto nel corso degli anni sono stati assunti dipendenti in numero, evidentemente, esorbitante, sicché sussiste il problema di come remunerare i dipendenti e di come riassorbirli nelle società provinciali.
I consorzi di bacino venivano configurati come consorzi obbligatori e, nelle intenzioni del legislatore, avrebbero dovuto rappresentare lo strumento per la gestione e il coordinamento della raccolta differenziata.
I comuni avevano l'obbligo di aderire al consorzio pagando allo stesso la cosiddetta «quota consortile», inviando il sindaco o un suo rappresentante in seno all'assemblea.
A sua volta l'assemblea, costituita appunto dai rappresentanti dei comuni consorziati, avrebbe eletto un consiglio di amministrazione ed il presidente del consorzio.
Scopo della normativa era di far sì che solo una parte residuale dei rifiuti fosse conferita in discarica, con conseguente riutilizzazione dei rifiuti nel ciclo produttivo, al fine di garantire una maggiore tutela ambientale.
In attuazione della normativa sopra indicata, gli enti che in provincia di Caserta avrebbero dovuto realizzare le finalità di smaltimento dei rifiuti nel rispetto dell'ambiente erano costituiti da:
 oltre cento comuni, ai quali competeva la raccolta degli rsu;
 quattro consorzi obbligatori fra i comuni della provincia, con il compito di provvedere alla raccolta, gestione e smaltimento dei rsu;


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 una struttura per la produzione di combustibile derivato dai rifiuti (cdr);
 centri cosiddetti di trasferenza (la cui funzione consisteva nel conferire lo stazionamento dei rsu prima di essere portati nell'impianto cdr);
numerosi operatori privati (soci dei consorzi, titolari di centri di trasferenza, titolari di ditte addette ai trasporti).

Il sistema dei consorzi si è rivelato fallimentare. Essi hanno rappresentato esclusivamente uno strumento di moltiplicazione dei costi in materia di rifiuti, senza che a tale incremento sensibile dei costi sia corrisposto un servizio reso.
Si è trattato di un sistema assurdo che si è retto fino a quando le risorse per il pagamento degli stipendi ai dipendenti sono state erogate dalle strutture commissariali; quando il flusso finanziario si è interrotto sono esplose le gravissime problematiche gestionali e la confusione amministrativa e finanziaria, finalizzata a rendere poco intellegibile la situazione di dissesto economico che si è avuto modo poi di registrare.
Le distorsioni del sistema sono dipese da numerosi fattori. Uno dei principali è il seguente: la concentrazione degli snodi decisionali se da un lato era idonea a determinare uno snellimento delle attività di programmazione e di gestione, dall'altro implicava il pericolo che soggetti portatori d'interessi illeciti (o semplicemente affaristici) potessero essere allettati dall'ottenere posizioni di «comando» all'interno dei consorzi, al solo scopo di meglio governare i loro interessi privati.
Si tenga conto che attraverso i suddetti quattro centri decisionali consortili era possibile determinare le strategie e le modalità di raccolta dei rsu di oltre cento comuni, per un territorio provinciale di circa 900.000 abitanti e, conseguentemente, controllare un settore economico-finanziario con un rilevantissimo giro di affari.
Dopo l'entrata in vigore della normativa sui consorzi, i privati sono entrati non solo nella fase prettamente gestionale-esecutiva, ma anche in quella decisionale-strategica.
Tutto ciò ha determinato un imponente dissesto economico-finanziario dei consorzi.
Allo stato, non si è ancora riusciti a ricostruire con certezza quale sia la situazione creditoria e quale quella debitoria dei consorzi.
La procura di Santa Maria Capua Vetere ha ricostruito in modo lineare il sistema abnorme che è stato assecondato.
Ed infatti:
 il consorzio disciolto, pur consapevole di svolgere un pessimo servizio, ne addebitava il costo gonfiato ai comuni;
 il consorzio si «riteneva» creditore di una somma in realtà mai entrata nella sua disponibilità, che comunque veniva contabilizzata in attivo e, conseguentemente, spesa;
 il comune cliente non si riconosceva debitore per quanto richiesto ed in virtù di tanto non pagava il corrispettivo del servizio di cui sopra;


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 ciò ha comportato le sofferenze di cassa del consorzio che ha iniziato a non potere fare fronte ai propri debiti (ad esempio manutenzione automezzi ed acquisto di carburante) contratti per garantire il già pessimo servizio prestato;
 il risultato finale è costituito dall'impossibilità di offrire un servizio conforme ai canoni della convenzione o persino l'impossibilità di garantirlo, con ulteriore reazione dei comuni;
 da ultimo, si è avuto il dissesto dei consorzi.

Nell'ultima fase dell'emergenza, il sistema sopra descritto è letteralmente deflagrato.
Il dissesto dei consorzi ha anche altre cause, oltre quelle poc'anzi descritte. Esse sono dovute, sostanzialmente, ad una scellerata ed illegale gestione complessiva delle attività ad essi facenti capo.
La procura di Santa Maria Capua Vetere ha posto sotto osservazione le attività svolte dai consorzi obbligatori di bacino, tutti sovvenzionati dal commissariato per l'emergenza rifiuti in Campania, ed ha evidenziato come l'emergenza rifiuti nella regione (e quindi anche nella provincia di Caserta) sia stata determinata anche e soprattutto da condotte delittuose poste in essere da soggetti interessati al mantenimento dello status quo emergenziale perché in tale contesto è più facile conseguire un illecito profitto su tutte le attività connesse alla gestione dell'emergenza (reperimento dei siti di smaltimento, trasporti e movimento terra, gare d'appalto affidate in via d'urgenza, gestione amministrativa dei consorzi, assunzioni che trovano il presupposto nella necessità di intervenire con rapidità, consulenze da affidare all'esterno perché con il proprio personale i consorzi non potrebbero provvedere nei tempi ordinari ecc...).
Nell'ultima relazione prodotta dal procuratore Lembo si dà conto della situazione attuale nella provincia di Caserta anche sotto il profilo investigativo.
La situazione attuale descritta è alquanto complessa e riflette la complessità del quadro normativo. Essa può così sintetizzarsi:
 il «ciclo» della raccolta, gestione e smaltimento dei rsu sostanzialmente non presenta intoppi relativamente al prelievo e al conferimento finale di questi ultimi. La situazione, tuttavia, potrebbe evidenziare problemi in un prossimo futuro, se non verranno reperiti nuovi siti o nuove modalità di smaltimento;
 sono emersi, invece, vari problemi nella gestione dei siti di stoccaggio provvisorio affidati alla provincia (S. Maria La Fossa; Marcianise-area depuratore; Capua-Brezza località Frascate; Villa Literno-località Lo Spesso); tali siti sono stati già in carico alla regione Campania, alla Fibe spa e alla Fibe Campania spa e, successivamente, sono stati gestiti dal Commissario ad acta (v. decreto ministeriale n. 189 del 2001), soggetto vicario del Sottosegretario di Stato per l'emergenza rifiuti in Campania (v. OPCM n. 3693 del 15 luglio 2008). A questi occorre aggiungere il sito di stoccaggio di Parco Saurino-S.Maria La Fossa, prima gestito dal consorzio unico di bacino. Invero, alcuni di tali siti sono ancora in


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sequestro da parte di altra autorità giudiziaria, circostanza che ne impedisce una gestione efficiente. Del resto, taluni soggetti proprietari dei terreni in questione, i quali avevano stipulato contratti di affitto con i precedenti gestori, ritenendo che vi sia stato un ingresso integrale della provincia nei rapporti giuridici, hanno richiesto alla stessa provincia il pagamento dei canoni, mentre la provincia ritiene di essere affidataria solo della gestione dei siti;
 il servizio dei rsu viene svolto in alcuni casi dal consorzio unico di bacino, in altri casi dai singoli comuni; alcuni comuni della provincia sono fuoriusciti dal consorzio ricorrendone i presupposti di legge; altri, che non sarebbero a ciò legittimati, ne sono fuoriusciti perché contestano la gestione del servizio da parte del consorzio unico di bacino;
 il consorzio è in situazione di criticità finanziaria anche perché molti comuni non pagano i canoni e, quindi, non assicura un servizio efficiente; inoltre potrebbe trovarsi nella futura impossibilità di proseguire nell'attività;
 la criticità finanziaria sta determinando l'impossibilità del consorzio di gestire in maniera soddisfacente il servizio e ciò ha, come conseguenza, quanto segnalato sopra circa la già avvenuta fuoriuscita di alcuni comuni dal consorzio (anche di quelli non autorizzati a ciò dalle vigenti disposizioni) e potrebbe determinare ulteriori uscite dal consorzio;
 i comuni che gestiscono in proprio il servizio rsu lo affidano a ditte scelte direttamente; ciò, spesso, determina un ulteriore contenzioso con il consorzio in quanto nel cosiddetto passaggio di cantiere gli enti locali richiedono un numero di personale inferiore a quello utilizzato dal consorzio e, quindi, quello in eccesso resta in carico allo stesso consorzio che lamenta di non avere come impiegarli e come retribuirli;
 anche nei singoli comuni che gestiscono direttamente il servizio talora vi sono delle criticità locali nella raccolta, determinate da contenziosi sindacali fra aziende e lavoratori o da contenziosi contrattuali fra ente affidatario del servizio e ditta incaricata;
 nel maggio 2012, i comuni, la provincia e la Gisec non ancora avevano fatto pervenire al consorzio unico di bacino soluzioni concrete circa le modalità del passaggio del servizio; in merito alcuni comuni ritengono di non dover affidare il servizio alla Gisec in quanto intendono gestire il servizio autonomamente all'esito di aggregazioni degli enti locali;
 alcuni comuni, oltre ad aver manifestato la volontà di uscire dal consorzio unico di bacino, hanno manifestato la volontà di non aderire alla gestione Gisec, in quanto intendono procedere direttamente alla gestione associata del servizio avvalendosi delle possibilità offerte dall'articolo 33 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (ad esempio Torà e Piccilli, Marzano Appio, Roccamonfina, Galluccio, Conca della Campania, Mignano Monte Lungo, Caianello, Rocca D'Evandro, Presenzano, San Pietro Infine);

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 è in atto un contenzioso circa il reinquadramento ed il passaggio del personale dal consorzio unico di bacino alla Gisec; ad esempio, in tal senso hanno proceduto i lavoratori del consorzio che non hanno accettato la assunzione volontaria presso la Gisec e che, quindi, sono stati licenziati dal consorzio unico di bacino nel febbraio 2012;
 l'Ufficio territoriale del governo è stato sollecitato all'adozione di provvedimenti sanzionatori verso i comuni inadempienti, ai sensi dell'articolo 11, comma 5, della legge n. 26 del 2010, dalla provincia; a quest'ultima, invero, non viene corrisposta la parte della Tarsu/Tia che le compete: avrebbe incassato solo circa 25 milioni di euro a fronte di una previsione di 98 milioni di euro;
 alcune ditte incaricate della riscossione della Tarsu/Tia, pur incassandone i proventi, non rimettono alla provincia la parte che spetta a questa: ad esempio, la Gosaf (concessionaria per la riscossione nel comuni di Arienzo, Francolise, Pietravairano, San Marcellino);
 la situazione è resa ancora più complicata dal quadro normativo in quanto l'entrata in vigore del regime definitivo della riscossione della Tarsu/Tia è stato prorogato dalla legge n. 214 del 2011 al 31 dicembre 2012 (il termine precedentemente stabilito scadeva il 31 dicembre 2011) e, quindi, vige ancora il regime transitorio; inoltre, ai sensi della legge n. 214 del 2011, dal 1o gennaio 2013 è prevista la istituzione della R.E.S. in sostituzione di vari tributi comunali, fra cui anche la Tarsu/Tia; inoltre, poiché la legge n. 214 del 2011 ha modificato le attribuzioni delle province e dal 1o gennaio 2013 è stata attribuita ai comuni la competenza per la riscossione della RES (che, come detto, ingloberà anche la Tarsu/Tia), la provincia e la Gisec hanno revocato la procedura per l'accertamento e riscossione della Tarsu/Tia.

Le province di Salerno, Benevento e Avellino.

Provincia di Salerno.
La provincia di Salerno ha il merito di avere realizzato un impianto di compostaggio che, secondo quanto riferito dagli auditi, è già in funzione. Si evidenzia questo dato in quanto è notorio ormai come in Campania il principale ostacolo all'avvio di un ciclo ordinario di rifiuti è costituito dalla mancanza di un'impiantistica adeguata.
Peraltro, la Commissione ha effettuato un sopralluogo sull'impianto, unitamente al sindaco di Salerno, prima ancora che entrasse in funzione.
Diversa è invece la vicenda attinente alla realizzazione del termovalorizzatore. Nel corpo della relazione si è dato atto della evidente e perdurante conflittualità tra gli enti istituzionali (in particolare provincia e comune) proprio con riferimento alla realizzazione dell'impianto.


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A prescindere dai torti o dalle ragioni che in questa sede non è possibile stabilire, risulta inaccettabile che in una regione già ampiamente provata come quella campana possa rilevarsi una simile conflittualità, pur nella consapevolezza da parte di tutti gli enti coinvolti della necessità di realizzare il termovalorizzatore.
È evidente che la realizzazione di un termovalorizzatore non significhi automaticamente la risoluzione dei problemi ambientali, in quanto è necessario che venga dimensionato rispetto alle effettive esigenze del territorio, che venga gestito nel rispetto delle norme ambientali e che siano affrontati i controlli adeguati per evitare che vengano conferiti rifiuti diversi da quelli autorizzati.
Detto ciò, un confronto politico è accettabile sotto il profilo delle questioni di tutela ambientale, ma non è condivisibile nella misura in cui si traduca in prese di posizioni rigide che, di fatto, bloccano il procedimento per la sua realizzazione.
Deve essere evidenziato che nella provincia di Salerno i livelli di raccolta differenziata sono elevati, soprattutto se confrontati con quelli delle zone limitrofe, ma nonostante ciò anche la provincia di Salerno è sempre ai limiti dell'emergenza in quanto anche in questa provincia il ciclo di smaltimento dei rifiuti si basa su una struttura estremamente fragile che crolla nel caso in cui, per una qualsiasi ragione, non sia possibile allocare i rifiuti in discarica. Quando ciò avviene, lo Stir di Battipaglia non è più in grado di ricevere rifiuti e, a monte, quindi, non è possibile effettuare la raccolta dalle strade.
Deve sottolinearsi, con riferimento ai costi dello smaltimento, quanto sia paradossale la situazione rappresentata dal sindaco di Salerno.
In particolare, i soggetti che intervengono nella fase di raccolta e conferimento dei rifiuti presso gli Stir sono molteplici, il che determina una moltiplicazione dei costi, un allungamento dei tempi e, dato non secondario, una maggiore fragilità del sistema, in quanto più numerosi sono i soggetti coinvolti nel sistema di raccolta e conferimento, maggiori sono i rischi che il sistema si blocchi.
Anche nella provincia di Salerno i consorzi di bacino registrano una situazione di difficoltà molto grave che in diverse occasioni ha comportato l'impossibilità o il ritardo nel pagamento dei dipendenti. Il che comporta ciclicamente problemi di ordine pubblico legati alle proteste da parte dei dipendenti medesimi.
Quanto alle infiltrazione della criminalità organizzata nel settore dei rifiuti, la provincia di Salerno si differenzia, rispetto alle province di Napoli e Caserta, per una minore incidenza della criminalità organizzata di stampo camorristico.
Sono, peraltro, particolarmente attenzionate dalla procura distrettuale di Salerno le attività di bonifica dei siti contaminati, attività che rappresentano certamente un «affare» degno di interesse da parte della criminalità organizzata.

Provincia di Benevento.
Rispetto ad altre situazioni registrate nella regione Campania, la provincia di Benevento, sia in ragione della contenuta densità abitativa e della conseguente ridotta produzione dei rifiuti, avrebbe potuto


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rappresentare una sorta di zona franca rispetto alla situazione di emergenza.
E tuttavia, nel corso della missione a Benevento, si è appreso dell'esistenza di una serie di criticità tali da rendere questo territorio passibile di precipitare in una situazione di emergenza.
Secondo quanto dichiarato dal presidente della provincia di Benevento, infatti, allo stato, l'unico impianto operativo è costituito dalla discarica di Sant'Arcangelo, sequestrata dalla magistratura nella parte corrispondente a tre dei quattro lotti da cui è composta.
Si tratta di una discarica definita di importanza «vitale» per la provincia, che ha bisogno di due o tre anni di autonomia per la realizzazione dell'impiantistica necessaria al fine di dare attuazione al ciclo dei rifiuti elaborato nel piano provinciale.
Si è avuto modo di constatare quanto sia inquietante la situazione della discarica di Sant'Arcangelo Trimonte, realizzata su un terreno franoso e necessitante di interventi di consolidamento assolutamente urgenti e imponenti.
La discarica perde percolato, che non viene adeguatamente smaltito, così come le vicine discariche comunali e regionali.
In sostanza, la gestione commissariale ha creato evidenti danni avendo consentito la realizzazione di una discarica su un terreno inadeguato.
Tale inadeguatezza (stante la franosità del terreno) era nota sia al momento della fase di progettazione, sia nel corso dei lavori di realizzazione, allorquando sono emersi con ancora maggiore evidenza i problemi connessi alla tenuta del terreno.
La situazione impiantistica è del tutto carente, l'impianto di Casalduni non è attrezzato per la biostabilizzazione dei rifiuti, e la società provinciale che dovrà gestire in via autonoma ed accentrata il ciclo integrato dei rifiuti non sembra disporre, allo stato, delle disponibilità finanziarie per la gestione dei siti dismessi e per la messa in sicurezza della discarica.

Provincia di Avellino.
La provincia di Avellino indubbiamente rappresenta una realtà diversa dalla altre realtà campane in merito alla gestione dei rifiuti, in quanto, se si escludono le problematiche comuni a tutte le province concernenti l'assorbimento dei lavoratori degli ex consorzi nella nuova società provinciale, non si registrano fenomeni di illiceità significativi.
Le ragioni sono da ricondurre alla scarsa densità abitativa del territorio, al non rilevante quantitativo di rifiuti prodotti e, secondo anche quanto riferito dai soggetti auditi, dalla sussistenza di appalti economicamente poco appetibili.
I problemi, dunque, che riguardano la provincia in esame non sono endogeni, ma possono provenire dai territori limitrofi, caratterizzati perennemente da situazioni di emergenza.
In un simile contesto è dunque possibile che il territorio di Avellino venga illecitamente sfruttato dalle organizzazioni criminali per lo smaltimento illecito dei rifiuti sicché non può considerarsi una zona franca né immune da penetrazioni della criminalità organizzata e non.


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2.7.1 Gli illeciti nel settore dei rifiuti.

Le modalità attraverso cui vengono effettuati i traffici illeciti.

Attraverso i dati acquisiti nel corso dell'inchiesta sono emerse le modalità attraverso cui vengono smaltiti illecitamente i rifiuti.
Le società che operano nel settore apparentemente sono munite di tutte le autorizzazioni necessarie e sono gestite da soggetti che, sempre apparentemente, non sono legati alla criminalità organizzata. In realtà, le indagini hanno dimostrato come, in molti casi, si tratti di società riconducibili alla criminalità organizzata.
Un aspetto di criticità del sistema, che favorisce la nascita di imprese di tal genere, è costituito dalla possibilità di operare attraverso le procedure semplificate, sicché si sono sviluppate aziende che lavoravano sulla base di autocertificazioni, sganciate da un controllo «a monte».
In diversi casi, poi, le strutture imprenditoriali sono destinate Sin dall'origine ad operare in maniera illecita, in quanto non rispondono alle regole del mercato.
La dott.ssa Ribera, della procura distrettuale antimafia di Napoli, ha dichiarato che l'80% delle denunce di inizio attività in Campania sono false così come le autocertificazioni che danno la possibilità di iscriversi all'albo delle procedure semplificate.
Sussiste quindi il problema dell'accertamento dell'illiceità dei provvedimenti autorizzativi fondati sull'autocertificazione: da un lato, è necessario semplificare, per cui sono ammesse le autocertificazioni con le connesse responsabilità per chi le redige, dall'altro però, ha sottolineato il magistrato, esistono contesti come quello campano in cui buona parte delle certificazioni nel settore dei rifiuti sono false.
Una delle modalità più frequenti attraverso le quali vengono organizzati i traffici illeciti di rifiuti è quello del cosiddetto giro bolla, ossia il cambio di destinazione del rifiuto: da smaltimento a recupero, ovvero la declassificazione del rifiuto da «pericoloso» a «non pericoloso».
Com’è noto, dalla natura del rifiuto e dalla sua origine discende l'attribuzione della «carta d'identità» del rifiuto stesso, il Cer, che dovrebbe essere riprodotto nel documento di trasporto, ossia il formulario di identificazione dei rifiuti (Fir).
Nella pratica investigativa si è constatato come il traffico di rifiuti funzioni sistematicamente mediante la declassificazione del rifiuto con la tecnica del girobolla sopra indicata.
Al rifiuto viene infatti modificato il codice Cer riprodotto nel Fir, in modo da classificarlo formalmente affinché possa essere gestito, trasportato e alla fine smaltito in maniera illecita, il tutto grazie alla fittizia classificazione da pericoloso a non pericoloso.
Le indagini hanno dimostrato che molto raramente i trafficanti di rifiuti si organizzano su base locale o regionale, preferendo di gran lunga attivare vere e proprie «filiere» societarie in diverse regioni d'Italia.
Ciò per diverse ragioni:
 in primo luogo, è ben più difficile per le forze dell'ordine – normalmente deputate al controllo locale – estendere gli accertamenti


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a diversi comuni o, addirittura, a diverse regioni e, quindi, ricostruire compiutamente il giro illecito dei rifiuti ed individuare tutti i componenti dell'organizzazione criminale;
 in secondo luogo, consentendo ai rifiuti di passare per più impianti, i trafficanti riescono ad ottenere una più completa «declassificazione» cartolare di essi.

Quanto alla natura e alla provenienza dei rifiuti illecitamente gestiti, accanto alle direttrici dei rifiuti provenienti dal nord e dal centro Italia aventi come terminale le regioni del sud, in particolare la Campania, si è avuto modo di scoprire rotte diverse: ad esempio, dalle regioni del nord/est si smaltivano i rifiuti nelle regioni del nord/ovest, dalle regioni del centro si smaltivano abusivamente i rifiuti al nord Italia, in altri casi i rifiuti dal nord venivano inviati dapprima in Campania e poi venivano nuovamente spediti al nord Italia.
Il traffico illecito non ha una connotazione locale, ma è fenomeno che interessa in maniera indifferenziata tutto il territorio nazionale.
La circostanza, emersa nell'ambito delle indagini, per cui molte delle imprese che operano nei traffici illeciti di rifiuti apparentemente sono munite di tutte le autorizzazioni per operare pone un interrogativo in merito alla natura dei controlli prodromici al rilascio delle autorizzazioni medesime.
Proprio con riferimento al sistema dei controlli, nell'attuale sistema normativo quelli riguardanti le attività di gestione rifiuti sono delegati a differenti settori della pubblica amministrazione spesso non coordinati tra loro.
Ciò comporta:
 da un lato, che ciascun ente preposto al controllo non ha una visone di insieme dell'attività sottoposta al controllo, ma si limita a prendere in esame solo il determinato settore di competenza; ne consegue una visione parcellizzata dell'attività;
 dall'altro che, proprio a causa della sovrapponibilità, parzialità, ed interferenza formale dei troppi e diversi controlli, è possibile eludere le regole dell'agire corretto.

La maggior parte dei controlli, poi, ha prettamente carattere meramente formale/documentale.
Da ciò deriva che non viene effettuato l'accertamento sostanziale sull'attività sottoposta a controllo e non viene posta in essere alcuna effettiva verifica sulle potenzialità oggettive/operative degli impianti.
Ne consegue ad esempio, che in caso di «declassificazione documentale» dei rifiuti, all'esito dei controlli formali tutte le carte risulteranno a posto e non emergerà nessuna anomalia.

Le infiltrazioni della camorra nel settore dei rifiuti.

Il quadro campano è quello di un territorio selvaggiamente devastato dai traffici illeciti di rifiuti gestiti dalla camorra Sin dalla fine degli anni 80.


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In Campania è stato sequestrato il maggior numero di siti per lo smaltimento illecito di rifiuti; in particolare, come si è già evidenziato, nelle province di Napoli e Caserta hanno operato (ed in parte operano tuttora) organizzazioni criminali che hanno fatto del traffico illecito dei rifiuti un'attività di primaria importanza nel processo di accumulazione della ricchezza acquisita attraverso la gestione illegale dello smaltimento di rifiuti di ogni genere.
I traffici illeciti di rifiuti gestiti dalla camorra hanno palesato alcune peculiarità nel comportamento criminale delle organizzazioni medesime.
A differenza di altri traffici illeciti comunque governati dall'ente mafioso (si pensi, per esempio, ai traffici di stupefacenti e di armi), nelle attività economico-produttive del ciclo rifiuti le organizzazioni mafiose non sono «autosufficienti», avendo necessità di stringere accordi – in prevalenza di tipo corruttivo – con pubblici amministratori e negoziare con l'impresa non mafiosa, tra cui si pone primariamente il «cliente», interessato allo smaltimento sotto costo, ossia il produttore di rifiuti.
Il soggetto mafioso si pone dunque come un vero e proprio interlocutore negoziale del produttore di rifiuti, sia questi un ente privato o un ente pubblico, sicché si realizza una necessaria interazione con il sistema economico/politico/amministrativo.
E le organizzazioni criminali, sfruttando nel settore ambientale la loro capacità del controllo del territorio e la loro abilità di cooptare gli imprenditori alla metodologia mafiosa, sono riusciti a realizzare un vero e proprio regime di monopolio.
La disponibilità di interi territori da utilizzare quali discariche, nel totale disinteresse per la tutela delle matrici ambientali, costituiva e costituisce peraltro un valore aggiunto d'impresa, consentendo così di contenere significativamente i costi di smaltimento assunti dal produttore e sbaragliare slealmente la concorrenza, con grave turbamento del mercato e conseguenze estreme sull'eco-sistema.
Nel corso dell'inchiesta sono state evidenziate le differenze esistenti tra i clan che operano in città da quelli operanti in provincia ed in Caserta. I primi agiscono con modalità predatorie e i secondi con modalità di gestione diretta e di infiltrazione. I clan di Napoli non gestiscono direttamente le attività criminose, ma ne danno la gestione a diverse cellule criminali o gruppi, autorizzati a compiere tipologie di reati da cui traggono poi una quota di proventi illeciti. Fa eccezione l'attività estorsiva che viene ritenuta un momento di manifestazione dell'operatività criminale e di identificazione sul territorio del gruppo camorrista. Ciò non è indicativo di basso livello delinquenziale, ma è necessitato dall'elevata densità criminale e dalla diffusa illegalità.
In provincia e a Caserta invece i clan riproducono la struttura e la metodologia tipica delle organizzazioni mafiose, e pertanto gestiscono direttamente le attività illecite, hanno una struttura gerarchica piramidale e sono infiltrati negli apparati produttivi e politico-istituzionali, come ne è prova l'alto numero di consigli comunali sciolti per infiltrazione.
Esprimono insomma una forte pericolosità imprenditoriale, con il controllo non solo delle attività illecite, ma anche degli apparati produttivi e istituzionali.

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Maggiore è l'interesse della criminalità sul fronte dei rifiuti tossici e speciali, ove c’è maggiore disattenzione delle pubblica amministrazione e anche per l'elevato profitto che deriva dal trattamento del rifiuto.
Non essendo tutti i clan in grado di esprimere società idonee ad aggiudicarsi servizi specialistici, preferiscono dare appoggio alle società note per le interessenze di altri gruppi criminali, per accordarsi sulla spartizione dei profitti e riscuotere una quota di solito sul 5-6%.
Si è così notato che alcune ditte riconducibili a clan operano anche in comuni diversi dal territorio d'influenza.
Da fine anni ’80 ai primi degli anni ’90, ogni clan che avesse disponibilità di aree da destinare allo scopo, si è organizzato in tal senso.
Il procedimento paradigmatico della presenza della criminalità organizzata in Campania nel traffico di rifiuti e dei legami instaurati con organi governativi, politici, e con l'imprenditoria della zona è quello istruito dal sostituto procuratore della direzione distrettuale antimafia di Napoli Alessandro Milita e ampiamente richiamato nel corso della relazione.
Si tratta di un procedimento paradigmatico perché riesce a individuare le condotte criminali realizzate dalla seconda metà degli anni ’80 fino al 2003 e riguarda un avvelenamento delle falde che raggiungerà un culmine di contaminazione nell'anno 2064.
Come è stato precisato dal dottor Milita nel corso dell'audizione, «si tratta quindi di uno di quei casi (l'unico in corso di celebrazione in Italia) in cui una condotta permanente prevede un aggravamento nel corso del tempo, per cui, facendo un parallelismo tra organismo umano e ambiente, può essere soltanto paragonata all'infezione da AIDS (...)».
In ambito processuale è certo che la falda acquifera serva diversi pozzi, pozzi non tutti autorizzati e variamente dislocati sul territorio, ed è chiaro che sono utilizzati lato sensu per l'alimentazione bovina e umana.
Numerosi studi dimostrano l'esistenza di patologie percentualmente superiori rispetto alla media italiana nella zona interessate dalle discariche di servizio del clan, che sono localizzate tra Giuliano e le zone limitrofe, dove c’è il peso principale delle discariche.
Ha aggiunto il dottor Milita: «Presenta una difficoltà quasi insuperabile ricostruire un nesso eziologico tra le condotte specifiche contestate ed eventuali patologie proprio per la pratica impossibilità di risolvere questo problema. All'interno delle famiglie delle molte persone individuate che risultano aver utilizzato l'acqua per scopi anche alimentari si sono palesati decessi o malattie ipoteticamente connessi all'utilizzo di quest'acqua, però allo stato è improponibile giungere a una prova scientifica della correlazione tra questi dati. È possibile che con studi più penetranti si possa giungere a una correlazione, ma allo stato questo dato non è disponibile».
Il dottor Milita ha anche evidenziato il particolare rigore con il quale deve essere fornita la prova del nesso eziologico in questo campo, anche in considerazione delle gravissime conseguenze in tema di applicazione delle norme penali: «Questo processo è importante perché obiettivamente copre un ventennio di condotte criminali, dal

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1985 fino al 2004 quanto alle condotte commissive ma di fatto permanente. Questo processo è molto interessante anche per cogliere le carenze normative – mi preme poterlo dire in sede di Commissione – in tema di bonifiche per quello che potrebbe agevolmente essere fatto attraverso una riforma normativa a basso costo. La bonifica della discarica Resit di fatto non è mai partita, siamo ancora nella fase della caratterizzazione, nonostante i dati circa la presenza di un avvelenamento o comunque già in precedenza di una situazione disastrosa sostanzialmente assimilabile al disastro ambientale fossero noti e già comunicati a partire almeno dal 2004. Sono passati otto anni e la caratterizzazione è ancora in corso d'opera.
In questo processo sono stati sequestrati beni e valori di pronta liquidazione pari a circa 17 milioni di euro con sequestro «ex 12-sexies» ed è stata attivata la misura di prevenzione sulla società Resit che era estremamente danarosa, laddove ad esempio tra i tanti beni aveva due Ferrari, di cui una Ferrari Enzo, veicolo senza prezzo di mercato che è stata venduta dall'amministrazione giudiziaria nell'ambito della misura di prevenzione a una cifra superiore agli 800.000 euro.
Parliamo quindi di una disponibilità finanziaria straordinariamente elevata e certamente idonea a sostenere il costo della bonifica. In base alla normativa attuale, è impossibile utilizzare le risorse finanziarie sequestrate disponibili, perché manca una norma che consenta di utilizzare denaro su sequestrato senza 12-sexies e quindi di utilizzare un bilancio interessato dal sequestro ai fini di bonifica».
Infine, il magistrato ha parlato del rilevante problema della bonifica dell'area e dei costi necessari per attuarla, sottolineando come nella discarica siano state smaltite 30.700 tonnellate di rifiuti provenienti dalla bonifica dell'Acna di Cengio, con la conseguenza che il danno ambientale è transitato da Cengio a Giuliano, «attraverso tutta una serie di condotte artificiose, modulando e modificando i vecchi Fir per evitare lo svelamento della reale sostanza smaltita all'interno della Resit. Questo dato fa comprendere come la bonifica debba essere ben attuata, ma per esserlo abbia bisogno di fondi, perché l'unico limite reale è il fondo, al di là della società che dovrebbe eseguire la bonifica e che si spera sia la migliore possibile. Nel momento in cui si scelgono bonifiche a basso costo, è plausibile che la bonifica verrà compiuta con modalità tali da spostare il problema nel futuro e nel tempo che verrà».
Volendo concludere e sintetizzare in poche battute quelle che possono valere come conclusioni finali di questa relazione, si può senz'altro affermare che l'apparato amministrativo ha finito per fare oggetto delle valutazioni comparative – in cui consiste l'in sé dell'azione amministrativa – in larga parte, interessi sostanzialmente illeciti.
Ed infatti, gli interessi che risultano coinvolti nelle valutazioni ambientali sono stati, per così dire, svuotati dall'interno, e sono diventate delle mere figure prive di consistenza, funzionali a rendere possibile, come una sorta di cavallo di troia, l'intromissione di tutta quella congerie di interessi puramente economici e di profitto ed anche, a volte, legati a contesti criminali, che finiscono quindi per essere gli unici di cui si occupa inevitabilmente l'azione della pubblica amministrazione.

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È evidente che il sistema, a questo punto, risulta essere stato riprogrammato per far funzionare una macchina capace senz'altro di produrre profitti, ma destinata a non risolvere i problemi, dal momento che il raggiungimento dello scopo costituirebbe evidentemente motivo per far cessare ogni possibile spunto di guadagno riguardo al ciclo dei rifiuti.
In questo preciso momento storico il problema dei rifiuti in Campania non è più un problema regionale, se mai lo è stato, ma è un problema nazionale che sta esponendo l'Italia a sanzioni gravissime da parte dell'Unione europea, che ha avviato procedure di infrazione per violazione delle norme comunitarie.
La vicenda concernente le ecoballe, costituite da 6 milioni di tonnellate di rifiuti in siti di stoccaggio che avrebbero dovuto essere provvisori e che hanno finito per trasformarsi in discariche a cielo aperto, è emblematica della proporzione di ingestibilità delle problematiche dei rifiuti nella regione.
Quanto l'inquinamento si sia trasferito nel terreno, quanto dal terreno ai prodotti alimentari, quanto dai prodotti alimentari all'uomo non è dato sapere con esattezza. Si tratta di danni incalcolabili, che graveranno sulle generazioni future.
Il danno ambientale che si è consumato è destinato, purtroppo, a produrre i suoi effetti in forma amplificata e progressiva nei prossimi anni con un picco che si raggiungerà, secondo quanto riferito alla Commissione, fra una cinquantina d'anni.
Questo dato può ritenersi la giusta e drammatica sintesi della situazione campana.

2.7.2. Le bonifiche nella regione Campania: il sito di Bagnoli.

L'inchiesta effettuata ha consentito alla Commissione di verificare sul campo un insieme di problematiche che, con riferimento al sito di Bagnoli, sono più evidenti che in altre aree.
La Commissione, che ha effettuato un sopralluogo sul sito, non ha potuto che constatare lo stato di totale abbandono e degrado in cui versa.
Il sito di Bagnoli comprende un'area a mare, di competenza statale, e un'area a terra, di proprietà della società Bagnolifutura spa, partecipata dalla regione, dalla provincia e dal comune.
In merito alle questioni concernenti la bonifica risulta aperta un'indagine dalla procura della Repubblica presso il tribunale di Napoli, originariamente mirata sulla parte a terra del sito di interesse nazionale e, successivamente, estesa anche all'area di colmata e alla zona a mare.
I temi oggetto di indagine sono, fondamentalmente:
 l'eventuale falsità, anche indotta, delle certificazioni di avvenuta bonifica rilasciate dalla provincia;
 la paventata inaffidabilità dei dati elaborati da Bagnolifutura spa;
 le carenze nel sistema dei controlli e le evidenti situazioni di prossimità tra «controllore» e «controllato»;


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 la permanenza di una situazione di grave contaminazione e di pericolo per la salute umana, di talché una serie di opere realizzate in loco non sono utilizzabili in quanto sorgono su aree allo stato non restituibili agli usi legittimi.

Con riferimento alla zona a terra deve prendersi atto, alla luce di quanto emerso nel corso dell'inchiesta e di quanto rappresentato dalla procura della Repubblica di Napoli, del fatto che non vi sono certezze, essendo state fortemente messe in dubbio le certificazioni rilasciate dalla provincia.
A parte ogni considerazione in merito alle indagini giudiziarie in corso, deve rilevarsi come l'incertezza sulla bonifica dell'area ne condizioni fortemente l'utilizzabilità.
Quello che è emerso nel caso specifico è l'esistenza di situazioni di contiguità tra gli organi di controllo e il soggetto controllato, di sovrapposizioni di competenze che hanno reso fragile e non tranquillizzante il sistema dei controlli pubblici nell'attività di bonifica.
Non è dato comprendere come possano apparire imparziali le certificazioni rilasciate dalla provincia aventi ad oggetto beni di proprietà della Bagnolifutura, partecipata dalla provincia stessa.
Né si può comprendere quale garanzia di imparzialità possa dare, in sede di verifica e di controllo, l'Istituto superiore di sanità, che aveva già stipulato una convenzione con la Bagnolifutura.
È stato, infatti, segnalato in sede di audizione dal magistrato inquirente il fatto, a dir poco singolare, relativo ad una richiesta dell'allora vicesindaco di Napoli inviata all'Istituto superiore di sanità affinché, proprio in ragione delle indagini avviate dalla procura della Repubblica di Napoli, venisse stipulata una convenzione in forza della quale l'Istituto validasse i dati delle attività di Bagnoli Futura; quindi, successivamente, è stata stipulata una convenzione tra l'Istituto Superiore di Sanità e Bagnoli Futura.
Riassumendo, nella vicenda in esame si registrano una serie di anomalie:
 per quanto riguarda l'area a mare, sebbene sia noto da tempo che la colmata debba essere rimossa, in realtà si continuano a paventare opere di marginamento per la messa in sicurezza, che non appaiono comunque risolutive;
 rispetto alla colmata è stata effettuata un'opera di messa in sicurezza di emergenza circa undici anni fa e, da allora, nulla è cambiato. Deve quindi dedursi che le opere di messa in sicurezza di emergenza, per loro stessa natura temporanee, nel caso di specie siano divenute, di fatto, definitive, e ciò nonostante la gravissima situazione di inquinamento accertata;
 con riferimento alla bonifica dei sedimenti a mare, che pare debba precedere la rimozione della colmata, si assiste ad un vero e proprio paradosso, in quanto la colmata è fonte attiva di contaminazione e, dunque, non si vede che senso avrebbe la bonifica dei sedimenti se la fonte di contaminazione rimane attiva. Si è appreso, infatti, che in fondo alla colmata non vi sono opere di impermeabilizzazione e, dunque, secondo logica, prima occorrerebbe avviare le


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attività per la rimozione della colmata (o comunque per evitare che continui ad essere una fonte attiva di inquinamento) e solo dopo potrebbe avviarsi l'attività di bonifica dei sedimenti;
 la disamina degli accadimenti che hanno riguardato sia l'area di colmata che l'area a terra è significativa di quanto possano essere inutilmente (forse volutamente) complesse le procedure; è sufficiente scorrere la sequenza degli atti procedimentali per avere la sensazione di trovarsi all'interno di un labirinto intricato dai percorsi incomprensibili. Non è nemmeno chiaro quale sia l'obiettivo della bonifica in relazione all'utilizzo futuro dei suoli. Come può, allora, progettarsi una bonifica se non si conosce nemmeno quale possa essere l'utilizzo delle aree circostanti ? Ci si trova così di fronte a situazioni per cui un centro sportivo, realizzato in quell'area, non può essere aperto al pubblico fin quando non si avranno certezze sullo stato dell'inquinamento e della successiva bonifica. Sarebbe stato più logico decidere prima, con realismo e lungimiranza, l'utilizzo futuro dell'area e, quindi, improntare la bonifica in maniera mirata e certamente più celere.

La Commissione di inchiesta ritiene, attraverso il lavoro compiuto nel corso della legislatura, di avere svolto proficuamente i compiti assegnati dalla legge istitutiva, sia per il livello di approfondimento delle indagini territoriali sia per la rilevanza delle conclusioni raggiunte in ordine alle tematiche specifiche oggetto di inchiesta.
È auspicabile che le indispensabili modifiche normative, non soltanto sotto il profilo penalistico, ma anche sotto il profilo di una rivisitazione dell'organizzazione degli enti deputati ai controlli in materia ambientale, traggano spunto da quanto accertato dalla Commissione in quasi quattro anni di lavoro.

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