XVI LEGISLATURA

Allegato A

Seduta di lunedì 12 marzo 2012

COMUNICAZIONI

Missioni valevoli nella seduta del 12 marzo 2012.

Albonetti, Aprea, Barbieri, Bindi, Caparini, Capitanio Santolini, Cicchitto, Colucci, Gianfranco Conte, D'Alema, Dal Lago, De Biasi, Della Vedova, Donadi, Dozzo, Tommaso Foti, Franceschini, Grimoldi, Leone, Lupi, Lussana, Milanato, Moffa, Narducci, Leoluca Orlando, Rigoni, Scalera, Stefani, Vitali, Volontè.

(Alla ripresa pomeridiana della seduta).

Albonetti, Aprea, Barbieri, Bindi, Caparini, Capitanio Santolini, Cicchitto, Colucci, Gianfranco Conte, D'Alema, Dal Lago, De Biasi, Della Vedova, Donadi, Dozzo, Tommaso Foti, Franceschini, Grimoldi, Leone, Lupi, Lussana, Milanato, Moffa, Narducci, Leoluca Orlando, Rigoni, Scalera, Stefani, Vitali, Volontè.

Annunzio di una proposta di legge.

In data 9 marzo 2012 è stata presentata alla Presidenza la seguente proposta di legge d'iniziativa del deputato:
FAENZI: «Disposizioni concernenti la realizzazione di impianti da golf per la valorizzazione del paesaggio e la promozione del turismo sportivo» (5043).

Sarà stampata e distribuita.

Assegnazione di una proposta di inchiesta parlamentare a Commissione in sede referente.

A norma del comma 1 dell'articolo 72 del regolamento, la seguente proposta di inchiesta parlamentare è assegnata, in sede referente, alle sottoindicate Commissioni permanenti:

Commissioni riunite I (Affari costituzionali) e XI (Lavoro):
PISICCHIO ed altri: «Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sui trattamenti economici dei titolari di mandati elettivi e di impieghi e incarichi presso pubbliche amministrazioni, enti pubblici nonché enti e società a partecipazione pubblica» (doc. XXII, n. 29) - Parere delle Commissioni II e V.

Assegnazione di progetti di legge a Commissioni in sede referente.

A norma del comma 1 dell'articolo 72 del regolamento, i seguenti progetti di legge sono assegnati, in sede referente, alle sottoindicate Commissioni permanenti:

I Commissione (Affari costituzionali):
GOZI: «Disciplina dei partiti politici, in attuazione dell'articolo 49 della Costituzione» (4955) Parere delle Commissioni II, V, VI e della Commissione parlamentare per le questioni regionali.

II Commissione (Giustizia):
GALLI: «Modifica all'articolo 530 del codice di procedura penale, in materia di rimborso delle spese di giudizio» (4968) Parere delle Commissioni I e V;
GALLI: «Modifiche al codice di procedura penale, in materia di richiesta del giudizio abbreviato da parte del difensore» (4977) Parere delle Commissioni I e V.

III Commissione (Affari esteri):
«Ratifica ed esecuzione del Protocollo aggiuntivo alla Convenzione tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica di Singapore per evitare le doppie imposizioni e per prevenire le evasioni fiscali in materia di imposte sul reddito, e relativo Protocollo, del 29 gennaio 1977, fatto a Singapore il 24 maggio 2011» (5018) Parere delle Commissioni I, V e VI.

V Commissione (Bilancio):
LO MONTE ed altri: «Abrogazione dell'articolo 26 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e differimento dei termini di prescrizione delle banconote e delle monete in lire» (4966) Parere delle Commissioni I e VI.

VI Commissione (Finanze):
CATONE ed altri: «Disposizioni concernenti la tenuta di conti correnti bancari e postali intestati ai titolari di pensioni per le quali è previsto l'obbligo di erogazione mediante strumenti di pagamento elettronici» (4890) Parere delle Commissioni I, V, IX, XI (ex articolo 73, comma 1-bis, del regolamento) e XII;
GALLI e LEHNER: «Agevolazioni fiscali e contributive per le piccole e medie imprese oggetto di operazioni di fusione a seguito di acquisizione attraverso indebitamento finanziario da parte di dipendenti delle medesime» (4963) Parere delle Commissioni I, II, V, X, XI (ex articolo 73, comma 1-bis, del regolamento, relativamente alle disposizioni in materia previdenziale) e XIV;
MELCHIORRE: «Interpretazione autentica dell'articolo 9 del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23, in materia di determinazione dell'imposta municipale propria per gli immobili di interesse storico o artistico» (4974) Parere delle Commissioni I, V, VII e della Commissione parlamentare per le questioni regionali.

VII Commissione (Cultura):
DUILIO ed altri: «Disposizioni per il finanziamento di interventi di conservazione e manutenzione del Duomo di Milano» (4993) Parere delle Commissioni I, V e VIII;
BUONANNO ed altri: «Esenzione dall'imposta sugli intrattenimenti e riduzione del compenso per diritto d'autore in favore delle manifestazioni organizzate dai comuni, dalle associazioni pro loco e da enti e associazioni senza scopo di lucro» (5010) Parere delle Commissioni I, V e VI (ex articolo 73, comma 1-bis, del regolamento, per gli aspetti attinenti alla materia tributaria).

XI Commissione (Lavoro):
CODURELLI ed altri: «Modifiche alla legge 3 dicembre 1999, n. 493, in materia di assicurazione contro gli infortuni domestici» (4879) Parere delle Commissioni I, V e XII.

XII Commissione (Affari sociali):
DI VIRGILIO ed altri: «Norme in materia di attività libero-professionale intramuraria e intramuraria allargata dei dirigenti medici e sanitari e degli operatori delle professioni sanitarie dipendenti dal Servizio sanitario nazionale» (4962) Parere delle Commissioni I, II, V, VI (ex articolo 73, comma 1-bis, del regolamento, per gli aspetti attinenti alla materia tributaria), VII, VIII, XI e della Commissione parlamentare per le questioni regionali.

Commissioni riunite IX (Trasporti) e XIII (Agricoltura):
MINARDO: «Disposizioni per l'applicazione di agevolazioni relative al costo dei carburanti per le imprese di autotrasporto, di pesca e agricole aventi sede nella Regione siciliana» (4938) Parere delle Commissioni I, V, X, XIV e della Commissione parlamentare per le questioni regionali.

Trasmissione dalla Corte dei conti.

La Corte dei conti - sezione del controllo sugli enti - con lettera in data 7 marzo 2012, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 7 della legge 21 marzo 1958, n. 259, la determinazione e la relativa relazione riferita al risultato del controllo eseguito sulla gestione finanziaria della Cassa nazionale di previdenza e assistenza a favore dei ragionieri e periti commerciali (CNPR), per l'esercizio 2010. Alla determinazione sono allegati i documenti rimessi dall'ente ai sensi dell'articolo 4, primo comma, della citata legge n. 259 del 1958 (doc. XV, n. 392).

Questo documento - che sarà stampato - è trasmesso alla V Commissione (Bilancio) e alla XI Commissione (Lavoro).

Trasmissione dal ministro della giustizia.

Il ministro della giustizia, con lettera del 9 marzo 2012, ha trasmesso una nota relativa all'attuazione data all'ordine del giorno ZELLER ed altri n. 9/2984-A/1, accolto dal Governo nella seduta dell'Assemblea del 29 settembre 2011, concernente la deroga al divieto sancito con l'articolo 13, comma 2, del decreto legislativo n. 160 del 2006, in materia di attribuzione delle funzioni ai magistrati ordinari al termine del tirocinio, per i magistrati destinati agli uffici aventi sede nella Provincia autonoma di Bolzano.

La suddetta nota è a disposizione degli onorevoli deputati presso il Servizio per il Controllo parlamentare ed è trasmessa alla II Commissione (Giustizia) competente per materia.

Annunzio di progetti di atti dell'Unione europea.

La Commissione europea, in data 9 marzo 2012, ha trasmesso, in attuazione del Protocollo sul ruolo dei Parlamenti allegato al Trattato sull'Unione europea, la comunicazione della Commissione al Parlamento europeo a norma dell'articolo 294, paragrafo 6, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea riguardante la posizione del Consiglio sull'adozione di una proposta di decisione del Parlamento europeo e del Consiglio recante modifica della decisione 573/2007/CE che istituisce il Fondo europeo per i rifugiati per il periodo 2008-2013, nell'ambito del programma generale «Solidarietà e gestione dei flussi migratori» e che abroga la decisione 2004/904/CE del Consiglio («istituzione di un programma comune di reinsediamento UE») (COM(2012)110 final), che è assegnata, ai sensi dell'articolo 127 del regolamento, alla I Commissione (Affari costituzionali), con il parere della XIV Commissione (Politiche dell'Unione europea).

Annunzio di una sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo.

La Presidenza del Consiglio dei ministri, con lettera in data 7 marzo 2012, ha dato comunicazione, ai sensi della legge 9 gennaio 2006, n. 12, della seguente sentenza pronunciata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nei confronti dello Stato italiano, passata in giudicato nel mese di ottobre 2011, che è inviata alla II Commissione (Giustizia) nonché alla III Commissione (Affari esteri):
sentenza 18 ottobre 2011: Selvaggio e altri nn. 39432/03, 39438/03, 39440/03, 39442/03, 39445/03, 39449/03, 39452/03, 39453/03 e 39454/03, in materia di ragionevole durata del processo. Constata la violazione dell'articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), relativo al diritto ad un equo processo sotto il profilo della ragionevole durata (doc. CLXXIV, n. 303).

Comunicazioni ai sensi dell'articolo 3, comma 44, della legge 24 dicembre 2007, n. 244.

Fintecna Spa, con lettera in data 6 marzo 2012, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 3, comma 44, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, la comunicazione concernente un atto comportante spesa per emolumenti o retribuzioni, con l'indicazione del nominativo del destinatario e dell'importo del relativo compenso.

Tale comunicazione è trasmessa alla V Commissione (Bilancio).

Comunicazioni di nomine ministeriali.

La Presidenza del Consiglio dei ministri, con lettere in data 6 e 8 marzo 2012, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 19, comma 9, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, le comunicazioni concernenti il conferimento, ai sensi del comma 4 del medesimo articolo 19, o la revoca di incarichi di livello dirigenziale generale, che sono trasmesse alla I Commissione (Affari costituzionali), nonché alle Commissioni sottoindicate:
alla II Commissione (Giustizia) le comunicazioni concernenti i seguenti incarichi:
la revoca dell'incarico, conferito al dottor Stefano Aprile, di direttore della direzione generale per i sistemi informativi automatizzati, nell'ambito del dipartimento dell'organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi del Ministero della giustizia;
al dottor Fiorenzo Sirianni, l'incarico di direttore della direzione generale della giustizia tributaria, nell'ambito del dipartimento delle finanze del Ministero dell'economia e delle finanze;

alla V Commissione (Bilancio) le comunicazioni concernenti il conferimento dei seguenti incarichi nell'ambito del Ministero dell'economia e delle finanze:
alla dottoressa Maria Cristina Bianchi, l'incarico di direttore dell'ufficio centrale di bilancio presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, nell'ambito del dipartimento della Ragioneria generale dello Stato;
alla dottoressa Vinca Maria Sant'Elia, l'incarico di direttore generale dell'ufficio centrale di bilancio presso il Ministero per i beni e le attività culturali, nell'ambito del dipartimento della Ragioneria generale dello Stato.

Il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, con lettera in data 1o marzo 2012, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 11, comma 5, del decreto legislativo 31 dicembre 2009, n. 213, il decreto ministeriale di nomina del professor Adriano De Maio a presidente del consiglio per l'area di ricerca scientifica e tecnologica di Trieste.

Tale decreto è trasmesso alla VII Commissione (Cultura).

Atti di controllo e di indirizzo.

Gli atti di controllo e di indirizzo presentati sono pubblicati nell'Allegato B al resoconto della seduta odierna.

MOZIONI DI STANISLAO ED ALTRI N. 1-00781, PEZZOTTA, SARUBBI ED ALTRI N. 1-00408, GIDONI ED ALTRI N. 1-00861, PORFIDIA ED ALTRI N. 1-00862, MOFFA ED ALTRI N. 1-00907, MISITI ED ALTRI N. 1-00908, RUGGHIA ED ALTRI N. 1-00909 E CICU ED ALTRI N. 1-00920 SULLA RIDUZIONE E RAZIONALIZZAZIONE DELLE SPESE MILITARI, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL BLOCCO DEL PROGRAMMA PER LA PRODUZIONE E L'ACQUISTO DEI CACCIABOMBARDIERI JOINT STRIKE FIGHTER (JSF) F-35

Mozioni

La Camera,
premesso che:
il problema della spesa militare italiana diventa ancor più di primaria importanza se inserito nello scenario della crisi finanziaria internazionale che ha rimesso in discussione il ruolo della spesa pubblica nei Paesi dell'Unione europea e dell'area euro. In questo contesto anche Governi di centrodestra non hanno esitato ad intervenire sulla riduzione delle spese militari;
tutto questo si verifica mentre in Italia le proposte del Governo, mirate a ridurre la spesa pubblica, contemplano tagli al sociale, alla scuola, alle imprese, alla ricerca, alla giustizia e a ogni cosa di cui un Paese dovrebbe avere cura, senza preoccuparsi minimamente dei tagli alle spese militari;
le manovre del Governo non hanno mai messo in discussione la struttura del sistema difesa e sicurezza, che riesce a superare la scure dei tagli con meno danni di altri;
con i soli due decreti-legge emessi tra luglio e settembre 2011 (decreto-legge del 2011, n. 98, convertito dalla legge n. 111 del 2011 e decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito dalla legge n. 148 del 2011) la manovra complessiva ha raggiunto quasi i 60 miliardi di euro di correzione del saldo a regime nel 2014;
il Parlamento è in procinto di vagliare la nuova manovra anti crisi del Governo, nella quale non si prevede alcun provvedimento che vada in tal senso;
i settori maggiormente penalizzati sono sempre le politiche sociali, la sanità e le politiche industriali a sostegno delle piccole e medie imprese;
è stato presentato recentemente uno studio del Forum Ania-Consumatori in collaborazione con l'università di Milano, dal quale emerge come siano notevolmente peggiorate soprattutto le condizioni di vita dei bambini e dei minori che pagano il prezzo più alto della crisi. Sono 10 milioni e 229 mila i minori in Italia, il 16,9 del totale della popolazione: uno su cinque (24,4 per cento) è a rischio di povertà, il 18,3 per cento vive in povertà (1.876.000 minori, in famiglie che hanno una capacità di spesa per consumi sotto la media), il 18,3 è per cento in condizione di deprivazione materiale e il 6,5 per cento (653.000 ragazzi) è in condizione di povertà assoluta, privo dei beni essenziali per il conseguimento di uno standard di vita minimamente accettabile;
anche Save the children nel secondo «Atlante dell'infanzia a rischio» dichiara che, dal 2008 ad oggi, sono proprio le famiglie con minori ad aver pagato il prezzo più alto della recessione mondiale: negli ultimi anni la percentuale delle famiglie a basso reddito con un minore è aumentata dell'1,8 per cento e tre volte tanto (5,7 per cento) quella di chi ha due o più figli;
con la crisi economica, che ha toccato tutti i settori e ha ridotto in maniera drastica la qualità della vita di tutti i cittadini, le famiglie, ed in particolare i minori, hanno subito maggiormente le conseguenze con maggiori e gravi difficoltà ad andare avanti;
ad oggi, l'Italia investe in maniera residuale e poco incisiva sulle politiche sociali ed in particolare sulle famiglie, aspetto che, invece, dovrebbe essere al primo posto nell'agenda di ogni Governo che punti ad un reale rilancio dell'economia e del Paese. Il tasso di disoccupazione giovanile ha raggiunto livelli record e le piccole e medie imprese sono al collasso;
in tale contesto, l'Italia è l'ottavo Paese al mondo per spese militari, con 20.556,9 milioni di euro per il 2010, con un incremento per il 2011, a causa dei fondi destinati agli acquisti per i nuovi armamenti, dell'8,4 per cento pari a quasi 3 miliardi e mezzo di euro, ovvero 266 milioni di euro in più rispetto al 2010. Le spese per l'esercizio, invece, hanno visto una riduzione del 18 per cento rispetto al precedente esercizio finanziario e sono destinate alla formazione e all'addestramento, alla manutenzione e all'efficienza di armi, ai mezzi e alle infrastrutture, al mantenimento delle scorte e, in generale, alla capacità e alla prontezza operativa dello strumento militare;
vanno poi aggiunti i circa 3 miliardi di euro provenienti dai bilanci di altri Ministeri che prevedono aperte finalità militari. Il Ministero dell'economia e delle finanze stanzia 754,3 milioni di euro per il fondo di riserva per le spese derivanti dalla proroga delle missioni internazionali di pace, il Ministero dello sviluppo economico stanzia 1.483 milioni di euro destinati ad interventi agevolativi per il settore aeronautico, 510 milioni di euro destinati ad interventi per lo sviluppo e l'acquisizione delle unità navali della classe Fremm (fregata europea multimissione) e una percentuale ormai altissima del budget del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca viene destinata a progetti in ambito spaziale e satellitare delle Forze armate;
la nota aggiuntiva di previsione per la difesa per l'anno 2012 stanzia 21.342 milioni di euro;
dal punto di vista dell'attività produttiva in Italia, il settore è in piena espansione con un fatturato record da 3,7 miliardi di euro alla fine del 2008; come si è appreso nel 2010, l'Italia ha superato la Russia, divenendo il secondo esportatore mondiale di armamenti, dopo gli Stati Uniti. E proprio l'export militare italiano è divenuto un settore estremamente complesso e delicato con forti interessi da parte di banche e industrie belliche e armiere, inversamente proporzionali ai controlli e alla trasparenza che vengono sempre meno e che, invece, necessitano di un maggiore rafforzamento;
la recente legge di stabilità ha confermato, inoltre, la cosiddetta mini naja con uno stanziamento di 7,5 milioni di euro per il 2012 e di un milione di euro per il 2013. Il corso di formazione ha il compito di trasmettere e rafforzare nei giovani i valori presenti all'interno delle Forze armate. Un progetto, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, inutile che, in questo momento storico, non ha alcun motivo di essere finanziato;
sul bilancio dello Stato, al momento, incombono ben 71 programmi di ammodernamento e riconfigurazione di sistemi d'arma, che ipotecano la spesa bellica da qui al 2026;
da un lato, c'è un comparto già fortemente penalizzato dal punto di vista dei tagli alle risorse, degli stipendi del personale, della formazione, dell'addestramento, dell'esercizio, dall'altro, non c'è il minimo intento di diminuire le ingenti spese militari, bensì, persiste ancora l'inutile e costosissimo programma per l'acquisto di 131 cacciabombardieri F-35-JSF;
il tema in questione è fortemente sentito dall'opinione pubblica che vede nell'aumento dell'investimento in armi uno dei principali ostacoli allo sviluppo economico e sociale del Paese, al punto che, il 19 maggio 2009, inizia la campagna «Caccia al caccia! Diciamo NO agli F35»; il 24 novembre 2010, durante il convegno «Volano gli aerei o i costi?», per la prima volta il Ministero della difesa ammette ufficialmente che sono sorti dei dubbi sull'acquisto di tutti i caccia previsti; il 12 aprile 2011 i promotori della campagna scrivono ai presidenti di gruppo della Camera dei deputati chiedendo una discussione in merito al progetto F-35 e il 21 settembre 2011 parte la seconda fase della campagna, denominata ora «Taglia le ali alle armi!». Nella prima fase sono state raccolte 19.900 adesioni on line, 16.000 firme cartacee e 388 adesioni di organizzazioni. Molti Paesi hanno rinunciato a tale programma e gli stessi Usa hanno tagliato drasticamente le spese militari;
il 13 novembre 2011 le tre organizzazioni Rete disarmo, Sbilanciamoci e Tavola della pace hanno rinnovato l'invito al Governo affinché accolga e porti avanti concretamente le richieste della società civile in tema di difesa e di scelte militari;
ai conti attuali, l'acquisto dei 131 aerei F35-JSF comporterebbe per l'Italia una spesa di oltre 18 miliardi di euro, a cui bisognerebbe aggiungere i costi dei propulsori;
occorre, altresì, cambiare il rapporto tra difesa e industria per evitare che gli interessi personali ed economici si sovrappongano in maniera deleteria ai reali interessi del comparto e del Paese;
è evidente e sempre più urgente l'esigenza di una nuova revisione dell'amministrazione della difesa e dello stesso «modello di difesa», che dovrebbe concentrarsi essenzialmente sull'acquisto di tecnologie e mezzi atti più a garantire la sicurezza dei soldati italiani nelle missioni all'estero che l'acquisizione di armamenti atti all'offesa. Un modello di difesa incentrato sulla formazione e sull'addestramento dei nostri soldati;
le gravi carenze di bilancio e l'assenza di un chiaro dibattito pubblico sulle opzioni realmente aperte in questa direzione rendono il tutto decisamente più complesso;
mancano, tra l'altro, in Italia la volontà o la capacità di affrontare congiuntamente, almeno sul piano dell'analisi, i complessi problemi, tra loro correlati, del settore della sicurezza e di quello della difesa, e la nuova, essenziale dimensione delle operazioni miste civili-militari, che invece stanno assumendo una rilevanza sempre maggiore a livello comune europeo ed atlantico;
il rischio è, quindi, di disporre di armi nuove e sofisticate, ma di non avere le risorse per gestirle; mancano, ad esempio, i fondi per riparare i mezzi, danneggiati in Afghanistan, e il carburante per i jet e le navi, inclusa la nuova portaerei Cavour;
l'Italia deve prepararsi ad affrontare nuove sfide e nuovi costi. È un processo già iniziato senza essere accompagnato da un vero e ampio dibattito politico interno che coinvolga pienamente il Parlamento e consenta la fondazione di uno stabile consenso, premessa necessaria per una mobilitazione delle risorse necessarie;
occorre un dibattito aperto a tutte le voci della società e non ad una campagna propagandistica e manipolatoria, un dibattito che restituisca al Parlamento la sua centralità costituzionale;
bisogna condividere una visione realistica della politica e applicare, anche a questo settore della spesa pubblica, gli stessi criteri che si pretende di imporre a tutti gli altri ambiti essenziali dello Stato, come la salute e l'istruzione. Tutta la spesa pubblica è sotto esame ed è giusto che lo sia anche la spesa militare. Si discute di riforma delle pensioni, della scuola, della sanità e di mille altri settori strategici della vita del paese. È giusto (e indispensabile) che si discuta anche della riforma delle Forze armate come accade in tutti i Paesi democratici;
l'opinione pubblica è attiva e coinvolta in maniera massiccia in campagne di informazione tutte finalizzate alla richiesta di riduzione delle ingenti risorse stanziate per gli armamenti. Tanti sono gli appelli e migliaia sono le firme dei cittadini e non è accettabile che il Governo non ne tenga conto;
il 7 luglio 2010 si è conclusa la discussione congiunta di sei mozioni concernenti una migliore qualità e razionalizzazione della spesa militare. Nello specifico, la mozione n. 1-00403, ha impegnato il Governo a: dare la piena disponibilità per un approfondito confronto in sede parlamentare sul nuovo modello di difesa; a proseguire il lavoro per una migliore qualità e di una razionalizzazione della spesa militare, accentuando la dimensione interforze dello strumento militare a livello nazionale e realizzando le migliori sinergie nel settore industriale e negli asset operativi a livello europeo, soprattutto nell'ottica della nascente difesa europea; ad avviare una profonda revisione del sistema difesa, soprattutto attraverso una necessaria e urgente operazione di efficientamento e riorganizzazione di tutto l'apparato militare;
l'auspicio di tutti i presentatori era di sensibilizzare il Governo e spostare l'attenzione nella direzione di avviare un cambiamento sostanziale nella gestione di tali risorse, ma gli impegni assunti sono tuttora disattesi;
occorre dare risposte concrete e segnali forti ai cittadini e alle Forze armate, sempre più abbandonate a se stesse, senza risorse e senza formazione, e garantire che finalmente la difesa unitamente al welfare tornino ad essere al centro della vita democratica e siano gestite con consapevolezza da parte dello Stato;
è necessario attivare un virtuoso investimento in termini di riqualificazione, addestramento e formazione del personale del comparto e avviare un percorso che punti a finanziamenti selettivi, attraverso i quali si definiscano le priorità e le reali necessità del comparto. È necessario investire minori risorse e meglio mirate al fine di portare l'Italia in linea con gli altri Paesi europei e non solo,

impegna il Governo:

ad assumere iniziative volte a bloccare, in via definitiva, il programma per la produzione e l'acquisto dei 131 cacciabombardieri Joint Strike Fighter e a valutare la reale possibilità di utilizzare tali risorse per il rilancio dell'economia e il sostegno all'occupazione giovanile;
ad assumere iniziative volte a cancellare i finanziamenti previsti per il 2012 per la produzione dei 4 sommergibili Fremm, dei cacciabombardieri F-35, delle due fregate «Orizzonte» con un risparmio previsto intorno ai 783 milioni di euro;
a rivalutare e a ridimensionare gli accordi tra il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca e il Ministero della difesa, al fine di reperire le necessarie risorse da destinare per la copertura delle borse di studio per tutti gli idonei durante l'anno accademico 2011-2012 e per gli anni accademici successivi;
a bloccare, in via definitiva il progetto, della mini naja «Vivi le Forze armate» con un risparmio immediato da destinare alle politiche sociali, con particolare riferimento alle famiglie e ai minori che vivono in condizioni di povertà;
ad assumere iniziative finalizzate a rivedere gli stanziamenti che interessano la difesa presenti nello stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico, comparto strategico e fondamentale per il reale rilancio dell'economia e del Paese, valutando la possibilità dell'impiego di tali risorse in ambiti di maggiore urgenza e necessità;
a rivedere il quadro complessivo delle spese militari prevedendo una razionalizzazione delle risorse e destinando parte di esse, stanziate per armamenti, alla formazione, all'addestramento e alla riqualificazione del personale del comparto.
(1-00781)
«Di Stanislao, Di Pietro, Donadi».
(7 dicembre 2011)

La Camera,
premesso che:
il nostro Paese è impegnato in un progetto per la realizzazione di 2.700 cacciabombardieri Joint Strike Fighter (JSF) F-35 sostenuto dagli Stati Uniti a cui partecipano altri 8 Paesi: Regno Unito al primo livello, Italia ed Olanda al secondo livello, Turchia, Canada, Australia, Norvegia e Danimarca al terzo livello. La ditta capo-commessa del progetto è l'americana, Lockheed Martin Aeronauticus e l'azienda italiana maggiormente coinvolta è Alenia Aeronautica che partecipa allo sviluppo ed alla produzione second source dell'ala. Sono poi coinvolte in modo minore un'altra ventina di aziende del comparto nazionale italiano;
il costo complessivo di tale progetto è stimato in 250 miliardi di dollari, ma non è in alcun modo possibile fare stime sui costi finali reali, tanto che per un singolo aereo le recenti stime statunitensi (marzo 2010) parlano di un costo finale di acquisto di circa 110 milioni di dollari;
per la fase di produzione dell'aereo (successiva alle fasi di progettazione già completata) l'Italia ha ipotizzato di impegnarsi all'acquisto di 131 cacciabombardieri Joint Strike Fighter al costo totale - solo per l'aereo senza armamenti - di oltre 12 miliardi di euro seguendo le ultime stime (cifra spalmata fino al 2026) ed alla realizzazione a Cameri (Novara) di un centro europeo di manutenzione al costo di 605,5 milioni di euro, da consegnare entro il 2012;
per la fase dello sviluppo e per quella di pre-industrializzazione l'Italia ha sottoscritto dei memorandum of understanding che la impegnano a destinare al progetto 158,2 milioni di dollari dal 2007 al 2011, ed altri 745 milioni di dollari dal 2012 al 2046;
dal punto di vista puramente strategico è difficile comprendere quali siano le motivazioni per l'acquisto di un cacciabombardiere di quarta generazione: le attuali missioni militari italiane all'estero hanno una caratteristica prevalentemente di peacekeeping, dove fondamentale deve essere la figura umana, mentre risulta totalmente inutile, oltre che contraria al dettato costituzionale, la presenza di cacciabombardieri. La possibile giustificazione della deterrenza ai fini difensivi non regge in quanto occorre ricordare che si sta già acquistando il caccia Eurofighter-Efa più adatto a compiti da intercettore e di difesa da attacchi aerei;
anche gli Stati Uniti, con la nuova presidenza di Barack Obama, hanno deciso di effettuare importanti tagli sui sistemi d'arma considerati sovradimensionati ed inutili nelle nuove prospettive strategiche per investire sulla componente umana;
diverse voci ufficiali dei Paesi partecipanti al progetto (la Corte dei conti olandese, lo U.S. Government Accountability Office) hanno espresso le loro forti perplessità sulla sostenibilità, efficacia ed effettivo costo di tutto il programma JSF. In un rapporto del marzo 2009, lo U.S. Government Accountability Office risulta essere fortemente critico sul progetto, lamentandone principalmente i forti ritardi, il lievitare dei costi e le scarse garanzie sulla buona riuscita. Viene criticata la scelta del Dipartimento della Difesa di anticipare la fase di produzione senza aver completato i test necessari, con il forte rischio di scoprire eventuali difetti a posteriori, quando correggerli sarà estremamente complicato e costoso. Per ovviare alle difficoltà progettuali, i Paesi acquirenti hanno inoltre deciso di anticipare l'acquisizione del 15 per cento del totale dei velivoli, cioè 360 aerei, testando solo il 17 per cento delle capacità dell'F-35 in volo, per lasciare tutto il resto alle simulazioni di laboratorio (molti problemi però emergono solo con le prove di volo). Sempre secondo lo U.S. Government Accountability Office i costi complessivi nei primi nove anni del progetto sono lievitati dell'80 per cento e continueranno a crescere. Gli Usa sono impegnati ad investire 10 miliardi di dollari l'anno per i prossimi venti anni;
la Corte dei conti olandese, nell'avanzare le proprie perplessità, ha esposto diverse critiche al forte lievitare dei costi del progetto, affermando che è impossibile calcolare il costo reale di un singolo aereo, mentre, tenendo presente il costo della partecipazione delle aziende olandesi al programma di sviluppo del JSF, risulterebbe più economico per i Paesi Bassi scegliere l'acquisto puro e semplice dell'aereo finito;
la Norvegia il 30 marzo 2009 ha sospeso fino al 2012 la sua partecipazione al programma del JSF;
uno studio interno del Dipartimento Usa alla difesa di fine 2009 ha confermato le previsioni di costi fuori budget già individuati negli anni precedenti (circa 16,5 miliardi di dollari), prevedendo un ritardo di circa 2 anni e mezzo nella fase di sviluppo e conseguentemente di produzione finale del caccia F-35;
ciò ha comportato, in maniera inedita, grosse critiche alla capo-commessa Lockheed anche da parte del Pentagono (per bocca dei suoi massimi esponenti di acquisto di armamenti) che ha paventato, per la prima volta, la possibilità di richiedere alla controparte industriale delle compensazioni monetarie per tutti questi ritardi e costi aggiuntivi;
diversi analisti sin dalla nascita del progetto hanno sottolineato come l'allargamento ai partner, in particolar modo quelli europei, serviva, da un lato, per coprire i forti costi di sviluppo e produzione e, dall'altro, per tarpare le ali all'industria europea della difesa che specialmente con il progetto dell'Eurofighter stava affermandosi nel mercato. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: la terza tranche di produzione dell'Eurofighter, il programma del caccia europeo prodotto da Italia, Gran Bretagna, Germania e Spagna, sarà ridimensionata. Dei 236 aerei previsti ne verranno prodotti solo la metà senza ulteriori certezze per il futuro. L'Italia, che ne doveva acquistare 46 da aggiungere ai 75 delle prime due tranche, ha sottoscritto l'acquisto solo di altri 21;
le promesse occupazionali di circa 600 posti di lavoro per le aziende italiane partecipanti al programma, impieghi realmente accertati e non i 10.000 di cui si è favoleggiato in qualche dichiarazione, in realtà saranno, di fatto, solo una compensazione di posti di lavoro che si perderanno per i tagli all'Eurofighter. In questo settore bisogna tener presente che i profitti dell'industria militare sono alti, anche perché garantiti dai Governi, ma basse sono le ricadute occupazionali in proporzione ai pur massicci investimenti;
per stessa ammissione del Governo italiano le ricadute industriali sono bassissime, tanto che, a distanza di diversi mesi dal parere positivo del Parlamento, che chiedeva garanzie su questo aspetto, non è stato ancora firmato il contratto. Considerando poi le maggiori difficoltà che sta incontrando lo sviluppo del progetto negli Stati Uniti, resta sempre più difficile pensare che le richieste dell'Italia vengano accolte;
le ricadute industriali non andranno a sviluppare più ritorni rispetto ai soldi investiti dallo Stato per l'acquisto dei caccia, che verranno semplicemente rigirati per la quota parte su aziende italiane. Il grande costo di ogni singolo aereo sarà inoltre un grande deterrente per eventuali acquisti da parte di nazioni terze non partecipanti al programma di produzione;
in un momento di grossa crisi economica non è sicuramente una buona scelta di spesa pubblica andare ad impegnare complessivamente per i prossimi anni circa 15 miliardi di euro che potrebbero, invece, essere utilizzati per: stimolare la ripresa dell'economia ed affrontare meglio la crisi di questo periodo che sta attaccando in maniera forte l'occupazione e i risparmi, senza dover procedere agli ipotizzati tagli alla scuola, alla sanità e al welfare del nostro Paese,

impegna il Governo:

a sospendere la partecipazione al programma di realizzazione dell'aereo Joint Strike Fighter, non sottoscrivendo alcun contratto di acquisto di questi stessi velivoli;
a procedere in tempi rapidi ad una attenta ridefinizione del modello di difesa che sia rispondente al dettato costituzionale ed alla politica estera italiana, oltre che alla vocazione del nostro Paese all'integrazione europea e al ruolo di peacekeeping delle Forze armate italiane.
(1-00408)
«Pezzotta, Sarubbi, Marco Carra, Enzo Carra, De Pasquale, Bossa, Ruvolo, Giovanelli, Castagnetti, Fogliardi, Graziano, Rubinato, Delfino, Lucà, Marchioni, Bobba, Mattesini, Tassone, Codurelli, Gasbarra».
(8 luglio 2010)

La Camera,
premesso che:
la situazione in cui versano le finanze pubbliche costituisce da mesi oggetto di preoccupazioni crescenti, in ragione delle pressioni esercitate dai mercati sui titoli del debito sovrano italiano;
tale condizione esige obiettivamente l'adozione di misure straordinarie, in linea con il carattere prioritario assunto dall'esigenza di restaurare la fiducia dei mercati e delle maggiori istituzioni internazionali nei confronti del nostro Paese;
uno dei settori sui quali sembra possibile incidere, tenendo conto di quanto stanno facendo i principali alleati del nostro Paese, è quello della difesa, dove appare necessaria un'azione di compressione degli sprechi, che tuttavia salvaguardi la futura operatività dello strumento militare;
non appare opportuno colpire gli investimenti, che rappresentano l'avvenire tecnologico delle Forze armate ed un patrimonio per lo sviluppo complessivo del Paese;
è allo stesso modo sconsigliabile apportare ulteriori tagli alle spese di funzionamento, poiché ciò equivale a sacrificare funzioni essenziali, come l'addestramento del personale e la manutenzione dei mezzi, da cui dipende in ultima analisi la sicurezza dei soldati che vengono inviati sui teatri di crisi;
il modo più opportuno di ottenere la riduzione della spesa è quello che passa per il ridimensionamento il numero degli effettivi alle armi;
a questo proposito, il più consistente intervento militare oltremare mai intrapreso dalla Repubblica è quello attualmente in corso in Afghanistan, dove sono schierati poco più di 4 mila uomini delle Forze armate italiane;
al picco dei suoi impegni, a cavallo tra il 2003 ed il 2008, lo strumento militare nazionale non ha mai impiegato all'estero più di 11mila persone; si tratta di numeri che, anche computando il ciclo degli avvicendamenti delle truppe, non possono essere espansi oltre la soglia dei 30mila uomini all'anno;
alla luce dei dati sopracitati, risulta incomprensibile, anche considerando il più generoso dei supporti tecnico-amministrativi e logistici, il mantenimento in linea di 190 mila militari o anche dei 170 o 140mila di cui si è parlato più recentemente;
in un recente contributo apparso su una nota testata nazionale, il generale Fabio Mini, già comandante della Kfor, ha evidenziato come persino voci provenienti dal mondo militare ammettano senza imbarazzo che cambiare e razionalizzare è possibile;
va stigmatizzata, in particolare, la circostanza che esistano circa 500 ufficiali generali ed ammiragli in servizio, cosa che implica che ce n'è uno ogni 356 militari alle armi;
sono in servizio circa 57 mila marescialli ed equiparati, poco meno di un terzo della forza organica;
tali storture sono in parte riconducibili alla progressione automatica delle differenti carriere, che procedono automaticamente secondo il modello dell'avanzamento «normalizzato», probabilmente ormai inadeguato ad un contesto dove proprio gli impegni militari sui teatri di crisi dovrebbero permettere una più rigorosa selezione basata sul merito;
i firmatari del presente atto di indirizzo esprimono dubbi sull'effettiva necessità di confermare il programma noto come mini naja, in quanto fonte di un'oggettiva dispersione di risorse,

impegna il Governo:

a ridurre l'ampiezza delle prossime campagne di arruolamento e ad incentivare l'esodo del personale in esubero, anche predisponendo percorsi di mobilità verso amministrazioni che risultino carenti di personale con profili compatibili, in modo tale da avvicinare progressivamente gli organici delle Forze armate italiane a quota 100 mila unità;
a confermare la riduzione quantitativa dell'esperienza della cosiddetta mini naja;
a porre allo studio iniziative normative che tendano a ridurre drasticamente il numero degli ufficiali generali, colonnelli e tenenti colonnelli in servizio, che risultano in sensibile soprannumero, sia ricorrendo al collocamento in aspettativa per riduzione quadri che alla mobilità verso posizioni compatibili esistenti in altre amministrazioni dello Stato dove si siano verificate carenze di personale;
a valutare l'opportunità di ridurre progressivamente, con gli stessi metodi, la consistenza organica del ruolo marescialli, con un obiettivo ideale a medio-lungo termine del 30 per cento in meno rispetto agli attuali numeri;
ad intervenire sui meccanismi di progressione delle carriere, ponendo finalmente in discussione gli automatismi previsti dal cosiddetto sistema di avanzamento normalizzato e valorizzando il merito;
a confermare la partecipazione nazionale a tutti i più importanti programmi multinazionali di progettazione, sviluppo e produzione di armamenti suscettibili di avere ripercussioni occupazionali e ricadute tecnologiche sul nostro Paese, oltreché sul livello di operatività dello strumento militare italiano.
(1-00861)
«Gidoni, Chiappori, Molgora, Bitonci, D'Amico, Polledri, Simonetti, Lussana, Fogliato, Montagnoli, Fedriga, Fugatti».
(14 febbraio 2012)

La Camera,
premesso che:
il nostro Paese è impegnato in un progetto per la realizzazione di 2.700 cacciabombardieri Joint Strike Fighter (JSF) F-35 sostenuto dagli Stati Uniti a cui partecipano altri 8 Paesi: Regno Unito al primo livello, Italia ed Olanda al secondo livello, Turchia, Canada, Australia Norvegia e Danimarca al terzo livello. La ditta capo-commessa del progetto è l'americana, Lockheed Martin Aeronauticus e l'azienda italiana maggiormente coinvolta è Alenia Aeronautica che partecipa allo sviluppo ed alla produzione second source dell'ala. Sono poi coinvolte in modo minore un'altra ventina di aziende del comparto nazionale;
il costo complessivo di tale progetto è stimato in 250 miliardi di dollari, ma non è in alcun modo possibile fare stime sui costi finali reali, tanto che, per un singolo aereo, le recenti stime statunitensi (marzo 2010) parlano di un costo finale di acquisto di circa 110 milioni di dollari;
per la fase di produzione dell'aereo (successiva alle fasi di progettazione già completata) l'Italia ha ipotizzato di impegnarsi all'acquisto di 131 cacciabombardieri Joint Strike Fighter al costo totale - solo per l'aereo senza armamenti - di oltre 12 miliardi di euro seguendo le ultime stime (cifra spalmata fino al 2026) ed alla realizzazione a Cameri (Novara) di un centro europeo di manutenzione al costo di 605,5 milioni di euro, da consegnare entro il 2012;
per la fase dello sviluppo e per quella di pre-industrializzazione, l'Italia ha sottoscritto dei memorandum of understanding che la impegnano a destinare al progetto 158,2 milioni di dollari dal 2007 al 2011, ed altri 745 milioni di dollari dal 2012 al 2046;
in un momento di grossa crisi economica come quella che sta attraversando il Paese sarebbe auspicabile un'attenzione maggiore del Governo anche nei riguardi delle spese inerenti al comparto della difesa, anche al fine di stimolare la ripresa dell'economia ed affrontare meglio la crisi di questo periodo che sta attaccando in maniera forte l'occupazione e i risparmi, senza dover procedere agli ipotizzati tagli alla scuola, alla sanità e al welfare del nostro Paese;
anche gli Stati Uniti, con la nuova presidenza di Barack Obama, hanno deciso di effettuare importanti tagli sui sistemi d'arma considerati sovradimensionati ed inutili nelle nuove prospettive strategiche per investire sulla componente umana,

impegna il Governo:

a procedere in tempi rapidi ad una attenta ridefinizione del modello di difesa che sia rispondente al dettato costituzionale ed alla politica estera italiana, oltre che alla vocazione del nostro Paese all'integrazione europea e al ruolo di peacekeeping delle Forze armate italiane;
a dare piena disponibilità per un approfondito confronto in sede parlamentare sul nuovo modello di difesa e a proseguire il lavoro per una migliore qualità e una razionalizzazione della spesa militare, accentuando la dimensione interforze dello strumento militare a livello nazionale e realizzando le migliori sinergie nel settore industriale e negli asset operativi a livello europeo, soprattutto nell'ottica della nascente difesa europea;
ad assumere iniziative finalizzate a rivedere gli stanziamenti che interessano la difesa presenti nello stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico, comparto strategico e fondamentale per il reale rilancio dell'economia e del Paese, valutando la possibilità dell'impiego di tali risorse in ambiti di maggiore urgenza e necessità;
a rivedere il quadro complessivo delle spese militari, prevedendo una razionalizzazione delle risorse e destinando parte di esse, stanziate per armamenti, alla formazione, all'addestramento e alla riqualificazione del personale del comparto.
(1-00862)
«Porfidia, Iannaccone, Belcastro, Brugger».
(14 febbraio 2012)

La Camera,
premesso che:
l'Italia è impegnata da tempo in numerose operazioni militari, fuori area e non, di rilevante importanza strategica e complessità, mirate alla pacificazione di vaste aree geografiche;
le Forze armate, sui diversi scenari geopolitici, fronteggiano situazioni operative assai complesse, sia di tipologia tradizionale che asimmetrica;
sul territorio nazionale permane il rischio di azioni terroristiche, a cui si è aggiunto, negli ultimi anni, il cosiddetto rischio cibernetico, che potrebbe mettere a repentaglio l'intero tessuto delle infrastrutture critiche del Paese;
tale rischio, se non fossero previste adeguate risposte attuative, potrebbe manifestarsi nel corso di eventi di risonanza mondiale che l'Italia si troverà ad ospitare nei prossimi anni, il più prossimo quello dell'Expo 2015, che si terrà a Milano fra soli tre anni;
con la crescita qualitativa e quantitativa di tali minacce vanno adeguatamente protetti cittadini, le Forze armate tutte e le infrastrutture del Paese;
le Forze armate e le forze di polizia del Paese necessitano, per la corretta effettuazione dei compiti loro assegnati, di mezzi e materiali per combattere la minaccia con cui debbono confrontarsi;
la consistente riduzione delle spese del Ministero della difesa, nel prossimo futuro, potrebbe avere conseguenze sull'operatività delle Forze armate e sulla capacità di dotarsi di consoni mezzi di protezione;
in tal guisa, è prioritario mantenere adeguati livelli di spesa, sia di investimento che di esercizio, per garantire operatività e sicurezza delle Forze armate stesse;
in tale contesto, potrebbero essere favorite aziende estere che beneficiano di una politica industriale nazionale e di un sostegno a loro favorevole per esportare in Italia;
in alcuni ben identificati casi è necessario, per ragioni di sicurezza nazionale, il pieno e costante controllo di mezzi ed informazioni utilizzati da parte delle Forze armate italiane, tale cioè da non dipendere in alcun modo da vincoli esterni di qualsiasi genere essi siano;
il Paese possiede un'industria del settore riconosciuta ed apprezzata nel mondo per la sua competitività e livello tecnologico;
per mantenere competitività e presenza sul mercato è necessario perseguire nel tempo l'eccellenza progettuale e realizzativa, investendo con continuità risorse finanziarie ed umane, coerenti con la qualità e le prestazioni dei manufatti realizzati;
l'Europa della difesa, come sancito dal trattato di Lisbona, è sì un obiettivo strategico cui tendere, ma ancora necessita di un lungo e complesso periodo di rodaggio. Cionondimeno è prioritario che il sistema Italia possa giocare al meglio le sue competenze e la sua storia in questo settore così strategico per il futuro dell'Europa stessa;
le positive esperienze dei programmi multinazionali europei, in grado di generare importanti effetti sinergici in quanto ad operatività, economie di scala, diminuzione dei rischi correlati alla realizzazione di manufatti di alta tecnologia e comuni politiche di difesa ed industriali sono, di fatto, ferme agli anni '90, con poche, puntuali, eccezioni;
le recenti iniziative dell'Agenzia europea della difesa, in termini di condivisione e messa a fattor comune di mezzi, attività, servizi, tecnologie, stanno cominciando solo ora a generare proposte attuative;
solo in una dimensione veramente europea, il sistema Italia potrà avere un futuro e con esso l'industria italiana del settore, con i tecnici, i lavoratori, i giovani che in essa vi lavorano e vi lavoreranno;
lo sviluppo di tale settore, uno dei pochi ad alta tecnologia che vede ancora il Paese protagonista, permette, in alcuni casi, un comune uso di competenze e tecnologie, sia in ambito civile che militare;
tali competenze e realizzazioni hanno generato nel tempo ritorni economici ben superiori agli investimenti allocati, sotto forma di vendite estere e di pagamento di imposte dirette ed indirette, e, proprio per tali ragioni, in una situazione economico-finanziaria di grave sofferenza, vanno previste misure governative che stimolino la ripartenza ed il rafforzamento del posizionamento competitivo,

impegna il Governo:

ad adottare specifiche iniziative affinché:
a) nel nuovo piano in elaborazione presso il Ministero della difesa e relativo all'assegnazione delle risorse fino alla fine della legislatura si trovino adeguate risposte alle istanze sopra evidenziate, anche prevedendo un significativo incremento delle risorse già allocate;
b) sia lanciata un'articolata iniziativa italiana, atta a promuovere il varo di nuovi programmi realizzativi europei, per favorire la nascita di quell'Europa della difesa, già prevista nel trattato di Lisbona, ma ad oggi attuata in modo marginale;
c) siano oggetto di verifica quei programmi di acquisto che vedano pagamenti e/o risorse finanziarie veicolate verso l'estero, senza adeguato ritorno industriale;
d) qualsiasi nuovo programma di acquisizione e/o sviluppo, strategico per il Paese, veda il prioritario coinvolgimento dell'industria e dei lavoratori italiani, specie in quelle tecnologie e/o applicazioni dove è più alto il livello di sicurezza che il sistema Paese deve poter ottenere;
e) siano progettati o rifinanziati strumenti operativi di rapido rilascio per accrescere competenze e tecnologie, mirate, da un lato, ad aumentare l'utilizzo di prodotti e sistemi italiani da parte delle Forze armate e, dall'altro, a favorire la competitività dell'impresa nazionale sui segmenti a maggiore valore aggiunto e a maggior tasso di sviluppo, tenuto conto che in tale contesto la messa a fattor comune di risorse già allocate per l'innovazione tecnologica nei diversi ministeri potrebbe ottimizzare nei tempi e nei modi quanto evidenziato.
(1-00907)
«Moffa, Guzzanti, Calearo Ciman, Catone, Cesario, D'Anna, Grassano, Gianni, Lehner, Marmo, Milo, Mottola, Orsini, Pionati, Pisacane, Polidori, Razzi, Romano, Ruvolo, Scilipoti, Siliquini, Stasi, Taddei».
(9 marzo 2012)

La Camera,
premesso che:
la condizione delle finanze pubbliche del nostro Paese è oggetto di preoccupazioni per le pressioni esercitate dai mercati sui titoli del debito italiano;
tale situazione implica un intervento volto ad accogliere misure straordinarie, al fine di consolidare la fiducia dei mercati e delle maggiori istituzioni internazionali nei confronti dell'Italia;
il settore della difesa è il settore sul quale è possibile incidere, in quanto sono necessarie una razionalizzazione degli investimenti e una riduzione degli eventuali sprechi, che consentano di salvaguardare la futura operatività dello strumento militare, senza escludere quindi investimenti, secondo le possibilità del Paese, nelle Forze armate, garantendo in questo modo lo sviluppo tecnologico e un sensibile incremento italiano;
le spese di funzionamento che garantiscono il mantenimento nel tempo di capacità operative essenziali per lo strumento militare, come l'addestramento del personale e la manutenzione dei mezzi, devono essere salvaguardate;
l'adesione al programma Joint Strike Fighter si ritiene necessaria, in quanto ad uno strumento militare serio non può mancare la componente aerea, senza trascurare il fatto che la dotazione attuale va ammodernata e la scelta dell'F35 viene ritenuta tecnologicamente, operativamente e industrialmente valida;
il numero degli effettivi alle armi va dimensionato e collegato alle possibilità di spesa del nostro Paese;
il più consistente intervento militare oltremare mai intrapreso dall'Italia è quello in Afghanistan, dove è impegnato un contingente militare di circa 4 mila uomini;
le eventuali storture che emergeranno vanno eliminate attraverso una politica militare italiana basata, soprattutto, sulla preferenza al merito rispetto all'anzianità,

impegna il Governo:

a valutare la possibilità di:
a) contenere l'ampiezza delle prossime campagne di arruolamento e predisporre la mobilità verso amministrazioni che risultino carenti di personale con profili compatibili, in modo tale da avvicinare progressivamente gli organici delle Forze armate italiane a quote ritenute corrispondenti alla situazione economica del Paese;
b) prevedere la partecipazione nazionale a tutti i più importanti programmi multinazionali di progettazione, sviluppo e produzione di mezzi strumentali, suscettibili di avere ripercussioni occupazionali e sviluppi scientifici e tecnologici nel nostro Paese, oltre che nell'operatività dello strumento militare italiano;
c) confermare la riduzione della commessa per la produzione e l'acquisto dei cacciabombardieri, secondo quanto annunciato dal Ministro della difesa, e cioè procedere all'acquisto di 90 F-35 in luogo dei 131 inizialmente previsti dal programma.
(1-00908)
«Misiti, Fallica, Grimaldi, Iapicca, Miccichè, Pugliese, Soglia, Stagno d'Alcontres, Terranova, Mario Pepe (Misto-R-A)».
(9 marzo 2012)

La Camera,
premesso che:
il quadro geopolitico che orienta le scelte del nostro Paese dal punto di vista della sicurezza nazionale ed internazionale si è caratterizzato negli ultimi anni per i profondi cambiamenti intervenuti, riassumibili nell'emergere di nuovi soggetti in grado di mutare gli equilibri politici ed economici precedenti e nelle grandi difficoltà finanziarie ed economiche che stanno attraversando il mondo occidentale;
sulla base di questi fattori si rende necessario rivedere dimensioni, quantità e qualità del nostro strumento militare, tenendo conto delle risorse finanziarie disponibili e mettendo in relazione gli aspetti prettamente militari con quelli di politica internazionale, di politica economica, sociale e di carattere industriale;
la difficile congiuntura economica internazionale e lo stato critico dei conti pubblici italiani impongono serie politiche di rigore e di riqualificazione in ogni settore dello Stato e, quindi, anche per la quota di risorse destinata alla funzione della difesa;
tali risorse sono andate riducendosi in misura consistente nel corso degli ultimi anni, in ragione dei tagli lineari imposti al settore, mettendo a dura prova la sostenibilità dell'attuale modello organizzativo delle Forze armate, come lo stesso Ministro della difesa, in occasione della presentazione delle linee di indirizzo programmatico del suo ministero, ha apertamente dichiarato;
si è, quindi, di fronte alla necessità di pervenire ad una ridefinizione degli obiettivi e degli strumenti in materia di sicurezza e di difesa nazionale. Necessità rappresentata al Consiglio supremo di difesa, presieduto da Giorgio Napolitano, nella seduta dell'8 febbraio 2012 e in quella sede approfondita, nel pieno rispetto del carattere consultivo del Consiglio stesso;
si tratta, quindi, di avviare in Parlamento una seria discussione sui compiti che sono chiamate ad assolvere le nostre Forze armate e su quale possa essere lo strumento militare più adeguato per assicurare i livelli di operatività che Governo e Parlamento dovranno definire insieme, attraverso una puntuale corrispondenza tra obiettivi e risorse;
il quadro di riorganizzazione delle nostre Forze armate delineato dal Ministro della difesa presenta molte difficoltà e altrettanti aspetti al momento tutt'altro che risolti, a partire dalle modalità con cui affrontare una così impegnativa riduzione di personale senza venir meno al dovere di riconoscergli la professionalità, la dedizione e l'impegno con cui ha fin qui adempiuto ai compiti che è stato chiamato a svolgere, considerando, al di là degli eventuali risparmi di spesa, il costo sociale derivante da una così ampia riduzione dei reclutamenti e gli effetti che può determinare in una fase di recessione;
per quanto riguarda il settore degli investimenti sui sistemi d'arma, assume rilevanza il programma Joint Strike Fighter che, aldilà della sua connotazione tecnologicamente avanzata, deve comunque superare ancora alcune criticità funzionali, nonché quelle relative ai costi, che non risultano ancora definiti, e alle ricadute economiche per le nostre imprese del settore;
negli stessi Stati Uniti, per effetto delle misure di riduzione delle spese militari che non hanno risparmiato questo programma, sono stati ridimensionati gli ordinativi da parte delle Forze armate statunitensi, che risultano nel triennio fortemente ridotti. Inoltre, il Dipartimento della difesa degli Usa ha posto una riserva per un'ulteriore riduzione del numero dei velivoli, da sciogliere soltanto dopo il 2017;
anche il Governo italiano, prima ancora di assumere decisioni vincolanti, ha, molto opportunamente, annunciato, per ragioni di compatibilità economica, una riduzione di 40 velivoli rispetto alle ipotesi di previsione iniziale, in coerenza con il più ampio disegno di revisione dello strumento militare;
per l'assolvimento dei compiti di difesa e di partecipazione alle missioni internazionali, a fronte delle esigenze operative prevedibili per i prossimi 30-40 anni, sono stati individuati l'Eurofighter thypoon (Efa) e il Joint Strike Fighter;
la realizzazione dell'Eurofighter thypoon è affidata a un consorzio europeo, nel quale il ruolo significativo delle nostre industrie interessate consente la piena sovranità operativa sul velivolo e consistenti ritorni occupazionali ed economici, che non possono essere ignorati dal committente pubblico nazionale più importante nel settore militare,

impegna il Governo:

ad affrontare le questioni indicate in premessa, che riguardano funzioni fondamentali per il nostro Paese, attraverso un percorso da sviluppare in maniera del tutto trasparente in sede parlamentare;
a rendere, preliminarmente, noto in Parlamento il piano degli investimenti che il Governo intende sostenere nel breve-medio termine, alla luce delle disponibilità finanziarie a legislazione vigente, così come risulta dagli interventi di contenimento della spesa pubblica;
a mantenere aperta e costante nel tempo una valutazione trasparente sull'opportunità di ulteriori riduzioni della partecipazione italiana al programma Joint Strike Fighter, considerando anche le modalità adottate dall'amministrazione Usa di non confermare un numero definitivo di velivoli da ordinare fino al 2017, in modo da poter valutare, attraverso un confronto parlamentare, sia le reali esigenze del nostro strumento militare, sia lo stato di avanzamento della risoluzione delle criticità tecniche del programma ed il conseguente impegno degli altri partner internazionali, sia le condizioni economico-finanziarie internazionali, con particolare riguardo alla situazione di bilancio del nostro Paese;
ad adottare tutte le iniziative necessarie per superare le difficoltà connesse alla realizzazione di una difesa comune europea, che tenga conto anche degli aspetti correlati allo sviluppo dell'industria europea della difesa;
ad individuare forme di collaborazione o di integrabilità dello strumento militare con altri Paesi alleati;
a dare impulso a tutte le possibili iniziative utili a realizzare la progressiva integrazione multinazionale delle Forze armate nell'ambito della politica di sicurezza e difesa comune (psdc) europea, considerandola un passaggio ormai ineludibile nel processo di riorganizzazione e di potenziamento delle capacità di intervento del nostro strumento militare;
a sostenere, con attiva partecipazione, lo sforzo internazionale per il disarmo, in primo luogo quello nucleare, la non proliferazione nucleare e il sostegno a misure di cooperazione e di fiducia anche nei settori convenzionali.
(1-00909)
«Rugghia, Garofani, Giacomelli, Gianni Farina, Fioroni, La Forgia, Laganà Fortugno, Letta, Migliavacca, Mogherini Rebesani, Recchia, Rosato, Rigoni, Villecco Calipari, Tempestini, Vico, Lulli, Rampi».
(9 marzo 2012)

La Camera,
premesso che:
il quadro geopolitico mondiale è caratterizzato da un profondo mutamento dei consolidati equilibri e da difficoltà finanziarie ed economiche che limitano fortemente gli spazi di manovra della spesa pubblica;
il nostro Paese, nel più ampio rispetto degli impegni internazionali e compatibilmente con le risorse disponibili, sta provvedendo a rendere il proprio strumento militare pienamente interoperabile ed integrabile con quello degli alleati;
tale processo è focalizzato sulle crescenti necessità delle Forze armate italiane di operare in sicurezza e sulla ricaduta in termini di potenziale tecnologico, industriale ed occupazionale;
il Ministro della difesa, nel corso delle audizioni presso le Commissioni difesa del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati del 15 e 29 febbraio 2012, ha preannunciato, in ragione delle risorse disponibili, l'intendimento di ridimensionare il programma dei sistemi d'arma e, in particolare, di quello denominato Joint Strike Fighter (JSF), ritenendo possibile diminuire di 41 unità, rispetto alle 131 inizialmente previste, l'ordinativo dei velivoli stessi, pur mantenendo in essere l'acquisizione di circa 90 Eurofighter, il cui acquisto è già stato approvato, e che sono il frutto del lavoro di un consorzio di imprese europee (Regno Unito, Italia, Germania e Spagna),

impegna il Governo:

a presentare in Parlamento il piano di investimenti che intende sostenere, con una prospettiva di medio-lungo termine, tenendo conto delle disponibilità finanziarie a legislazione vigente;
a riconsiderare, così come stanno facendo gli altri Paesi coinvolti nel progetto Joint Strike Fighter, in primis gli Stati Uniti, il numero effettivo di velivoli da ordinare, subordinando le decisioni alle esigenze operative, allo stato di avanzamento del progetto stesso ed ai costi ad esso collegati.
(1-00920)
«Cicu, Baldelli, Ascierto, Barba, Cannella, De Angelis, Gregorio Fontana, Holzmann, Mazzoni, Moles, Petrenga, Luciano Rossi, Sammarco, Speciale, Antonio Martino».
(12 marzo 2012)
(Mozione non iscritta all'ordine del giorno ma vertente su materia analoga)

MOZIONI MONTAGNOLI ED ALTRI N. 1-00896, LOMBARDO ED ALTRI N. 1-00901, FLUVI ED ALTRI N. 1-00910, MISITI ED ALTRI N. 1-00911, CROSETTO ED ALTRI N. 1-00913 E BORGHESI ED ALTRI N. 1-00916 CONCERNENTI MISURE A FAVORE DELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE IN MATERIA DI ACCESSO AL CREDITO E PER LA TEMPESTIVITÀ DEI PAGAMENTI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

Mozioni

La Camera,
premesso che:
il sistema delle piccole e medie imprese costituisce il motore dell'intera economia italiana, costituendo il 99 per cento del sistema imprenditoriale, impiegando circa l'80 per cento degli addetti totali e generando quasi il 72 per cento del valore aggiunto complessivo;
è in corso un drammatico fenomeno di restrizione del credito per tutte le imprese, aggravato dal fatto che quel poco credito erogato ha raggiunto costi altissimi, soprattutto per le piccole e medie imprese; secondo recenti dati forniti di Banca d'Italia, il tasso di crescita su base annua del credito al sistema industriale è in forte rallentamento: a maggio 2011 era del 6,1 per cento, a ottobre 2011 del 5,8 per cento, a novembre 2011 del 4,9 per cento, mentre a dicembre 2011 del 3,1 per cento; ma il dato più preoccupante è che, mentre fino a novembre 2011 lo stock di credito erogato alle imprese non finanziarie era comunque aumentato, se pur ad un tasso decrescente, a dicembre 2011, in termini assoluti, ha mostrato una contrazione di circa 20 miliardi di euro;
purtroppo, il credit crunch ha radici ormai lontane: è dal 2008, infatti, data nella quale la crisi si è manifestata in tutta la sua drammaticità, che le imprese devono affrontare il tema della restrizione del credito, in una prima fase a causa «soltanto» della crisi del sistema finanziario e bancario, in un seconda fase a causa anche del rallentamento dell'economia reale;
dall'autunno 2011 la crisi dei debiti sovrani ha ulteriormente penalizzato il sistema bancario, indebolendone la capacità di raccolta e la posizione finanziaria, e gli interventi delle autorità bancarie europee hanno definitivamente messo in ginocchio tutto il sistema, rendendo difficile ottenere prestiti dalle banche, ad un prezzo, oltretutto, altissimo: lo spread sull'euribor a tre mesi pagato dalle imprese nel 2007 era pari allo 0,6 per cento, mentre a fine 2011 ha raggiunto il 2,75 per cento; addirittura, le piccole e medie imprese pagano un differenziale pari a 3,6 punti; il costo complessivo delle nuove operazioni può, quindi, raggiungere il 3,8 per cento per le grandi e il 5 per cento per le piccole imprese;
la restrizione del credito al sistema produttivo comporta, quindi, l'aumento dei margini di interesse, la richiesta di sempre maggiori garanzie reali da parte delle banche, l'accorciamento della durata dei finanziamenti;
la genesi della pesante crisi economico-finanziaria aveva aperto la discussione sulla patrimonializzazione degli istituti di credito e sugli eccessivi livelli di rischio che questi ultimi assumono; il crac di Lehman brothers di quattro anni fa ha fatto drammaticamente emergere l'abuso della leva finanziaria da parte degli istituti di credito e il problema della qualità degli strumenti finanziari detenuti dalle banche stesse;
il Comitato dei governatori delle banche centrali europee ha riscritto l'accordo cosiddetto Basilea 2 per arrivare al «Basilea 3», che mira a rafforzare il patrimonio delle banche, al fine di dare stabilità al sistema finanziario per scongiurare il pericolo di nuove catastrofi finanziarie; il prezzo da pagare, però, è un ulteriore rallentamento dell'economia: già il comitato di Basilea ed il Fondo monetario internazionale avevano stimato che ad ogni punto in più di capitale richiesto corrisponde una riduzione media del prodotto interno lordo pari allo 0,04 per cento;
successivamente agli accordi di «Basilea 3», l'Eba-European banking authority, nell'autunno 2011, ha imposto requisiti patrimoniali più stringenti per le banche, accrescendone le difficoltà e accelerando il processo di riduzione del proprio indebitamento a seguito della necessità di una forte ricapitalizzazione; l'effetto è stato generalizzato in tutta l'Unione europea, ma in Italia lo è stato ancora di più a causa dell'introduzione dei nuovi criteri per il calcolo dei requisiti patrimoniali che prevedono la valutazione a prezzi di mercato dei titoli del debito pubblico, superando le disposizioni precedenti che prevedevano la contabilizzazione dei titoli iscritti nel portafoglio bancario al valore di acquisto; il risultato è una pesante crisi di fiducia verso le banche e una forte crisi di liquidità che sta penalizzando, in particolare, le piccole e medie imprese;
per le piccole e medie imprese il credito bancario rappresenta la principale fonte di finanziamento e Prometeia stima che siano 25.000 le piccole e medie imprese a rischio chiusura proprio per le difficoltà a reperire finanziamenti bancari e per la congiuntura economica negativa;
la revisione dei requisiti patrimoniali di «Basilea 3» ed Eba sta portando ad un aumento del capitale di vigilanza delle banche pari al 31,25 per cento, con una distribuzione su tutti le posizioni attive bancarie e, quindi, anche sui portafogli crediti erogati alle piccole e medie imprese; secondo Confindustria, però, i portafogli crediti delle piccole e medie imprese risultano sicuramente meno rischiosi rispetto a quelli delle grandi imprese, grazie alla minore correlazione, dimostrata da analisi empiriche, tra gli attivi delle piccole e medie imprese e l'andamento economico generale; sarebbe, perciò, opportuno introdurre meccanismi correttivi, tali da permettere un trattamento prudenziale da parte delle banche meno stringente per le piccole e medie imprese; tali correttivi consentirebbero alle banche di accantonare meno capitale a fronte dei crediti erogati alle piccole e medie imprese in modo da recuperare liquidità, limitando gli effetti restrittivi nell'erogazione del credito alle piccole e medie imprese stesse; la proposta di Confindustria, condivisa dalle altre organizzazioni imprenditoriali europee, ha portato la Commissione europea ed Eba a prendere in considerazione l'introduzione di alcuni meccanismi correttivi, impegnandosi a monitorare gli effetti dell'applicazione dell'accordo di «Basilea 3» sulle piccole e medie imprese;
in questa fase economica, al fine di limitare la prociclicità di «Basilea 3», è necessario vigilare sul livello di credito erogato alle imprese, intervenendo a livello europeo per armonizzare i criteri ed i modelli di valutazione dei rischi, oggi molto diversi tra loro; tali differenze provocano distorsioni della concorrenza tra banche di diversi Paesi e rischiano di vanificare il raggiungimento dell'obiettivo della stabilità del sistema finanziario e, conseguentemente, del sistema industriale; tali criteri penalizzano decisamente gli istituti di credito italiani più concentrati sulle attività tradizionali, che, però, a livello europeo vengono considerate ad alto assorbimento di capitale;
in Italia, poi, il tema della corretta valutazione del merito del credito verso le imprese ha assunto assoluta importanza; si assiste ad una valutazione sempre più rigida del rating aziendale a scapito della valutazione degli elementi più qualitativi che possono qualificare in positivo l'attività imprenditoriale: affidabilità del management, contratti, organizzazione aziendale sono alcuni degli elementi che le nostre banche potrebbero considerare nell'analisi complessiva dell'affidabilità aziendale;
non secondario è il tema dei ritardi nei pagamenti delle pubbliche amministrazioni: attanagliati dalle morse del patto di stabilità, i tempi dei pagamenti delle forniture degli enti locali, delle aziende sanitarie, delle aziende ospedaliere si sono allungati all'inverosimile, appesantendo la posizione finanziaria delle piccole e medie imprese; molte sono le imprese che lavorano quasi esclusivamente per il settore pubblico e se fino a quindici anni fa lavorare per il pubblico era per un'azienda garanzia di affidabilità e solvibilità, oggi è sinonimo di difficoltà finanziaria e di alta esposizione bancaria; una delle proposte della Lega Nord è quella di favorire la compensazione tra debiti e crediti tra le piccole e medie imprese e pubblica amministrazione, includendo non solo quelli commerciali, ma anche e soprattutto quelli tributari; la crisi sta evidenziando molte situazioni nelle quali l'imprenditore non riesce a pagare le imposte, pur avendo presentato nei tempi e nei modi previsti le dichiarazioni fiscali; la compensazione di questi debiti costituirebbe sicuramente una boccata di ossigeno per tutte le piccole e medie imprese; l'alternativa sarebbe quella di garantire una rateazione del debito tributario più lunga e flessibile ad un costo ragionevole per il debitore, in modo da contemperare le esigenze dell'erario con quelle dell'imprenditore;
è ormai indispensabile un decisivo intervento dello Stato nei confronti del sistema bancario italiano che sappia limitare il fenomeno del credit crunch, introducendo innovativi sistemi di garanzia degli affidamenti o, addirittura, incentivi fiscali per le banche che sappiano mettere a disposizione delle piccole e medie imprese in tempi certi e rapidi linee di credito agevolato,

impegna il Governo:

ad intervenire a livello europeo chiedendo l'attuazione rapida dei correttivi chiesti dalle organizzazioni imprenditoriali alla regolamentazione relativa ai requisiti prudenziali per le banche, al fine di riservare un trattamento meno stringente per le piccole e medie imprese, che possa consentire alle banche di recuperare liquidità da utilizzare per erogare crediti alle piccole e medie imprese stesse;
ad intervenire a livello europeo per rendere omogenei i criteri e le metodologie per ponderare i rischi degli attivi bancari, in modo da garantire effettiva concorrenza tra le banche dei differenti Paesi e da non penalizzare l'attività delle banche italiane, sicuramente meno rischiosa, ma considerata ad alto assorbimento di capitale;
ad intervenire rapidamente, nell'ambito delle proprie competenze, per ridurre significativamente i tempi dei pagamenti dello Stato, degli enti locali e delle aziende pubbliche, posto che gli attuali tempi, dettati dai vincoli di bilancio europei, non sono più sostenibili per le piccole e medie imprese e, soprattutto, per le piccole e medie imprese che lavorano quasi esclusivamente per il settore pubblico, favorendo linee di credito a basso costo per quelle imprese che vantano crediti verso la pubblica amministrazione garantiti direttamente dallo Stato con l'emissione di titoli di Stato o con le proprie riserve auree ciò sino all'effettivo incasso delle somme stesse, permettendo così ai piccoli e medi imprenditori di poter continuare a sviluppare la propria attività e a pagare lo stipendio dei propri dipendenti, favorendo così un circolo virtuoso nell'economia;
ad assumere iniziative normative per prevedere degli sgravi fiscali per quegli istituti di credito che si impegnino a garantire linee di credito agevolato alle imprese di piccole dimensioni in tempi rapidi;
ad aiutare le piccole e medie imprese nell'assolvimento dei propri debiti tributari e contributivi, introducendo rateazioni più lunghe e più flessibili;
ad aiutare il sistema creditizio, tramite il rafforzamento dei sistemi di garanzia, e a cambiare l'approccio troppo prudente verso le piccole e medie imprese, considerato che l'eccessiva prudenza nell'erogazione del credito rischia di impedire alle imprese di continuare ad operare, con conseguenze drammatiche per l'intero sistema economico.
(1-00896)
«Montagnoli, Dozzo, Fugatti, Forcolin, Comaroli, Fogliato, Lussana, Fedriga, Alessandri, Allasia, Bitonci, Bonino, Bragantini, Buonanno, Callegari, Caparini, Cavallotto, Chiappori, Consiglio, Crosio, D'Amico, Dal Lago, Desiderati, Di Vizia, Dussin, Fabi, Fava, Follegot, Gidoni, Giancarlo Giorgetti, Goisis, Grimoldi, Isidori, Lanzarin, Maggioni, Maroni, Martini, Meroni, Molgora, Laura Molteni, Nicola Molteni, Munerato, Negro, Paolini, Pastore, Pini, Polledri, Rainieri, Reguzzoni, Rivolta, Rondini, Simonetti, Stefani, Stucchi, Togni, Torazzi, Vanalli, Volpi».
(28 febbraio 2012)

La Camera,
premesso che:
le piccole e medie imprese, pur costituendo la spina dorsale dell'economia italiana, rappresentando il 98 per cento del totale delle aziende italiane e dando lavoro al 74,8 per cento del totale degli addetti, stanno vivendo un momento estremamente difficile, strette da una parte dal cosiddetto credit crunch e dall'altra dalla mancata riscossione dei crediti vantati nei confronti della pubblica amministrazione;
i problemi connessi alla crisi dei debiti sovrani e gli interventi regolamentari, che hanno imposto alle banche di procedere ad ingenti ricapitalizzazioni, contribuiscono notevolmente all'acutizzarsi delle difficoltà nell'accesso al credito;
i più alti requisiti di capitale imposti dall'accordo cosiddetto Basilea 3 e dall'Eba-European banking authority non stanno diffondendo quella fiducia che era nelle intenzioni dei proponenti. Al contrario, accrescono le difficoltà delle banche che hanno avviato un processo di riduzione dell'indebitamento. A tal proposito, interessanti appaiono quelle proposte avanzate nei mesi scorsi dall'Abi in ordine all'introduzione di specifici coefficienti (quali il Pmi supporting factor da applicare all'ammontare destinato a riserva secondo i parametri di «Basilea 3») per fare in modo che le difficoltà degli istituti bancari nel fronteggiare i più rigidi requisiti patrimoniali richiesti, non abbiano effetti restrittivi ulteriori nell'erogazione del credito alle piccole e medie imprese;
sono auspicabili misure dirette ad una maggiore elasticità nella concessione di finanziamenti nel breve periodo, attraverso un ampliamento del sistema di garanzia pubblico, tramite il rafforzamento del fondo di garanzia e di altri strumenti quali il fondo italiano d'investimento;
la crescita vertiginosa dello spread nei mesi passati ha appesantito la stretta creditizia di 1,5 per cento negli ultimi tre mesi e del 2,2 per cento nel solo mese di dicembre 2011. Il sistema produttivo è stato gravato da un costo aggiuntivo nei tassi d'interesse di 3,7 miliardi di euro, mentre le insolvenze hanno superato gli 80 miliardi di euro (più 36 per cento rispetto al 2010);
il credit crunch, quella condizione di calo significativo o di inasprimento improvviso delle condizioni dell'offerta di credito da parte del sistema bancario, produce un avvitamento finanziario che danneggia la fisiologia interna delle piccole e medie imprese, poiché ne mina la residua base patrimoniale;
d'altra parte il nostro sistema bancario non concede anticipazioni o apre linee di credito allo scopo di finanziare progetti, ma si muove nella logica esclusiva delle garanzie. È evidente allora che le difficoltà di accesso al credito, già in essere per le piccole e medie imprese italiane, legate a questo modus operandi delle banche e alla minore capacità delle imprese più piccole di fornire solide garanzie, si accentueranno a tal punto che si paventa il rischio concreto di una paralisi degli investimenti, del sistema produttivo e, quindi, dell'economia tutta;
la crisi economica ha fatto diminuire del 30 per cento il fatturato delle piccole aziende, inducendo gli istituti di credito a chiedere loro un piano di rientro dai fidi in tempi ristrettissimi;
è pari al 43,3 per cento il numero di piccole e medie imprese con meno di venti dipendenti che negli ultimi tre mesi ha avuto problemi di accesso a un finanziamento bancario e, nella maggioranza dei casi, per il 57,1 per cento la richiesta di credito serve a colmare una carenza di liquidità;
recentemente il Governo si è fatto promotore di una moratoria di 12 mesi sui prestiti bancari alle piccole e medie imprese in bonis, cioè senza debiti in sofferenza, incagliati, ristrutturati o esposizioni scadute da oltre 90 giorni, con lo scopo di assicurare loro liquidità e traghettarle oltre la crisi economica. Ne potranno beneficiare le imprese con meno di 250 dipendenti, fatturato inferiore a 50 milioni di euro, oppure con un attivo di bilancio fino a 43 milioni;
presso il Ministero dello sviluppo economico è istituito il fondo centrale di garanzia che ha lo scopo di favorire l'accesso al credito delle piccole e medie imprese, attraverso il rilascio di una garanzia pubblica sui finanziamenti erogati dalle banche. Grazie alle risorse disponibili nel fondo, infatti, lo Stato si fa garante del rimborso del prestito da parte dell'impresa, consentendo così una più facile erogazione del finanziamento, il cui plafond complessivo è stato progressivamente incrementato e portato, nel 2009, a circa 2 miliardi di euro, ancora insufficienti e disponibili soltanto fino a tutto il 2012;
per quanto riguarda l'altro elemento di difficoltà, considerato una tra le piaghe peggiori che gravano sul sistema produttivo italiano, relativo ai ritardi di pagamento dalla pubblica amministrazione, che ha portato quest'ultima a contrarre circa 70 miliardi di euro di debiti nei confronti delle aziende private, provocando il fallimento di una su tre di esse, i dati numerici divulgati dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture hanno restituito un'immagine preoccupante: i tempi di pagamento oscillano in un range compreso tra un minimo di 92 giorni ed un massimo di 664 giorni. L'entità dei ritardi mediamente accumulati è circa doppia rispetto a quanto si registra nel resto dell'Unione europea: mediamente 128 giorni contro i 65 che si computano a livello europeo;
la complessità dell'organizzazione delle procedure amministrative e dei criteri per il trasferimento dei fondi tra le varie strutture burocratiche (tra questi i vincoli del patto di stabilità) e l'ampio potere di mercato della pubblica amministrazione sono fattori determinanti che contribuiscono all'allungamento delle tempistiche di pagamento. La principale conseguenza di questi ritardi è la mancanza di liquidità nelle casse delle imprese fornitrici. Ne consegue, anzitutto, la difficoltà nell'onorare i pagamenti ai propri fornitori e, in subordine, l'impossibilità di porre in essere gli investimenti necessari;
a tutto ciò si aggiunga che, inevitabilmente, non solo è limitata la capacità di queste aziende di prevenire il ritardo dei pagamenti in sede di contrattazione con le pubbliche amministrazioni, ma è ridotta anche la possibilità di ricorrere alla tutela giurisdizionale, in ragione dei costi economici e sociali che questa comporta;
il ritardo dei pagamenti della pubblica amministrazione, fenomeno che ha ormai raggiunto e superato i livelli di guardia, finisce, quindi, con il trasferire alle imprese fornitrici il problema di liquidità del settore pubblico;
nonostante sia in difetto, lo Stato non manca di chiedere alle imprese massima regolarità nel pagamento dei contributi previdenziali, la qual cosa per molte aziende risulta quasi impossibile a causa della mancanza di liquidità, aggravata proprio dal ritardo nei pagamenti da parte della pubblica amministrazione, e paradossalmente richiede, per ricevere il pagamento dei crediti accumulati con gli enti pubblici, la presentazione del durc (documento unico di regolarità contributiva);
con l'approvazione del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, è possibile compensare i crediti che le imprese vantano nei confronti della pubblica amministrazione, ma ciò vale solo per i debiti iscritti a ruolo e per i crediti non prescritti, certi, liquidi ed esigibili, e comunque con procedure molto complesse;
anche il decreto-legge sulle liberalizzazioni, appena approvato dal Senato della Repubblica, rappresenta un tiepido segnale di apertura del Governo al problema, prevedendo, all'articolo 35, lo sblocco di circa 6 miliardi di euro attraverso un incremento delle dotazioni dei fondi speciali (somma certo rilevante, ma ancora inadeguata rispetto ai 70 miliardi di euro di debiti), a cui va affiancato lo statuto delle imprese, che, all'articolo 10, anticipa la scadenza per il recepimento della direttiva europea 2011/7/UE sui ritardi di pagamento;
la suddetta direttiva europea rientra nello Small business act ed obbliga le pubbliche amministrazioni a pagare i fornitori entro 30 giorni e, in casi eccezionali, entro 60 giorni per forniture sanitarie e per imprese a capitale pubblico; superato tale termine, nelle transazioni commerciali, la pubblica amministrazione dovrà versare interessi di mora pari all'8 per cento maggiorati del tasso di riferimento della Banca centrale europea. Tra imprese private, la scadenza è fissata a 60 giorni a meno di diverse intese stipulate tra le parti e a condizione che non si tratti di patti bilaterali iniqui;
lo stesso anticipato recepimento della direttiva non risolverà comunque immediatamente il problema dell'enorme debito pregresso della pubblica amministrazione nei confronti delle piccole e medie imprese, in quanto è evidente che le pubbliche amministrazioni non sono in grado in un breve lasso di tempo di onorare i debiti già assunti;
nessuna ipotesi di uscita dalla recessione è immaginabile senza una tempestiva riattivazione di flussi di finanziamento verso le piccole e medie imprese, le sole che finora hanno sfidato la grave congiuntura economica senza alcun paracadute,

impegna il Governo:

ad assumere iniziative normative dirette ad introdurre nel nostro ordinamento un meccanismo di compensazione dei crediti vantati nei confronti di amministrazioni pubbliche dalle piccole e medie imprese con i propri debiti e relativi accessori dovuti nei confronti della pubblica amministrazione, tramite un rinvio dei pagamenti senza interessi da effettuare attraverso la semplice certificazione da parte di consulenti del lavoro;
ad assumere iniziative normative per incrementare, al fine di renderlo operativo per i prossimi anni, il fondo centrale di garanzia, la cui dotazione è insufficiente e disponibile soltanto fino a tutto il 2012.
(1-00901)
«Lombardo, Commercio, Lo Monte, Oliveri, Brugger».
(5 marzo 2012)

La Camera,
premesso che:
la crisi finanziaria che ha preso avvio nel 2007 sta generando impatti rilevanti sia sui mercati finanziari sia sull'economia reale: in particolare, l'Italia, oltre a subire pressioni sul mercato del debito sovrano, presenta un tasso di crescita potenziale troppo contenuto ed è entrata in una fase recessiva;
le cause di questa fase di forte instabilità sono riconducibili sia ad aspetti relativi all'economia reale sia a profili relativi all'economia finanziaria, a cui le autorità monetarie, di vigilanza e politiche hanno cercato di far fronte, nel corso dell'ultimo triennio, con un ampio spettro di normative;
in particolare, la normativa europea di recepimento dell'accordo di «Basilea 3» prevede un generalizzato inasprimento dei requisiti patrimoniali per le banche, che se, per un verso, è necessario per ripristinare la fiducia nella solvibilità delle banche, rischia, tuttavia, di tradursi in maggiori costi e difficoltà di accesso al credito per il sistema produttivo, in particolare per le piccole e medie imprese;
sebbene la piena applicazione dei nuovi requisiti entrerà a regime solo nel 2019, l'annuncio delle nuove regole ha generato pressioni da parte degli investitori e delle controparti affinché le banche si adeguino prima dei tempi previsti, accumulando riserve di capitale e di liquidità nonostante l'attuale difficile situazione di mercato e del sistema produttivo;
il 9 dicembre 2011 l'Autorità bancaria europea (Eba) ha adottato una raccomandazione che prevede la creazione, in via eccezionale e temporanea, entro la fine di giugno 2012, di una riserva supplementare di fondi propri da parte delle banche;
l'8 dicembre 2011, la Banca centrale europea ha lanciato due rifinanziamenti straordinari (ltro, long term refinancing operation) della durata di 36 mesi a favore delle banche, allo scopo di garantire l'accesso alle liquidità agli istituti di credito: le due aste, che si sono tenute il 21 dicembre 2011 e il 29 febbraio 2012, hanno assegnato alle banche, rispettivamente, 489,19 miliardi di euro e 529,53 miliardi di euro a tasso fisso, con l'opzione di ripagare, in tutto o in parte, l'ammontare dopo un anno e successivamente secondo scadenze prefissate; secondo una nota diffusa dalla Banca d'Italia, le banche italiane hanno partecipato alla seconda operazione ltro per una quota pari a 139 miliardi di euro lordi, pari a circa 80 miliardi di euro al netto del riassorbimento di operazioni di scadenza più breve;
è stato il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi ad invitare gli istituti di credito ad approfittare dell'offerta, senza alcun timore di suscitare sospetto, per evitare il credit crunch in atto e riparare i bilanci e i mercati, abbreviando i tempi della ripresa;
anche il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, nel suo intervento al 18o congresso Assiom Forex del 18 febbraio 2012, ha affermato che: «a distanza di pochi anni le imprese si trovano nuovamente a fronteggiare un inasprimento delle condizioni creditizie; anche in questa occasione sarà essenziale la capacità delle banche di valutare attentamente il merito di credito, senza far mancare il sostegno finanziario ai clienti solvibili e meritevoli. Un adeguato e stabile volume di finanziamenti è essenziale per l'attività delle stesse banche»;
l'analisi annuale per la crescita 2012, presentata dalla Commissione europea il 23 novembre 2011 (COM(2011)815 def.), prevede espressamente, nell'ambito dell'obiettivo «ripristinare la normale erogazione di prestiti all'economia», l'esigenza di «garantire che le banche rafforzino i propri coefficienti patrimoniali consolidando le proprie posizioni patrimoniali e non limitando indebitamente l'erogazione di prestiti all'economia reale» e di «rivedere le norme prudenziali per evitare che penalizzino indebitamente l'erogazione di prestiti alle piccole e medie imprese»,

impegna il Governo:

ad assumere, per quanto di competenza, tutte le iniziative necessarie affinché la liquidità ottenuta dalle banche italiane nelle operazioni long term refinancing operation si traduca effettivamente in un sostegno all'economia reale e all'accesso al credito delle imprese e delle famiglie;
ad adoperarsi in sede europea affinché:
a) le nuove regole siano coerenti con l'attuale fase ciclica dell'economia europea e italiana, facendo sì che le nuove regole sui requisiti di capitale siano un fattore di stabilizzazione dei mercati di lungo periodo e non un freno per le banche nel sostegno alle imprese e alle famiglie, evitando che le proposte, le loro modalità di attuazione ed i relativi tempi determinino indesiderati effetti prociclici;
b) siano introdotti nella normativa europea di recepimento dell'accordo di «Basilea 3» accorgimenti regolamentari che incentivino, riducendone il costo, i prestiti in favore delle piccole e medie imprese, in particolare prevedendo misure che, di fatto, sterilizzino gli incrementi di capitale, a fronte dei prestiti erogati alle piccole e medie imprese, che si determinerebbero nel caso di applicazione indifferenziata delle nuove regole sul capitale;
c) si provveda a chiarire che, nei casi in cui un finanziamento è supportato dalla garanzia di un consorzio di garanzia collettiva fidi, il criterio di assorbimento patrimoniale relativo all'accantonamento richiesto al confidi non possa risultare superiore al risparmio di capitale ottenuto dalla banca in conseguenza dell'intervento del confidi stesso;
a proseguire nell'impegno, già assunto in sede di approvazione alla Camera dei deputati della risoluzione n. 6-00097, sottoscritta da esponenti di tutti i gruppi parlamentari, a far sì che l'attuazione delle misure che dovrebbero essere adottate dalle banche europee per colmare il deficit di capitale eventualmente emerso a seguito dell'esercizio dell'Autorità bancaria europea sia dilazionata nel tempo, in maniera da ridurne gli effetti prociclici e metterle in fase con la congiuntura economica.
(1-00910)
«Fluvi, Causi, Albini, Carella, D'Antoni, Fogliardi, Graziano, Marchignoli, Piccolo, Pizzetti, Sposetti, Strizzolo, Vaccaro, Verini».
(9 marzo 2012)

La Camera,
premesso che:
l'economia italiana è fondata su un sistema di piccole e medie imprese, che costituisce il fulcro del sistema imprenditoriale complessivo;
la crisi del 2007 ha ristretto il credito per le piccole e medie imprese con effetti negativi sul prodotto interno lordo;
la crisi dei debiti sovrani ha penalizzato il sistema bancario, indebolendone la capacità di raccolta del risparmio e la posizione finanziaria;
l'accordo «Basilea 3», varato dal Comitato dei governatori delle banche centrali dei Paesi europei, ha come primo obiettivo il rafforzamento del patrimonio bancario, al fine di dare stabilità al sistema ed evitare il rischio di una nuova crisi finanziaria, con conseguenze però penalizzanti per le grandi banche italiane, che hanno dovuto introdurre nuovi criteri per il calcolo dei requisiti patrimoniali basati sulla valutazione a prezzi di mercato dei titoli del debito pubblico;
tuttora il tasso di crescita annuo del credito al sistema industriale è in forte rallentamento, nonostante i provvedimenti della Banca centrale europea riguardanti gli acquisti di titoli e la concessione alle banche italiane di oltre 230 milioni di euro con tasso di interesse all'1 per cento;
il restringimento del credito ha pesanti ripercussioni sull'aumento dei margini di interesse, sulla richiesta di sempre maggiori garanzie reali da parte delle banche, nonché sulla riduzione della durata dei finanziamenti erogati;
il patto di stabilità, poiché incide anche sui tempi dei pagamenti delle forniture delle pubbliche amministrazioni alle imprese e soprattutto alle piccole e medie, va mantenuto attenuandone gli effetti attraverso la compensazione fra debiti e crediti, commerciali e tributari, tra le piccole e medie imprese e la pubblica amministrazione,

impegna il Governo:

a valutare la possibilità di intervenire, a livello europeo, al fine di ottenere:
a) l'unificazione dei criteri e delle metodologie per ponderare i rischi delle attività bancarie, per proteggere le banche italiane;
b) correttivi tendenti a mettere le banche in condizione di poter riservare un trattamento meno stringente per i crediti alle piccole e medie imprese;
c) una riduzione dei tempi, a livelli medi europei, di liquidazione dei crediti delle imprese verso lo Stato e le pubbliche amministrazioni.
(1-00911)
«Misiti, Iapicca, Miccichè, Fallica, Grimaldi, Mario Pepe (Misto-R-A), Pugliese, Soglia, Stagno d'Alcontres, Terranova».
(9 marzo 2012)

La Camera,
premesso che:
gli istituti bancari svolgono il ruolo di raccogliere fondi dai risparmiatori e trasferirli a imprese e privati che ne hanno bisogno per le proprie esigenze personali o aziendali. Oltre a concedere prestiti a imprese e famiglie, le banche svolgono anche attività finanziarie di varia natura: ad esempio, comprano titoli di aziende e Stati, concedono finanziamenti ad altri intermediari finanziari. Si tratta di un'attività fondamentale per l'economia moderna, senza la quale l'intero sistema economico attuale non potrebbe esistere. Un'attività quella del credito che mantiene la qualità fondamentale di servizio;
la principale legge italiana che regola il funzionamento dell'attività bancaria è il testo unico bancario, di cui al decreto legislativo 1o settembre 1993, n. 385, con tutte le successive modificazioni e integrazioni. Secondo questo testo unico, l'attività bancaria è definita come l'esercizio congiunto dell'attività di raccolta di risparmio tra il pubblico e dell'attività di concessione del credito (articolo 10). In Italia ci sono circa 800 banche, delle quali circa il 30 per cento ha la forma di società per azioni. Poco meno di 50 le banche popolari, più di 400 le banche «di credito cooperativo» e circa 80 le succursali delle banche estere;
il ruolo della banca è senza alcun dubbio cruciale per ogni economia avanzata, e non solo; la storia d'Europa e il suo sviluppo evidenziano in maniera esemplare come il ruolo del credito rappresenti uno dei pilastri fondamentali delle economie più sviluppate. Senza il ricorso al credito, aziende e persone dovrebbero occuparsi personalmente di trovare finanziatori per le proprie attività, con costi elevati e scarse probabilità di successo. Attraverso le banche, invece, possono accedere al risparmio di altri soggetti, reso disponibile attraverso il sistema bancario. Allo stesso modo, senza le banche i risparmiatori dovrebbero valutare da soli gli investimenti e verificare il regolare andamento dei pagamenti degli interessi e la restituzione del capitale prestato. In ragione di questa importanza, le leggi italiane, comunitarie e internazionali regolano l'attività bancaria con norme specifiche, diverse da quelle che riguardano gli altri intermediari finanziari;
la costituzione di un'impresa bancaria è sottoposta ad autorizzazioni da parte della Banca d'Italia, che svolge anche un importante ruolo di controllo durante l'attività bancaria;
nell'ultima indagine trimestrale, la Banca d'Italia, in oltre metà delle imprese, ha dichiarato di vedere un peggioramento della situazione economica nei prossimi mesi ed è quasi raddoppiata, al 28,6 per cento dal 15,2 per cento della precedente inchiesta, la quota delle imprese per le quali le condizioni di accesso al credito sono peggiorate;
le ragioni di queste difficoltà sono di due tipi. In primo luogo, c'è da parte delle banche un problema di liquidità, soprattutto per quanto riguarda gli impieghi a medio termine. L'instabilità dello scenario finanziario ha inaridito molti dei tradizionali canali di finanziamento, da quelli più semplici, come l'interbancario, a quelli più complessi, riferibili alle operazioni sovranazionali in valuta. Le banche si trovano così nell'esigenza di garantire la copertura delle operazioni correnti e devono ridurre gli spazi per i finanziamenti alle imprese;
in secondo luogo, c'è un problema di costi. Per le banche è sempre più oneroso aumentare la propria raccolta e ottenere capitali per il forte rialzo dei tassi di interesse sui titoli di Stato italiani. C'è in questo periodo una vera e propria rincorsa ad offrire condizioni sempre più appetibili a chi deposita i propri soldi in banca: un anno fa era già un successo spuntare un tasso dell'1 per cento sui depositi, mentre ora, con un vincolo di un anno, si supera tranquillamente quota 4 per cento. I risparmiatori sono avvantaggiati, ma chi chiede soldi in prestito deve accettare tassi decisamente più elevati;
per le piccole e medie imprese le prospettive rischiano, poi, di essere ancora più difficili, perché il sistema bancario continua ad essere fortemente impegnato verso i grandi gruppi, che non attraversano anch'essi un momento favorevole;
le imprese, quindi, hanno di fronte un credito difficile e più caro proprio in un momento come questo in cui sarebbero necessari forti investimenti per rinnovare gli impianti, accrescere la competitività, finanziare la ricerca;
anche il mercato immobiliare risente delle crisi; infatti, l'andamento del mercato del credito alle famiglie continuerà a essere comunque influenzato dal contesto economico internazionale e la richiesta di finanziamenti, attualmente in calo, è determinata anche dalle prospettive di sacrificio previste per gli italiani dalle recenti manovre e dall'impennata dei tassi per i prodotti di credito. Per i prossimi mesi, quindi, ci si attende ancora una contrazione dei mutui e quindi degli acquisti;
il ruolo delle banche negli ultimi trent'anni è profondamente mutato. Infatti, gli istituti bancari nel dopoguerra hanno svolto un ruolo cruciale per lo sviluppo economico del sistema capitalista, incentrato a quell'epoca sulla relazione virtuosa tra il settore bancario e le imprese che producono beni e servizi non-finanziari: le linee di credito concesse dalle banche a tali imprese - i cui obiettivi erano definiti con riferimento al medio-lungo periodo - permisero la produzione di valore aggiunto attraverso la remunerazione dei lavoratori delle imprese, i quali potevano disporre della loro capacità di acquisto sui mercati dei prodotti, al fine di avere un tenore di vita dignitoso senza dover ricorrere all'indebitamento personale;
la finanziarizzazione dell'economia, iniziata negli anni '80 del secolo scorso, ha trasformato i nostri sistemi economici radicalmente, marginalizzando poco alla volta il ruolo delle banche commerciali, inducendo queste ultime a diventare delle società finanziarie attive su scala globale e operanti a 360 gradi sui mercati finanziari (una sorta di «supermercati finanziari» alla ricerca del massimo profitto nel minor tempo possibile);
il 21 dicembre 2011 le banche europee hanno ottenuto circa 500 miliardi di euro di nuovi fondi, in occasione della prima asta di rifinanziamento organizzata dalla Banca centrale europea, in base alle nuove regole volute dalle autorità dell'Unione europea per combattere il credit crunch; di questi, gli istituti italiani hanno ricevuto 116 miliardi di euro al tasso dell'1 per cento;
la Banca centrale europea ha più volte dichiarato che tali risorse erano vincolate ad una precisa finalizzazione: dare credito all'economia reale in modo da permettere alle banche di avere più liquidità ad un costo basso da mettere a disposizione di imprese e famiglie;
le imprese e le famiglie italiane vedono sempre più ristretta la possibilità di accedere al credito; convenzioni e confidi vengono disdetti e gli interessi arrivano al 12 per cento;
appare evidente come il rilancio dello sviluppo del sistema sia collegato alla capacità effettiva di credito, che gli istituti bancari possono e dovrebbero concedere alle imprese, in particolare alle piccole e medie imprese; senza il rafforzamento delle linee di credito appare estremamente complicato ipotizzare che si possa davvero procedere ad un rilancio dello sviluppo del sistema, per il quale, specie in Italia, il ruolo delle piccole imprese è determinante, sia in termine di produzione che di impiego di forza lavoro;
inoltre, si aggiunge il problema del ritardo con cui la pubblica amministrazione provvede al pagamento dei corrispettivi inerenti all'esecuzione dei contratti pubblici, che suscita, ormai da anni, l'interesse (ma soprattutto l'allarme) degli imprenditori che operano nel mercato italiano;
tale problematica è particolarmente avvertita dalle piccole e medie imprese, che, soprattutto nell'attuale congiuntura economica di difficile accesso al credito bancario, risentono in maniera grave della mancanza di liquidità;
il ritardo nei pagamenti non incide solo sul contraente privato che si trova a sostenere un'attesa ingiustificata nella percezione dei corrispettivi dovuti da parte dell'amministrazione appaltante, ma ridonda in termini negativi anche sull'indotto a valle dell'appalto, investendo le imprese subappaltatrici e subfornitrici, sulle quali i ritardi vengono sovente ulteriormente ribaltati,

impegna il Governo:

ad istituire un tavolo permanente tecnico con rappresentanti dell'Associazione bancaria italiana, della Banca d'Italia, delle principali associazioni di categoria e dei consumatori e dell'Istat, al fine di avanzare proposte operative per il sostegno del credito a favore delle imprese e delle famiglie, e, in particolare, ad adoperarsi, nell'ambito delle proprie competenze, affinché la seconda tranche di prestiti che la Banca centrale europea ha messo a disposizione delle banche vada a sostegno delle imprese e delle famiglie e ad adottare iniziative che agevolino con tassi d'interesse favorevoli l'accesso al credito per le imprese e le famiglie;
ad adoperarsi, altresì, nelle competenti sedi decisionali dell'Unione europea, in modo da:
a) sospendere l'entrata in vigore delle misure volte a fissare livelli più elevati per i coefficienti patrimoniali delle banche e introdurre un nuovo schema internazionale per la liquidità (accordo «Basilea 3»);
b) eliminare la valutazione a prezzi di mercato che l'Eba applica ai titoli di Stato italiani, comportando una loro sottovalutazione nel patrimonio delle banche italiane, che detengono bot e btp per un valore di 160 miliardi di euro;
c) intervenire in merito ai requisiti patrimoniali delle banche affinché siano introdotti meccanismi correttivi per la ponderazione del rischio di credito relativo ai prestiti alle piccole e medie imprese, in modo da compensare l'incremento quantitativo del requisito patrimoniale minimo;
ad assumere iniziative normative volte a prevedere forme di compensazione per le imprese che vantino crediti nei confronti di amministrazioni statali, con i debiti gravanti a loro carico, relativi ad obbligazioni tributarie;
ad adottare iniziative normative volte ad accelerare il pagamento dei crediti della pubblica amministrazione, al fine di recepire la nuova direttiva europea 2011/7/UE concernente il contrasto ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.
(1-00913)
«Crosetto, Vignali, Bernardo, Berardi, Del Tenno, Laboccetta, Leo, Misuraca, Pagano, Antonio Pepe, Savino, Ventucci».
(12 marzo 2012)
(Mozione non iscritta all'ordine del giorno ma vertente su materia analoga)

La Camera,
premesso che:
le attuali difficoltà che le famiglie e le aziende, ed in particolare le piccole e le medie imprese, incontrano nell'accesso al credito dipendono da più cause e, dunque, per essere affrontate necessitano di una politica complessiva che deve agire su più fronti;
il credito bancario al settore privato non finanziario - secondo i dati forniti dalla Banca d'Italia - continua a risentire sia di una ridotta domanda di finanziamenti da parte delle imprese, a causa della difficile congiuntura economica, sia di un orientamento ancora restrittivo dei criteri di offerta da parte del pubblico. Le indagini sulle condizioni di accesso al credito, condotte presso le banche e presso le imprese, hanno rilevato che permane elevata la quota di imprese che dichiara di non ottenere l'ammontare di finanziamenti desiderati;
i nuovi accordi di «Basilea 3» hanno modificato i criteri già stabiliti con «Basilea 1» (1998) e «Basilea 2» (2008): essi fissano, alzandoli, i requisiti minimi di capitale delle banche proporzionalmente ai rischi che assumono, prevedono una serie di «cuscinetti» (liquidità) di capitale aggiuntivi (pari al 2,5 per cento, ma che potrebbero aumentare fino al 5) nelle fasi economiche a rischio, prevedono sanzioni nel caso di violazione delle nuove regole, quale il divieto di pagare bonus ai manager o cedole ai soci;
l'allineamento alle regole di Basilea 3 comporta dei costi, in quanto la migliore qualità ed una maggiore quantità di capitale di garanzia potrà essere raggiunto solo attraverso un rimodellamento della struttura di ciascun istituto. Il rischio maggiore è quello di un inasprimento del costo del denaro;
l'Autorità bancaria europea (European Banking Authority - Eba) ha chiesto di aumentare il «Core Tier 1» delle banche entro giugno 2012 al 9 per cento;
per la valutazione del rischio, l'Autorità bancaria europea ha usato il criterio mark to market, ossia l'attribuzione non del valore nominale o cedolare dei titoli ma il prezzo corrente di mercato, che ha messo in moto per i btp, già in crisi di spread, un meccanismo deleterio per le banche che, qualora volessero evitare la ricapitalizzazione, dovrebbero vendere i titoli, deprezzati del 15-20 per cento del valore nominale, con effetti dirompenti sia sui mercati che sulle fortissime minusvalenze dei conti;
il sistema creditizio italiano, tra i suoi asset, ha titoli di Stato italiani per 160 miliardi di euro e titoli di Stato degli altri Paesi «Pigs» per 3 miliardi di euro. A fronte di questo, le banche italiane hanno titoli «tossici» (essenzialmente mutui subprime) per una quota pari al 6,8 per cento del patrimonio di vigilanza, contro una media europea del 65,3 per cento. Secondo le nuove norme di valutazione degli asset stabilite dall'Autorità bancaria europea, si è al paradosso: i titoli di Stato in portafoglio vengono considerati «tossici» per le banche italiane, peggio di quanto non lo siano i subprime per le banche straniere;
questa decisione dell'Autorità bancaria europea, invece di dimostrare equilibrio ed equità, ha finito per penalizzare il sistema bancario italiano che ha meno titoli tossici e strumenti derivati rispetto alle banche francesi o tedesche;
queste circostanze hanno reso ancor più difficile l'accesso al credito per molte piccole e medie imprese;
si deve, comunque, considerare che la Banca centrale europea ha fornito un'enorme liquidità alle banche che usufruiscono del notevole differenziale tra i tassi di approvvigionamento dei fondi (dalla Banca centrale europea all'1 per cento e dai privati con un tasso di poco superiore) e quelli a cui li offrono a prestito. Il 29 febbraio 2012 la Banca centrale europea ha prestato 530 miliardi di euro per tre anni alle banche europee, una somma simile a quella già elargita nel dicembre 2011. Soldi che non serviranno, l'esperienza del prestito della Banca centrale europea precedente lo attesta, a finanziare le imprese e le famiglie. Infatti, quell'operazione è servita sopratutto a sostenere la domanda di titoli di Stato;
l'operazione a tre anni del 21 dicembre 2011 vide una richiesta di prestiti per 489 miliardi di euro, che furono tutti assegnati. I prestiti sono andati in parte a sostituire altre operazioni di politica monetaria, ragion per cui l'incremento netto di finanziamenti concessi dalla Banca centrale europea al sistema bancario europeo è stato, in realtà, molto inferiore: 193 miliardi di euro. Con riferimento al nostro Paese, le banche italiane usufruirono di un finanziamento di 116 miliardi di euro in quell'operazione, ma l'incremento netto di liquidità fornita dalla Banca d'Italia nel mese di dicembre 2011 è stato della metà, 57 miliardi di euro;
le banche italiane hanno in buona parte utilizzato i soldi presi a prestito dalla Banca centrale europea per acquistare titoli di Stato, contribuendo alla riduzione dei tassi d'interesse sul debito pubblico italiano. Nello stesso tempo, le banche hanno stretto l'offerta di credito, sia riducendo la quantità sia aumentando il costo dei finanziamenti;
le somme ricevute dalla Banca centrale europea sono state usate anche per rimborsare obbligazioni bancarie, un'operazione che sarebbe stata troppo costosa rinnovare ai tassi di mercato. Nel bimestre dicembre 2011-gennaio 2012, le banche italiane hanno anche acquistato titoli di Stato per 32,6 miliardi di euro. Nello stesso periodo, i prestiti bancari alle imprese e alle famiglie italiane si sono ridotti di 20 miliardi di euro;
le banche italiane, come rilevano le associazioni dei consumatori, continuano ad applicare tassi di interesse più elevati dello 0,67 per cento sui mutui, in Italia al 4,6 per cento, contro il 3,93 per cento della media dell'Unione europea. Nel gennaio 2012, in Italia il costo dei finanziamenti alle imprese (nuove operazioni) era di 1,3 punti percentuali più alto rispetto allo stesso mese del 2011 (passando dal 2,7 per cento al 4 per cento), a parità di tasso di politica monetaria (1 per cento). Nello stesso periodo, il tasso d'interesse sui mutui immobiliari è salito di un punto percentuale (dal 3,15 per cento al 4,15 per cento). Sempre nello stesso periodo, il differenziale tra il tasso medio sui prestiti a imprese e famiglie e il tasso medio sulla raccolta è aumentato di mezzo punto percentuale (dal 2,2 per cento al 2,7 per cento);
va, inoltre, ricordato che l'articolo 8 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 (la cosiddetta manovra Monti «Salva-Italia») ha fornito alle banche la garanzia dello Stato sui prestiti ottenuti (in larga misura dalla Banca centrale europea), garanzia che ha consentito loro di sopportare con qualche patema d'animo in meno la situazione difficile dei mercati finanziari;
il 28 febbraio 2012 Governo, Confindustria, l'Associazione bancaria italiana e altre associazioni imprenditoriali hanno firmato l'accordo su «Le nuove misure per il credito alle Pmi». L'accordo ha validità fino al 31 dicembre 2012 e individua interventi finanziari a favore delle piccole e medie imprese «in bonis». L'accordo prevede le seguenti operazioni: sospensione per 12 mesi del pagamento della quota capitale delle rate dei finanziamenti a medio-lungo termine (anche i mutui assistiti da contributo pubblico in conto capitale e/o interessi) e della quota capitale implicita nei canoni di operazioni di leasing immobiliare (6 mesi per il leasing mobiliare); allungamento della durata dei finanziamenti a medio-lungo termine (anche i mutui assistiti da contributo pubblico in conto capitale e/o interessi); allungamento delle scadenze delle anticipazioni su crediti verso clienti fino a un massimo di 270 giorni;
l'articolo 11, comma 4, del decreto-legge n. 185 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 2 del 2009, ha introdotto la garanzia dello Stato sugli interventi del fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, quale garanzia di ultima istanza. Di conseguenza, in relazione al requisito patrimoniale a fronte del rischio di credito, alle esposizioni assistite dal fondo nella forma della garanzia diretta e della controgaranzia a prima richiesta, si applica il fattore di ponderazione associato allo Stato italiano («ponderazione zero»), in quanto più favorevole di quello del soggetto debitore, nei limiti dell'importo che il fondo di garanzia è tenuto a versare in caso di inadempimento del debitore principale ovvero del confido garantito;
nel caso della garanzia diretta, il fondo interviene nella misura massima del 60 per cento dell'importo di ciascuna operazione finanziaria. Tale percentuale è elevata fino all'80 per cento in casi particolari (per le piccole e medie imprese a prevalente partecipazione femminile, per le piccole e medie imprese ubicate nelle zone 87.3.a) del Trattato dell'Unione europea, (per le piccole e medie imprese aderenti alla programmazione negoziata). Nel caso di controgaranzia, il fondo interviene invece nella misura massima del 90 per cento della garanzia prestata dai confidi o dagli altri fondi di garanzia. Il moltiplicatore calcolato sul «finanziato», dato dal rapporto è pari a circa 16. Con un euro di dotazione del fondo sono, dunque, attivabili 16 euro di finanziamenti. Il moltiplicatore calcolato sul «garantito» è invece pari a circa 8. Un euro di dotazione del fondo consente, pertanto, di attivare circa 8 euro di garanzia;
il fondo è stato finanziato per un miliardo e mezzo di euro per il quadriennio 2009-2012. L'importo garantito dal fondo di garanzia per le piccole e medie imprese è stato innalzato, con decreto del Ministro dello sviluppo economico del 9 aprile 2009, da 500 mila euro a un milione e mezzo di euro. L'intervento del fondo, inoltre, è stato esteso, per la prima volta, alle imprese artigiane, estendendo notevolmente la platea dei potenziali beneficiari. I circa 250 confidi dell'artigianato contano, infatti, circa 700 mila imprese associate;
dai dati citati appare evidente come l'entità dei finanziamenti a disposizione, il tetto dell'importo garantito, le percentuali su cui si applica la garanzia, siano del tutto insufficienti e non consentono di fornire uno sostegno adeguato alle piccole e medie imprese, incluse le imprese artigiane, in particolare in questa fase di crisi;
la peculiarità del tessuto produttivo ed economico del nostro Paese, la fortissima presenza di piccole imprese, la forte vocazione manifatturiera, rendono le banche il canale principale di erogazione delle risorse;
è, comunque, innegabile che, specie in Italia, le aziende devono essere aiutate a fare passi in avanti nella loro aggregazione. L'Italia è un Paese che deve la sua ossatura produttiva alle piccole e medie imprese, ma che ha un sistema economico molto chiuso, carente di quella capacità di innovare che è la molla necessaria per la competitività. L'ovvia conseguenza è che le piccole e medie imprese italiane risultano avere un livello di capitalizzazione basso. Per le imprese italiane, storicamente sottocapitalizzate e ancora basate sul pluriaffidamento bancario a breve, quello di capitalizzazione sarà l'indicatore che darà più preoccupazioni nella determinazione del rating aziendale. Le imprese italiane, soprattutto quelle di minori dimensioni, non sono adeguatamente trasparenti. Regole severe con sanzioni effettive per chi nasconde e occulta i dati contabili consentirebbero alle banche di rischiare di più e chiedere meno garanzie;
la crisi del credito per le piccole e medie imprese è ulteriormente aggravata dai dati sui tempi di pagamento alle piccole imprese che fanno emergere attese anche di 600 giorni, per recuperare i crediti vantati nei confronti degli enti pubblici. Il tempo medio di attesa per riscuotere un credito da una pubblica amministrazione si attesta sui 128 giorni contro i 67 della media dell'Unione europea, ma anche le aziende private saldano i propri fornitori in 88 giorni. Questi ritardi costano 934 milioni di euro l'anno e a farne le spese sono proprio le piccole e medie imprese che hanno molte difficoltà nell'accesso al credito. Secondo alcune stime, i crediti vantati dalle imprese nei confronti di amministrazioni centrali ed enti sanitari locali superano i 70 miliardi di euro;
allo scopo di ricondurre il problema a dimensioni fisiologiche è stata adottata la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2000/35/CE del 29 giugno 2000, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, recepita nell'ordinamento interno, in attuazione dell'articolo 26 della legge 1o marzo 2002, n. 39 (legge comunitaria 2001), dal decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231. Tale direttiva fissa a 30 giorni il termine massimo dei pagamenti della pubblica amministrazione, con sanzioni del 5 per cento per ogni giorno di ritardo;
tale situazione non è nuova. Nella metà degli anni Ottanta la necessità di una politica restrittiva in termini di cassa aveva posto al legislatore il problema (derivato) di garantire alle imprese il puntuale pagamento dei crediti vantati. Infatti, decine di migliaia di imprese erano costrette ad indebitarsi con il sistema bancario in attesa di ricevere quanto dovuto ed erano sull'orlo del fallimento. La soluzione, saggia anche se transitoria, fu il ricorso ad una normativa di compensazione-cessione dei crediti vantati verso la pubblica amministrazione, recata dal comma 9 dell'articolo 1 del decreto-legge 2 dicembre 1985, n. 688, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 gennaio 1986, n. 11;
al fine di accelerare il pagamento dei crediti commerciali esistenti alla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 1 del 2012 (cosiddetto «decreto liberalizzazioni») connessi a transazioni commerciali per l'acquisizione di servizi e forniture, certi, liquidi ed esigibili, corrispondenti a residui passivi del bilancio dello Stato, con le disposizioni di cui all'articolo 35 del medesimo decreto, il Governo ha messo a disposizione complessivamente 5,7 miliardi di euro. Una somma molto al di sotto del debito complessivo delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle aziende fornitrici di beni e servizi;
si tratta di una somma che potrà essere spesa in parte per cassa, in parte con l'assegnazione di titoli del debito pubblico se, a chiedere questa misura alternativa di pagamento saranno i creditori (fino ad un massimo di 2 miliardi di euro, inclusi nel totale complessivo dei 5,7 miliardi di euro già citato);
slitta, invece, la norma che sanziona i futuri ritardi dei pagamenti della pubblica amministrazione alle imprese e che prevedeva l'introduzione di un interesse di mora pari all'8 per cento. La misura era stata messa a punto dal Ministro per le politiche comunitarie al fine di recepire la direttiva europea per il contrasto ai ritardi dei pagamenti;
il rispetto del patto di stabilità, inoltre, aggrava la situazione mettendo a rischio pagamenti, cantieri in corso e manutenzioni indispensabili per garantire la sicurezza dei cittadini. Tra il 2009 e il 2012, il blocco delle entrate si è tradotto in una riduzione di circa nove miliardi di euro, difficilmente sostenibile per i comuni che hanno dovuto far fronte alla crescente domanda di servizi sociali. I comuni hanno subito il taglio di due miliardi e mezzo di euro di trasferimenti erariali e la fissazione del loro contribuito al risanamento della finanza pubblica per una somma pari a 4 miliardi e mezzo di euro. Tutto ciò ha generato un blocco generalizzato dei pagamenti, in particolare di quelli in conto capitale;
la procedura dei rimborsi dell'iva, che le società maturano trimestralmente nei confronti dell'erario, attualmente risulta troppo articolata e molto onerosa per le aziende. La vigente legislazione in materia di crediti iva, infatti, prevede, in virtù dell'articolo 8, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica n. 542 del 1999, la possibilità di compensare il proprio credito iva con le altre imposte dovute. Il limite di compensazione ammesso, già dall'anno 2001 e tuttora vigente, ha un plafond di 516.456,90 euro fissato dall'articolo 34 della legge n. 388 del 2000;
inoltre, a seguito di recenti introduzioni legislative entrate in vigore dal 1o gennaio 2010, detta procedura è stata resa ancora più onerosa, sia in termini di costi che in termini di tempi rendendoli ancora più diluiti, obbligando le aziende con crediti iva superiori a 15 mila euro alla certificazione del credito da parte di professionisti abilitati i quali, al fine di rilasciare detta certificazione, debbono acquisire in azienda un grande volume di documenti fiscali da controllare. In sintesi, per i crediti iva maturati nel corso dell'anno, l'attuale normativa consente di utilizzare in compensazione solo fino al tetto citato, mentre la differenza viene chiesta a rimborso la cui liquidazione, una volta completata la presentazione della documentazione prevista, corredata di apposita ed onerosa polizza fideiussoria atta a garantire il credito chiesto a rimborso, genera tempi di attesa enormi che attualmente si aggirano intorno ai 18-24 mesi, tempi che penalizzano fortemente le aziende costringendole ad anticipare le proprie risorse finanziarie, o a dover ricorrere al credito bancario per far fronte agli impegni gestionali;
un altro elemento che penalizza fortemente le piccole e medie imprese in termini di liquidità disponibile concerne il pagamento dell'iva su fatture emesse ma non effettivamente riscosse. Occorre, dunque, rendere permanente per i piccoli operatori economici il pagamento dell'iva al momento dell'effettiva riscossione del corrispettivo modificando l'articolo 7 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, che prevedeva la sospensione del pagamento dell'iva solo per un anno, ed aumentare il volume d'affari massimo (200 mila euro) previsto per l'applicazione della norma,

impegna il Governo:

per quanto concerne l'accesso al credito da parte delle piccole e medie imprese:
a) a farsi promotore nelle debite sedi di proposte volte al coordinamento, almeno europeo, nell'applicazione omogenea delle nuove regole dell'accordo «Basilea 3» nei Paesi membri, ed a intervenire in tutte le sedi europee necessarie per ottenere la revisione del criterio che vede l'attribuzione ai titoli di Stato non del valore nominale o cedolare, ma del loro prezzo corrente di mercato, criterio che penalizza pesantemente gli istituti di credito italiani;
b) ad adottare le opportune iniziative normative al fine di prevedere che gli istituti di credito, che beneficiano della garanzia di cui all'articolo 8 decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, forniscano opportune garanzie in merito alla concessione del credito alle piccole e medie imprese ed alle famiglie, monitorandone l'attività;
c) ad aprire un confronto con gli istituti di credito e le loro associazioni rappresentative al fine di ottenere che una percentuale dei prestiti ricevuti dagli istituti di credito nazionali da parte della Banca centrale europea con tasso agevolato dell'uno per cento sia impiegata per erogare finanziamenti alle famiglie e alle piccole e medie imprese;
d) ad adottare le opportune iniziative normative volte ad assicurare la continuità negli anni e l'estensione dell'attività di garanzia del fondo rivolto alle piccole e medie imprese, di cui all'articolo 15 della legge n. 266 del 1997, valutando la possibilità di incrementare in maniera consistente le risorse a disposizione del fondo di garanzia, il tetto dell'importo del credito garantito e le percentuali sulle quali si applica la garanzia;
per quanto concerne il ritardo nei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni:
a) a fornire periodicamente al Parlamento i necessari elementi per un monitoraggio della situazione;
b) a dare definitiva attuazione nel nostro ordinamento ai principi sanciti a livello comunitario in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, con particolare riguardo alle pubbliche amministrazioni;
c) a valutare la possibilità di consentire alla Cassa depositi e prestiti, in considerazione del suo ruolo di soggetto finanziatore delle amministrazioni pubbliche, e in particolare di quelle locali, l'effettuazione di operazioni di cessione dei crediti scaduti ed esigibili, anche mediante cartolarizzazione degli stessi, con costi ed oneri finanziari a carico delle amministrazioni debitrici;
d) ad adottare le opportune iniziative normative volte a consentire ai creditori della pubblica amministrazione di potere richiedere alle amministrazioni debitrici la certificazione delle somme dovute e, conseguentemente, cedere il relativo credito ad un istituto di credito che ne assume la piena titolarità, previo pagamento dell'intero ammontare del credito;
e) ad ampliare il ricorso a soluzioni tecnico-giuridiche che permettano di utilizzare, per il pagamento almeno di parte del debito delle pubbliche amministrazioni, previa opzione del creditore, titoli del debito pubblico facilmente liquidabili;
f) a prevedere che una quota significativa delle risorse per il rifinanziamento del fondo residui perenti venga destinata, in via prioritaria, al pagamento dei residui in conto trasferimenti delle regioni e degli enti locali al fine di consentire agli stessi di procedere al pagamento dei crediti commerciali certi, liquidi ed esigibili vantati dalle imprese nei loro confronti, derivanti dall'acquisizione di beni e servizi, elaborando, altresì, parametri di individuazione delle priorità di pagamento dei crediti certi, liquidi ed esigibili vantati dalle imprese verso gli enti locali (ad esempio, anzianità del credito, esigenze di liquidità dell'impresa e altro);
per quanto concerne le misure fiscali, ad adottare le opportune iniziative normative al fine di:
a) provvedere ad una riforma strutturale di tutta la procedura dei rimborsi dei crediti iva, disciplinata dall'articolo 38-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972 e successive modificazioni, prendendo in considerazione l'ipotesi di aumentare considerevolmente l'attuale limite della compensazione almeno per quelle imprese che abitualmente, proprio in virtù del meccanismo suddetto, si trovano sistematicamente con un credito iva infrannuale da chiedere come rimborso o in compensazione, oppure, in alternativa, consentendo alle aziende di compensare, per tutto l'anno, il credito iva vantato nei confronti dell'erario con tutto ciò che gli adempimenti fiscali impongono di pagare mensilmente, in particolar modo tutte le imposte erariali ed i contributi, concorrendo in tal modo ad operare anche una semplificazione fiscale, in quanto si eviterebbe il sovrapporsi di domande di rimborso da erogare e si richiederebbe la presentazione di una sola polizza fideiussoria alla fine dell'anno ove si evidenzierebbe il residuo credito iva al netto delle compensazioni effettuate nell'anno stesso;
b) rendere permanente, per i piccoli operatori economici, il pagamento dell'iva al momento dell'effettiva riscossione del corrispettivo, modificando l'articolo 7 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, che prevedeva la sospensione del pagamento dell'iva solo per un anno, ed aumentare il volume d'affari massimo di 200 mila euro previsto per l'applicazione della norma.
(1-00916)
«Borghesi, Barbato, Messina, Di Stanislao, Donadi, Cimadoro».
(12 marzo 2012)
(Mozione non iscritta all'ordine del giorno ma vertente su materia analoga)

MOZIONI PALAGIANO ED ALTRI N. 1-00384, BINETTI ED ALTRI N. 1-00874, MARTINI ED ALTRI N. 1-00897, LIVIA TURCO ED ALTRI N. 1-00900, PALUMBO ED ALTRI N. 1-00904, STAGNO D'ALCONTRES ED ALTRI N. 1-00917 E D'ANNA ED ALTRI N. 1-00919 CONCERNENTI INIZIATIVE PER IL POTENZIAMENTO DELLA «MEDICINA DI GENERE»

Mozioni

La Camera,
premesso che:
nel nostro Paese le donne vivono più a lungo degli uomini (nel 2006 la loro speranza di vita alla nascita era di 84 anni, contro i 78,3 anni degli uomini), ma spesso vivono peggio; si recano dal medico molto più degli uomini (il 58 per cento delle visite ambulatoriali è per una donna) e lo fanno, nella maggior parte dei casi, per affrontare patologie non tipicamente femminili;
secondo i dati del Ministero della salute, il 6 per cento delle donne soffre di disabilità (vista, udito, movimento) contro il 3 per cento degli uomini; il 9 per cento soffre di osteoporosi contro l'1 per cento degli uomini; il 7,4 per cento di depressione contro il 3 per cento degli uomini. Ci sono poi malattie autoimmuni che colpiscono prevalentemente il sesso femminile, come, ad esempio, l'artrite reumatoide e questo dimostra che ci sono differenze tra il sistema immunitario maschile e quello femminile. Le malattie per le quali le donne presentano una maggiore prevalenza rispetto agli uomini sono: osteoporosi (+ 736 per cento), malattie tiroidee (+ 500 per cento), depressione e ansietà (+ 138 per cento), cefalea ed emicrania (+ 123 per cento), Alzheimer (+ 100 per cento), cataratta (+ 80 per cento), artrosi e artrite (+ 49 per cento), calcolosi (+ 31 per cento), l'ipertensione arteriosa (+ 30 per cento), il diabete (+ 9 per cento), le allergie (+ 8 per cento) e alcune malattie cardiache (+ 5 per cento);
secondo l'ultima indagine Istat su «Condizione di salute e ricorso a servizi sanitari», un'indagine che viene svolta con cadenza quinquennale, le donne di età media hanno, rispetto agli uomini, una percezione negativa del proprio stato di salute. In effetti, esse sono affette con maggiore frequenza degli uomini da quasi tutte le patologie croniche e, in particolar modo, come si è visto, da patologie osteo-articolari, malattie neurodegenerative, diabete, disturbi della funzione tiroidea, ipertensione arteriosa, vene varicose, osteoporosi e cefalea;
la scoperta che uomini e donne differiscono tra loro, non solo per quanto riguarda l'apparato riproduttivo, sembra essere piuttosto recente in campo medico. Infatti, fino a «ieri» ciò che valeva per l'uomo si riteneva valido anche per la donna. Con i progressi della ricerca scientifica sono emerse, però, delle differenze sostanziali tra i generi e più gli studi vanno avanti, maggiori difformità tra uomini e donne emergono. Partendo dal dna, molecola base della vita, che è espresso in modo diverso a seconda del sesso e passando per lo studio di molte malattie - in particolare approfondendo il dolore e le sue terapie - si è, quindi, individuata una branca della medicina ancora poco conosciuta nel nostro Paese: «la medicina di genere»;
nel mese di ottobre 2010, a Padova, si è svolto il secondo congresso nazionale sulla medicina di genere, organizzato dal Centro studi nazionale su salute e medicina di genere e dalla Fondazione Giovanni Lorenzini;
donne e uomini presentano, nell'arco della loro esistenza, patologie differenti o differenti sintomi di una stessa patologia e, quindi, si ritiene necessario un approfondimento scientifico della medicina dedicata alla donna;
la «medicina di genere» rappresenta il tentativo di approfondire la diversità tra i sessi applicandola alla medicina, così da garantire ad entrambi il miglior trattamento possibile. Questo concetto si evidenzia, infatti, a livello anatomico, ma anche e soprattutto a livello biologico, funzionale, psicologico, sociale, ambientale e culturale;
sebbene numerose e consolidate siano le evidenze scientifiche e nonostante diversi siano gli specialisti che si dedicano al tema, l'approccio di genere non rientra ancora nelle scelte di programmazione per gli interventi a tutela della salute nel nostro Paese e nemmeno nei libri di testo o nei programmi universitari. Ancora esistono stereotipi e pregiudizi di genere, nella ricerca biomedica e nella medicina: dallo studio delle cause ai fattori di rischio per la salute, dai sintomi alla diagnosi;
il problema di individuare un approccio alla medicina basato sul genere nasce dal fatto che tutti gli studi sperimentali sui farmaci sono sempre stati condotti considerando come fruitori i maschi, perché sono fisiologicamente più stabili e per la difficoltà scientifica a portare avanti una sperimentazione nel sesso femminile. Di conseguenza, le cure mediche rivolte alle donne sono compromesse da un difetto alla base: i metodi utilizzati nelle sperimentazioni cliniche e nelle ricerche farmacologiche e la successiva analisi dei dati risentono di una prospettiva maschile, che sottovaluta le peculiarità femminili e, in particolare, il ruolo degli ormoni;
la medicina di genere permette, dunque, di evidenziare anche nel campo della ricerca farmacologica, le diverse risposte all'assunzione dei farmaci tra gli individui di sesso maschile e quelli di sesso femminile, che, per esempio, sembrano essere più inclini a reazioni avverse. Sarebbe, pertanto, auspicabile uno studio mirato di questo tipo in tempi brevi, considerando che il consumo dei farmaci da parte delle donne è percentualmente più elevato rispetto a quello degli uomini. La conoscenza delle differenze di genere favorisce, infatti, una maggiore appropriatezza della terapia ed una maggiore tutela della salute per entrambi i generi;
la prima sperimentazione farmacologica riservata alle donne risale solamente al 2002 quando, presso la Columbia University di New York fu istituito il primo corso di medicina di genere, «a new approach to health care based on insights into biological differences between women and men», per lo studio di tutte quelle patologie che riguardano entrambi i sessi. Anche l'Organizzazione mondiale della sanità ha inserito la medicina di genere nell'equity act a riprova che il principio di equità implica che la cura sia appropriata e sia la più consona al singolo genere;
nelle sperimentazioni dei medicinali, in effetti, vengono utilizzate quasi esclusivamente soggetti di sesso maschile, questo perché le donne, a causa del loro complesso sistema ormonale, prolungano i tempi necessari per una sperimentazione, necessitano di regole ben più precise, devono usare un anticoncezionale per evitare gravidanze durante lo studio e così creano troppi problemi alle lobby, per cui più semplicemente non vengono inserite nelle sperimentazioni farmacologiche;
proprio per questo, però, è da non sottovalutare il fatto che gli ormoni femminili possono interferire con l'efficacia di molti farmaci, come gli antistaminici, gli oppiacei, gli antibiotici e gli antipsicotici; di conseguenza, gli effetti farmacologici ne potranno risultare amplificati o ridotti. In sostanza, molto spesso, vengono prescritti farmaci di cui si conosce perfettamente il meccanismo d'azione sull'uomo ma non sulla donna, rischiando di non curare o curare in maniera sbagliata le patologie di cui è affetta la donna;
anche i medicinali più comuni, in base a recenti studi scientifici, possono avere degli effetti diversi su donne e uomini. Tra tutti, l'esempio che più ha fatto discutere negli ultimi anni è, senza dubbio, l'aspirina. Alcune ricerche, la più importante delle quali è quella condotta nell'ottobre 2007 da Tood Jerman della University of British Columbia, hanno scoperto che la terapia a base di aspirina potrebbe essere inutile per le donne nella protezione dall'infarto del miocardio. In questo studio è stato dimostrato, infatti, attraverso 23 trial con oltre 100.000 pazienti in quarant'anni, che l'aspirina riduce il rischio di infarto del miocardio negli uomini, ma nelle donne questo effetto di prevenzione è fortemente ridotto;
il dolore cronico colpisce le donne in maniera maggiore e spesso del tutto differente rispetto agli uomini. In Italia, secondo uno studio epidemiologico svolto dalla International association for the study of pain (Iasp), il dolore cronico interessa il 26 per cento della popolazione, di cui il 56 per cento è rappresentato da donne. Tra uomini e donne cambia sia la frequenza, sia l'intensità, sia il tipo di dolore. Emicrania, fibromialgia, cefalea e artrite reumatoide - tutte patologie il cui sintomo prevalente è il dolore e che per questo necessitano di una adeguata terapia - sono molto più frequenti nel sesso femminile;
uno studio del 2009, condotto dal dipartimento di anestesiologia della seconda università di Napoli in collaborazione anche con l'università di Siena e quella di Chieti, ha valutato l'importanza degli ormoni gonadici (testosterone, estradiolo) nella terapia del dolore. In particolare, è stato dimostrato che l'uso di alcuni oppioidi può avere effetti diversi sulle donne a seconda dell'età riproduttiva e sugli uomini, mentre altri farmaci della stessa categoria possono non agire sull'asse ipotalamo-ipofisi-gonadico;
gli ormoni femminili influenzano anche altri tipi di malattie, ad esempio quelle dello stomaco. Dall'ulcera gastrica, che colpisce prevalentemente le donne rispetto agli uomini, si può guarire con più facilità grazie all'azione degli ormoni femminili, in particolare grazie al progesterone, che inibisce la formazione dei succhi gastrici, e agli estrogeni, che nella fase pre-menopausale, o meglio ancora in quella della gravidanza, garantiscono la protezione della mucosa dello stomaco;
secondo gli ultimi studi condotti dai ricercatori della New York University school of medicine, il rischio di morte per malattie cardiache è complessivamente molto più alto nelle donne che negli uomini. In Italia, circa 33 mila donne ogni anno restano vittime di un attacco cardiaco. Anche in questo caso sono coinvolti gli ormoni femminili che, in età fertile, proteggono l'apparato cardiocircolatorio, mentre, col sopraggiungere della menopausa, tale effetto protettivo viene a mancare;
in Italia, nel 2005, è nato l'osservatorio Onda (Osservatorio nazionale sulla salute della donna) che si occupa della salute della donna e che collabora con tutti gli istituti preposti a livello nazionale, per studiare, informare, educare e stimolare ad una grande attenzione su queste tematiche;
senza un orientamento di genere, le misure politiche a tutela della salute risultano metodologicamente scorrette, oltre che discriminanti. Per questo motivo la medicina di genere è ormai una realtà dalla quale non si può prescindere,

impegna il Governo:

a prevedere il potenziamento, omogeneo sul territorio nazionale, della ricerca medica, scientifica e farmacologica nell'ambito della medicina di genere, al fine di tutelare realmente, come sancito dall'articolo 32 della Costituzione, la salute di tutti i cittadini, donne comprese, poiché estromettere la donna dalla sperimentazione farmacologica è un errore che non può più essere commesso;
a promuovere l'inserimento della «medicina di genere» nei programmi dei corsi di laurea in medicina e chirurgia e delle scuole di specializzazione;
a incentivare e promuovere la realizzazione di master dedicati a chi, nel post laurea, voglia approfondire questa materia, facendo sì che la medicina possa finalmente raggiungere obiettivi più precisi e per meglio incidere sulla cura e sulla prevenzione delle malattie;
ad individuare percorsi che garantiscano, all'interno delle strutture sanitarie pubbliche, l'esistenza o la realizzazione di un dipartimento dedicato alla medicina di genere al fine di avere un approccio migliore di fronte alle numerose richieste di assistenza delle donne italiane.
(1-00384)
«Palagiano, Mura, Di Giuseppe, Donadi, Borghesi, Evangelisti».
(7 giugno 2010)

La Camera,
premesso che:
donne e uomini sono uguali rispetto al diritto alla salute e di fronte ai servizi socio-sanitari. Proprio per questo occorre parlare di salute della donna e di salute dell'uomo: la parità del diritto richiede la diversificazione dei modi nella sua tutela. È importante ricordare che la medicina di genere non significa medicina delle donne. Un approccio di genere significa prendere in considerazione uomini e donne al di là degli stereotipi e promuovere, all'interno della ricerca medica e farmacologica, l'attenzione alle differenze biologiche, psicologiche e culturali che ci sono tra i due sessi;
per questo si ha bisogno di parlare di medicina di genere che non si identifica con le malattie delle donne e degli uomini, ma cerca di capire come curare, diagnosticare e prevenire le malattie comuni ai due sessi, che incidono diversamente su uomo e donna per la differenza di genere e che sono, in realtà, il lavoro quotidiano del medico nel territorio e nell'ospedale: lo scompenso cardiaco, le aritmie cardiache, l'infarto del miocardio, i tumori del colon e del polmone, le malattie infettive epidemiche e poi il dolore, le cefalee, le malattie gastroenterologiche e altre. Con questa necessaria reimpostazione concettuale ci si è perfino resi conto che la donna non è immune dalle malattie che si è sempre ritenuto dovessero colpire prevalentemente l'uomo, come le malattie del cuore e dei vasi (infarto e ictus), o i tumori del polmone; addirittura si deve prendere conoscenza che le malattie cardiovascolari portano a morte più donne che uomini e che gli effetti collaterali dei farmaci sono molto diversi nei due generi;
nel nostro Paese le donne vivono più a lungo degli uomini - nel 2006 la loro speranza di vita alla nascita era di 84 anni, contro i 78,3 anni degli uomini - ma spesso la loro qualità di vita e di salute è minore: si recano dal medico molto più degli uomini e lo fanno, nella maggior parte dei casi, per affrontare patologie non tipicamente femminili (il 58 per cento delle visite ambulatoriali è per una donna);
la scoperta che uomini e donne differiscono tra loro, non solo per quanto riguarda l'apparato riproduttivo, sembra essere piuttosto recente in campo medico. Infatti, fino a pochi anni fa si riteneva che ciò che valeva per l'uomo fosse valido anche per la donna. Con i progressi della ricerca scientifica sono emerse, però, differenze sostanziali tra i generi e quanto più procedono questi studi, tanto più emergono concrete difformità tra uomini e donne: dal dna, molecola base della vita, che si esprime in modo diverso a seconda del sesso, a molte malattie, che hanno spinto a creare una nuova branca della medicina ancora poco conosciuta nel nostro Paese: «la cosiddetta medicina di genere»;
con l'espressione «medicina di genere» si intende la distinzione in campo medico delle ricerche e delle cure in base al genere di appartenenza, non solo da un punto di vista anatomico, ma anche secondo differenze biologiche, funzionali, psicologiche e culturali, oltre che di risposta alle cure. Una serie ormai vasta di studi dimostra che la fisiologia degli uomini e delle donne è diversa e tale diversità influisce profondamente sul modo in cui una patologia si sviluppa, viene diagnosticata, curata e affrontata dal paziente. Per questo chi lavora nel campo della salute - medici, ricercatori, aziende farmaceutiche, ma anche istituzioni pubbliche e società scientifiche - devono preoccuparsi che le risposte e le soluzioni - assistenza, terapie, farmaci - siano adeguate alle caratteristiche della persona, incluse quelle di genere;
la medicina di genere applica alla medicina il concetto di bio-diversità per garantire a tutti, uomini o donne, il migliore trattamento auspicabile in funzione delle specificità di genere. Questo oggi non avviene ancora in misura soddisfacente in diversi ambiti della medicina e della farmacologia: ad esempio, per minimizzare i rischi di una nuova molecola sulle donne in età fertile se ne limita la partecipazione negli studi clinici. Se questo tutela correttamente le donne in età fertile, non permette di acquisire un livello di conoscenze adeguate sulla risposta specifica delle donne ai farmaci, anche in tempi diversi da quelli dell'età fertile;
donne e uomini presentano nell'arco della loro esistenza patologie differenti o differenti sintomi di una stessa patologia e, quindi, si ritiene necessario un approfondimento scientifico della medicina dedicata alla donna; la «medicina di genere» rappresenta il tentativo di approfondire la diversità tra i sessi applicandola alla medicina, così da garantire ad entrambi i sessi il miglior trattamento possibile. Questo concetto si evidenzia, infatti, a livello anatomico, ma anche e soprattutto a livello biologico, funzionale, psicologico, sociale, ambientale e culturale; l'ottica di genere, difatti, non è ancora pienamente utilizzata per programmare gli interventi di promozione della salute e ancora persistono pregiudizi di genere nello studio dell'eziologia, dei fattori di rischio, nelle diagnosi e nei trattamenti. Proprio perché è stato fatto pochissimo - e si è ancora lontani da una politica sanitaria che rispetti le distinzioni di genere - la Commissione europea ribadisce la necessità che, quanto prima, si promuova una politica in difesa della salute tenendo conto della diversità di genere ed il Consiglio dell'Unione europea sollecita una maggior conoscenza da parte degli operatori sanitari per affrontare le disuguaglianze nella salute e garantire la parità di trattamento e di accesso alle cure. La conoscenza delle differenze di genere favorisce, infatti, una maggiore appropriatezza della terapia ed una maggiore tutela della salute per entrambi i generi;
l'approccio di genere non rientra ancora nelle scelte di programmazione per gli interventi a tutela della salute nel nostro Paese e nemmeno nei programmi universitari. Esistono ancora stereotipi e pregiudizi di genere, nella ricerca biomedica e nella medicina: dallo studio delle cause ai fattori di rischio per la salute, dai sintomi alla diagnosi. La medicina di genere (mdg) non è, quindi, una nuova etichetta della medicina della donna ma un percorso trasversale tra le discipline mediche; un nuovo approccio non più rimandabile di cui l'organizzazione sanitaria deve prendere atto per agire di conseguenza;
c'è bisogno di un nuovo approccio scientifico al genere che si traduca in una ricerca biomedica sempre più capace di indagare la complessità biologica della differenza di sesso, accanto alla necessaria attenzione alla differenza con cui i due generi sono interpretati nell'organizzazione sanitaria, per evitare diseguaglianze che ricadono sulla sofferenza dell'individuo e sui costi della sanità. La spesa sanitaria viene sempre più considerata un investimento per la salute e, quindi, come uno dei principali determinanti della crescita di un Paese. Il livello di diseguaglianza di genere, soprattutto nell'erogazione di servizi, non corrispondente alle esigenze dei fruitori, è considerato un indice della qualità di vita di una nazione. Un'appropriatezza di genere nella protezione della salute dell'uomo e della donna può essere misurata con indicatori economici;
l'invito pressante dell'Onu-World health organization (Who) e, in particolare, l'articolazione del terzo Millennium development goal - MDG3 (che richiama attenzione e impegni più costanti non solo nell'empowerment della donna, e al miglioramento educativo della stessa, ma anche sugli interventi sulla salute che estendano l'aspettativa di vita dell'uomo in modo comparabile con la donna), ha stentato nel trovare una risposta nel fertile terreno italiano, storicamente abituato ad affrontare nella realtà di tutti i giorni la necessità di superare distanze o differenze culturali e di intervento, per esempio, sulla salute e la sua protezione. Il concetto di pari opportunità non è di ieri e risale a indirizzi ben chiari nella Costituzione della Repubblica (ormai oltre i sessanta anni di età). Pur tuttavia, le classifiche ultime vedono la posizione italiana scendere progressivamente al settantaquattresimo posto in una classifica ideale di livello di pari opportunità;
secondo i dati del Ministero della salute, il 6 per cento delle donne soffre di disabilità (vista, udito, movimento) contro il 3 per cento degli uomini; il 9 per cento soffre di osteoporosi contro l'1 per cento degli uomini; il 7,4 per cento di depressione contro il 3 per cento degli uomini. Ci sono poi malattie autoimmuni che colpiscono prevalentemente il sesso femminile, come, ad esempio, l'artrite reumatoide e questo dimostra che ci sono differenze tra il sistema immunitario maschile e quello femminile. Le malattie per le quali le donne presentano una maggiore prevalenza rispetto agli uomini sono: osteoporosi (+736 per cento), malattie tiroidee (+500 per cento), depressione e ansietà (+138 per cento), cefalea ed emicrania (+123 per cento), Alzheimer (+100 per cento), cataratta (+80 per cento), artrosi e artrite (+49 per cento), calcolosi (+31 per cento), l'ipertensione arteriosa (+30 per cento), il diabete (+9 per cento), le allergie (+8 per cento) e alcune malattie cardiache (+5 per cento);
secondo gli ultimi studi condotti dai ricercatori della New York University school of medicine, il rischio di morte per malattie cardiache è complessivamente molto più alto nelle donne che negli uomini. In Italia, circa 33 mila donne ogni anno restano vittime di un attacco cardiaco. Anche in questo caso sono coinvolti gli ormoni femminili che, in età fertile, proteggono l'apparato cardiocircolatorio; con il sopraggiungere della menopausa, tale effetto protettivo viene a mancare. Comunque, la malattia cardiovascolare resta il killer numero uno per la donna e supera di gran lunga tutte le cause di morte. Anche la diagnosi è sottostimata e avviene in uno stadio più avanzato rispetto agli uomini, la prognosi è più severa per pari età ed è maggiore il tasso di esiti fatali alla prima manifestazione della malattia. Nonostante ciò, è sempre stata invece considerata una malattia maschile e questo ha creato un pregiudizio di genere che riguarda l'approccio ai problemi cardiovascolari delle donne. La conseguenza è che l'intervento preventivo, a differenza degli uomini, non si rivolge verso gli stili di vita delle donne, ma fondamentalmente al controllo di quello che è considerato il principale fattore di rischio, e cioè la menopausa, con la somministrazione di ormoni che a lungo hanno esposto le donne ad altri fattori di rischio;
una differenza esiste anche per quanto riguarda l'obesità e le sue conseguenze: infatti, pur se tale patologia interessa in egual misura uomini e donne, tra le donne obese la complicanza diabetica è molto più marcata rispetto agli uomini. Le patologie psichiche sono prevalenti e in crescita tra le donne. In particolare, la depressione è la principale causa di disabilità delle donne tra i 15 e i 44 anni: essa presenta una prevalenza dell'11 per cento nei dati di Health Search. Una ricerca effettuata tra i medici di medicina generale rivela che il 20 per cento delle donne del campione usa ansiolitici contro il 9 per cento degli uomini, e il 15 per cento usa farmaci antidepressivi, ssri (inibitori del reuptake della serotonina) contro il 7 per cento degli uomini. Anche negli Stati Uniti i farmaci psicotropi vengono prescritti per i 2/3 alle donne e numerose ricerche hanno evidenziato che essi tendono a provocare loro maggiori effetti collaterali, in considerazione del fatto che le variazioni ormonali cicliche mensili, oltre a quelle indotte dall'uso contemporaneo di terapia contraccettiva o sostitutiva ormonale, possono avere un'azione negativa sul tipo di farmaco, sulla dose necessaria per ottenere l'effetto ricercato e sul tipo di risposta. In realtà, andrebbe verificato quanto spesso nelle ricerche, nei risultati dei trial clinici, nella valutazione degli effetti collaterali dei farmaci, si tenga conto della differenza di genere, soprattutto considerando il fatto che le donne consumano più farmaci rispetto agli uomini;
infine, quando si parla di salute della donna, non si può dimenticare, come purtroppo spesso avviene, l'entità del problema «violenza» a tutti i livelli. La violenza sessuale, fisica, psicologica, economica contro le donne rappresenta ormai una grande emergenza e una grande questione di civiltà. I dati 2006 dell'Istat dimostrano che in Italia le donne tra 16 e 70 anni vittime di violenza, nel corso della vita, sono stimate in quasi 7 milioni. Il 14,3 per cento delle donne, che abbiano o non abbiano avuto un rapporto di coppia, ha subito almeno una violenza fisica o sessuale dal partner, ma solo il 7 per cento la denuncia. La violenza contro le donne ha una forte rilevanza sanitaria, per le conseguenze immediate delle lesioni fisiche e per gli effetti secondari: depressione, ansia e attacchi di panico, disturbi dell'alimentazione, dipendenze, disturbi sessuali e ginecologici, malattie sessualmente trasmissibili, disturbi gastrointestinali e cardiovascolari;
secondo l'ultima indagine Istat su «Condizione di salute e ricorso a servizi sanitari», un'indagine che viene svolta con cadenza quinquennale, le donne di età media hanno, rispetto agli uomini, una percezione negativa del proprio stato di salute. In effetti, esse sono affette con maggiore frequenza degli uomini da quasi tutte le patologie croniche e in particolar modo, come si è visto, da patologie osteo-articolari, malattie neuro-degenerative, diabete, disturbi della funzione tiroidea, ipertensione arteriosa, vene varicose, osteoporosi e cefalea;
il problema della medicina di genere nasce anche dal fatto che gli studi di nuovi farmaci, di nuove terapie e dell'eziologia e dell'andamento delle malattie sono stati condotti considerando sempre come fruitori i maschi. Di conseguenza, le cure mediche rivolte alle donne sono compromesse da un vizio di fondo: i metodi utilizzati nelle sperimentazioni cliniche e nelle ricerche farmacologiche e la successiva analisi dei dati risentono di una prospettiva maschile che sottovaluta le peculiarità femminili. Le caratteristiche specifiche della salute delle donne vengono sottovalutate anche all'interno di una ricerca medica che è prevalentemente centrata sull'uomo. Sussiste una sorta di pregiudizio scientifico che considera le malattie delle donne come una derivazione biologico-ormonale di quelle degli uomini con una prevalente derivazione socio-ambientale e lavorativa;
il problema di individuare un approccio alla medicina basato sul genere nasce dal fatto che tutti gli studi sperimentali sui farmaci sono sempre stati condotti considerando come finitori i maschi, perché sono fisiologicamente più stabili e per la difficoltà scientifica a portare avanti una sperimentazione nel sesso femminile. Di conseguenza, le cure mediche rivolte alle donne sono compromesse da un difetto alla base: i metodi utilizzati nelle sperimentazioni cliniche e nelle ricerche farmacologiche e la successiva analisi dei dati risentono di una prospettiva maschile, che sottovaluta le peculiarità femminili e, in particolare, il ruolo degli ormoni;
la medicina di genere permette, dunque, di evidenziare anche nel campo della ricerca farmacologica, le diverse risposte all'assunzione dei farmaci tra gli individui di sesso maschile e quelli di sesso femminile, che, per esempio, sembrano essere più inclini a reazioni avverse. Sarebbe, pertanto, auspicabile uno studio mirato di questo tipo in tempi brevi, considerando che il consumo dei farmaci da parte delle donne è percentualmente più elevato rispetto a quello degli uomini. La conoscenza delle differenze di genere favorisce, infatti, una maggiore appropriatezza della terapia ed una maggiore tutela della salute per entrambi i generi;
la prima sperimentazione farmacologica riservata alle donne risale al 2002 quando, presso la Columbia University di New York fu istituito il primo corso di medicina di genere. La prima volta che in medicina venne menzionata la cosiddetta «questione femminile» fu nel 1991, quando Bernardine Healy, direttrice dell'Istituto nazionale di salute pubblica, sulla rivista New England journal of medicine parlò di «yentl syndrome» a proposito del comportamento discriminante dei cardiologi nei confronti della donna. Solo 10 anni dopo, però, venne avviata una sperimentazione riservata alle donne, nel 2002, quando la Columbia University di New York istituì il primo corso di medicina di genere, «a new approach to health care based on insights into biological differences between women and men». Un corso dedicato allo studio di tutte quelle patologie che in modo diverso riguardano entrambi i sessi. La stessa Organizzazione mondiale della sanità ha inserito poi la medicina di genere nell'equity act a testimonianza che il principio di equità implica che la cura sia appropriata e sia la più consona al singolo genere. Recentemente ci si è resi conto di significative differenze nell'insorgenza, nello sviluppo, nell'andamento e nella prognosi delle malattie. Gli organi e gli apparati che sembrano differire maggiormente sono il sistema cardiovascolare, il sistema nervoso e quello immunitario. Per esempio, la malattia cardiovascolare, considerata da sempre una malattia più frequente nell'uomo, è in realtà il killer numero uno per la donna tra i 44 e i 59 anni. Eppure, esiste ancora la tendenza a sottovalutare l'approccio ai problemi cardiovascolari delle donne;
senza un orientamento di genere, la politica della salute risulta metodologicamente scorretta, oltre che discriminatoria. Per esempio:
a) l'interesse per la salute femminile è prevalentemente circoscritto agli aspetti riproduttivi: la medicina materno-infantile è parte integrante e prioritaria della medicina di genere, ma non esclusiva;
b) le donne sono al primo posto nel consumo di farmaci, ma sono poco rappresentate negli studi clinici o farmacologici. Di conseguenza, sono maggiormente esposte a possibili reazioni avverse al momento dell'assunzione di farmaci dopo l'immissione in commercio, con l'evidenziazione di riscontri di una minore efficacia nel loro uso, con effetti collaterali e indesiderati più frequenti e più gravi rispetto agli uomini;
c) rispetto alle condizioni di lavoro, sono state considerate sino ad oggi quasi esclusivamente le caratteristiche del lavoratore maschio. Delle donne si parla soltanto nel periodo della gravidanza, in rapporto esclusivamente ai rischi del nascituro. Gli infortuni e le malattie professionali che riguardano le donne (come le dermatosi e i disturbi muscolo-scheletrici) non sono sufficientemente presi in considerazione;
d) non viene prestata attenzione agli eventi patologici connessi con il lavoro domestico, in particolare gli infortuni;
e) non si considera il maggior rischio psico-sociale che colpisce le donne e che è dato dal doppio carico di lavoro;
nelle sperimentazioni dei medicinali, in effetti, vengono utilizzate quasi esclusivamente soggetti di sesso maschile, questo perché le donne, a causa del loro complesso sistema ormonale, prolungano i tempi necessari per una sperimentazione, necessitano di regole ben più precise, devono usare un anticoncezionale per evitare gravidanze durante lo studio e così creano troppi problemi alle lobby, per cui, più semplicemente, non vengono inserite nelle sperimentazioni farmacologiche;
proprio per questo, però, è da non sottovalutare il fatto che gli ormoni femminili possono interferire con l'efficacia di molti farmaci, come gli antistaminici, gli oppiacei, gli antibiotici e gli antipsicotici; di conseguenza, gli effetti farmacologici ne potranno risultare amplificati o ridotti. In sostanza, molto spesso, vengono prescritti farmaci di cui si conosce perfettamente il meccanismo d'azione sull'uomo ma non sulla donna, rischiando di non curare o curare in maniera sbagliata le patologie di cui è affetta la donna;
anche i medicinali più comuni, in base a recenti studi scientifici, possono avere degli effetti diversi su donne e uomini. Tra tutti, l'esempio che più ha fatto discutere negli ultimi anni è, senza dubbio, l'aspirina. Alcune ricerche, la più importante delle quali è quella condotta nell'ottobre 2007 da Tood Jerman della University of British Columbia hanno scoperto che la terapia a base di aspirina potrebbe essere inutile per le donne nella protezione dall'infarto del miocardio. In questo studio è stato dimostrato, infatti, attraverso 23 trial con oltre 100.000 pazienti in quarant'anni, che l'aspirina riduce il rischio di infarto del miocardio negli uomini, ma nelle donne questo effetto di prevenzione è fortemente ridotto;
il dolore cronico colpisce le donne in maniera maggiore e spesso del tutto differente rispetto agli uomini. In Italia, secondo uno studio epidemiologico svolto dalla International association for the study of pain (Iasp), il dolore cronico interessa il 26 per cento della popolazione, di cui il 56 per cento è rappresentato da donne. Tra uomini e donne cambia sia la frequenza, sia l'intensità, sia il tipo di dolore. Emicrania, fibromialgia, cefalea e artrite reumatoide - tutte patologie il cui sintomo prevalente è il dolore e che, per questo necessitano di una adeguata terapia - sono molto più frequenti nel sesso femminile;
uno studio del 2009, condotto dal dipartimento di anestesiologia della seconda università di Napoli in collaborazione anche con l'università di Siena e quella di Chieti, ha valutato l'importanza degli ormoni gonadici (testosterone, estradiolo) nella terapia del dolore. In particolare, è stato dimostrato che l'uso di alcuni oppioidi può avere effetti diversi sulle donne a seconda dell'età riproduttiva e sugli uomini, mentre altri farmaci della stessa categoria possono non agire sull'asse ipotalamo-ipofisi-gonadico;
gli ormoni femminili influenzano anche altri tipi di malattie, ad esempio quelle dello stomaco. Dall'ulcera gastrica, che colpisce prevalentemente le donne rispetto agli uomini, si può guarire con più facilità grazie all'azione degli ormoni femminili, in particolare grazie al progesterone, che inibisce la formazione dei succhi gastrici, e agli estrogeni, che nella fase pre-menopausale, o meglio ancora in quella della gravidanza, garantiscono la protezione della mucosa dello stomaco;
in Italia, nel 2005, è nato l'osservatorio onda (Osservatorio nazionale sulla salute della donna), che si occupa della salute della donna e che collabora con tutti gli istituti preposti a livello nazionale, per studiare, informare, educare e stimolare una grande attenzione su queste tematiche; senza un orientamento di genere, le misure politiche a tutela della salute risultano metodologicamente scorrette, oltre che discriminanti. Per questo motivo, la medicina di genere è ormai una realtà dalla quale non si può prescindere,

impegna il Governo:

a predisporre iniziative di prevenzione sostenute da periodiche campagne informative centrate, di volta in volta, su obiettivi chiave: incidenti domestici, obesità, patologie cardiovascolari, tumori del seno, violenza femminile e altro;
ad assumere iniziative volte a consigliare l'uso di acido folico alle donne in periodo fertile e a valutare l'utilità dell'assunzione di iodio nelle donne gravide;
a promuovere il potenziamento, omogeneo sul territorio nazionale, della ricerca medica, scientifica e farmacologica nell'ambito della medicina di genere, al fine di tutelare realmente, come sancito dall'articolo 32 della Costituzione, la salute di tutti i cittadini, ponendo al centro dell'attenzione del sistema socio-sanitario la medicina materno-infantile, senza per questo estromettere la donna dalla sperimentazione farmacologica;
a promuovere l'inserimento della «medicina di genere» nei programmi dei corsi di laurea in medicina e chirurgia e delle scuole di specializzazione come un modo di favorire l'interdisciplinarietà nell'ottica di genere, anche attraverso successivi master dedicati a chi, nel post laurea, voglia approfondire questa materia, per incidere sulla cura e sulla prevenzione delle malattie;
a promuovere percorsi che garantiscano, all'interno delle strutture sanitarie pubbliche, l'esistenza o la realizzazione di un dipartimento dedicato alla medicina materno-infantile e alla medicina di genere per avere un approccio migliore di fronte alle numerose richieste di assistenza delle donne italiane;
ad incentivare la pratica degli screening (pap test e mammografia), con particolare riguardo alle donne immigrate che molto spesso non ne sono a conoscenza;
a ricercare strategie di stimolazione degli stili di vita preventivi (contrasto del fumo/attività fisica/dieta) specifici per le donne, posto che le motivazioni per cui esse fumano, non praticano sport, mangiano troppo o bevono, sono diverse da quelle degli uomini, che ben il 47 per cento delle donne non pratica alcuna forma di attività fisica e solo il 16 per cento dichiara di fare sport con continuità a causa degli impegni familiari (principalmente la cura dei figli e della casa).
(1-00874)
«Binetti, Mondello, D'Ippolito Vitale, Capitanio Santolini, Carlucci, Anna Teresa Formisano, Nunzio Francesco Testa, Calgaro, De Poli, Delfino».
(21 febbraio 2012)

La Camera,
premesso che:
nella programmazione sanitaria e sociale è inderogabile uno specifico ambito di riflessione ed intervento a favore dell'universo femminile, sia sotto il profilo medico-scientifico che dal punto di vista socio-culturale, atto ad una presa in carico mirata;
la promozione della salute delle donne rappresenta un obiettivo strategico per la promozione della salute di tutta la popolazione, in quanto indicatore della qualità, dell'efficacia ed equità del sistema sanitario italiano;
è indispensabile prendere coscienza del fatto che il «genere» è un fattore determinante essenziale nella valutazione dei percorsi di salute, poiché il benessere della persona e la sua percezione, l'insorgenza delle malattie e il loro decorso, il rischio sanitario nelle diverse fasi della vita, gli approcci terapeutici e la loro efficacia sono stati scientificamente evidenziati con una variabilità soggettiva che trova ulteriore diversificazione tra le donne e gli uomini;
il «genere» nella programmazione sanitaria e nell'approccio di cura delle patologie non è ancora pienamente diffuso e ancora persistono stereotipi nella ricerca biomedica, nella medicina, nello studio dell'eziologia e dei fattori di rischio o protettivi per la salute, nella valutazione dei sintomi, nell'elaborazione della diagnosi, nei programmi di riabilitazione fino alla valutazione dei risultati;
riconoscere le differenze non solo biologiche ma anche relative alla dimensione sociale e culturale di «genere» è essenziale per delineare programmi ed azioni, per organizzare l'offerta dei servizi, per indirizzare la ricerca, per analizzare i dati statistici;
studiare e capire le differenze di genere è, quindi, elemento essenziale per il raggiungimento delle finalità stesse del sistema sanitario italiano, per garantire che vengano identificati gli indicatori di equità di genere, che si ritengono fino ad oggi non riconosciuti o sottostimati;
la dimensione di «genere» nei percorsi di salute si evidenzia come una necessità metodologica, analitica, ma risulta essere anche strumento di governance di un sistema che ha come riferimento qualità ed equità;
la letteratura scientifica ha dimostrato che la fisiologia degli uomini e delle donne è diversa e tale diversità influisce profondamente sul modo in cui una patologia si sviluppa, viene diagnosticata, curata e affrontata dal paziente;
la medicina di genere permette di evidenziare, anche nel campo della ricerca farmacologica, le diverse risposte all'assunzione dei farmaci tra gli individui di sesso maschile e quelli di sesso femminile;
la conoscenza delle differenze di genere favorisce una maggiore appropriatezza della terapia ed una maggiore tutela della salute per entrambi i generi;
la specificità dell'universo femminile nel più ampio contesto della programmazione socio-sanitaria si esprime sotto due distinti profili: per la presenza di patologie e problematiche di ordine sanitario, che, per la loro natura o la loro incidenza statistica, sono legate alla donna, nelle sue diverse età e fasi evolutive; per lo specifico rilievo che le patologie e le problematiche socio-sanitarie comuni ai due generi assumono in rapporto all'universo femminile;
secondo i dati dell'indagine Istat presentata il 2 marzo 2008, l'8,3 per cento delle donne italiane denuncia un cattivo stato di salute contro il 5,3 per cento degli uomini. La disabilita è più diffusa tra le donne (6,1 per cento contro il 3,3 per cento degli uomini). Le malattie per le quali le donne presentano una maggiore prevalenza rispetto agli uomini sono le allergie (+8 per cento), il diabete (+9 per cento), la cataratta (+80 per cento), l'ipertensione arteriosa (+30 per cento), patologie della tiroide (+500 per cento), artrosi e artrite (+49 per cento), osteoporosi (+736 per cento), calcolosi (+31 per cento), cefalea ed emicrania (+123 per cento), depressione e ansia (+138 per cento), Alzheimer (+100 per cento);
l'Organizzazione mondiale della sanità è più volte intervenuta ufficialmente denunciando una palese condizione di svantaggio delle donne rispetto agli uomini per quanto riguarda la tutela della salute. Un documento dell'Organizzazione mondiale della sanità, dipartimento per la salute della donna, evidenzia l'importanza e la complessità del tema della diversità femminile sottolineandone l'ancora sostanziale misconoscenza e sottovalutazione;
adottare in campo medico una prospettiva di genere e ridisegnare la ricerca come strumento di conoscenza delle specificità femminili è, quindi, una necessità e, nel contempo, un passaggio fondamentale per pensare ad una salute anche a misura di donna;
la prima volta in cui in medicina si parla della «questione femminile» - e quindi di medicina di genere - risale al 1991, quando l'allora direttrice dell'Istituto nazionale di salute pubblica americano, Bernardine Healy, in un famoso editoriale della rivista New England journal of medicine parlò di «yentl syndrome» in riferimento al comportamento discriminante dei cardiologi nei confronti del sesso femminile;
nel nostro Paese, nell'ambito degli studi universitari, in particolare nelle facoltà di medicina e chirurgia, ad eccezione di alcune eccellenze, tra cui si cita la facoltà di medicina dell'università di Padova, poco è stato fatto per implementare la «medicina di genere», cioè una medicina che tenga conto delle fisiologiche differenze tra uomini e donne sia nella teoria che nella pratica clinica;
la consapevolezza dell'esistenza di una scienza medica integrata dal punto di vista di genere in ogni aspetto della pratica sanitaria ha avuto i suoi albori negli Stati Uniti d'America, ma ha presto attraversato l'intero mondo medico scientifico;
la Comunità europea, seppur con anni di ritardo, fin dal 1998 ha incluso all'interno dei programmi di ricerca un focus dedicato alle donne e allo sviluppo della medicina di genere. Recentemente, la sede europea dell'Organizzazione mondiale della sanità ha organizzato un ufficio, denominato Department of gender, women and health, con lo scopo di mettere in evidenza il punto di vista di genere in tutte le tematiche della salute;
nell'ambito della programmazione socio-sanitaria al femminile, appare prioritaria anche una riflessione sulla salute psicologica delle donne, che, secondo studi recenti, presentano un rischio tre volte più elevato degli uomini di sviluppare una depressione, fenomeno ricondotto alla loro particolare esposizione alle dinamiche e alle sollecitazioni di una società sempre più complessa e che richiede alle donne un impegno costante su più fronti fuori e dentro casa;
l'esigenza di uno sguardo mirato alle patologie e alle problematiche socio-sanitarie legate all'universo femminile nell'ambito della programmazione nazionale deve trovare il proprio naturale e necessario compimento a livello regionale, in quanto le regioni, con il contributo degli enti locali per la parte di più specifico rilievo sociale, hanno una responsabilità diretta nei confronti della tutela e della garanzia dei bisogni sanitari emergenti della popolazione femminile,

impegna il Governo:

a sviluppare una programmazione delle politiche sanitarie finalizzata a prevedere una diffusione omogenea su tutto il territorio nazionale dell'attività di ricerca medica, scientifica e farmacologia nell'ambito della medicina di genere;
a promuovere l'inserimento della medicina di genere nei programmi dei corsi di laurea in medicina e chirurgia e delle scuole di specializzazione;
a promuovere, per quanto di competenza, l'istituzione nelle strutture sanitarie pubbliche di dipartimenti dedicati alla medicina di genere;
a promuovere nel nostro Paese una maggiore consapevolezza e a sottolineare l'importanza dell'implementazione della medicina di genere a tutti i livelli istituzionali;
a promuovere la piena attuazione, a livello regionale, delle politiche integrate di sviluppo della medicina di genere elaborate a livello nazionale, attraverso il ricorso ad intese ed accordi da stipularsi presso la conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, quale strumento di definizione di comuni obiettivi e linee di indirizzo atte a garantire più elevati livelli di salute;
a promuovere, nella programmazione sanitaria nazionale, il consolidamento di un approccio mirato in materia di medicina di genere, al fine di offrire risposte efficaci ed appropriate alle patologie, favorendo in ambito medico l'educazione continua in medicina (ecm) in materia di medicina di genere, attraverso percorsi volti a sviluppare maggiori competenze specifiche nei confronti delle esigenze assistenziali delle donne in rapporto alla diversa intensità dei bisogni, con particolare rilevanza del ruolo dei medici di medicina generale;
a valorizzare gli interventi di prevenzione e di diagnosi precoce delle patologie attraverso la sempre maggiore diffusione dei programmi di screening volti ad offrire alle donne opportunità di allungamento della vita media in buona salute, con particolare riferimento anche al loro benessere psicofisico;
ad istituire, senza maggiori oneri per la finanza pubblica, un osservatorio nazionale sulla medicina di genere che abbia, tra i propri compiti, anche quello di presentare annualmente al Parlamento una relazione relativa all'evoluzione di servizi in materia di medicina di genere nelle varie regioni;
a stipulare un accordo con la rappresentanza associativa dei produttori di farmaci affinché, nelle fasi di sperimentazione clinica dei farmaci in cui sono coinvolti gruppi di persone che si sottopongono volontariamente, venga obbligatoriamente introdotta una percentuale pari al 50 per cento di soggetti di genere femminile al fine di valutare scientificamente il follow up e l'impatto del farmaco con una visione di genere.
(1-00897)
«Martini, Dozzo, Laura Molteni, Rondini, Fabi, Montagnoli, Fogliato, Lussana, Fugatti, Fedriga, Alessandri, Allasia, Bitonci, Bonino, Bragantini, Buonanno, Callegari, Caparini, Cavallotto, Chiappori, Consiglio, Crosio, D'Amico, Dal Lago, Desiderati, Di Vizia, Dussin, Fava, Follegot, Gidoni, Giancarlo Giorgetti, Goisis, Grimoldi, Isidori, Lanzarin, Maggioni, Maroni, Meroni, Molgora, Nicola Molteni, Munerato, Negro, Paolini, Pastore, Pini, Polledri, Rainieri, Reguzzoni, Rivolta, Stefani, Stucchi, Togni, Torazzi, Vanalli, Volpi».
(29 febbraio 2012)

La Camera,
premesso che:
«la salute delle donne è il paradigma dello stato di salute dell'intera popolazione». Con questa dichiarazione l'Organizzazione mondiale della sanità ha lanciato la sua sfida per una rivalutazione complessiva delle politiche sanitarie e sociali in tutte le aree del pianeta;
sempre l'Organizzazione mondiale delle sanità ha stabilito che, in medicina, il concetto di equità si associa alla capacità di curare l'individuo, in quanto essere specifico e appartenente a un determinato genere;
è opinione ormai acquisita che proprio la differenza di genere identifichi esigenze diverse sul fronte delle terapie, oltre a influenzare in modo sensibile l'accesso, la qualità e l'aderenza alle cure stesse;
la medicina di genere è una branca recente delle scienze biomediche che ha l'obiettivo di riconoscere e analizzare le differenze derivanti dal genere di appartenenza sotto molteplici aspetti: a livello anatomico e fisiologico, dal punto di vista biologico, funzionale, psicologico, sociale e culturale e nell'ambito della risposta alle cure farmacologiche;
nel riconoscere questa diversità di esigenze, la medicina di genere considera prioritario il diritto delle donne e degli uomini a un'assistenza sanitaria e farmacologica specifica, che si basi su un diverso modo di interpretare e valutare la programmazione e la produzione normativa in ambito farmaceutico, sanitario e socio-assistenziale;
è stato ormai dimostrato da molteplici studi che le differenze di genere, nella fisiologia umana e nei fattori sociali-culturali (ad esempio, è più facile che una donna riconosca e chieda aiuto per un disturbo psicologico rispetto ad un uomo), in caso d'insorgenza di malattia, si riflettono significativamente sulla genesi, la prognosi e la compliance degli individui;
sono molteplici le differenze di «genere» nell'ambito delle patologie, come, ad esempio quelle cardiovascolari, per le quali è stato dimostrato che il 38 per cento delle donne colpite da infarto muore nel giro di un anno contro il 25 per cento degli uomini, così come per l'ictus in relazione al quale i 12 mesi successivi sono più a rischio per le donne (i decessi ne colpiscono il 25 per cento contro il 22 per cento degli uomini); differenze vi sono anche nelle patologie polmonari o in quelle neurodegenerative (nell'ambito delle quali il Parkinson colpisce da 1,4 a 2 volte più gli uomini delle donne e l'Alzheimer una donna su 6 rispetto agli uomini) in cui il rapporto è di 1 a 10; ed ancora differenze vi sono nelle patologie dell'apparato digerente o nelle patologie psichiatriche, nell'ambito delle quali la depressione colpisce le donne due volte più degli uomini, e nelle sindromi dolorose quali l'emicrania, la cefalea muscolo-tensiva, l'artrite reumatoide, molto più frequenti nella donna che nell'uomo, al contrario di altre sindromi come la cefalea a grappolo che sono più diffuse nel sesso maschile;
le donne sono le principali consumatrici di farmaci, ne prendono mediamente circa il 40 per cento in più rispetto agli uomini, soprattutto nella fascia di età compresa tra i 15 e i 54 anni. Eppure una buona parte delle molecole, come ad esempio alcuni psicofarmaci, non è stata sperimentata sulla popolazione femminile, nonostante che tra uomini e donne esistano diverse differenze che influenzano il metabolismo dei farmaci. Le donne, poi, pesano in media il 30 per cento meno degli uomini e, poiché il dosaggio dei farmaci non sempre viene calcolato in relazione al peso, può succedere che le donne assumano una maggiore quantità di principio attivo rispetto agli uomini. Anche nei meccanismi d'azione dei farmaci la ricerca ha individuato delle differenze tra uomini e donne, a seconda delle diverse patologie. Nella depressione, per esempio, le donne sembrano rispondere meglio agli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (ssri), mentre gli uomini trarrebbero maggiori benefici dagli antidepressivi triciclici (tca) 31;
la differenza di genere influenza anche la risposta alle vaccinazioni, secondo una metanalisi condotta sugli studi scientifici esistenti relativi a una serie di vaccini: da quello antinfluenzale a quelli per malattie come varicella, morbillo, febbre gialla. Sulle donne i vaccini funzionano meglio, dal momento che sembrano garantire una migliore risposta immunitaria dopo la somministrazione, tanto da suggerire la possibilità di usare dosi minori di vaccino nel sesso femminile;
già nel 2008 il progetto «La medicina di genere come obiettivo strategico per la salute pubblica: l'appropriatezza della cura per la tutela della salute della donna» presso l'Istituto superiore di sanità nacque dall'esigenza di individuare la necessità di dedicare risorse per conoscere, in maniera più specifica, le differenze tra uomo e donna per offrire anche alle donne una medicina basata sull'evidenza, al fine di aderire alle raccomandazioni della Organizzazione mondiale della sanità, dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, e dell'Unione europea;
la medicina di genere è il modo per rendere universalistico il diritto alla salute e le numerose e significative differenze anatomiche e fisiologiche tra uomo e donna si riflettono nell'insorgenza, nello sviluppo, nella storia naturale, sulla prognosi, sugli esiti e sui percorsi terapeutici delle singole patologie, per cui vi è l'assoluta necessità di conoscere le differenze;
nonostante i progressi in campo medico compiuti in questi ultimi anni, c'è ancora una scarsa conoscenza dell'influenza del genere sulla salute,

impegna il Governo:

ad inserire, fra gli obiettivi strategici del prossimo piano sanitario nazionale, la promozione ed il sostegno della medicina di genere;
a sviluppare la ricerca e la medicina di genere al fine di promuovere l'appropriatezza terapeutica e la personalizzazione delle terapie;
ad individuare tutte le risorse finanziarie ed economiche necessarie affinché il progetto «La medicina di genere come obiettivo strategico per la sanità pubblica: l'appropriatezza della cura per la tutela della salute della donna» possa essere rifinanziato con risorse adeguate;
ad instaurare una commissione nazionale che individui le priorità nell'ambito della ricerca di genere e le metodologie più appropriate per la ricerca di genere;
a lanciare e finanziare un piano di ricerca clinica e preclinica che veda coinvolti i Ministeri della salute e dell'istruzione, dell'università e della ricerca e per gli affari regionali, il turismo e lo sport;
ad assumere iniziative normative per offrire incentivi fiscali alle industrie che producono ricerca con disegni e protocolli mirati alla medicina di genere;
a promuovere l'inserimento della materia della medicina di genere nei corsi di formazione del personale medico ed infermieristico, affinché vi sia una piena e completa presa di coscienza della tematica in questione.
(1-00900)
«Livia Turco, Miotto, Lenzi, Argentin, Bossa, Bucchino, Burtone, D'Incecco, Grassi, Murer, Pedoto, Sarubbi, Sbrollini».
(1o marzo 2012)

La Camera,
premesso che:
la medicina di genere studia le differenze e le somiglianze tra uomo e donna, dal punto di vista biologico e funzionale, ma anche i comportamenti psicologici e culturali, che traggono le loro origini dalle tradizioni etniche, religiose, educative e sociali;
ancora oggi, la moderna medicina presenta una grave carenza dovuta al fatto che la maggior parte della ricerca medica viene condotta sull'uomo e le azioni mediche sono, di fatto, trasferite dall'uomo sulla donna, senza considerare le differenze di genere;
la prima volta in cui in medicina si menzionò la «questione femminile» fu nel 1991 quando Bernardine Healy, direttrice dell'Istituto nazionale di salute pubblica, sulla rivista New England - Journal of medicine parlò di «yentl syndrome» a proposito del comportamento discriminante dei cardiologi nei confronti della donna. Bisognò attendere, però, più di dieci anni perché fosse avviata una sperimentazione riservata alle donne, esattamente fino al 2002 quando, presso la Columbia University di New York è stato istituito il primo corso di medicina di genere, «A new approach to healt care based on insights into biological differences between women and men», per lo studio di tutte quelle patologie che riguardano entrambi i sessi;
l'Organizzazione mondiale della sanità riconosce alle differenze sessuali (dati biologici) ed a quelle di genere (dati sociali e culturali) importanti ruoli quali determinanti lo stato di salute e per la prevenzione di malattie specifiche (dell'uomo e della donna) e, pertanto, in sanità le differenze di genere e di sesso devono essere adeguatamente considerate e di conseguenza ha inserito la medicina di genere nell'equity act per promuovere cure più appropriate;
la Commissione europea ha ribadito la necessità di promuovere una politica in difesa della salute che tenga conto della diversità di genere, per favorire una migliore appropriatezza della terapia e una maggiore tutela della salute;
la medicina di genere non è da considerare una nuova branca medica riservata alla donna, ma una disciplina trasversale tra le diverse aree mediche e, soprattutto, un nuovo approccio di interventi di programmazione sanitaria incentrata sulla persona per delineare migliori criteri di erogazione di servizio sanitario di eccellenza e, quindi, nuovi livelli essenziali di assistenza;
un'appropriatezza di genere nella protezione della salute dell'uomo e della donna può essere misurata con indicatori economici;
è necessario un cambiamento culturale per favorire la formazione degli operatori ospedalieri e dei medici;
la medicina di genere richiede il coordinamento e la cooperazione stretta tra università, ospedali, aziende sanitarie;
la programmazione del Ministero della salute riconosce indicatori principali per le prestazioni specialistiche e farmaceutiche per area, rapportate a età, genere e profilo della popolazione totale e, quindi, la medicina di genere può diventare un'area ove detti strumenti possano essere validati e quindi meglio utilizzati,

impegna il Governo:

a inserire tra gli obiettivi del piano sanitario nazionale 2013-2015 la medicina di genere;
a promuovere la ricerca sanitaria su popolazioni diversificate per genere e con parametri di valutazione migliori nella sperimentazione farmacologica e nella ricerca di fattori di rischio, con il concorso degli enti vigilati dal Ministero della salute, come l'Istituto superiore di sanità, l'Aifa (Agenzia italiana del farmaco), gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, nonché di enti di ricerca, università e aziende sanitarie;
a istituire in collaborazione con l'Istituto superiore di sanità un osservatorio nazionale per la medicina di genere che possa raccogliere, coordinare e trasferire dati epidemiologici e clinici, al fine di assicurare il raggiungimento dell'equità nell'esigibilità del diritto alla salute;
a promuovere incentivi fiscali per la ricerca in ambito della medicina di genere;
a garantire che i prodotti e i servizi derivanti dalla ricerca siano efficaci e sicuri in funzione delle accertate differenze di reattività di genere;
a garantire la possibilità ai pazienti e agli operatori sanitari di accedere ai dati relativi alle differenze di genere, per migliorare la consapevolezza della diversità nell'uso dei farmaci, dei dispositivi medici e di altri approcci terapeutici;
a garantire attraverso adeguate forme di comunicazione la diffusione di una corretta informazione volta a migliorare le conoscenze riguardanti tali diversità.
(1-00904)
«Palumbo, De Camillis, Di Virgilio, De Nichilo Rizzoli, Armosino, Saltamartini, Lorenzin, Centemero, Cicu, Patarino, Fucci, Lazzari, Lamorte, Antonio Pepe, Scelli, Cassinelli, Pianetta, Formichella, Bernini Bovicelli, Mannucci, Barani, De Luca, Nunzio Francesco Testa, Abrignani, Mancuso, Sisto».
(8 marzo 2012)

La Camera,
premesso che:
numerose organizzazioni internazionali (Organizzazione mondiale della sanità, Onu, Food and drug administration, National institutes of health e Commissione europea), nei processi di prevenzione e cura, richiamano l'attenzione non solo sulle differenze e somiglianze biologiche, ma anche sulle differenze sociali capaci di influenzare in maniera significativa la salute;
negli ultimi anni la conoscenza dei fattori biologici e socioculturali che influenzano salute e assistenza sanitaria per uomini e donne ha fatto progressi significativi, venendo, di fatto, a definire un campo scientifico innovativo noto come «medicina di genere»; essa costituisce il modo per rendere universale il diritto alla salute; le numerose differenze anatomiche e fisiologiche tra donne e uomini si possono riflettere sulla prognosi, sugli esiti e sui percorsi terapeutici delle singole patologie;
la «medicina di genere» si occupa di studiare, nelle scienze biomediche, le differenze legate al genere di appartenenza, non solo da un punto di vista anatomico e fisiologico, ma anche secondo le differenze biologiche, funzionali, psicologiche, sociali e culturali;
un'analisi di genere permette una più ampia comprensione dei meccanismi che diversificano i sintomi, i risultati e le reazioni alle malattie, con il vantaggio di incoraggiare trattamenti accurati e mirati;
il «genere» nella programmazione sanitaria e nell'approccio di cura delle patologie non è ancora pienamente diffuso;
questa nuova area di ricerca applica alla medicina il concetto di «diversità tra generi» per garantire a tutti, uomini o donne, il migliore trattamento auspicabile in funzione delle specificità di genere;
la sfida attuale è fornire ai ricercatori strumenti concettuali e pratici in grado di assimilare la dimensione «sessuale» e quella di «genere» nei programmi di ricerca biomedica e sanitaria,

impegna il Governo:

ad organizzare iniziative di promozione di una cultura di genere per la prevenzione e la tutela della salute;
a promuovere una pianificazione dell'attività formativa professionale, con l'obiettivo di favorire la conoscenza di problematiche specifiche di genere;
a promuovere iniziative che prevedano all'interno delle strutture sanitarie pubbliche la realizzazione di un dipartimento dedicato alla medicina di genere;
a sostenere lo sviluppo della ricerca scientifica medica e farmacologica nell'ambito della medicina di genere, per tutelare la salute di tutti i cittadini.
(1-00917)
«Stagno d'Alcontres, Misiti, Fallica, Grimaldi, Iapicca, Miccichè, Pugliese, Soglia, Terranova, Mario Pepe (Misto-R-A)».
(12 marzo 2012)
(Mozione non iscritta all'ordine del giorno ma vertente su materia analoga)

La Camera,
premesso che:
la ricerca scientifica ha ormai ampiamente dimostrato che esistono differenze derivanti dal genere di appartenenza, sia nell'assetto della salute che della malattia, e tali differenze di genere esistono non solo, come ben noto, a livello anatomico e funzionale, ma anche a livello psicologico, sociale e culturale, per il ruolo delle tradizioni etniche, educative e sociali, nonché nell'ambito della risposta alle cure;
donne e uomini, che sono uguali rispetto al diritto alla salute ed all'accesso ai servizi socio-sanitari, di fatto mostrano differenti esigenze di tutela ed assistenza della propria salute, nonché della propria qualità della vita, espressa nelle sue quattro dimensioni, fisica, psicologica, sociale e lavorativa;
esiste da tempo una branca della medicina di sanità pubblica, chiamata «medicina di genere», che opera trasversalmente tra numerose aree mediche per capire ed applicare la conoscenza su come curare, diagnosticare e prevenire le malattie, considerando donne e uomini sulla base delle differenze biologiche, psicologiche e culturali che ci sono tra i due sessi, e per promuovere, nella ricerca e nell'assistenza, gli appropriati modi per tutelare la salute, per quanto necessario, in modo diversificato tra i generi;
l'approccio di genere, purtroppo, non è, allo stato, formalmente riconosciuto nel nostro Paese, né a livello di programmazione sanitaria, né a livello di formazione universitaria e post-universitaria;
nel campo della tutela dell'appropriatezza degli interventi sanitari, accade che prestazioni appropriate per un genere ma non per l'altro siano considerate inappropriate per tutti, così danneggiando una larga parte della popolazione, poiché è ben noto che l'inappropriatezza può essere data dall'erogare a carico del servizio sanitario nazionale prestazioni inutili, ma anche dal non erogare, da parte del servizio sanitario nazionale, prestazioni utili;
sempre in materia di appropriatezza, la Commissione europea ha indicato, come mezzo per assicurare «una migliore appropriatezza della terapia e una maggiore tutela della salute», la necessità di tenere conto della diversità di genere nell'ambito delle scelte politiche in difesa della salute;
è possibile, sia nella definizione dei nuovi livelli essenziali di assistenza che negli atti di programmazione sanitaria, definire e regolamentare il concetto della «appropriatezza di genere», legata a differenti, specifici indicatori, relativi a determinati aspetti nella protezione della salute dell'uomo e della donna, e tale forma di appropriatezza può essere misurata con indicatori economici, oltre che sanitari;
la mancanza di conoscenza ed applicazione dell'approccio di genere costituisce, peraltro, una violazione del dovere di garantire equità ai cittadini-utenti del servizio sanitario nazionale, in quanto anche la stessa Organizzazione mondiale della sanità indica che una delle dimensioni dell'equità è la capacità di «curare l'individuo in quanto essere specifico e appartenente a un determinato genere»;
un formale riconoscimento della medicina di genere, sia in sede di formazione, che di ricerca e assistenza, migliorerebbe sia la qualità dell'assistenza erogata dal servizio sanitario nazionale che la qualità della vita dei cittadini, in quanto renderebbe più equo, oltre che realmente «universalistico», il modo in cui lo Stato italiano tutela il diritto alla salute,

impegna il Governo:

a inserire tra gli obiettivi del piano sanitario nazionale 2013-2015 la medicina di genere, quale attività da svolgersi a mezzo di apposite unità, operanti a supporto di tutte le unità assistenziali per la cui attività sia necessario tenere conto delle differenze di genere;
a definire e regolamentare, nei livelli essenziali di assistenza e nel piano sanitario nazionale, il concetto della «appropriatezza di genere», quale forma di appropriatezza legata ai differenti, specifici aspetti nella protezione della salute dell'uomo e della donna, e ad istituire appositi indicatori economici e sanitari per misurarla;
a promuovere il potenziamento della ricerca medica, scientifica e farmacologica nell'ambito della medicina di genere, nonché a promuovere incentivi fiscali per favorire tale ricerca;
a promuovere l'inserimento della medicina di genere nei programmi dei corsi di laurea in medicina e chirurgia e delle scuole di specializzazione;
a programmare, coinvolgendo tutti gli erogatori di prestazioni del servizio sanitario nazionale, a qualunque titolo operanti, campagne di prevenzione, comprendenti iniziative di educazione sanitaria e di screening, da mirare ai temi più rilevanti in termini di sanità pubblica, quali - ad esempio - incidenti domestici, rischio cardiovascolare, rischio oncologico, disturbi del comportamento alimentare, stress e salute.
(1-00919)
«D'Anna, Moffa, Calearo Ciman, Catone, Grassano, Gianni, Guzzanti, Lehner, Marmo, Milo, Mottola, Orsini, Pionati, Pisacane, Polidori, Razzi, Romano, Ruvolo, Scilipoti, Siliquini, Stasi, Taddei».
(12 marzo 2012)
(Mozione non iscritta all'ordine del giorno ma vertente su materia analoga)

MOZIONI SERVODIO ED ALTRI N. 1-00869, DELFINO ED ALTRI N. 1-00905, BOSSI ED ALTRI N. 1-00912, BECCALOSSI ED ALTRI N. 1-00914, DI GIUSEPPE ED ALTRI N. 1-00915, MISITI ED ALTRI N. 1-00918 E DI BIAGIO ED ALTRI N. 1-00921 CONCERNENTI INIZIATIVE IN MATERIA DI USO E SVILUPPO DELLE AGROENERGIE, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AGLI IMPIANTI ALIMENTATI A BIOMASSE

Mozioni

La Camera,
premesso che:
le biomasse costituiscono un'importante fonte energetica rinnovabile, il cui ruolo potrebbe essere determinante per il raggiungimento degli obiettivi fissati con il Protocollo di Kyoto, con il successivo «pacchetto clima-energia», per il rispetto dei molteplici impegni assunti dal nostro Paese, a partire dall'attuazione del piano nazionale d'azione per le energie rinnovabili, il quale prevede la definizione del contributo delle varie fonti per conseguire gli obiettivi stabiliti in ambito comunitario per il 2020, ossia 17 per cento di produzione di energia da fonti energetiche rinnovabili sul consumo totale di energia e 10 per cento sul consumo totale di carburanti; in sostanza, per quanto riguarda le biomasse è previsto, sempre al 2020, un obiettivo di 18,8 terawattore di energia elettrica e 5,7 megawatt di energia termica; questi valori indicano che il 45 per cento del piano nazionale d'azione per le energie rinnovabili sarà realizzato grazie alle biomasse;
il 13 febbraio 2012 la Commissione europea ha adottato una strategia per la bioeconomia in Europa che considera le biomasse quale elemento centrale per definire un'economia post-petrolio in Europa;
con le agroenergie è possibile contribuire a valorizzare le filiere agroalimentari presenti sul territorio, integrando il reddito dei produttori primari e in molti casi anche contribuendo a risolvere problemi di natura ambientale legati alla valorizzazione di sottoprodotti e di biomasse agricole e al miglioramento della sostenibilità delle pratiche agricole (rotazioni, effluenti zootecnici e direttiva nitrati, difesa dei suoli dall'erosione ed altro);
la direttiva comunitaria n. 28 del 2009, in materia di promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili, definisce come biomassa la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall'agricoltura, dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani;
il principio di funzionamento delle centrali alimentate a biomasse si basa sulla conversione dell'energia termica, ottenuta con la combustione (ovvero pirolisi o gassificazione) della biomassa o con la combustione del biogas, derivante dalla digestione anaerobica della biomassa stessa, in energia meccanica e successivamente in energia elettrica;
si ricorda che le biomasse sono l'unica fonte rinnovabile, programmabile, a base carbonica utilizzabile non solo come energia di riserva a supporto della generazione elettrica da fonti non programmabili, ma in futuro in grado di fornire carbonio non di origine fossile per lo sviluppo di una chimica capace di produrre biomateriali;
gli impianti possono essere alimentati da biomasse solide come legna, cippato, pellet, ma anche con rifiuti solidi urbani, biogas (derivanti dalla frazione organica dei rifiuti solidi urbani, da fanghi, deiezioni animali, ma anche da attività agricole) e bioliquidi (oli vegetali grezzi o altri bioliquidi); in totale, attualmente ci sono oltre 400 impianti, per una potenza installata superiore a 500 megawatt per circa 2 gigawattora di energia prodotta;
il biogas - costituito prevalentemente da metano e da anidride carbonica - nasce dalla fermentazione anaerobica di materiale organico di origine animale e vegetale e la normativa individua la molteplicità di matrici organiche da cui può essere prodotto: rifiuti conferiti in discarica ovvero frazione organica dei rifiuti urbani, fanghi di depurazione, deiezioni animali, scarti di macellazione, scarti organici agroindustriali, residui colturali, colture energetiche dedicate; i combustibili di origine biologica allo stato liquido sono distinti, in base al decreto legislativo n. 28 del 2011, in bioliquidi, combustibili liquidi per scopi energetici diversi dal trasporto, compresi l'elettricità, il riscaldamento ed il raffreddamento, prodotti dalla biomassa e in biocarburanti, carburanti liquidi o gassosi per i trasporti ricavati dalla biomassa;
negli ultimi anni si è assistito ad un consistente sviluppo di queste fonti energetiche rinnovabili, anche grazie ai meccanismi incentivanti introdotti con recenti disposizioni normative, dando vita ad alcune preoccupazioni per le possibili conseguenze negative legate alla crescita dell'utilizzo delle biomasse;
il citato decreto legislativo n. 28 del 2011, recante «Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili», prevede che l'incentivo per biogas, biomasse e bioliquidi sostenibili debba essere finalizzato, tra l'altro, a promuovere l'uso efficiente di rifiuti e sottoprodotti, di biogas da reflui zootecnici o da sottoprodotti delle attività agricole, agroalimentari, agroindustriali, di allevamento e forestali, di prodotti ottenuti da coltivazioni dedicate non alimentari, nonché di biomasse e bioliquidi sostenibili e di biogas da filiere corte;
appare evidente la necessità di promuovere e valorizzare forme di produzione dell'energia che utilizzino sostanze di origine biologica, in modo da ridurre il consumo di combustibili fossili e l'emissione di gas climalteranti, acidificanti e potenzialmente tossici, ma senza dare vita ad effetti distorsivi per l'economia agricola o addirittura inefficaci per quanto riguarda il saldo delle emissioni; in particolare, risulta essenziale favorire le filiere più efficienti nell'uso del suolo agricolo, nella riduzione delle emissioni di carbonio e capaci di generare la massima ricaduta occupazionale in ambito locale; questi aspetti possono essere verificati tramite studi dedicati di analisi del ciclo di vita (life cycle assesment) normati dalla serie ISO 14040;
il biogas è un vettore energetico polivalente e particolarmente idoneo al contesto italiano, con un'elevata densità di popolazione e un'estesa e capillare rete del gas; la filiera biogas-biometano si caratterizza, quindi, per le sue qualità plurifunzionali: elevata efficienza negli usi finali, costi di produzione competitivi rispetto alle altre fonti energetiche rinnovabili, con limitati costi di riduzione delle emissioni di gas climalteranti, in quanto consente il massimo utilizzo delle superfici agricole in termini di energia prodotta; è una fonte programmabile e conservabile mediante l'utilizzo della rete e degli stoccaggi del gas naturale ed è una filiera con un rilevante impatto sull'economia agricola e industriale;
tra le energie rinnovabili da biomassa, il biogas sembra, quindi, rappresentare un'apprezzabile potenzialità per alcune intrinseche caratteristiche positive della sua filiera: l'elevata intensità di lavoro che è in grado di produrre; l'utilizzo prevalente di biomasse prodotte dalle aziende agricole italiane; la nascente filiera tecnologica italiana di produzione di impianti a biogas, con tutte le importanti potenziali ricadute sull'indotto e gli effetti positivi derivanti dal reinvestimento dei profitti (garantiti dagli incentivi) nello sviluppo tecnologico di questo settore all'interno del sistema Paese; la valorizzazione di parametri come l'efficienza e il riciclaggio di gran parte degli scarti della produzione agricola e zootecnica; l'agevole localizzazione degli impianti in prossimità dei luoghi di produzione delle biomasse, con la contestuale riduzione dei costi (economici ed ambientali) del trasporto delle biomasse stesse; il possibile utilizzo in ambito cogenerativo;
tra le criticità emerse nella diffusione delle bioenergie si sottolineano le seguenti: la realizzazione di impianti di medie e grandi dimensioni comporta, inevitabilmente, un aumento della distanza coperta dai materiali necessari per il funzionamento degli impianti, con conseguente incremento della mobilità di mezzi pesanti e del relativo impatto ambientale; in alcune province dell'Italia si sta verificando un'eccessiva concentrazione di impianti che, in assenza di una programmazione territoriale, determina effetti in contrasto con gli obiettivi che in tutti questi anni hanno determinato il sostegno allo sviluppo degli impianti agroenergetici di piccole dimensioni nell'ottica esclusiva della multifunzionalità dell'agricoltura; occorre, quindi, che la governance delle regioni o, quando delegate, delle province sui territori sia ben organizzata e studiata nell'intera sua complessità, senza permettere la concessione di autorizzazioni quando non sono presenti tutte le corrette rassicurazioni per la sostenibilità delle filiere tradizionali;
una delle principali preoccupazioni, che andrebbe comunque confrontata con i dati Istat relativi all'ultimo censimento agricolo in merito alla cessazione delle attività agricole, riguarda il pericolo di trasformazione delle colture agricole attualmente destinate all'alimentazione umana (food) e alla zootecnia (feed) in colture finalizzate alla produzione di energia (fuel), con immaginabili alterazioni del mercato dei prodotti agricoli e zootecnici, rischiando di trasformare la finalità originaria delle agroenergie - di attività integrativa del reddito in agricoltura - in attività sostitutiva dell'agricoltura;
a riguardo si rammenta come siano stati emanati due provvedimenti cogenti: un decreto contenente le linee guida per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili ed il decreto burden sarin, ovvero la ripartizione tra le regioni e le province autonome dello sforzo per raggiungere il target europeo di energia verde fissato per l'Italia al 2020; tali provvedimenti, se applicati correttamente e tempestivamente, permetterebbero una corretta programmazione in ambito locale degli interventi;
è auspicabile promuovere la realizzazione di impianti che siano compatibili con le esigenze di vivibilità dei territori, con la salvaguardia delle produzioni agricole, specie quelle orientate alla qualità del prodotto (ad esempio, le colture biologiche o da serricoltura), stabilendo criteri per lo sfruttamento prevalente delle biomasse locali; in particolare, sarebbe opportuno prevedere meccanismi disincentivanti per l'importazione di materiale dall'estero e, in maniera diversa, l'impiego di colture dedicate quando non da filiera corta; bisogna, altresì, favorire le biomasse da rifiuti, da scarti agricoli, del verde urbano e forestali, premiando l'efficienza energetica del ciclo, ponendo attenzione alle dinamiche di mercato che potrebbero determinare effetti distorsivi connessi al costo delle matrici organiche di scarto;
è necessario apportare dei correttivi all'attuale sistema, in modo da garantire uno sviluppo sostenibile delle filiere agroenergetiche; in particolare, è importante: una razionalizzazione delle tariffe; un miglioramento dell'efficacia e dell'efficienza degli incentivi che determinino lo sviluppo di filiere industriali e l'incremento del reddito e dell'occupazione, con biomasse provenienti da filiere corte e comunque circoscritte al territorio locale; la tutela del paesaggio; un controllo del consumo dei terreni agricoli; un monitoraggio dei prezzi delle derrate alimentari e degli affitti dei terreni agricoli; un corretto inserimento degli impianti nel tessuto urbanistico e rurale in rapporto alle caratteristiche tecniche e di produzione energetica, tenendo in adeguata considerazione l'impatto sul traffico stradale, sia per quanto riguarda le emissioni inquinanti e i problemi di congestione, sia per quanto riguarda l'inquinamento acustico della zona,

impegna il Governo:

a verificare l'applicazione sul territorio nazionale delle linee guida per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili e del burden sharing e ad adottare ogni iniziativa di competenza per una regolamentazione ottimale in merito alla localizzazione degli impianti di piccole dimensioni, con l'obiettivo di incentivare il settore delle agroenergie e le connesse potenzialità in termini di green economy e, contemporaneamente, di salvaguardare la funzione primaria dell'agricoltura, il paesaggio agrario e l'equilibrio urbanistico, evitando distorsioni di mercato, come descritto in premessa, che potrebbero minarne le reali possibilità di sviluppo, essendo noto che gli scarti della filiera agroindustriale raramente sono nella disponibilità degli agricoltori;
a differenziare il sistema degli incentivi sulla base dei principi espressi nell'ultimo capoverso della premessa e sulla base dell'efficienza energetica dell'impianto, con l'obiettivo di sfruttare innanzitutto le risorse locali nel rispetto della vocazione agricola del territorio, premiando la virtuosità della filiera e dell'efficienza energetica di tutto il ciclo, utilizzando, oltre a quelli già esistenti, come possibile ulteriore strumento adatto a questo tipo di monitoraggio la già citata analisi del ciclo di vita;
a favorire un protagonismo dell'imprenditoria agricola italiana, al fine di incentivare l'opzione agroenergetica come fonte integrativa di reddito capace di irrobustire la capacità reddituale dell'azienda agricola nel suo complesso, rafforzando in tal modo anche la sua capacità di produrre in modo competitivo alimenti e foraggi, differenziando le varietà colturali e mitigando il rischio associato alla stagionalità ed alle fluttuazioni dei prezzi di mercato;
a provvedere ad uniformare la legislazione relativa alla definizione di sottoprodotto ed al ciclo integrato dei rifiuti, al fine di consentire l'utilizzo del materiale organico presente nel rifiuto o quale effluente di processi industriali o substrato ideale per la produzione di energia sia attraverso combustione diretta che attraverso la produzione di biogas, risolvendo le attuali problematiche e controversie circa l'identificazione di sottoprodotti da utilizzare in ambiente agricolo.
(1-00869)
«Servodio, Bratti, Mariani, Oliverio, Lulli, Boccia, Margiotta, Zucchi, Froner, Agostini, Benamati, Bocci, Braga, Brandolini, Marco Carra, Cenni, Colaninno, Cuomo, Dal Moro, Esposito, Fadda, Fiorio, Ginoble, Iannuzzi, Marantelli, Marchioni, Marrocu, Martella, Mastromauro, Morassut, Motta, Peluffo, Mario Pepe (PD), Pizzetti, Portas, Quartiani, Realacci, Sanga, Sani, Scarpetti, Federico Testa, Trappolino, Vico, Viola, Zunino».
(15 febbraio 2012)

La Camera,
premesso che:
le biomasse costituiscono un'importante fonte energetica rinnovabile, il cui ruolo potrebbe essere determinante per il raggiungimento degli obiettivi fissati con il Protocollo di Kyoto, con il successivo «pacchetto clima-energia», per il rispetto dei molteplici impegni assunti dal nostro Paese, a partire dall'attuazione del piano nazionale d'azione per le energie rinnovabili, il quale prevede la definizione del contributo delle varie fonti per conseguire gli obiettivi stabiliti in ambito comunitario per il 2020, ossia 17 per cento di produzione di energia da fonti energetiche rinnovabili sul consumo totale di energia e 10 per cento sul consumo totale di carburanti; in sostanza, per quanto riguarda le biomasse è previsto, sempre al 2020, un obiettivo di 18,8 terawattore di energia elettrica e 5,7 megawatt di energia termica; questi valori indicano che il 45 per cento del piano nazionale d'azione per le energie rinnovabili sarà realizzato grazie alle biomasse;
il 13 febbraio 2012 la Commissione europea ha adottato una strategia per la bioeconomia in Europa che considera le biomasse quale elemento centrale per definire un'economia post-petrolio in Europa;
con le agroenergie è possibile contribuire a valorizzare le filiere agroalimentari presenti sul territorio, integrando il reddito dei produttori primari e in molti casi anche contribuendo a risolvere problemi di natura ambientale legati alla valorizzazione di sottoprodotti e di biomasse agricole e al miglioramento della sostenibilità delle pratiche agricole (rotazioni, effluenti zootecnici e direttiva nitrati, difesa dei suoli dall'erosione ed altro);
la direttiva comunitaria n. 28 del 2009, in materia di promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili, definisce come biomassa la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall'agricoltura, dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani;
il principio di funzionamento delle centrali alimentate a biomasse si basa sulla conversione dell'energia termica, ottenuta con la combustione (ovvero pirolisi o gassificazione) della biomassa o con la combustione del biogas, derivante dalla digestione anaerobica della biomassa stessa, in energia meccanica e successivamente in energia elettrica;
si ricorda che le biomasse sono l'unica fonte rinnovabile, programmabile, a base carbonica utilizzabile non solo come energia di riserva a supporto della generazione elettrica da fonti non programmabili, ma in futuro in grado di fornire carbonio non di origine fossile per lo sviluppo di una chimica capace di produrre biomateriali;
gli impianti possono essere alimentati da biomasse solide come legna, cippato, pellet, ma anche con rifiuti solidi urbani, biogas (derivanti dalla frazione organica dei rifiuti solidi urbani, da fanghi, deiezioni animali, ma anche da attività agricole) e bioliquidi (oli vegetali grezzi o altri bioliquidi); in totale, attualmente ci sono oltre 400 impianti, per una potenza installata superiore a 500 megawatt per circa 2 gigawattora di energia prodotta;
il biogas - costituito prevalentemente da metano e da anidride carbonica - nasce dalla fermentazione anaerobica di materiale organico di origine animale e vegetale e la normativa individua la molteplicità di matrici organiche da cui può essere prodotto: rifiuti conferiti in discarica ovvero frazione organica dei rifiuti urbani, fanghi di depurazione, deiezioni animali, scarti di macellazione, scarti organici agroindustriali, residui colturali, colture energetiche dedicate; i combustibili di origine biologica allo stato liquido sono distinti, in base al decreto legislativo n. 28 del 2011, in bioliquidi, combustibili liquidi per scopi energetici diversi dal trasporto, compresi l'elettricità, il riscaldamento ed il raffreddamento, prodotti dalla biomassa e in biocarburanti, carburanti liquidi o gassosi per i trasporti ricavati dalla biomassa;
negli ultimi anni si è assistito ad un consistente sviluppo di queste fonti energetiche rinnovabili, anche grazie ai meccanismi incentivanti introdotti con recenti disposizioni normative, dando vita ad alcune preoccupazioni per le possibili conseguenze negative legate alla crescita dell'utilizzo delle biomasse;
il citato decreto legislativo n. 28 del 2011, recante «Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili», prevede che l'incentivo per biogas, biomasse e bioliquidi sostenibili debba essere finalizzato, tra l'altro, a promuovere l'uso efficiente di rifiuti e sottoprodotti, di biogas da reflui zootecnici o da sottoprodotti delle attività agricole, agroalimentari, agroindustriali, di allevamento e forestali, di prodotti ottenuti da coltivazioni dedicate non alimentari, nonché di biomasse e bioliquidi sostenibili e di biogas da filiere corte;
appare evidente la necessità di promuovere e valorizzare forme di produzione dell'energia che utilizzino sostanze di origine biologica, in modo da ridurre il consumo di combustibili fossili e l'emissione di gas climalteranti, acidificanti e potenzialmente tossici, ma senza dare vita ad effetti distorsivi per l'economia agricola o addirittura inefficaci per quanto riguarda il saldo delle emissioni; in particolare, risulta essenziale favorire le filiere più efficienti nell'uso del suolo agricolo, nella riduzione delle emissioni di carbonio e capaci di generare la massima ricaduta occupazionale in ambito locale; questi aspetti possono essere verificati tramite studi dedicati di analisi del ciclo di vita (life cycle assesment) normati dalla serie ISO 14040;
il biogas è un vettore energetico polivalente e particolarmente idoneo al contesto italiano, con un'elevata densità di popolazione e un'estesa e capillare rete del gas; la filiera biogas-biometano si caratterizza, quindi, per le sue qualità plurifunzionali: elevata efficienza negli usi finali, costi di produzione competitivi rispetto alle altre fonti energetiche rinnovabili, con limitati costi di riduzione delle emissioni di gas climalteranti, in quanto consente il massimo utilizzo delle superfici agricole in termini di energia prodotta; è una fonte programmabile e conservabile mediante l'utilizzo della rete e degli stoccaggi del gas naturale ed è una filiera con un rilevante impatto sull'economia agricola e industriale;
tra le energie rinnovabili da biomassa, il biogas sembra, quindi, rappresentare un'apprezzabile potenzialità per alcune intrinseche caratteristiche positive della sua filiera: l'elevata intensità di lavoro che è in grado di produrre; l'utilizzo prevalente di biomasse prodotte dalle aziende agricole italiane; la nascente filiera tecnologica italiana di produzione di impianti a biogas, con tutte le importanti potenziali ricadute sull'indotto e gli effetti positivi derivanti dal reinvestimento dei profitti (garantiti dagli incentivi) nello sviluppo tecnologico di questo settore all'interno del sistema Paese; la valorizzazione di parametri come l'efficienza e il riciclaggio di gran parte degli scarti della produzione agricola e zootecnica; l'agevole localizzazione degli impianti in prossimità dei luoghi di produzione delle biomasse, con la contestuale riduzione dei costi (economici ed ambientali) del trasporto delle biomasse stesse; il possibile utilizzo in ambito cogenerativo;
tra le criticità emerse nella diffusione delle bioenergie si sottolineano le seguenti: la realizzazione di impianti di medie e grandi dimensioni comporta, inevitabilmente, un aumento della distanza coperta dai materiali necessari per il funzionamento degli impianti, con conseguente incremento della mobilità di mezzi pesanti e del relativo impatto ambientale; in alcune province dell'Italia si sta verificando un'eccessiva concentrazione di impianti che, in assenza di una programmazione territoriale, determina effetti in contrasto con gli obiettivi che in tutti questi anni hanno determinato il sostegno allo sviluppo degli impianti agroenergetici di piccole dimensioni nell'ottica esclusiva della multifunzionalità dell'agricoltura; occorre, quindi, che la governance delle regioni o, quando delegate, delle province sui territori sia ben organizzata e studiata nell'intera sua complessità, senza permettere la concessione di autorizzazioni quando non sono presenti tutte le corrette rassicurazioni per la sostenibilità delle filiere tradizionali;
una delle principali preoccupazioni, che andrebbe comunque confrontata con i dati Istat relativi all'ultimo censimento agricolo in merito alla cessazione delle attività agricole, riguarda il pericolo di trasformazione delle colture agricole attualmente destinate all'alimentazione umana (food) e alla zootecnia (feed) in colture finalizzate alla produzione di energia (fuel), con immaginabili alterazioni del mercato dei prodotti agricoli e zootecnici, rischiando di trasformare la finalità originaria delle agroenergie - di attività integrativa del reddito in agricoltura - in attività sostitutiva dell'agricoltura;
a riguardo si rammenta come siano stati emanati due provvedimenti cogenti: un decreto contenente le linee guida per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili ed il decreto burden sharing, ovvero la ripartizione tra le regioni e le province autonome dello sforzo per raggiungere il target europeo di energia verde fissato per l'Italia al 2020; tali provvedimenti, se applicati correttamente e tempestivamente, permetterebbero una corretta programmazione in ambito locale degli interventi;
è auspicabile promuovere la realizzazione di impianti che siano compatibili con le esigenze di vivibilità dei territori, con la salvaguardia delle produzioni agricole, specie quelle orientate alla qualità del prodotto (ad esempio, le colture biologiche o da serricoltura), stabilendo criteri per lo sfruttamento prevalente delle biomasse locali; in particolare, sarebbe opportuno prevedere meccanismi disincentivanti per l'importazione di materiale dall'estero e, in maniera diversa, l'impiego di colture dedicate quando non da filiera corta; bisogna, altresì, favorire le biomasse da rifiuti, da scarti agricoli, del verde urbano e forestali, premiando l'efficienza energetica del ciclo, ponendo attenzione alle dinamiche di mercato che potrebbero determinare effetti distorsivi connessi al costo delle matrici organiche di scarto;
è necessario apportare dei correttivi all'attuale sistema, in modo da garantire uno sviluppo sostenibile delle filiere agroenergetiche; in particolare, è importante: una razionalizzazione delle tariffe; un miglioramento dell'efficacia e dell'efficienza degli incentivi che determinino lo sviluppo di filiere industriali e l'incremento del reddito e dell'occupazione, con biomasse provenienti da filiere corte e comunque circoscritte al territorio locale; la tutela del paesaggio; un controllo del consumo dei terreni agricoli; un monitoraggio dei prezzi delle derrate alimentari e degli affitti dei terreni agricoli; un corretto inserimento degli impianti nel tessuto urbanistico e rurale in rapporto alle caratteristiche tecniche e di produzione energetica, tenendo in adeguata considerazione l'impatto sul traffico stradale, sia per quanto riguarda le emissioni inquinanti e i problemi di congestione, sia per quanto riguarda l'inquinamento acustico della zona;
sarebbe opportuno, tra l'altro, che si procedesse ad emanare tempestivamente le direttive sulle caratteristiche chimiche e fisiche del biometano di cui all'articolo 20 del decreto legislativo n. 28 del 2011,

impegna il Governo:

ad adottare nel più breve tempo possibile i decreti attuativi previsti dagli articoli 21, 24 e 28 del decreto legislativo n. 28 del 2011, diretti a favorire l'utilizzo del biometano e la produzione di energia elettrica e termica da impianti alimentati da fonti rinnovabili;
a verificare l'applicazione sul territorio nazionale delle linee guida per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili e del burden sharing e ad adottare ogni iniziativa di competenza per una regolamentazione ottimale in merito alla localizzazione degli impianti di piccole dimensioni, con l'obiettivo di incentivare il settore delle agroenergie e le connesse potenzialità in termini di green economy e, contemporaneamente, di salvaguardare la funzione primaria dell'agricoltura, il paesaggio agrario e l'equilibrio urbanistico, evitando distorsioni di mercato, come descritto in premessa, che potrebbero minarne le reali possibilità di sviluppo, essendo noto che gli scarti della filiera agroindustriale raramente sono nella disponibilità degli agricoltori;
a differenziare il sistema degli incentivi sulla base dei principi espressi nel penultimo capoverso della premessa e sulla base dell'efficienza energetica dell'impianto, con l'obiettivo di sfruttare innanzitutto le risorse locali nel rispetto della vocazione agricola del territorio, premiando la virtuosità della filiera e dell'efficienza energetica di tutto il ciclo, utilizzando, oltre a quelli già esistenti, come possibile ulteriore strumento adatto a questo tipo di monitoraggio la già citata analisi del ciclo di vita;
a favorire un protagonismo dell'imprenditoria agricola italiana, al fine di incentivare l'opzione agroenergetica come fonte integrativa di reddito capace di irrobustire la capacità reddituale dell'azienda agricola nel suo complesso, rafforzando in tal modo anche la sua capacità di produrre in modo competitivo alimenti e foraggi, differenziando le varietà colturali e mitigando il rischio associato alla stagionalità ed alle fluttuazioni dei prezzi di mercato;
a provvedere ad uniformare la legislazione relativa alla definizione di sottoprodotto ed al ciclo integrato dei rifiuti, al fine di consentire l'utilizzo del materiale organico presente nel rifiuto o quale effluente di processi industriali o substrato ideale per la produzione di energia sia attraverso combustione diretta che attraverso la produzione di biogas, risolvendo le attuali problematiche e controversie circa l'identificazione di sottoprodotti da utilizzare in ambiente agricolo.
(1-00869)
(Nuova formulazione) «Servodio, Bratti, Mariani, Oliverio, Lulli, Boccia, Margiotta, Zucchi, Froner, Agostini, Benamati, Bocci, Braga, Brandolini, Marco Carra, Cenni, Colaninno, Cuomo, Dal Moro, Esposito, Fadda, Fiorio, Ginoble, Iannuzzi, Marantelli, Marchioni, Marrocu, Martella, Mastromauro, Morassut, Motta, Peluffo, Mario Pepe (PD), Pizzetti, Portas, Quartiani, Realacci, Sanga, Sani, Scarpetti, Federico Testa, Trappolino, Vico, Viola, Zunino».
(15 febbraio 2012)

La Camera,
premesso che:
la società odierna e i relativi stili di vita sono caratterizzati da elevati consumi in campo energetico, oltre che da relazioni con l'ambiente tali da compromettere l'equilibrio sostenibile tra necessità di sviluppo ed il contesto biologico globale;
i combustibili fossili (petrolio, gas e carbone) coprono oltre l'80 per cento dei consumi energetici del pianeta, ma al loro consumo è, tuttavia, collegata una parte del problema dell'emissione di anidride carbonica, la cui concentrazione in atmosfera è considerata la causa principale dei cambiamenti climatici;
dopo una lunga fase di espansione, con ritmi di crescita economica senza precedenti, che hanno interessato anche quei Paesi che oggi sono definiti emergenti, ci si trova di fronte ad una recessione altrettanto unica, che rischia di bloccare i processi di sviluppo del commercio e delle produzioni globali;
per fronteggiare la crisi e creare le condizioni per una rapida ripresa delle economie mondiali, i Paesi stanno adottando piani volti a sostenere la domanda e gli investimenti, declinando misure diversificate a seconda delle necessità e delle emergenze dei singoli Paesi;
le biomasse costituiscono un'importante fonte energetica rinnovabile, il cui ruolo potrebbe essere determinante per il raggiungimento degli obiettivi fissati con il Protocollo di Kyoto e per il rispetto dei molteplici impegni assunti dal nostro Paese, a partire dall'attuazione del piano nazionale d'azione per le energie rinnovabili, il quale prevede la definizione del contributo delle varie fonti per conseguire gli obiettivi stabiliti in ambito comunitario per il 2020, ossia 17 per cento di produzione da fonti energetiche rinnovabili sul consumo totale di energia e 10 per cento sul consumo totale di carburanti;
in sostanza, per quanto riguarda le biomasse è previsto, sempre al 2020, un obiettivo di 18,8 terawattore di energia elettrica e 5,7 megawatt di energia termica;
l'Unione europea, di fronte al costante aumento della domanda di energia a livello mondiale, è stata spinta a rivedere le proprie strategie energetiche, puntando all'adozione di un modello di sviluppo che prevede per il 2020 il raggiungimento di quattro importanti obiettivi: ridurre del 20 per cento i gas climalteranti, aumentare del 20 per cento l'efficienza energetica, incrementare del 20 per cento il peso delle energie rinnovabili, sostituire il 10 per cento dell'attuale consumo di carburanti per veicoli con biocombustibili;
in Europa, la fornitura principale di energia proviene in proporzione: dal petrolio (36,7 per cento), dal gas (24 per cento), dal carbone e da altri combustibili solidi (17,8 per cento), dal nucleare (14,2 per cento), dalla biomassa (5,1 per cento), dall'energia idroelettrica (1,5 per cento), dall'energia geotermica, solare ed eolica (0,8 per cento);
nel febbraio 2012 l'Europa ha adottato una politica strategica per la bioeconomia in Europa, che considera le biomasse quale elemento centrale per definire un'economia post-petrolio in Europa;
la direttiva comunitaria 2009/28/CE stabilisce un quadro comune per la promozione dell'energia da fonti rinnovabili e fissa al 20 per cento la quota minima di energia da fonti rinnovabili da consumare nell'Unione europea entro il 2020, assegnando a ciascuno Stato membro un obiettivo nazionale da raggiungere entro tale data;
al fine di consentire tale obiettivo, gli Stati membri sono autorizzati ad adottare, tra l'altro, regimi di sostegno atti a promuovere l'uso di tali forme di energia e per l'Italia la quota di consumo di energia da fonti rinnovabili da raggiungere entro il 2020 è del 17 per cento;
se l'Italia sarà in grado di rispettare gli obiettivi fissati dalla direttiva 2009/28/CE la produzione delle rinnovabili nelle campagne è destinata a triplicare nei prossimi dieci anni, creando circa 100.000 posti di lavoro;
il settore agricolo è, quindi, chiamato a promuovere l'uso di energia proveniente dalle biomasse, utilizzando i più avanzati processi, ad adottare tecniche di coltivazione sostenibili - nel rispetto delle prescrizioni e delle norme sulla politica agricola comune - ed a sviluppare la ricerca e la sperimentazione sulle colture dedicate e sulle migliori e più convenienti tecnologie applicabili agli allevamenti zootecnici;
per dare un futuro alle agroenergie nel nostro Paese occorre arrivare in tempi brevi ad un nuovo sistema di incentivi che garantisca il raggiungimento degli obiettivi fissati per il biogas e le biomasse;
per il biogas, probabilmente, gli obiettivi fissati al 2020 a 1200 megawatt devono essere ritoccati con la revisione del piano di azione sulle energie rinnovabili. Per il biogas agricolo occorre assicurare almeno 1000 megawatt. In tale contesto è sempre più indispensabile disporre di un piano energetico nazionale, la cui emanazione è prevista da più di 4 anni,

impegna il Governo:

ad assumere ogni iniziativa di competenza per garantire un quadro normativo stabile e certezze per i prossimi 5 anni, con incentivi per gli imprenditori agricoli che si mettono in gioco nelle agro energie, al fine di consentire programmazione, investimenti e accesso al credito;
a favorire un protagonismo dell'imprenditoria agricola italiana, al fine di incentivare l'opzione agroenergetica come fonte integrativa di reddito capace di irrobustire la capacità reddituale dell'azienda agricola nel suo complesso, rafforzando in tal modo anche la sua capacità di produrre in modo competitivo alimenti e foraggi, differenziando le varietà colturali e mitigando il rischio associato alla stagionalità ed alle fluttuazioni dei prezzi di mercato.
(1-00905)
«Delfino, Dionisi, Mondello, Bonciani, Galletti, Libè, Compagnon, Naro, Ciccanti, Volontè».
(9 marzo 2012)

La Camera,
premesso che:
nell'ambito delle strategie di diversificazione delle energie rinnovabili la promozione di energia termica, che già rappresenta oltre il 45 per cento dei consumi finali dell'energia prodotta nella somma tra fonti tradizionali e rinnovabili, assume sempre maggior rilievo a fronte delle potenzialità ed opportunità, in termini di efficienza, di valorizzazione delle filiere produttive e di sostenibilità ambientale, che essa comporta;
il piano d'azione nazionale per l'energia da fonti rinnovabili, predisposto in attuazione della direttiva comunitaria n. 2009/28/CE, assegna all'energia termica generata da biomasse legnose e al biogas-biometano un ruolo di primo piano;
la produzione termica da biomasse è un sistema molto articolato in cui sono presenti tecnologie diversificate, quali apparecchi domestici, caldaie centralizzate e teleriscaldamento, a dimostrazione che l'intero settore è in grado di esprimere un potenziale ancora maggiore di quello stimato, come evidenziato negli obiettivi da conseguire entro il 2020 che attribuiscono alle biomasse la produzione del 54 per cento dei 10,5 megawatt di energia termica da fonti energetiche rinnovabili;
l'attivazione di un sistema incentivante, basato su una strategia di filiera, costituisce lo strumento indispensabile per lo sviluppo della termica da biomasse e, più in generale, per uno sviluppo economico a basso impatto ambientale;
il legno è, infatti, una fonte energetica rinnovabile e abbondante posto che, ogni anno, la superficie boschiva italiana, pari a 10 milioni di ettari, incrementa il capitale legnoso disponibile grazie al costante accrescimento del volume degli alberi per metro cubo e che le produzioni legnose, da destinare a scopo energetico, possono provenire anche da altre fonti, quali le potature delle colture arboree, in primis vigneti e uliveti, che trovano così utile valorizzazione;
l'interesse crescente all'approvvigionamento di biomasse legnose ad uso energetico comporta, inoltre, la riqualificazione della filiera legno-energia e dei suoi operatori, a partire dalle imprese boschive e dalle cooperative forestali che svolgono un ruolo fondamentale nella gestione sostenibile delle risorse legnose locali, nel mantenimento dell'equilibrio tra uso industriale ed energetico del legno e nella corretta implementazione della certificazione e della tracciabilità dei combustibili solidi;
per quanto concerne il settore del biogas, la filiera bioenergetica ad esso connessa rappresenta una delle strategie più utili allo sviluppo delle imprese agricole sia per la maggior capacità produttiva in termini di energia primaria per ettaro di superficie agricola utilizzata, che per la maggior capacità di ridurre le emissioni di anidride carbonica;
la digestione anaerobica permette, infatti, di sfruttare, con elevata efficienza, biomasse vegetali e/o animali, di scarto e/o dedicate, umide e/o secche prevalentemente di origine locale, dando luogo ad un sottoprodotto che può trovare collocazione agronomica nelle vicinanze degli impianti con conseguente riciclo virtuoso degli elementi fertilizzanti;
la previsione di crescita per il settore del biogas è di circa 900 megawatt rispetto alla potenza installata nel 2005 e l'obiettivo per il 2020, fissato a 1.200 megawatt, evidenzia un ulteriore potenziale di sviluppo rispetto ai circa 600 impianti presenti sul territorio italiano e rappresenta un importante stimolo alla predisposizione di ulteriori siti, anche a fronte dell'incremento che tali nuove realizzazioni comporterebbero in termini di giro di affari, pari a circa il 4 per cento del prodotto interno lordo dell'agricoltura italiana e di risparmio dei costi per l'import di gas naturale;
stime recenti evidenziano, infatti, considerati i quantitativi disponibili di biomasse di scarto e di origine zootecnica utilizzabili in codigestione con biomasse vegetali provenienti da coprodotti e sottoprodotti agricoli e da circa 200.000 di ettari di colture dedicate, un potenziale produttivo pari a circa 6,5 miliardi di metri cubi di gas metano equivalenti, pari a circa l'8 per cento del consumo attuale di gas naturale in Italia;
il biogas rappresenta un'opportunità unica per il nostro Paese in ragione della plurifunzionalità della filiera: è realizzabile a livello decentrato con biomasse di origine locale in impianti ad elevata efficienza, con costi di produzione aventi margini di miglioramento sia nella fase agricola che di conversione energetica; è una fonte programmabile e, una volta raffinato a biometano, è in grado sfruttare la possibilità di accumulo rappresentata dalla rete e dagli stoccaggi del gas naturale;
sebbene il potenziale del biogas agricolo sia significativo in tutto il territorio italiano, il maggiore potenziale, per quanto riguarda la digestione anaerobica in codigestione, con particolare riferimento all'utilizzo degli effluenti zootecnici, è localizzato nelle regioni del Nord Italia, ove, per contro, minore è il potenziale dell'energia solare e molto ridotta è l'energia ricavabile dalla fonte eolica; pertanto, l'introduzione di un adeguato sistema di incentivazione rappresenta un importante fattore da valutare nell'ambito degli obblighi derivanti alle regioni del Nord nell'ambito del cosiddetto burden sharing;
il decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28, recante attuazione della direttiva europea sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili, nell'enunciare regole e principi per la promozione e lo sviluppo delle energie «verdi», assegna ad una serie di decreti attuativi, in via di predisposizione, la definizione dell'operatività degli strumenti necessari al conseguimento degli obiettivi concordati a livello comunitario;
sarebbe, peraltro, opportuna una rapida emanazione delle direttive previste dall'articolo 20 del decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28, relativamente alle condizioni tecniche ed economiche per l'erogazione del servizio di connessione di impianti per la produzione di biometano alle reti del gas naturale, i cui gestori hanno l'obbligo di connessione di terzi,

impegna il Governo:

ad emanare con urgenza i decreti attuativi di cui al decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28, al fine di rendere operativi i sistemi incentivanti previsti per la produzione di energia termica di cui all'articolo 28 e di energia elettrica da fonti rinnovabili di cui all'articolo 24 e, prioritariamente, quelli previsti dagli articoli 21 e 22, relativi agli incentivi per il biometano immesso nella rete del gas naturale e alla costituzione del fondo di garanzia per la realizzazione delle reti di teleriscaldamento, provvedendo, in particolare, a:
a) stabilire che l'obbligo di quote crescenti di energia termica da fonti rinnovabili negli edifici di prossima costruzione, previsto dall'articolo 22 del decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28, sia applicato integralmente e da subito, senza la previsione di eventuali proroghe;
b) riconoscere agli impianti a biogas di piccola e media taglia (0-300 kilowatt e 300-600 kilowatt), che costituiscono le dimensioni più adatte alla scala delle aziende agricole italiane, tariffe incentivanti adeguate a stimolare gli investimenti e ripagare i costi di gestione;
c) chiarire i criteri di rilascio dei certificati bianchi, anche in considerazione dei provvedimenti recentemente emanati in materia da parte dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas.
(1-00912)
«Bossi, Callegari, Lanzarin, Dozzo, Alessandri, Rainieri, Dussin, Togni, Negro, Montagnoli, Fugatti, Comaroli, Fogliato, Lussana, Fedriga, Volpi, Allasia, Bitonci, Bonino, Bragantini, Buonanno, Caparini, Cavallotto, Chiappori, Consiglio, Crosio, D'Amico, Dal Lago, Desiderati, Di Vizia, Fabi, Fava, Forcolin, Follegot, Gidoni, Giancarlo Giorgetti, Goisis, Grimoldi, Isidori, Maggioni, Maroni, Martini, Meroni, Molgora, Laura Molteni, Nicola Molteni, Munerato, Paolini, Pastore, Polledri, Reguzzoni, Rivolta, Rondini, Simonetti, Stefani, Stucchi, Torazzi, Vanalli».
(9 marzo 2012)

La Camera,
premesso che:
secondo quanto stabilito dalla direttiva 2009/28/CE, nel 2020 l'Italia dovrà coprire il 17 per cento dei consumi finali di energia mediante fonti rinnovabili. Prendendo a riferimento lo scenario efficiente, questo significa che nel 2020 il consumo finale di energie rinnovabili dovrà attestarsi a 22,31 megawatt di energia termica;
gli obiettivi e l'ampiezza della direttiva 2009/28/CE impongono un rinnovato impegno, con criteri che assicurino uno sviluppo equilibrato dei vari settori che concorrono al raggiungimento di detti obiettivi e tenendo conto del rapporto costi-benefici;
sono già disponibili numerosi meccanismi di sostegno, che assicurano la remunerazione degli investimenti in diversi settori delle energie rinnovabili e dell'efficienza energetica, e favoriscono la crescita di filiere industriali;
secondo la definizione contenuta nel decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28, di attuazione della direttiva 2009/28/CE, per biomassa si intende la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l'acquacoltura, gli sfaldi e le potature provenienti dal verde pubblico e privato, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani;
trarre energia dalle biomasse consente di eliminare rifiuti prodotti dalle attività umane, produrre energia elettrica e ridurre la dipendenza dalle fonti di natura fossile come il petrolio. Si tratta di una fonte di energia pulita su cui l'Unione europea ha deciso di investire;
la Commissione europea è sempre più convinta che le biomasse agroforestali, tra le fonti «verdi», possano svolgere un ruolo importante sia per la sicurezza del l'approvvigionamento energetico sia nella lotta contro il cambiamento climatico;
l'agricoltura può contribuire al contenimento delle emissioni di gas serra in termini di fissazione temporanea di carbonio nei suoli, nelle produzioni vegetali ed arboree e, soprattutto, nella produzione di biomasse agroforestali da impiegare ai fini energetici, con effetti sostitutivi dei combustibili fossili e riduzione delle emissioni di anidride carbonica;
gli impianti di produzione di energia elettrica possono essere alimentati da biomasse solide come legna, cippato, pellet, ma anche con rifiuti solidi urbani, biogas (derivanti dalla frazione organica dei rifiuti solidi urbani, da fanghi, deiezioni animali, ma anche da attività agricole) e bioliquidi (oli vegetali grezzi o altri bioliquidi);
i biocombustibili sono un'energia pulita a tutti gli effetti, in quanto liberano nell'ambiente le sole quantità di carbonio che hanno assimilato le piante durante la loro formazione ed una quantità di zolfo e di ossidi di azoto nettamente inferiore a quella rilasciata dai combustibili fossili;
i combustibili di origine biologica allo stato liquido sono distinti, in base al decreto legislativo n. 28 del 2011, in: bioliquidi (combustibili liquidi per scopi energetici diversi dal trasporto, compresi l'elettricità, il riscaldamento ed il raffreddamento prodotti dalla biomassa) e biocarburanti (carburanti liquidi o gassosi per i trasporti ricavati dalla biomassa);
in particolare, riguardo alla produzione dei biocarburanti, l'input lanciato dalla Commissione europea agli Stati membri («Strategia Ue per i biocarburanti», COM 34/2006) è di riflettere su dove allestire le colture energetiche, affinché si inseriscano in maniera ottimale nella rotazione delle colture, al fine di evitare ripercussione negative sulla biodiversità, l'inquinamento idrico, il degrado del suolo e la distruzione di habitat e di specie di elevata importanza naturale;
il biogas, costituito prevalentemente da metano e da anidride carbonica, nasce dalla fermentazione anaerobica di materiale organico di origine animale e vegetale e vi sono una molteplicità di matrici organiche da cui può essere prodotto: rifiuti conferiti in discarica ovvero frazione organica dei rifiuti urbani, fanghi di depurazione, deiezioni animali, scarti di macellazione, scarti organici agroindustriali, residui colturali, colture energetiche dedicate;
il settore della biomassa deve essere promosso in maniera organica, individuando misure volte ad incrementarne la disponibilità e lo sfruttamento, indirizzandone gli impieghi non alla sola generazione elettrica, ma a forme più convenienti ai fini della copertura degli usi finali: produzione di calore per il soddisfacimento di utenze termiche e per la cogenerazione;
lo sviluppo dell'utilizzo della biomassa non può prescindere da considerazioni di carattere ambientale (emissioni, criteri di sostenibilità) e di competitività con altri settori (alimentare, industriale);
negli ultimi anni vi è stato un incremento dello sviluppo delle tecniche di produzione energetica da biomasse e dai suoi prodotti, anche a seguito dell'introduzione di una legislazione di sostegno, che prevede, tra l'altro, meccanismi incentivanti;
l'articolo 24 del decreto legislativo n. 28 del 2011 prevede un regime di incentivazione di biogas, biomasse e bioliquidi sostenibili, che deve tener conto della tracciabilità e della provenienza della materia prima ed è finalizzato a promuovere l'uso efficiente di rifiuti e sottoprodotti, da biogas da reflui zootecnici o da sottoprodotti delle attività agricole, agroalimentari, agroindustriali, di allevamento e forestali, di prodotti ottenuti da coltivazioni dedicate non alimentari, nonché di biomasse e bioliquidi sostenibili e biogas da filiere corte, contratti quadro e da intese di filiera;
un impulso decisivo allo sviluppo sul territorio delle biomasse è stato dato dal decreto del Ministero dello sviluppo economico, di concerto con il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e con il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, del 10 settembre 2010, in materia di «Linee guida per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili», che disciplina le modalità di autorizzazione dei diversi impianti e l'adeguamento delle regioni alla normativa in materia;
in particolare, nella parte che dispone che «le regioni possono indicare aree e siti non idonei all'installazione di specifiche tipologie di impianti. L'individuazione delle aree non idonee è operata dalle regioni attraverso un'apposita istruttoria che prenda in considerazione le disposizioni volte alla tutela dell'ambiente, del paesaggio, del patrimonio storico ed artistico, delle tradizioni agroalimentari locali, della biodiversità e del paesaggio rurale»;
se da tale ricognizione emergessero obiettivi di protezione non compatibili con l'insediamento di specifiche tipologie e/o dimensioni di impianti, si determinerebbe un'elevata probabilità di esito negativo in sede di autorizzazione. Gli esiti dell'istruttoria dovranno contenere, per ciascuna area individuata come non idonea, la descrizione delle incompatibilità riscontrate;
le regioni conciliano le politiche di tutela dell'ambiente e del paesaggio con quelle di sviluppo e valorizzazione delle energie rinnovabili attraverso atti di programmazione congruenti con la quota minima di produzione di energia da fonti rinnovabili loro assegnata (burden sharing), assicurando uno sviluppo equilibrato delle diverse fonti;
le aree non idonee sono, dunque, individuate dalle regioni nell'ambito dell'atto di programmazione con cui sono definite le misure e gli interventi necessari al raggiungimento degli obiettivi di burden sharing fissati. Con tale atto, la regione individua le aree non idonee, tenendo conto di quanto eventualmente già previsto dal piano paesaggistico e in congruenza con lo specifico obiettivo assegnatole,

impegna il Governo:

a promuovere una revisione della normativa vigente al fine di valorizzare le cosiddette agroenergie, rispettando la tipicità dell'economia italiana ed evitando distorsioni del mercato nel settore agroalimentare;
a valutare l'opportunità di sviluppare, in accordo con le regioni, nel rispetto delle proprie ed altrui competenze, la programmazione, su scala regionale, della coltivazione dei prodotti agricoli ad uso energetico;
ad assumere iniziative volte a chiarire il quadro normativo in materia di identificazione degli scarti di origine agroindustriale, allorché si tratti di risorse per la produzione di energia e, quindi, impiegabili in impianti di produzione energetica;
ad elaborare i dettagli di meccanismi di supporto più ambiziosi per lo sviluppo e lo sfruttamento delle biomasse a fini energetici e, allo stesso tempo, ad orientare la domanda verso comportamenti più rispettosi dell'ambiente e più sensibili alla questione del risparmio energetico;
ad accelerare i tempi di adozione dei decreti attuativi relativi ai meccanismi di incentivazione delle fonti rinnovabili, al fine di un rilancio economico del Paese, in quanto possono rappresentare un volano determinante per gli investimenti e per la creazione di occupazione green.
(1-00914)
«Beccalossi, Paolo Russo, Aracri, Baldelli, Cannella, Catanoso, De Corato, De Camillis, Di Caterina, Dima, Faenzi, Tommaso Foti, Ghiglia, Laffranco, Nastri, Nola, Saglia».
(12 marzo 2012)
(Mozione non iscritta all'ordine del giorno ma vertente su materia analoga)

La Camera,
premesso che:
con la direttiva 2009/28/CE, che supera le precedenti direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE, rispettivamente in materia di elettricità da fonti rinnovabili e di biocarburanti, l'Unione europea ha implementato la propria politica in materia di riduzione dei gas serra, attraverso l'incremento della produzione di energia da fonti rinnovabili. In particolare, la citata direttiva mira ad istituire un quadro comune per la promozione dell'energia prodotta da fonti rinnovabili e, per ciascuno Stato membro, fissa un obiettivo per la quota di energia da fonti rinnovabili sul consumo finale lordo di energia entro il 2020;
il nuovo quadro normativo comunitario è finalizzato a concentrare lo sforzo in funzione del raggiungimento del già individuato obiettivo del cosiddetto «20-20-20», che prevede, entro il 2020: la riduzione del 20 per cento delle emissioni di gas serra, il risparmio energetico del 20 per cento, l'innalzamento al 20 per cento del livello di consumo di energia da fonti rinnovabile;
la direttiva comunitaria 2009/28/CE, «Promozione dell'uso delle energie da fonti rinnovabili», ha ripartito l'obiettivo generale del 20 per cento da fonte rinnovabile tra tutti gli Stati membri secondo il principio del burden sharing, già utilizzato con il protocollo di Kyoto. La Commissione europea ha, infatti, fissato i singoli obiettivi nazionali, giuridicamente vincolanti, tenendo conto della situazione economica di ogni Stato. Con l'Italia è stata concordata una quota del 17 per cento di energia da fonti energetiche rinnovabili da raggiungere entro il 2020;
nel quadro delle politiche e delle misure nazionali finalizzate al raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di anidride carbonica stabiliti nel Protocollo di Kyoto, è necessario individuare alcuni strumenti strategici per lo sviluppo e l'integrazione di filiere di produzione e di distribuzione di energie rinnovabili che siano in grado di produrre energia «pulita», limitando l'emissione in atmosfera di anidride carbonica e di altri gas ad effetto serra risultante dall'uso dei combustibili fossili;
nell'ambito del piano nazionale d'azione per le energie rinnovabili, il settore delle biomasse riveste un ruolo di primaria importanza. Sommando gli obiettivi di energia da fonti rinnovabili per il 2020, ripartiti in elettricità, calore/raffrescamento e trasporti, a tutte le biomasse solide (in larga parte biomasse legnose), gassose (biogas e biometano) e liquide (biocarburanti), viene richiesto di produrre il 44 per cento di tutta l'energia da fonti rinnovabili a fine decennio;
la scelta di investire sulle energie rinnovabili, soprattutto sulle biomasse, non è soltanto una scelta ambientale per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica; gli impianti di energia da biomasse, e in modo spiccato le biomasse forestali, il biogas ed in parte i biocarburanti, hanno la caratteristica di essere forme di produzione diffusa di energia la cui ricaduta economica sui territori è forte e continuativa. Il petrolio ed il carbone, ma anche l'uranio, rastrellano ricchezza dai Paesi di consumo e la trasferiscono ai luoghi di estrazione, lasciando l'inquinamento nelle zone di raffinazione e consumo. Viceversa, l'indotto generato sui territori dalle fonti rinnovabili è stabile e significativo. In Germania è stato valutato che le fonti rinnovabili di energia, incluso l'eolico, abbiano generato 450.000 nuovi posti di lavoro;
biomassa è un termine che riunisce tipi diversi di materiali, di natura estremamente eterogenea. In forma generale, si può dire che sono biomassa tutti quei materiali che hanno una matrice organica e che vengono prodotti in modo ciclico (rinnovabili) attraverso processi naturali (foreste e legno) o produttivi (agricoltura). Le biomasse possono essere costituite dai residui delle coltivazioni destinate all'alimentazione umana o animale (ad esempio, residui delle potature, paglia ed altro), da colture espressamente condotte per scopi energetici (ad esempio, produzione di biodiesel o alcol), da materiali legnosi e residui di origine forestale, da scarti di attività dell'industria agroalimentare o del legno (ad esempio, le vinacce dell'industria della vinificazione, la sansa dell'industria dell'olio, i trucioli o la segatura dell'industria del legno), da scarti delle aziende zootecniche (deiezioni solide e liquide), dalla parte organica dei rifiuti urbani o dai materiali di risulta delle operazioni di cura del verde (ad esempio, potatura siepi e viali alberati urbani, manutenzione aree ripariali);
non vi è una definizione univoca di biomassa, per la legge italiana. Solo nell'ambito dell'impiego delle biomasse per la produzione di energia elettrica vengono utilizzate definizioni più specifiche. L'articolo 2 del decreto legislativo n. 387 del 2003 riprende la direttiva 2001/77/CE e stabilisce che «per biomassa si intende la parte biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali) e dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani». La definizione di biomassa ai sensi del decreto legislativo n. 387 del 2003 è stata ampliata dal decreto legislativo n. 28 del 2011, recante «Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE». L'articolo 2, lettera e), definisce la biomassa come «la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l'acquacoltura, gli sfalci e le potature provenienti dal verde pubblico e privato, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani.» Quest'ultima è la definizione utile ai fini autorizzativi ed alla quale si attengono le normative locali;
ai fini energetici le biomasse si distinguono in:
a) bioliquidi: i «combustibili liquidi per scopi energetici diversi dal trasporto, compresi l'elettricità, il riscaldamento ed il raffreddamento, prodotti dalla biomassa»;
b) biocarburanti: i «carburanti liquidi o gassosi per i trasporti ricavati dalla biomassa»;
c) biometano: il «gas ottenuto a partire da fonti rinnovabili avente caratteristiche e condizioni di utilizzo corrispondenti a quelle del gas metano e idoneo all'immissione nella rete del gas naturale»;
ciascuna delle biomasse sopra elencate porta con sé impatti ambientali che devono necessariamente essere valutati quando si scende dall'ambito delle scelte strategiche e si definiscono i criteri per effettuare le scelte migliori rispetto alle biomasse da impiegare e le tecnologie da utilizzare; i criteri in questione possono essere riassumibili in alcuni punti:
a) le biomasse devono generare ricchezza sul luogo di realizzazione dell'impianto, evitando che l'approvvigionamento della biomassa abbia un impatto ambientale insostenibile, anche in termini di incremento della viabilità;
b) a valutazione di compatibilità ambientale dell'impianto a biomassa deve tenere conto dell'intero ciclo produttivo;
c) gli impianti devono avere dimensioni proporzionate alla capacità produttiva del luogo di installazione (filiera corta), di cui sia garantita la tracciabilità e la compatibilità ambientale del trasporto;
d) devono essere privilegiati, attraverso semplificazioni autorizzative, tutti quegli impianti che utilizzano l'energia termica senza disperderla nell'ambiente;
il contributo delle biomasse alla produzione di energie da fonte rinnovabile è importante in quel mix energetico sostenibile che l'Italia dovrà utilizzare, contestualmente alle politiche di risparmio ed efficienza, per sostituire gradualmente le fonti fossili; ma il loro uso, in un'ottica di sostenibilità, non dovrà dare vita ad effetti distorsivi per l'economia agricola, negativi per gli equilibri ambientali e paesaggistici, o addirittura inefficaci per quanto riguarda il saldo delle emissioni dei gas serra;
uno sviluppo corretto delle agroenergie dovrebbe essere innanzitutto decentralizzato e integrato con le economie agricole locali e i contesti territoriali. Tuttavia, bisognerà evitare che tale decentramento produca, da una parte, un puzzle di norme e di criteri di valutazione e, dall'altra, una proliferazione di impianti che nulla hanno a che fare con l'agricoltura locale e con le risorse del territorio. A tale scopo, è utile che i criteri di calcolo della quota di produzione di energia da biomasse che ogni regione dovrà garantire per il rispetto degli obiettivi nazionali (cosiddetta burden sharing) siano basati sulle potenzialità effettive e sulle vocazioni agricole e forestali dei diversi territori, sia in termini di colture che di processi di produzione/trasformazione dedicati;
bisogna, quindi, favorire filiere che siano efficienti nell'uso del suolo agricolo e nella riduzione delle emissioni di carbonio gas serra, sostenibili dal punto di vista ambientale e paesaggistico e capaci di generare la massima ricaduta occupazionale in ambito locale, sia dal punto di vista delle imprese agroforestali che dal punto di vista dell'imprenditoria in generale; questi aspetti possono essere verificati tramite studi dedicati di analisi del ciclo di vita della biomassa (life cycle assesment) normati dalla serie ISO 14040; in questa prospettiva, la produzione dedicata di biomasse dal settore agricolo dovrebbe essere realizzata prestando attenzione ad aspetti di risparmio energetico e di uso razionale degli input produttivi. Il ricorso a tecniche agronomiche a basso input energetico e rispettose dell'uso del suolo, come, ad esempio, i sistemi di agricoltura conservativa, possono rappresentare una possibile via per la produzione sostenibile di biomasse agricole, specie se accompagnati da sistemi di agricoltura di precisione che consentono di impiegare in modo oculato e razionale i diversi input colturali necessari (fertilizzanti, fitofarmaci ed altro);
al fine di rispettare i principi di sostenibilità ed economicità, è necessario che si instauri un'interazione positiva tra impresa energetica e azienda agricola, evitando innanzitutto un meccanismo competitivo che vedrebbe crescere l'una a discapito dell'altra e garantendo, al contempo, una migliore gestione degli aspetti ambientali. Ad esempio, per gli impianti di piccole dimensioni che per proprie caratteristiche rispondono meglio ai principi di sostenibilità sociale, ambientale e paesaggistica, le possibilità di raggiungere un'adeguata efficienza economica sono legate alla capacità di radicarsi nel contesto produttivo locale e di creare un circolo virtuoso grazie all'abbattimento dei costi di produzione, recupero e trasporto della biomassa;
oltre alla combustione si possono avere altri usi energetici delle biomasse: ad esempio, la trasformazione chimica, in appositi digestori anaerobici, del materiale organico in biogas, ossia metano, da utilizzare per qualunque uso (produzione di calore ed elettricità o come carburante da trazione). Questa trasformazione è particolarmente efficace per tutti gli scarti e reflui di origine zootecnica, agricola ed alimentare ed è particolarmente adatta per i contesti agricoli intensivi di pianura caratterizzati da alta produttività;
esperienze già in atto nel contesto italiano stanno dimostrando come questi impianti riescano ad essere tecnologicamente ed economicamente sostenibili solo se riescono a superare determinate dimensioni strutturali. Questo comporta in diversi casi delicate implicazioni connesse all'approvvigionamento della biomassa, sia dal punto di vista della logistica (raggio di approvvigionamento) che del tipo di biomassa da impiegare. Spesso, infatti, l'alimentazione degli impianti richiede di estendere il raggio di approvvigionamento, cosa che solleva problemi di pressione sul traffico stradale e di emissioni e consumi energetici connessi all'uso dei mezzi di trasporto;
le biomasse residuali impiegate nell'alimentazione degli impianti di gassificazione vengono spesso integrate con massicce dosi di prodotti agricoli come il mais o altri cereali altamente energetici, che, in questo modo, vengono sottratti alla loro tradizionale funzione di alimentazione umana (food) o animale (feed). Tale situazione ricrea negli areali di produzione una competizione fra la funzione energetica (biomassa) e la funzione alimentare (food e feed) di prodotti come i cereali; competizione che si traduce in forti distorsioni di mercato che si ripercuotono sul costo di produzione di altre importanti derrate, come il latte e la carne;
di conseguenza, in alcune aree della penisola numerosi allevatori riscontrano notevoli difficoltà nell'approvvigionamento dei foraggi a prezzi competitivi. Questa situazione rischia, da un lato, di esercitare una pressione eccessiva sugli allevamenti e, dall'altro, di generare inaccettabili incrementi dei prezzi al consumo di diversi prodotti alimentari. Appare chiara, dunque, la necessità di prevenire questi problemi attraverso la predisposizione di appositi strumenti normativi che permettano di regolare il mercato delle produzioni agricole che possono essere destinate sia alla filiera energetica che a quella agroalimentare;
altra fonte di energie rinnovabili può essere rappresentata anche dai biocombustibili, da impiegarsi sia per la produzione di energia (bioliquidi) che per l'autotrazione (biocarburanti). Tali biocombustibili possono essere ottenuti anche attraverso la coltivazione di colture oleaginose come il girasole o il colza. Tali colture, per caratteristiche agronomiche, possono risultare particolarmente adatte in molti contesti agricoli marginali del nostro Paese, in quanto richiedono input energetici ridotti e cure colturali moderate. Come detto in precedenza, il piano nazionale d'azione per le energie rinnovabili dispone che entro il 2020 l'84 per cento dell'energia utilizzata per i trasporti debba derivare da biomasse. Già ad oggi, nel 2012, vige in Italia l'obbligo di miscelare al 4,5 per cento i carburanti di origine fossile con carburanti di origine agricola;
non è ben chiaro quale strategia seguirà l'Italia per approvvigionarsi di questi ingenti volumi di biocarburanti, ma di sicuro questo rappresenterebbe un mercato in cui le (seppur modeste) quantità di biocombustibili prodotte nel nostro Paese potrebbero trovare facile collocazione. L'estrazione a freddo dell'olio dai semi di girasole o colza può essere oggi realizzata in modo facile ed efficiente. A tale proposito, la nascita di piccoli impianti consortili di estrazione potrebbe favorire la creazione di piccoli distretti energetici che troverebbero mercato nell'autoconsumo a livello locale o nella fornitura di prodotto energetico a strutture di consumo, come i già citati edifici di interesse pubblico;
in diversi contesti del territorio italiano le comunità locali si dimostrano ancora poco propense ad accettare impianti di conversione energetica delle biomasse. Tale preclusione è legata in parte alla disinformazione che porta a considerare questi impianti come fonti di inquinamento atmosferico e, in parte, al ragionevole timore di uso improprio delle strutture a fini di smaltimento dei rifiuti. Questa evidenza dovrebbe invitare ad ipotizzare delle campagne di educazione e sensibilizzazione che avvicinino i cittadini al tema delle energie da biomassa. Gli impianti, da parte loro, dovrebbero essere realizzati secondo criteri di sostenibilità economica, ambientale, sociale, paesaggistica e tecnica. Tali criteri, seppur di valore universale, hanno necessità di essere calati nelle molteplici realtà locali ritrovabili a livello nazionale. In tale ottica, maggiore ricerca e innovazione tecnologica sarebbero necessarie per trasformare in contributo reale alla crescita le potenzialità teoriche racchiuse nel concetto di biomasse e bioenergie,

impegna il Governo:

ad assumere iniziative volte a differenziare le misure di sostegno, privilegiando le biomasse di scarto o a filiera corta entro 70 chilometri dall'impianto di produzione dell'energia/calore;
ad assumere iniziative volte a prevedere particolari incentivi per le aziende agricole che decidono di utilizzare per proprio consumo le biomasse autoprodotte, specie in quei contesti ad alte esigenze energetiche, come le serre, gli allevamenti zootecnici o gli impianti aziendali di trasformazione dei prodotti alimentari;
a costruire degli strumenti di controllo delle produzioni di biomasse agricole e delle relative filiere di conversione energetica per evitare che si verifichino deleterie distorsioni di mercato che potrebbero avere ripercussioni sulla competitività di alcune filiere agroalimentari e sui prezzi al consumo dei prodotti;
a mettere in atto iniziative volte ad evitare il rischio di abbandono delle pratiche agricole tradizionali, prevedendo che la produzione di biomasse o di energia da biomassa rappresenti per l'azienda agricola un'integrazione e non una fonte sostitutiva di reddito aziendale;
a favorire la realizzazione di piccoli distretti o reti energetiche nelle aree rurali, favorendo la partecipazione attiva delle imprese e delle aziende agricole;
a rafforzare gli strumenti di controllo della sostenibilità ambientale ed energetica dei processi di produzione delle biomasse e dell'impatto paesaggistico/ambientale degli impianti.
(1-00915)
«Di Giuseppe, Donadi, Borghesi, Rota, Messina, Di Stanislao, Piffari».
(12 marzo 2012)
(Mozione non iscritta all'ordine del giorno ma vertente su materia analoga)

La Camera,
premesso che:
il recente decreto legislativo n. 28 del 2011 - «Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE» - all'articolo 2, lettera e), definisce la biomassa come «la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l'acquacoltura, gli sfalci e le potature provenienti dal verde pubblico e privato, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani»;
le biomasse rappresentano una fondamentale fonte di energia rinnovabile, ricavata dal recupero di scarti vegetali ed altre fonti derivanti da processi industriali ed agricoli e presentano grandi potenzialità di sviluppo, specialmente nel territorio italiano naturalmente adatto ad accogliere impianti a biomasse per le sue caratteristiche;
la filiera biogas-biometano ha un rilevante impatto sull'economia agricola e industriale, ma presenta anche molteplici ulteriori aspetti positivi come: l'elevata efficienza negli usi (energia elettrica e termica, carburanti da biomasse, biodiesel e bioetanolo) e costi di produzione competitivi; inoltre, limita l'inquinamento di atmosfera e falde acquifere, migliora il ciclo della vita dei prodotti combustibili; ed infine, le biomasse rappresentano una fonte programmabile e conservabile attraverso l'utilizzo della rete e degli stoccaggi del gas naturale;
dal punto di vista degli impianti vi è una pluralità di soluzioni: la combustione diretta della biomassa, in forni appositi, ne comporta un'ossidazione totale ad alta temperatura; gassificazione, pirolisi e carbonizzazione, invece, sono processi che comportano un'ossidazione parziale della biomassa, in modo da ottenere sottoprodotti solidi, liquidi e gassosi, più puri rispetto alla fonte di partenza, che possono poi essere combusti completamente in un passaggio successivo;
le centrali termoelettriche alimentate da biomasse solide o liquide effettuano la conversione dell'energia termica, contenuta nel combustibile biomassa, in energia meccanica e successivamente in energia elettrica;
il fatto che le suddette centrali si basino, soprattutto, sugli scarti di produzione rappresenta un vantaggio economico e sociale rilevante, in quanto il settore riutilizza e smaltisce rifiuti in modo corretto, produce energia elettrica e riduce la dipendenza dalle fonti di natura fossile;
in futuro le biomasse potranno essere applicate per lo sviluppo di una chimica capace di produrre biomateriali,

impegna il Governo:

ad assumere iniziative volte ad incentivare l'opzione agroenergetica per l'imprenditoria agricola italiana, sottolineandone l'importanza come fonte alternativa di reddito e salvaguardando la funzione primaria dell'agricoltura;
a favorire, per quanto di competenza, le proposte di uniformare la normativa relativa alla definizione di sottoprodotto ed al ciclo integrato di rifiuti, in modo da superare le attuali difficoltà date dalle diverse fonti normative;
ad assumere iniziative finalizzate a differenziare il sistema degli incentivi al fine di determinare lo sviluppo di filiere industriali, favorendo così l'incremento del reddito e dell'occupazione;
a monitorare e vigilare sul corretto inserimento degli impianti nel tessuto urbanistico e rurale, preservando il paesaggio.
(1-00918)
«Misiti, Iapicca, Miccichè, Fallica, Grimaldi, Pugliese, Soglia, Stagno d'Alcontres, Terranova, Mario Pepe (Misto-R-A)».
(12 marzo 2012)
(Mozione non iscritta all'ordine del giorno ma vertente su materia analoga)

La Camera,
premesso che:
la produzione di energia derivante dall'utilizzo delle biomasse e dai suoi prodotti attraverso processi di conversione in energia di tipo termochimico e biochimico rappresenta, senza dubbio, una delle prospettive più concrete nel panorama dell'incentivazione e della promozione dell'energia rinnovabile in Italia;
secondo la definizione introdotta dalla direttiva 2003/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2003, si intende per biomassa la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l'acquacoltura, gli sfalci e le potature provenienti dal verde pubblico e privato, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani;
le dinamiche produttive caratterizzanti l'utilizzazione energetica delle biomasse fanno riferimento alla combustione diretta, alla trasformazione di queste in combustibili liquidi, alla produzione di gas combustibile e alla produzione di biogas;
secondo uno studio condotto dall'Osservatorio agro energia, attualmente dai sottoprodotti, intesi come scarti biologici delle lavorazioni agricole, sarebbe possibile ottenere oltre 10 mtep (milioni di tonnellate equivalenti di petrolio) di energia all'anno, pari al 49 per cento della produzione da fonti rinnovabili e il 5 per cento dei consumi italiani. Tale comparto risulta al momento fortemente limitato, tra l'altro, dal quadro normativo di riferimento che non consente una chiara individuazione di sottoprodotto a fini energetici;
come specificato anche dall'articolo 3 del decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28, la quota complessiva di energia da fonti rinnovabili che l'Italia dovrà conseguire sul consumo finale lordo di energia nel 2020 è pari a 17 per cento;
nel giugno 2010 il Ministero dello sviluppo economico ha definito il piano d'azione nazionale per le energie rinnovabili (pan) ai sensi della direttiva 2009/28/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2009 che rappresenta uno degli step più importanti dello sviluppo della strategia energetica nazionale sostenibile;
il comparto energetico derivante dalle biomasse rappresenta un punto molto importante del piano, poiché sulla base degli obiettivi di energia da fonti rinnovabili per il 2020, ripartiti in macroaree come elettricità, calore/raffrescamento e trasporti, al complesso delle biomasse solide, gassose e liquide, è attribuito l'obiettivo di produrre il 44 per cento di tutta l'energia da fonti rinnovabili. In questa prospettiva, il riferimento produttivo alle biomasse rappresenta un tassello importante nel progetto del raggiungimento degli obiettivi energetici sopra citati;
in data 13 febbraio 2012, con la comunicazione «l'innovazione per una crescita sostenibile: una bioeconomia per l'Europa» della Commissione europea al Parlamento europeo, al Consiglio, al comitato economico e sociale europeo e al comitato delle regioni, ha delineato la strategia dell'Europa per ridurre la dipendenza energetica dalle risorse non rinnovabili. In tale contesto, è stato evidenziato che «la strategia per la bioeconomia sosterrà l'iniziativa per una »crescita blu«, le direttive sull'energia rinnovabile e sulla qualità del combustibile, nonché il piano strategico europeo per le tecnologie energetiche, mettendo a disposizione migliori conoscenze di base e stimolando l'innovazione per la produzione di biomasse di qualità (ad esempio, attraverso colture di piante industriali) a prezzi competitivi e senza compromettere la sicurezza alimentare o incrementare la pressione sulla produzione primaria e sull'ambiente o creare distorsioni di mercato a favore dell'utilizzo di energia»;
negli ultimi 4 anni il panorama economico italiano ha assistito ad un incremento dello sviluppo delle tecniche di produzione energetica da biomasse e dai suoi prodotti, anche a seguito dell'introduzione di una legislazione di sostegno, che prevede, tra l'altro, meccanismi incentivanti;
nello specifico, il decreto legislativo citato, all'articolo 24 prevede che per biogas, biomasse e bioliquidi sostenibili, l'incentivo è finalizzato a promuovere, «l'uso efficiente di rifiuti e sottoprodotti, di biogas da reflui zootecnici o da sottoprodotti delle attività agricole, agro-alimentari, agroindustriali, di allevamento e forestali, di prodotti ottenuti da coltivazioni dedicate non alimentari, nonché di biomasse e bioliquidi sostenibili e biogas da filiere corte, contratti quadri e da intese di filiera»;
i prodotti delle biomasse - bioliquidi e biocombustibili - rappresentano delle importanti risorse rispettivamente sul versante della produzione energetica e quello dei trasporti che stanno acquistando una rilevante configurazione produttiva negli ultimi anni in Italia;
per quanto possa essere apprezzabile ed auspicabile la valorizzazione delle cosiddette filiere corte, segnatamente sul versante dell'utilizzo dei bioliquidi e dei biocombustibili, è altrettanto importante evidenziare quanto la limitatezza delle potenzialità colturali italiane possa condizionare questa prospettiva;
in questo scenario complesso si inserisce il decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico e il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, del 23 gennaio 2012, n. 2, concernente il sistema nazionale di certificazione per biocarburanti e bioliquidi, finalizzato a fornire le specifiche attuative per il nostro Paese relativamente a quanto pre visto nei decreti legislativi di recepimento delle direttive comunitarie 2009/28/CE e 2009/30/CE;
biocarburanti e bioliquidi, in quanto prodotti delle biomasse, sono risorse che stanno acquisendo una particolare rilevanza nel panorama nazionale e internazionale in virtù delle importanti prospettive di impiego che essi già manifestano nel settore dei trasporti e, soprattutto, in ambito energetico nella produzione di energia da fonti rinnovabili, una voce ormai non trascurabile nella copertura del fabbisogno energetico globale;
negli ultimi dieci anni la produzione di energia da impianti alimentati a «biocombustibili» è cresciuta quasi del 18 per cento in Italia, portando tali risorse a coprire quasi l'11 per cento della produzione elettrica da fonti rinnovabili. Nello specifico, la produzione da bioliquidi si è sviluppata principalmente negli ultimi anni, consentendo tuttavia il conseguimento di ottimi risultati;
i dati del Gestore dei servizi energetici sugli impianti attivi in Italia per la sola produzione di energia elettrica da bioliquidi - oli vegetali grezzi e altro - mostrano che il numero di impianti attivi di potenza superiore a 1 megawatt è più che raddoppiato dal 2009 al 2010, passando da 42 a 97. Tali impianti hanno conseguito, a fine 2010, una potenza di 601 megawatt e una produzione lorda di 3.078 gigawatt orari, raddoppiando la produzione rispetto al 2009 (1.447 gigawatt orari) e superando in tal modo la produzione energetica da biogas (2.054 gigawatt orari per il 2010);
il decreto 23 gennaio 2012, n. 2, fornisce specifiche indicazioni relative alla certificazione della sostenibilità di biocarburanti e bioliquidi, istituendo, all'articolo 3, un sistema nazionale di certificazione che include la definizione di un organismo di accreditamento che accredita tutti gli organismi di certificazione ai sensi della norma UNI CEI EN 45011:1999, ai fini del rilascio di certificati di conformità e di sostenibilità dell'azienda;
alla luce della suddetta disposizione, il coinvolgimento diretto di tutti gli attori della filiera, indipendentemente da come questa si struttura, legittima la sussistenza di vincoli stringenti sull'operatività e le possibilità della stessa, legittimando una sorta di celato protezionismo suscettibile di alterare gravemente l'equilibrio della concorrenza e mortificare completamente il settore;
come evidenziato, la capacità di soddisfare la domanda di materie prime degli impianti energetici attivi, usufruendo delle sole colture oleaginose nazionali, è pressoché irrisoria. Infatti, la superficie agricola utilizzata (sau) in Italia nel 2010 ammontava a 12,7 milioni di ettari (dati Ispra). Uno studio dell'Ente nazionale per la meccanizzazione agricola (Enama) relativo a fine 2010 riferiva che per alimentare i sopra citati impianti sarebbero stati necessari 300.000 ettari/anno di superficie coltivata a oleaginose e interamente destinata alla produzione di oli per il settore energetico. Secondo la medesima fonte, alla fine del 2010 la superficie agricola italiana coltivata a oleaginose ammontava a 280.000 ettari/anno - 2 per cento della superficie agricola utilizzata - di cui meno di un quinto erano destinati al settore energetico;
i dati sopra citati evidenziano come nel settore considerato sia fondamentale la dipendenza italiana dai partner internazionali, per l'impossibilità di supplire al necessario quantitativo di materia prima con le sole produzioni interne, anche in considerazione del carattere deleterio di una potenziale trasformazione delle colture agricole attualmente destinate all'alimentazione umana e alla zootecnia in colture finalizzate all'utilizzo energetico;
il decreto interministeriale citato risponde a dinamiche attuative di direttive comunitarie, che però, nello specifico, non fanno riferimento ad alcun sistema di certificazione nazionale, dalla struttura e dalla complessità come quello inaugurato in Italia. Infatti, la direttiva 2009/30/CE parla di rispetto dei criteri di sostenibilità per i biocarburanti, con conseguente riconoscimento dell'obbligo in capo agli operatori di dimostrare la sostenibilità di quanto da loro utilizzato. Non si fa, pertanto, riferimento alla strutturazione di un sistema di certificazione che includa anche la definizione di un organismo di accreditamento che accrediti tutti gli organismi di certificazione ai sensi della norma UNI CEI EN 45011:1999;
la configurazione stessa della certificazione introdotta mal si concilia con le caratteristiche della filiera italiana e pone delle serie criticità in capo ai contratti di fornitura già in esercizio alla data di entrata in vigore dei menzionati decreti, in relazione all'inevitabile lievitazione dei costi di fornitura e alla sopravvivenza stessa del comparto interessato;
in uno scenario più vasto di sviluppo e implementazione si collocano anche le disposizioni introdotte dal decreto del Ministero dello sviluppo economico, di concerto con i Ministeri dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e delle politiche agricole e forestali 10 settembre 2010 in materia di «Linee guida per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili», che disciplina le modalità di autorizzazione dei diversi impianti e l'adeguamento delle regioni alla normativa in materia. A tale provvedimento si aggiunge il cosiddetto decreto «burden sharing» attraverso il quale saranno delineati gli obiettivi per il 2020 per le regioni sulle fonti rinnovabili e che, attraverso l'autonomia, consentirà a queste di individuare gli strumenti e i meccanismi di efficientamento energetico finalizzati ad ottenere i risultati nazionali;
si evidenzia, tra l'altro, la particolare attenzione riservata di recente dal Governo al comparto, attraverso l'introduzione nel cosiddetto decreto-legge semplificazioni, di specifici interventi semplificativi sul fronte degli adempimenti e di riduzione degli oneri, a vantaggio anche degli impianti di lavorazione e di stoccaggio destinati di oli vegetali ad uso energetico: una prospettiva che evidenzia la volontà di consentire lo sviluppo e l'implementazione di un comparto produttivo dalle notevoli potenzialità;
i provvedimenti sopra indicati si configurano come strumenti indiscutibili di implementazione e valorizzazione delle dinamiche di efficientamento energetico nel pieno rispetto degli obbiettivi sanciti a livello internazionale,

impegna il Governo:

a definire opportune iniziative volte alla valorizzazione delle cosiddette agroenergie e delle potenzialità di queste in termini di green economy, tutelando, nel contempo, la caratterizzazione dell'economia italiana, evitando potenziali limiti allo sviluppo e distorsioni del mercato nel settore agroalimentare;
a promuovere una revisione della normativa vigente al fine di facilitare l'utilizzo di materiale organico derivante dai rifiuti o dai processi industriali come risorsa per la produzione di energia, consentendo in tal modo di rettificare e chiarire il contesto normativo in materia di identificazione degli scarti di origine agroindustriale, quando sono impiegabili in un impianto di produzione energetica;
a predisporre in tempi celeri un'iniziativa normativa volta a modificare l'attuale configurazione del sistema di certificazione al fine di adeguare la norma in materia alla reale caratterizzazione del sistema produttivo italiano, rispettando le reali esigenze degli operatori e tutelandone in tal modo le esigenze produttive, economiche e professionali;
a predisporre ulteriori iniziative - anche di carattere normativo - che, in ottemperanza agli obblighi contratti a livello internazionale, supportino ed incentivino il comparto della produzione energetica da bioliquidi, indipendentemente dalla provenienza di questi ultimi, ferma restando l'esigenza di garantire la sostenibilità di questi e delle materie prime di derivazione, ai sensi delle direttive comunitarie del 2009.
(1-00921)
«Di Biagio, Della Vedova, Briguglio, Giorgio Conte, Patarino, Moroni, Consolo, Proietti Cosimi».
(12 marzo 2012)
(Mozione non iscritta all'ordine del giorno ma vertente su materia analoga)