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Sentenze della Corte di Giustizia dell'UE

La sezione raccoglie gli estremi delle sentenze della Corte di Giustizia dell'Unione europea (CGUE) che, dal mese di dicembre 2011, a seguito della loro pubblicazione sul sito della medesima, sono state trasmesse alle Camere dal Governo (Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri) e assegnate alle Commissioni parlamentari competenti per materia ai fini di un loro possibile esame, ai sensi dell'articolo 127-bis del Regolamento della Camera dei deputati.

Si tratta delle sentenze in cui lo Stato italiano o altro ente pubblico territoriale italiano sono parte - anche interveniente - nella causa dinanzi alla CGUE e delle sentenze relative a procedimenti avviati a seguito di rinvio pregiudiziale da parte di un'autorità giudiziaria italiana. Attraverso uno specifico collegamento ipertestuale è possibile consultare il testo integrale di ciascuna sentenza.


  • Sentenza della Corte (Quinta Sezione) del 18 dicembre 2014

    Causa n.: C-568/13
    In data: 26/01/2015

    Sentenza della Corte (Quinta Sezione) del 18 dicembre 2014

    Causa n. :
    C-568/13
    Assegnazione:
      In data:
      26/01/2015
      NOTA DI SINTESI:

      La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione degli articoli 1, lettera c) e 37 della direttiva 92/50/CEE, relativa alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi e degli articoli 1, paragrafo 8, primo comma, e 55 della direttiva 2004/18/CE, relativa alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (abrogata, a decorrere dal 18 aprile 2016, dalla direttiva 2014/24/UE).

      La direttiva 92/50 include, all'articolo 1, lettera c), gli enti pubblici che forniscono servizi nella nozione di prestatori di servizi e, all'articolo 37, definisce la procedura per la verifica delle offerte anormalmente basse. Tali disposizioni sono state riprodotte nella direttiva 2004/18 (articoli 1 e 55), che ha rifuso in unico testo le direttive in materia di appalti pubblici di servizi, di forniture e di lavori. Tra gli elementi costitutivi dell'offerta da considerare nel corso della procedura di verifica delle offerte anormalmente basse è aggiunta l'eventualità che l'offerente ottenga un aiuto di Stato. La sussistenza di tale eventualità può determinare il respingimento dell'offerta solo se l'offerente non è in grado di dimostrare che l'aiuto era stato concesso legalmente.
      Per quanto riguarda l'ordinamento italiano, sulla base del decreto legislativo n. 502/1992, le aziende sanitarie sono enti pubblici economici che assolvono compiti di natura essenzialmente tecnica con la veste giuridica di aziende pubbliche dotate di autonomia imprenditoriale. Le direttive 92/50 e 2004/18 sono state trasposte nell'ordinamento italiano, rispettivamente, dal decreto legislativo n. 157/1995 e dal decreto legislativo n. 163/2006.

      La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata proposta dal Consiglio di Stato nell'ambito di una controversia sollevata dalla Data Medical Service in relazione all'aggiudicazione da parte della Regione Lombardia dell'appalto del servizio triennale di elaborazione dati per la valutazione esterna della qualità dei farmaci. L'appalto è stato aggiudicato, con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, all'Azienda Ospedaliero-Universitaria di Careggi-Firenze, che ha proposto i propri servizi ad un prezzo del 59 per cento inferiore a quello del secondo classificato.

      Il Consiglio di Stato, adito in appello dall'Azienda contro la sentenza del TAR Lombardia di accoglimento del ricorso della Data Medical Service, ha sospeso il procedimento per sottoporre alla Corte europea due questioni pregiudiziali, vertenti rispettivamente: sulla compatibilità con l'art. 1 della direttiva 92/50 di una normativa interna interpretata nel senso di escludere un'azienda ospedaliera avente natura di ente pubblico economico dalla partecipazione alle gare; sulla compatibilità con il diritto dell'Unione in materia di appalti pubblici (in particolare con i principi generali di libera concorrenza, non discriminazione, proporzionalità) di una normativa nazionale che permetta ad un soggetto che beneficia stabilmente di risorse pubbliche e che è affidatario in via diretta del servizio pubblico sanitario, di lucrare da tale situazione un vantaggio competitivo determinante nel confronto concorrenziale con altri operatori economici senza che siano previste al contempo misure correttive volte ad evitare un simile effetto distorsivo della concorrenza.

      Rispondendo alla prima questione, la Corte ha dichiarato che l'articolo 1, lettera c), della direttiva 92/50 non consente ad una normativa nazionale che esclude la partecipazione di un'azienda ospedaliera pubblica dalle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, a causa della sua natura di ente pubblico economico.

      La possibilità di partecipazione di tali soggetti risulta chiaramente dal tenore letterale della disposizione ed è stata più volte ribadita dalla Corte; inoltre, la massima apertura possibile alla concorrenza è uno degli obiettivi della normativa dell'Unione in materia di appalti pubblici: un'interpretazione restrittiva della nozione di operatore economico da ammettere alle gare di appalto avrebbe come conseguenza di sottrarre alle norme dell'Unione in materia di appalti i contratti conclusi dalle amministrazioni aggiudicatrici e organismi senza scopo di lucro, aggiudicati informalmente. In secondo luogo, la Corte, pur riconoscendo l'ampia discrezionalità degli Stati membri di disciplinare le attività dei soggetti, quali le università e gli istituti di ricerca, non aventi scopo di lucro, ma volti principalmente alla didattica e alla ricerca, ha dichiarato che gli Stati membri non possono vietare a tali soggetti, se autorizzati a offrire taluni servizi contro corrispettivo sul mercato, di partecipare a procedure di aggiudicazione di appalti pubblici aventi ad oggetto la prestazione degli stessi servizi. Un tale divieto, infatti, contrasterebbe con l'articolo 1 della direttiva 92/50.

      Rispondendo alla seconda questione, la Corte ha dichiarato che non è contraria alla direttiva 92/50 - né ai principi di libera concorrenza, di non discriminazione e di proporzionalità - una normativa nazionale che consente ad un'azienda ospedaliera pubblica, partecipante ad una gara di appalto, di presentare un'offerta alla quale non è possibile fare concorrenza, grazie ai finanziamenti pubblici di cui essa beneficia, senza contestualmente prevedere misure correttive per prevenire le eventuali distorsioni della concorrenza che ne derivano. Tuttavia, tale finanziamento può essere preso in considerazione dall'amministrazione aggiudicatrice, che ha la facoltà di respingere l'offerta.

      La Corte, a tale proposito, ha constatato che il legislatore dell'Unione, pur essendo consapevole della diversa natura dei concorrenti che partecipano ad un appalto pubblico, non ha previsto altri meccanismi correttivi oltre a quello della verifica e dell'eventuale rigetto delle offerte anormalmente basse.

      Benché le amministrazioni aggiudicatrici debbano trattare gli operatori economici su un piano di parità e in modo non discriminatorio, la direttiva 92/50 e la giurisprudenza della Corte non consentono di escludere un offerente, a priori e senza esami ulteriori, dalla partecipazione ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico per il solo motivo che, grazie a sovvenzioni pubbliche di cui beneficia, esso è in grado di presentare offerte a prezzi notevolmente inferiori a quelli dei concorrenti. Ciò nonostante, in talune circostanze particolari, l'amministrazione aggiudicatrice ha la facoltà di prendere in considerazione tali sovvenzioni, in particolare, gli aiuti non conformi al Trattato, al fine, eventualmente, di escludere i soggetti che ne beneficiano. Inoltre, come previsto dalla direttiva 92/50, l'amministrazione aggiudicatrice può respingere un'offerta anormalmente bassa non soltanto nel caso in cui l'offerente beneficia di un aiuto di Stato e, in ogni caso, è tenuta a chiedere al candidato di fornire giustificazioni incardinando un dibattito effettivo in contraddittorio. Infine, ad avviso della Corte, dal momento che la direttiva 92/50 non reca una definizione in merito, spetta agli Stati membri stabilire le modalità di calcolo di una soglia di anomalia, tenendo conto che il carattere anormalmente basso deve essere valutato rispetto alla prestazione.

    • Sentenza della Corte (Sesta Sezione) del 18 dicembre 2014

      Causa n.: C-551/13
      In data: 26/01/2015

      Sentenza della Corte (Sesta Sezione) del 18 dicembre 2014

      Causa n. :
      C-551/13
      Assegnazione:
        In data:
        26/01/2015
        NOTA DI SINTESI:

        La domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dalla Commissione tributaria provinciale di Cagliari, verte sull'interpretazione della direttiva 2008/98/UE,in materia di rifiuti.

        La direttiva 2008/98/CE dispone, all'articolo 15, che gli Stati membri adottino le misure necessarie a garantire che ogni produttore di rifiuti possa provvedere personalmente al loro trattamento oppure li consegni ad un soggetto che effettua le operazioni di smaltimento. Nel diritto italiano, la materia è stata disciplinata dal decreto legislativo n. 152/2006 (in particolare, l'articolo 188) e, successivamente, dal decreto legislativo n. 205/2010, che ha disposto la trasposizione nell'ordinamento italiano della direttiva 2008/98/CE. Questo ha, da un lato, modificato l'articolo 188 del decreto legislativo n. 152/2006, riproducendo il contenuto dell'articolo 15 della direttiva, dall'altro, ha introdotto un sistema di tracciabilità dei rifiuti (SISTRI) la cui entrata in vigore è stata più volte rinviata nel tempo con successivi provvedimenti legislativi, l'ultimo dei quali, il decreto-legge n. 101/2013 , ha disposto, tra l'altro, che, nei dieci mesi successivi alla data del 1° ottobre 2013, continuino ad applicarsi gli adempimenti e gli obblighi previsti dal testo previgente dell'articolo 188.

        Il procedimento principale riguarda una controversia che oppone la SETAR, proprietaria di un complesso turistico alberghiero nella località di S'Oru e Mari e il comune di Quartu S. Elena, in merito al rifiuto di pagare la tassa comunale per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU).

        In particolare, il 30 novembre 2010, la SETAR ha comunicato al comune di Quartu S. Elena che non avrebbe più corrisposto, a decorrere dal 1° gennaio 2011, la TARSU in quanto, a partire da tale data, si sarebbe avvalsa di un'impresa specializzata, ai sensi dell'articolo 188 del decreto legislativo n. 152/2006 e dell'articolo 15 della direttiva 2008/98/CE. Il comune, ritenendo la SETAR comunque obbligata al pagamento della TARSU, ha inviato una cartella di pagamento, oggetto della controversia nel procedimento principale, che imponeva il pagamento della tassa, calcolata sulla base delle tariffe per il 2011. Nelle more del giudizio dinanzi al TAR, adito dalla SETAR avverso la cartella di pagamento, il comune di Quartu S. Elena ha ridotto l'importo richiesto, mediante l'invio di una seconda cartella di pagamento, anch'essa oggetto di ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Cagliari.

        La Corte di giustizia è stata chiamata in via pregiudiziale a verificare, da un lato, se il diritto dell'Unione europea e la direttiva 2008/98/CE siano contrari ad una normativa nazionale di trasposizione della direttiva che subordini la sua entrata in vigore all'adozione di un atto interno successivo alla scadenza del termine di trasposizione fissato dalla direttiva stessa; dall'altro, se l'articolo 15 della direttiva sia contrario ad una normativa nazionale che non preveda la possibilità per il produttore di rifiuti di provvedere personalmente allo smaltimento, con conseguente esonero dal pagamento della relativa tassa comunale.

        Nel merito, la Corte ha ricordato preliminarmente che gli Stati membri hanno l'obbligo di adottare tutti i provvedimenti necessari per il conseguimento del risultato prescritto da una direttiva entro i termini da essa fissati, anche se dispongono di un ampio potere discrezionale quanto alla scelta dei mezzi. Nella fattispecie, l'articolo 40 della direttiva 2008/98/CE ha fissato al 12 dicembre 2010 il termine entro il quale gli Stati membri avrebbero dovuto provvedere alla sua trasposizione. Tale direttiva, peraltro, non reca disposizioni derogatorie relative all'entrata in vigore delle misure previste.

        Di conseguenza, la Corte ha dichiarato che il diritto dell'Unione e la direttiva 2008/98/CE sono contrari ad una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che trasponga una disposizione di tale direttiva ma entri in vigore subordinatamente all'adozione di un atto interno successivo alla scadenza del termine fissato dalla direttiva stessa.

        Sulla seconda questione, la Corte ha rilevato che l'articolo 15 della direttiva non obbliga gli Stati membri a prevedere la possibilità per un produttore di rifiuti di provvedere personalmente allo smaltimento, con conseguente esonero dal pagamento della relativa tassa comunale. L'articolo 15, infatti, permette allo Stato membro di scegliere tra un ventaglio di opzioni (tra cui anche lo smaltimento personale) le modalità di smaltimento dei rifiuti. Quanto al finanziamento del sistema di gestione dei rifiuti, l'articolo 14 della direttiva obbliga gli Stati membri a prevedere che i costi siano sostenuti dall'insieme dei produttori e dei detentori dei rifiuti, mediante una modalità di loro scelta (tassa, canone o altro) calcolata in modo tale da non eccedere quanto necessario, sulla base del principio di proporzionalità. Spetta al giudice del rinvio verificare se la TARSU non comporti che ad un produttore di rifiuti come la SETAR, che provvede personalmente al loro smaltimento, siano imputati costi manifestamente sproporzionati rispetto alla quantità di rifiuti prodotti e conferiti al sistema di gestione.

        Sulla base di tali considerazioni, pertanto, la Corte ha dichiarato che l'articolo 15 della direttiva non è contraria ad una normativa nazionale che non prevede la possibilità per un produttore di rifiuti di provvedere personalmente al loro smaltimento, con conseguente esonero dal pagamento di una tassa comunale, purché tale normativa sia conforme ai requisiti del principio di proporzionalità.

      • Azienda sanitaria locale n. 5 «Spezzino» e altri contro San Lorenzo Soc. coop. sociale e Croce Verde Cogema cooperativa sociale Onlus

        Causa n.: C-113/13
        In data: 26/01/2015

        Azienda sanitaria locale n. 5 «Spezzino» e altri contro San Lorenzo Soc. coop. sociale e Croce Verde Cogema cooperativa sociale Onlus

        Causa n. :
        C-113/13
        Assegnazione:
          In data:
          26/01/2015
          NOTA DI SINTESI:

          La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione degli articoli 49 e 56 del TFUE, che riguardano i principi di trasparenza e di parità di trattamento ed è stata presentata nell'ambito di una controversia relativa ad alcune delibere della Regione Liguria concernenti l'organizzazione, a livello regionale e locale, dei trasporti sanitari di urgenza ed emergenza.

          Le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici sono regolamentate a livello dell'Unione europea dalladirettiva 2004/18/UE(abrogata, a decorrere dal 18 aprile 2016, dalla direttiva 2014/24/UE). Essa prevede l'applicazione di procedure diverse, a seconda dell'oggetto dell'appalto nonché del valore (entro o oltre una determinata soglia di valore). Nell'ordinamento italiano, il principio dell'attività di volontariato dei cittadini è tutelato dall'articolo 118 della Costituzione. La Regione Liguria, con la legge regionale n. 41/2006, ha disciplinato, tra l'altro, la partecipazione delle associazioni di volontariato alla realizzazione degli obiettivi del servizio sanitario regionale e, all'articolo 75-ter, ha disposto l'affidamento del trasporto sanitario alle associazioni di volontariato, alla CRI e ad altre associazioni autorizzate, sulla base di apposite convenzioni, a loro volta basate su uno specifico accordo quadro. A tali soggetti è dovuto esclusivamente il rimborso delle spese effettivamente sostenute, determinato sulla base di criteri di economicità, efficienza e non sovracompensazione dei costi sostenuti, nonché di una frazione dei costi fissi e durevoli nel tempo. Tali convenzioni sono state stipulate con le associazioni di volontariato aderenti all'ANPAS e con la CRI.

          Avverso le delibere della ASL n. 5, sulla base delle quali sono state concluse le convenzioni, le cooperative San Lorenzo e Croce Verde Cogema hanno presentato ricorso al Tribunale amministrativo regionale vertente, in via principale, sull'incompatibilità con il diritto dell'UE e, in particolare, con i principi di libertà di stabilimento, libera prestazione di servizi, parità di trattamento e non discriminazione, della normativa regionale che prevede che i trasporti sanitari siano affidati in via prioritaria alle associazioni di volontariato e alla Croce Rossa Italiana nonché alle altre istituzioni o enti pubblici autorizzati, il che costituirebbe una discriminazione nei confronti di soggetti che non svolgono un'attività di volontariato, attivi in tale settore di attività. In subordine, tali cooperative contestano che le convenzioni controverse stabiliscano semplici rimborsi spese. In sede di appello, il Consiglio di Stato ha chiesto alla Corte di giustizia se le disposizioni del diritto dell'Unione in materia di appalti pubblici e le regole di concorrenza del Trattato siano contrarie ad una normativa nazionale che prevede che le amministrazioni locali debbano affidare la fornitura dei servizi di trasporto sanitario di urgenza e di emergenza, in via prioritaria e con affidamento diretto, senza alcuna forma di pubblicità, alle associazioni di volontariato convenzionate, le quali ricevono il rimborso delle spese effettivamente sostenute e di una frazione dei costi fissi e durevoli nel tempo.

          La Corte, preliminarmente, dichiara che l'accordo quadro regionale e le relative convenzioni rientrano nell'ambito di applicazione della direttiva 2004/18, in materia di appalti pubblici. Sul presupposto della natura mista dei servizi in discussione, trova applicazione l'articolo 22 della citata direttiva che prevede che gli appalti pubblici, o, eventualmente, gli accordi quadro il cui valore sia superiore alla soglia rilevante fissata all'articolo 7 della menzionata direttiva e che riguardano siffatti servizi devono essere aggiudicati conformemente a tutte le norme procedurali di cui agli articoli da 23 a 55 della medesima direttiva se il valore dei servizi di trasporto, indicato nell'allegato II A, risulta superiore al valore dei servizi medici, indicato all'allegato II B. Allorché invece il valore dei servizi di cui all'allegato II B risulta superiore a quello dei servizi di cui all'allegato II A, l'appalto deve essere aggiudicato in conformità dei soli articoli 23 e 35, paragrafo 4, della direttiva 2004/18 e non sono applicabili a tali appalti le altre norme relative al coordinamento delle procedure previste dalla direttiva 2004/18, segnatamente quelle riguardanti gli obblighi di gara con pubblicità previa e quelle relative ai criteri di attribuzione degli appalti in parola.

          Il legislatore dell'Unione, infatti, si è basato sulla presunzione che gli appalti relativi ai servizi ricompresi nell'allegato II B della direttiva 2004/18 non presentino, data la loro natura specifica, un interesse transfrontaliero tale da giustificare che la loro aggiudicazione avvenga in esito ad una procedura di gara d'appalto intesa a consentire a imprese di altri Stati membri di venire a conoscenza del bando e di partecipare alla gara d'appalto

          Spetta al giudice del rinvio verificare se l'accordo quadro regionale sia superiore al valore oltre il quale è necessaria l'applicazione delle norme riguardanti la pubblicità dell'appalto e determinare il valore rispettivo dei servizi di trasporto e dei servizi medici.

          Nel caso in cui il valore dell'accordo quadro regionale superi la soglia di valore fissato e il valore dei servizi di trasporto sia superiore a quello dei servizi medici, l'affidamento in via prioritaria e senza gara alle associazioni di volontariato sarebbe contrario alla direttiva 2004/18. Se, al contrario, il giudice del rinvio constata il mancato raggiungimento del valore limite, non sarebbe applicabile la procedura ad evidenza pubblica ma i principi generali di trasparenza e di parità di trattamento (articoli 49 e 56 TFUE).

          Ciò nondimeno, affinché tali principi siano applicabili in materia di appalti pubblici ad attività i cui elementi rilevanti si collocano tutti all'interno di un solo Stato membro, è necessario che l'appalto presenti un interesse trasfrontaliero certo. L'individuazione degli elementi necessari per consentire alla Corte di verificare se sussista tale interesse dovrebbe essere effettuata dal giudice del rinvio, sulla base di criteri oggettivi (per esempio, l'importo dell'appalto, il luogo di esecuzione, le caratteristiche tecniche, nonché l'esistenza di denunce presentate da operatori di altri Stati membri). Una volta verificata l'esistenza dell'interesse transfrontaliero certo, ad avviso della Corte, è innegabile che la normativa regionale che esclude dall'affidamento del servizio di trasporto sanitario una parte degli operatori di mercato sia contraria ai principi di libera circolazione dei servizi e di tutela della concorrenza.

          Tuttavia, La Corte osserva che, sulla base della normativa regionale in esame, le modalità di organizzazione del servizio di trasporto sanitario di urgenza ed emergenza sono improntate ai principi di universalità, di solidarietà, di efficienza economica e di adeguatezza, giacché il ricorso in via prioritaria alle associazioni di volontariato appare volto a garantire che tale servizio, di interesse generale, sia assicurato in condizioni di equilibrio economico. Si tratta di obiettivi parimenti tutelati dal diritto dell'Unione.

          Inoltre, sulla base dell'ordinamento dell'Unione, gli Stati membri hanno margini di discrezionalità per configurare il loro sistemi previdenziali e di sanità pubblica, potendo decidere i livelli di tutela e le modalità per garantirli, controllando i costi ed evitando sprechi economici.

          In questo quadro, ad avviso della Corte, uno Stato membro può ritenere che il ricorso alle associazioni di volontariato corrisponda alla finalità sociale del trasporto sanitario d'urgenza e che sia idoneo a contribuire al controllo dei costi legati a tale servizio. Proprio per questo, è altresì necessario che le associazioni di volontariato perseguano i medesimi obiettivi e non traggano profitto dalle loro prestazioni. Anche l'accertamento di tali condizioni spetta al giudice del rinvio.

          Sulla base di tali considerazioni, la Corte conclude che gli articoli 49 e 56 TFUE devono essere interpretati nel senso che non sono contrari ad una normativa nazionale che prevede l'affidamento diretto e in via prioritaria del servizio di trasporto sanitario d'urgenza e di emergenza ad associazioni di volontariato convenzionate, purché l'ambito normativo e convenzionale in cui si svolge l'attività delle associazioni contribuisca effettivamente alle finalità sociale e al perseguimento degli obiettivi di solidarietà ed efficienza del bilancio.

        • Causa n.: C-196/13
          In data: 26/01/2015
          Causa n. :
          C-196/13
          Assegnazione:
            In data:
            26/01/2015
            NOTA DI SINTESI:

            Con il ricorso, la Commissione europea ha chiesto alla Corte di dichiarare la Repubblica italiana inadempiente in relazione agli obblighi ad essa incombenti in base alle direttive 74/442/CEE, 91/689/CEE e 1999/31/CE, relative alla gestione dei rifiuti e alle discariche e, contestualmente, di condannarla al pagamento di sanzioni pecuniarie (una penalità giornaliera e una somma forfettaria) nonché al pagamento delle spese.

            Ai sensi della direttiva 74/442/CEE, gli Stati membri sono tenuti ad adottare le misure necessarie (tra cui il divieto di abbandono, scarico e smaltimento incontrollato) per garantire che i rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute umana e per l'ambiente (articolo 4); essi devono inoltre adottare le misure necessarie perché ogni detentore di rifiuti provveda a consegnarli ad un raccoglitore o provveda lui stesso allo smaltimento, nel rispetto della direttiva (articolo 8); infine, l'articolo 9 subordina l'attività di smaltimento dei rifiuti al rilascio da parte dell'autorità nazionale di un'autorizzazione specifica, che può riguardare un periodo determinato, può essere rinnovata o essere accompagnata da condizione e, infine, può essere rifiutata. Il contenuto di tali articoli è ora riprodotto dagli articoli 13, 15, 23 e 36 della direttiva 2008/98 (che ha abrogato e sostituito la direttiva 2006/12/CE che, a sua volta, aveva abrogato e sostituito la direttiva 74/442/CEE). L'articolo 2 della direttiva 91/689/CEE ha previsto, tra l'altro, l'obbligo di catalogazione e identificazione da parte delle autorità nazionali dei rifiuti pericolosi smaltiti in discarica (anche il contenuto di tale articolo è stato trasposto nell'articolo 35 della direttiva 2008/98/CE, che ha abrogato anche la direttiva 91/689/CEE). Infine, la direttiva 1999/31/CE, all'articolo 4, condiziona il funzionamento delle discariche esistenti alla presentazione di un piano di riassetto sulla base del quale le autorità nazionali possano decidere il proseguimento dell'attività o la chiusura; il successivo articolo 18 prevedeva il termine di due anni dall'entrata in vigore della direttiva per l'adozione da parte degli Stati membri delle misure necessarie e per informare la Commissione.

            Per non avere adottato i provvedimenti necessari all'attuazione delle disposizioni di tali direttive, la Corte di giustizia aveva già riconosciuto l'inadempienza dell'Italia nella sentenza Commissione/Italia (EU:C:2007:250) del 26 aprile 2006, accogliendo il ricorso della Commissione europea. In sede di controllo dell'ottemperanza di tale sentenza, la Commissione ha dedotto il persistere della inadempienza e ha deciso di presentare il presente ricorso, ai sensi dell'articolo 260 TFUE.

            In particolare, la Commissione ha sottolineato l'esistenza sul territorio italiano, oltre il termine indicato dal parere motivato, di un notevole ma incerto numero (tra 368 e 422) di discariche non conformi alla direttiva 74/442, di cui fra 15 e 21 contenenti rifiuti pericolosi non catalogati ed identificati. Per tali siti, i lavori di bonifica non risultano ultimati o, in qualche caso, nemmeno programmati, mentre per alcune di tali discariche era stato disposto il sequestro. Ad avviso della Commissione, l'Italia avrebbe dovuto adottare misure strutturali dal momento che il sistema repressivo previsto dalla normativa nazionale si era dimostrato insufficiente a dare esecuzione alla sentenza (EU:C:2007:250). Inoltre, l'Italia non avrebbe ottemperato ai suoi obblighi avendo anche omesso di valutare la necessità di adottare misure di bonifica e recupero dei siti interessati. Infatti, contrariamente a quanto sostenuto dall'Italia, le misure che prevedono il divieto di abbandono, scarico e smaltimento incontrollato di rifiuti non esauriscono gli obblighi previsti dalle direttive comunitarie e, laddove operazioni di bonifica fossero state previste, sulla base delle informazioni in possesso della Commissioni, sarebbero ancora in corso. Inoltre, alla scadenza del termine del parere motivato, risultavano irregolari sotto il profilo delle autorizzazioni richieste dalla direttiva 1999/31 almeno 93 discariche in funzione alla data del 16 luglio 2001: per taluni siti non sarebbe stato né approvato né presentato alcun piano di riassetto e non sarebbe stata adottata alcuna decisione in ordine alla chiusura; per altri siti, i dati forniti dalle autorità italiane sarebbero incompleti o poco chiari o addirittura del tutto mancanti.

            L'Italia, invece, ha sostenuto di avere adottato tutte le misure necessarie ai fini dell'esecuzione della sentenza (EU:C:2007:250), avendo messo in sicurezza tutte le discariche; a giudizio dell'Italia, infatti, la direttiva 74/442 non imporrebbe obblighi di ripristino o di bonifica dei siti. Inoltre, non solo tutte le 218 discariche considerate abusive dalla Commissione erano inattive alla data della scadenza del termine previsto dal parere motivato ma la maggior parte dei siti sarebbe stata anche bonificata o in corso di riassegnazione agli utilizzi fondiari tradizionali. Pertanto, dal momento che le discariche giudicate non conformi erano chiuse, le disposizioni relative ai piani di riassetto non sarebbero state più applicabili.

            Inoltre, ad avviso dell'Italia, l'ampliamento del numero delle discariche considerate dalla Commissione avrebbe imposto alla stessa Commissione l'obbligo di inviare un nuovo parere motivato. Da ultimo, l'Italia ha contestato il fatto che nell'ordinamento nazionale non vi sono norme in palese contrasto con la normativa europea.

            La Corte, preliminarmente, in sede di giudizio sulla ricevibilità del ricorso, respinge le argomentazioni dell'Italia in merito all'illegittimo ampliamento del numero delle discariche oggetto del ricorso, dal momento che, come già nella sentenza (EU:C:2007:250), la Corte constata l'esistenza di un inadempimento di carattere generale e persistente. Essa, infatti, non fa riferimento ai singoli siti ritenuti non conformi né a disposizioni specifiche dell'ordinamento giudicate inadeguate, ma piuttosto alla mancanza di misure di carattere strutturale che pongano in essere una riforma in grado di dare esecuzione alla sentenza.

            Entrando poi nel merito del giudizio, in primo luogo, la Corte ritiene che, come afferma la Commissione, l'Italia ha continuato a violare l'articolo 4 della direttiva 74/442/CEE. Infatti, se è vero, come sostiene l'Italia, che l'articolo 4 della direttiva 74/442/CEE non impone agli Stati membri di bonificare i siti delle discariche abusive, lasciando loro un margine di discrezionalità nell'adozione di misure che salvaguardino la salute e l'ambiente, è anche vero che la constatazione di un degrado rilevante dell'ambiente per un periodo prolungato, in assenza di interventi delle autorità competenti, rivela l'abuso da parte dello Stato membro del margine di discrezionalità. La mera chiusura di una discarica o la copertura dei rifiuti con terra e detriti non sono pertanto sufficienti ad adempiere gli obblighi posti dall'articolo 4 della direttiva 74/442/CEE. Al contrario, ai sensi di tale norma, lo Stato membro è tenuto a verificare se sia necessaria la bonifica del sito e, all'occorrenza, a bonificarlo.

            A tale proposito, l'Italia non può sostenere di non essere stata al corrente che la completa esecuzione della sentenza (EU:C:2007:250) comportasse anche l'adozione di misure relative alle discariche abusive, dal momento che i sopralluoghi e le ispezioni menzionati nei rapporti inviati alla Commissione attestano la piena consapevolezza delle autorità italiane della minaccia per la salute e l'ambiente rappresentata da tali siti. Inoltre, anche quando i lavori di bonifica fossero stati programmati, è pacifico che, alla data di scadenza del termine fissato dal parere motivato (30 settembre 2009), in certi siti i lavori erano ancora in corso o non erano ancora iniziati; per altri siti, l'Italia non ha fornito alcuna indicazione utile a determinare la data entro la quale tali bonifiche sarebbero iniziate.

            L'Italia risulta inadempiente anche con riferimento all'articolo 8 della direttiva 74/442/CEE, dal momento che impone agli Stati membri di accertarsi che il detentore di rifiuti li consegni ad un raccoglitore autorizzato o provveda egli stesso secondo le disposizioni della direttiva. Ad avviso della Corte, tale obbligo non è soddisfatto quando lo Stato membro si limita ad ordinare il sequestro della discarica e ad avviare un procedimento penale.

            Ad avviso della Corte, inoltre, l'Italia non ha adempiuto neanche all'obbligo, previsto dall'articolo 9 della direttiva 74/442/CEE, di subordinare l'attività di smaltimento dei rifiuti ad una specifica autorizzazione rilasciata dalle autorità competenti. Anche in questo caso, la mera chiusura di una discarica non è sufficiente a garantire il rispetto della norma, essendo piuttosto necessaria una specifica attività di controllo e vigilanza per l'accertamento della regolarità delle attività svolte nelle discariche, che garantisca, eventualmente, la cessazione delle operazioni svolte irregolarmente e l'effettiva applicazione di sanzioni.

            Con riferimento a tale rilievo, l'Italia si è limitata ad affermare che tutte le discariche indicate dalla Commissione risultavano chiuse alla scadenza del termine impartito. Inoltre, nelle memorie difensive, l'Italia ha riconosciuto che i gestori di alcune di tali discariche non hanno mai disposto dell'autorizzazione.

            La Corte dichiara l'inadempimento dell'Italia anche con riferimento agli obblighi di catalogazione e identificazione dei rifiuti pericolosi depositati in discarica. Infatti, l'Italia non ha sostenuto, e tantomeno dimostrato, di avere provveduto, entro il termine impartito, in tal senso.

            Infine, ad avviso della Corte, l'Italia ha violato anche l'obbligo di subordinare la continuazione dell'attività di una discarica all'approvazione di un piano di riassetto, come previsto dall'articolo 14 della direttiva 1999/31/CE. A tale riguardo, l'Italia si è limitata ad affermare che tutte le discariche indicate dalla Commissione come irregolari quanto al piano di riassetto, erano chiuse alla scadenza del termine. Tuttavia, come risulta dalla documentazione prodotta dall'Italia, alcune di tali discariche sono state aperte senza autorizzazione e per tali siti non è stato adottato alcun provvedimento di chiusura.

            Quanto alla determinazione dell'ammontare delle pene pecuniarie, la Corte preliminarmente ricorda che rientra tra le sue prerogative stabilire le sanzioni pecuniarie adeguate, in particolare per prevenire la reiterazione di analoghe infrazioni al diritto dell'Unione.

            La possibilità di irrogare una sanzione pecuniaria dipende dall'accertamento del perdurare dell'inadempimento fino all'esame dei fatti da parte della Corte: nel caso in specie, risulta alla Commissione che, al momento della discussione del ricorso, 200 discariche italiane non erano ancora conformi alle disposizioni europee.

            Da tali elementi, pertanto, la Corte deduce la persistenza dell'inadempimento e osserva che la condanna al versamento di una penale costituisce un mezzo finanziario adeguato a sollecitare l'Italia all'adozione delle misure necessarie per garantire la completa esecuzione della sentenza (EU:C:2007:250), ponendo fine all'inadempimento. I criteri da prendere in considerazione per fissarne l'importo sono, pertanto: la durata dell'inadempimento, il suo grado di gravità e la capacità di pagamento dello Stato membro, determinata sulla base della recente evoluzione del Prodotto interno lordo (PIL). Nell'applicazione di tali criteri, la Corte deve tenere conto delle conseguenze dell'omessa esecuzione sugli interessi pubblici e privati nonché dell'urgenza di indurre lo Stato membro a conformarsi ai suoi obblighi.

            L'inadempimento dell'Italia risulta grave in quanto l'obbligo di smaltire i rifiuti senza pregiudizio per la salute umana e l'ambiente costituisce uno degli obiettivi della politica ambientale dell'UE. Inoltre, il fatto che la controversia in esame riguardi la mancata esecuzione di una sentenza avente ad oggetto una prassi generale e persistente aumenta la gravità dell'inadempimento. Inoltre, pur tenendo conto dei notevoli progressi compiuti dall'Italia, essi sono stati compiuti con grande lentezza e, alla data di discussione del ricorso, numerose sono ancora le discariche abusive in funzione. Pertanto, la Corte calcola la durata dell'inadempimento in oltre sette anni.

            Per tenere conto dei progressi compiuti, la Corte giudica opportuno condannare l'Italia al pagamento di una penalità decrescente su base semestrale in ragione del numero di siti messi a norma, computando due volte le discariche contenenti rifiuti pericolosi, sulla base delle prove dell'adozione delle misure necessarie, trasmesse alla Commissione prima della fine di ciascun semestre.

            La penalità semestrale, da versare alla Commissione, sul conto "Risorse proprie dell'Unione europea", è calcolata, per il primo semestre successivo alla sentenza, a partire da un importo iniziale di 42.800 euro, dal quale saranno detratti 400.000 euro per ciascuna discarica contenenti rifiuti pericolosi messa a norma e 200.000 euro per le altre discariche regolarizzate.

            Ad avviso della Corte, il numero elevato di discariche non conformi e il gran numero di procedure di infrazione in materia di rifiuti delle quali è stata investita sono indice del fatto che la prevenzione effettiva della futura reiterazione di analoghe infrazioni al diritto dell'Unione richiede l'adozione di una misura dissuasiva, quale la condanna al pagamento di una somma forfettaria, correlata alle caratteristiche dell'inadempimento rilevato e al comportamento specifico dello Stato membro. Anche in questo caso, i criteri per il calcolo dell'ammontare sono la gravità dell'inadempimento, la sua durata dopo la pronuncia della sentenza e la capacità di pagamento dello Stato interessato. Dal momento che l'inadempimento italiano ha carattere generale e persistente, che le discariche si trovano nella quasi totalità delle regioni italiane e che alcune di esse contengono rifiuti pericolosi, la Corte giudica equo condannare l'Italia al pagamento di una somma forfettaria di 40 milioni di euro.

            Infine, essendo parte soccombente, l'Italia è condannata anche al pagamento delle spese.

          • Sentenza della Corte (Terza Sezione) del 26 novembre 2014

            In data: 26/01/2015

            Sentenza della Corte (Terza Sezione) del 26 novembre 2014

            Assegnazione:
              In data:
              26/01/2015
              NOTA DI SINTESI:

              La Corte di giustizia si pronuncia sulle questioni pregiudiziali proposte dal Tribunale di Napoli e dalla Corte costituzionale nell'ambito di controversie aventi ad oggetto la successione di contratti di lavoro a tempo determinato nella scuola.

              Tali controversie riguardavano in particolare successivi contratti stipulati da insegnanti e personale amministrativo per la copertura dei medesimi posti con i medesimi datori di lavoro (il Ministero dell'istruzione e, in un caso, il comune di Napoli) per un periodo di tempo complessivo che andava da un minimo di quattro anni a un massimo di undici anni. Gli attori nei procedimenti principali chiedevano la conversione dei rispettivi contratti in contratti di lavoro a tempo indeterminato o, in subordine, il risarcimento del danno subito.

              Nell'ordinamento italiano, il ricorso a contratti a tempo determinato nel settore pubblico è disciplinato dal decreto legislativo n. 165/2001 (in particolare, articolo 36, comma 5) e dal decreto legislativo n. 368/2001, di attuazione della direttiva 1999/70/UE (relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato). Quest'ultimo, all'articolo 5, comma 4-bis, dispone la trasformazione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato qualora, per effetto di successione di contratti a termine successivi, si superino i trentasei mesi. In base all' articolo 10, tale disposizione non si applica ai contratti a tempo determinato per il conferimento delle supplenze del personale docente ed ATA. A tale personale, limitatamente al settore della scuola statale, è applicabile, invece, l'articolo 4 della legge n. 124/1999 che, in combinato disposto con l'articolo 1 del D.M. 13 giugno 2007, n. 131 , disciplina le supplenze. In particolare, gli incarichi dei docenti e del personale amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA) della scuola statale sono di tre tipi: supplenze annuali, per posti vacanti e disponibili, in quanto privi di titolare, il cui termine corrisponde a quello dell'anno scolastico (31 agosto); supplenze temporanee fino al termine delle attività didattiche (30 giugno), su posti non vacanti ma ugualmente disponibili; supplenze temporanee o brevi, per ogni altra necessità. Infine, ai sensi degli articoli 399 e 401 del DM n. 131/2007, l'accesso al ruolo del personale docente della scuola statale avviene per il 50 per cento mediante concorsi per titoli ed esami e, per il restante 50 per cento, attingendo alle graduatorie permanenti nelle quali figurano i docenti che hanno vinto il concorso, senza ottenere un posto di ruolo e quelli che hanno seguito i corsi di abilitazione (sistema del doppio canale). Per la chiamata dei docenti supplenti si attinge a tali graduatorie: la successione delle supplenze da parte di uno stesso docente ne comporta l'avanzamento in graduatoria e può condurlo all'immissione in ruolo.

              I giudici del rinvio chiedono alla Corte se la normativa italiana sia compatibile con l'ordinamento europeo e in particolare con la clausola 5, punto 1, dell'accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, la quale prevede che, per prevenire l'abuso del ricorso ad una successione di contratti a tempo determinato, gli Stati membri devono introdurre nei rispettivi ordinamenti specifici limiti con riferimento, in alternativa o cumulativamente: a ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei contratti; alla durata massima totale; al numero dei rinnovi.

              In particolare, i giudici del rinvio chiedono se tale clausola possa essere interpretata nel senso che osta alla normativa nazionale che autorizza, in attesa dell'espletamento delle procedure concorsuali per l'assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il rinnovo di contratti a tempo determinato per la copertura dei posti vacanti e disponibili, senza indicare tempi certi per l'espletamento di tali concorsi ed escludendo qualsiasi possibilità di risarcimento del danno.

              La Corte, in primo luogo, afferma l'applicabilità dell'accordo quadro allegato alla direttiva, e quindi anche della clausola 5, punto 1, al personale assunto nel settore dell'insegnamento. Pertanto, lo Stato italiano è obbligato ad introdurre almeno una delle misure indicate da tale clausola per limitare l'abuso del ricorso a contratti successivi. Esso dispone di un'ampia discrezionalità nella scelta delle misure da introdurre, tenendo conto anche delle esigenze di settori e di categorie specifiche di lavoratori. Inoltre, dal momento che la normativa europea non prevede specifiche sanzioni, spetta alle autorità nazionali, in questo caso all'Italia, adottare misure di carattere proporzionato, energico e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate. Pertanto, qualora si verifichi un ricorso eccessivo a contratti successivi, si deve potere applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori, al fine di sanzionare l'abuso e cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell'Unione.

              A tale proposito, ad avviso della Corte, è pacifico che la normativa italiana non presenti alcuna misura che limiti la durata totale dei contratti o il numero dei rinnovi (lettere b) e c) del punto 1 della clausola 5), ne' prevede norme equivalenti per la prevenzione degli abusi ai sensi della clausola 5, punto 1. In assenza di tali misure, il ricorso a contratti successivi deve essere giustificato da ragioni obiettive.

              Per ragioni obiettive si intendono circostanze precise e concrete che contraddistinguono una determinata attività e sono, pertanto, tali da giustificare l'utilizzo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato. Tali circostanze possono risultare dalla particolare natura delle funzioni da esercitare, dalle caratteristiche ad esse inerenti o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità sociale.

              Ad avviso della Corte, una disposizione nazionale che si limitasse ad autorizzare, in modo generale e astratto, il ricorso ad una successione di contratti a tempo determinato non sarebbe coerente con tale principio, non consentendo di stabilire criteri oggettivi e trasparenti per verificare se il rinnovo di tali contratti risponda effettivamente ad un'esigenza reale, se sia idoneo a conseguire l'obiettivo perseguito e se sia necessario a tale fine. Tuttavia, la normativa italiana che consente il rinnovo dei contratti a tempo determinato per la sostituzione, da un lato, del personale in attesa dell'espletamento delle procedure concorsuali e, dall'altro, del personale momentaneamente impossibilitato a svolgere le sue funzioni, non è in astratto incompatibile con l'accordo quadro: la copertura dei posti vacanti costituisce una ragione obiettiva che giustifica sia la durata determinata dei contratti sia il loro rinnovo. Tale normativa, inoltre, appare coerente con il perseguimento di obiettivi sociali (quali la tutela della gravidanza e la conciliazione degli obblighi familiari e professionali da parte degli insegnanti di ruolo) e permette allo Stato di adempiere all'obbligo di organizzare il servizio scolastico, garantendo la necessaria flessibilità per un adeguamento costante tra il numero dei docenti e il numero di studenti, elementi non sempre prevedibili a priori.

              La Corte però aggiunge che l'osservanza della clausola 5, punto 1, lettera a), dell'accordo quadro richiede che si verifichi concretamente che il rinnovo di successivi contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato miri a soddisfare esigenze provvisorie. Nel caso di specie, in violazione di tale clausola, la normativa nazionale consente di soddisfare esigenze permanenti nelle scuole statali derivanti dalla mancanza strutturale di personale di ruolo, dal momento che non esiste alcuna certezza riguardo alla tempistica né dell'effettuazione delle procedure concorsuali né dell'immissione in ruolo dei docenti vincitori.

              La normativa italiana non reca nemmeno misure sanzionatorie del ricorso abusivo ai contratti a tempo determinato, in assenza di disposizioni che riconoscano il risarcimento del danno al personale delle scuole statali che sia stato indebitamente assoggettato a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato e non essendo consentita la trasformazione di tali rapporti di lavoro in contratti a tempo indeterminato.

              Tale trasformazione per il lavoratore si realizza soltanto nella possibilità di essere immesso in ruolo per effetto dell'avanzamento in graduatoria, che, rivestendo carattere aleatorio, non può essere considerata sanzione a carattere sufficientemente effettivo e dissuasivo al fine di garantire la piena efficacia delle norme adottate in applicazione dell'accordo quadro.

              Sulla base di tali elementi, la Corte giudica la normativa italiana non conforme all'accordo quadro e dichiara che la clausola 5, punto 1, dell'accordo medesimo deve essere interpretata nel senso che osta alle norme italiane che autorizzano, in attesa dell'espletamento delle procedure concorsuali per l'assunzione del personale di ruolo nelle scuole statali, il rinnovo di contratti a tempo determinato per la copertura dei posti vacanti e disponibili di docenti e personale amministrativo, senza indicare tempi certi per l'espletamento di tali procedure ed escludendo qualsiasi possibilità di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito. Tale normativa infatti non consente di definire criteri obiettivi e trasparenti per verificare se il rinnovo di tali contratti risponda effettivamente ad una esigenza reale, sia idoneo a conseguire l'obiettivo perseguito e sia necessario a tale fine né prevede alcuna misura diretta a prevenire e a sanzionare il ricorso abusivo ad una successione di contratti a tempo determinato.

              Si segnala che la legge di stabilità 2015 (legge n. 190/2014, articolo 1, commi 4 e 5) destina specifiche risorse al finanziamento, tra l'altro, ad un piano straordinario di assunzioni nel settore della scuola.