Partecipazione al Forum organizzato dal quotidiano spagnolo "El Mundo"
Pedro J. Ramírez - Lei è stato protagonista della modernizzazione e democratizzazione della destra italiana, in un processo per molti versi singolare, ma in qualche modo simile a quello guidato negli anni '90 da José María Aznar nel Partido Popular. Lei si vede come pensionato della politica tra breve tempo, o solo dopo aver raggiunto la presidenza del Governo? Gianfranco Fini - Non credo che di Aznar si possa dire che è un pensionato. In pensione si va quando si arriva a una certa età o si cessa volontariamente la propria attività. Aznar ha fatto un'altra scelta. Si è posizionato in un'area culturale, economica e politica con il prestigio guadagnato da Primo Ministro. Senz'altro è un punto di riferimento, non solo per me ma per tutta la famiglia popolare europea. È nella riserva, per così dire, una riserva o serbatoio di conoscenze ed esperienze utili alla Spagna e all'Europa. Per quanto riguarda me le rispondo con un'espressione araba: inch'Allah. Justino Sinova - Vorrei interpellarla sulla crisi. Qual è il suo giudizio sulla reazione dei Governi davanti alla débacle economica? Crede che l'interventismo sia una soluzione? G. F. - La reazione dei Governi è stata obbligata. Sotto molti punti di vista, la crisi li ha colti di sorpresa. Davanti al rischio di un crollo del sistema finanziario, non c'era altra soluzione che quella adottata negli USA e in altri paesi: denaro pubblico per chiudere la falla. Tuttavia, pensar di uscire dalla crisi con una maggior presenza dello Stato nell'economia sarebbe un grave errore.
Non si può sostenere che la crisi sia stata provocata da una patologia del sistema liberale e capitalista; non si può dire che la crisi dimostra che il capitalismo liberale non garantisce il progresso. A provocare la crisi è stata la debolezza della guida politica che stabilisce come la produzione della ricchezza vada ripartita in modo giusto ed equo fra tutta la popolazione.
In sintesi, la prima risposta dei Governi, positiva e obbligata, ha avuto il merito di voler globalizzare le regole. È indispensabile, però, che essi evitino ogni tentazione nazionalistica in senso negativo, cioè protezionistico, per garantirsi un piccolo vantaggio temporaneo mediante la concorrenza sleale. Sarebbe una prospettiva miope.
In Italia la débacle ha avuto inizialmente un impatto meno duro, anche se abbiamo sofferto dopo, quando dal settore finanziario è passata a quello economico tout court. Il nostro Governo ha agito con provvedimenti di sostegno alle imprese. Continuiamo a trovarci in una situazione problematica, ma speriamo in una ripresa quanto prima. Francisco Herranz - Parlando di crisi e di possibili soluzioni, che cosa possiamo aspettarci dal G8 che si riunirà all'Aquila? G. F. - Credo sia importante per l'economia globale che in una sede del genere via sia rispondenza tra quel che si dice e quello che si comincia a fare. Innanzitutto occorre chiarire che la ricchezza non può esser creata attraverso la speculazione: la ricchezza si produce attraverso la produzione reale. Non bisogna nemmeno demonizzare la finanza, ci mancherebbe altro, ma non possiamo pensare che il denaro produca denaro e basta: è il lavoro a produrre ricchezza. In secondo luogo, citando Dahrendorf, il compito della classe dirigente in questo primo decennio del nuovo secolo sarà di produrre ricchezza reale e fare in modo che essa riduca le disparità tra individui e persone all'interno di uno stesso Stato e tra i popoli del mondo.
Oggi, la grande sfida culturale è che la parte più ricca del mondo produca ricchezza e aiuti la parte più povera a raggiungere migliori condizioni di vita. La questione dell'immigrazione, ad esempio, può essere affrontata solo se, nei paesi la cui gente si vede costretta a emigrare perché assillata dalla miseria, si produce ricchezza. Una delle grandi sfide, oggi, è che anche in regimi che non garantiscono la libertà si produce ricchezza.
Mi spiego meglio: si è sempre insegnato che la massima espansione economica si ottiene laddove si dispone dei più alti livelli di libertà civile e politica. Le due cose vanno di pari passo. Ebbene, possiamo dire che da quindici anni in qua la Cina ci dimostra che non è così, che non è detto che la produzione di ricchezza sia strettamente collegata alla libertà di un popolo. Credo che probabilmente queste saranno le considerazioni sottese alla discussione interna durante la prossima riunione del G8. G. H. - La decisione di spostare la sede del G8, previsto in Sardegna, ha sollevato polemiche. Ritiene che sia stata una buona iniziativa? G. F. - Lo spostamento è stata una buona idea per esprimere simbolicamente alla popolazione dell'Aquila, e a tutto il paese, la solidarietà e la vicinanza di tutta la comunità mondiale. È un atto simbolico, ma a mio parere significativo. In un momento come questo il successo del G8, con questo nuovo formato ampliato alle nuove potenze che hanno voce in capitolo nell'economia mondiale, è nell'interesse di tutti. Felipe Sahagún - Anche l'ospite del G8 è al centro della polemica. Ci dia qualche ragione per amare Silvio Berlusconi... G. F. - Io credo che Berlusconi, come qualsiasi altro leader, non debba essere né amato né odiato. Credo che debba essere rispettato e soprattutto vada giudicato in base a ciò che fa e alla valutazione degli elettori. Non ci sono altri metri di misura. Altrimenti, entra in gioco il pregiudizio: "mi piace, non mi piace, è alto, basso, brutto, di destra, di sinistra". Qui siamo nei pregiudizi.
Berlusconi è un personaggio che ha rovesciato ogni pronostico. In 15 anni ha presieduto tre volte il G8, ha vinto le elezioni, le ha perse, le ha rivinte, le ha riperse, le ha rivinte...è un protagonista della vita politica. Ho già detto che non sono le vicende personali - la sua coscienza è affar suo - a rendere più forte o più debole il Governo, perché il Governo non si valuta a partire dalle abitudini di Berlusconi, le persone che frequenta o le polemiche, bensì in base a ciò che fa o non fa. Anche sotto questo profilo ci vuole più pragmatismo, più realismo. Lasciamo cadere il pregiudizio, che talvolta sfocia nell'adorazione se positivo, o nell'esecrazione se negativo. Guardiamo la realtà, confrontiamo quel che fa con ciò che aveva promesso di fare. Credo che gli italiani facciano questo più di quanto non si pensi, altrimenti il percorso di Berlusconi non si spiega.
All'inizio si disse che avrebbe vinto le elezioni perché era un uomo potente economicamente. Non penso che il motivo sia questo. Altre volte si è detto che vince perché il centrosinistra è un disastro. Ma il centrosinistra si è ristrutturato, ha cambiato leader, quindi il motivo non è nemmeno questo. Ana Romero - Lei giustifica il comportamento di Berlusconi in base al personaggio, ma lei si vede a Palazzo Grazioli a comportarsi come lui? Crede che un Presidente del Consiglio italiano possa comportarsi così? G. F. - No, io non giustifico né condanno, dico che non è la condotta personale a dare la misura della capacità di governare di Berlusconi. E diffido di tutti coloro che fanno la morale agli altri. Gli italiani non scelgono questo o quel leader come fosse un attore cinematografico. Al momento di votare non lo giudicano a partire dalle sue amicizie, il suo tenore di vita o quel che fa nelle sue feste private. P. J. R. - Nella residenza ufficiale del Primo Ministro, con mezzi pubblici a sua disposizione, si può parlare di questione privata? G. F. - Qui il limite tra pubblico e privato è molto difficile da tracciare. Un personaggio pubblico sa di non avere molti spazi d'intimità. È una particolarità dei tempi d'oggi: il privato e il pubblico sono difficili da scindere, specie per chi abbia responsabilità istituzionali. Berlusconi, però, ne è consapevole. Ana Alonso - Per molti anni abbiamo associato l'immagine dell'Italia al Cavaliere. Come si immagina lei l'Italia post Berlusconi? G. F. - È impossibile oggi prevedere come sarà l'Italia, quando Berlusconi avrà concluso la sua traiettoria politica. Io sono contentissimo che l'Italia sia uscita dalla sua precedente situazione di democrazia bloccata, e sia adesso una democrazia dell'alternanza. Spetta, evidentemente, ai due grandi poli politici far sì che questa democrazia abbia valori condivisi e rispetto reciproco. Quando non c'è ricambio una democrazia si ammala. Quando oggi si sta all'opposizione, e domani si può divenire maggioranza, una democrazia è molto più aperta e trasparente. Berlusconi ed io abbiamo percorso la stessa strada, anche se a volte con valutazioni molto diverse.
Nel 1994, in Italia è intervenuta una riforma di enorme portata che ha cambiato faccia al mio Paese: la prima elezione diretta dei sindaci. Io mi sono candidato per il mio partito e sono arrivato al secondo turno contro Rutelli perché il candidato della Democrazia cristiana era sparito. Allora domandarono a Berlusconi: "se lei fosse a Roma, chi voterebbe?" E lui rispose: "voterei Fini contro la sinistra". Quella elezione la persi, ma fu allora che l'Italia uscì da una fase di democrazia in qualche modo bloccata dall'ideologia ed entrò in una fase in cui si scelgono i valori, i programmi e le persone. Casimiro García Abadillo - All'epoca di Aznar si tentò di creare un polo che spezzasse l'asse Parigi-Berlino, ed effettivamente Aznar si adoperò parecchio assieme all'Italia e al Regno Unito per dar vita ad un altro centro d'interesse in Europa. In effetti si avanzò abbastanza in quella direzione, e i rapporti con l'Italia erano ottimi. Con l'avvento di Zapatero, l'impressione è che ci sia stato un mutamento. Non crede che attualmente i rapporti fra Italia e Spagna siano deteriorati? G. F. - Francamente, no. Il rapporto fra i nostri paesi è molto solido per ragioni storiche, ma anche per interessi contingenti, e il fatto che i nostri popoli eleggano, in maniera libera e democratica, questa o quella maggioranza, non muta la sostanza delle cose. Aggiungerò che in questa fase, con l'Europa a ventisette, con i ritardi del Trattato di Lisbona, con le difficoltà per governare la politica europea in modo più incisivo...o modifichiamo davvero, e a fondo, alcune norme, o corriamo il rischio che l'Europa sia percepita come già talvolta accade, cioè come un qualcosa non in grado di penetrare nella vita quotidiana reale degli italiani e degli spagnoli.
Non credo che in questa fase sia così importante instaurare assi privilegiati tra questi o altri paesi. In primo luogo i nostri paesi dovrebbero agire per evitare che l'Europa guardi a destra (in senso geografico), e non guardi a sud. Non possiamo seguitare a pensare all'UE come facevamo 10 anni fa, quando finiva con la Cortina di ferro. L'interesse strategico della Spagna di Zapatero - come quello dell'Italia di Berlusconi, e anche di Prodi, e così pure della Spagna di Aznar - continua ad essere quello di un epicentro della politica europea nel Mediterraneo. L'interesse spagnolo o italiano, a prescindere dal colore del Governo di Roma o di Madrid, dove sta? Nei Fondi strutturali europei.
In passato, Spagna e Italia si sono avvantaggiate della disponibilità di Bruxelles a erogare quei fondi alle zone depresse. Adesso, con questa Europa allargata ad est, le risorse per spagnoli e italiani sono limitate...ed è un problema che dobbiamo porre a Bruxelles quale che sia il colore del Governo. F. S. - Leggendo la sua biografia, ho notato che lei aveva un nonno comunista e un altro di destra, e che alla fine degli anni '60, dopo aver visto un film di John Wayne, optò per il Movimento sociale italiano (MSI). Molto di quanto lei sta dicendo oggi lo sottoscriverebbe una qualunque persona di sinistra. Dove si colloca attualmente nello spettro ideologico? G. F. - La biografia è autentica, sì: un nonno comunista e uno fascista, come tantissimi nonni dei cinquantenni come me di un'Italia che, soprattutto a nord, è rimasta a lungo assai ideologizzata. L'ideologia era molto, molto importante. A 16 o 17 anni non avevo nessun interesse politico, ma ne avevo per i film western e per John Wayne. L'unica pellicola di propaganda girata dal cinema statunitense a sostegno della guerra del Vietnam, Berretti verdi, aveva per protagonista John Wayne. Decisi di andare a vederla e 30 o 40 militanti maoisti col pugno alzato per protestare contro il film m'impedirono di entrare nel cinema. Allora dissi: "ah sì? E io entro con le buone o con le cattive". Dopodiché mi buttarono fuori da scuola, mi chiamavano l'amerikano con la kappa, mi davano del fascista. E io dissi: "quand'è così..." e mi iscrissi al MSI. Per vedere chi era più prepotente. Era in atto uno scontro ideologico durissimo che in Italia proseguì molto dopo la fine della guerra e la caduta del fascismo. Abbiamo avuto il Partito comunista più forte d'occidente per quarant'anni, una democrazia sostanzialmente bloccata, vale a dire una Democrazia cristiana sempre al governo, senza nessuna alternanza, e una destra nostalgica e - diciamolo ormai - antiquata, lontana da ogni possibilità di alleanza politica.
Oggi la situazione è cambiata. Sono passati vent'anni, ma è come se fossero trascorsi due secoli. Le ideologie - intese come capacità di spiegare ogni cosa, dinamiche personali, sociali, internazionali - sono morte e sepolte nel sentimento popolare. In questo senso io sono molto post ideologico. Che cosa vogliono dire destra e sinistra? Significano solo il seggio che occupi in Aula, ma non i valori né i contenuti di una politica. Quando parlo di post ideologia, essa include anche una buona dose di pragmatismo, di realismo. La volontà di risolvere i problemi non mediante formule magiche, ma valutando, studiando la situazione in cui ci si trova e soppesando i pro e i contro.
Molti in Italia dicono "Fini è il leader della sinistra", ma non mi considero di sinistra: sono di destra, di centrodestra ma non accetto di essere etichettato. Se ci fissiamo sull'etichetta e basta non ci capiamo più. C'è il rischio di una torre di Babele. Fissiamoci piuttosto sul contenuto. Dobbiamo difendere il nostro interesse nazionale, questo è ovvio, ma l'interesse nazionale oggi significa la piena integrazione in Europa, perché in un mondo globale neanche gli Stati Uniti possono pensare di trovare da soli una soluzione alla crisi.
Chi può essere così stupido o così presuntuoso da credere che da solo, con politiche nazionali autarchiche, riuscirà a garantire il benessere del proprio paese se, proprio mentre siamo qui a parlare, a Tokio può crollare la Borsa e i nostri euro perdere valore? Questo è un fatto ignoto alle ideologie del secolo passato.
Un altro esempio: le ideologie del secolo scorso non hanno vissuto il problema delle identità religiose. Si può affrontare un problema così nuovo con le categorie concettuali del secolo passato? Credo che sarebbe come cercare di aprire la porta con la chiave che usava mio nonno per il suo catenaccio, quando ormai disponiamo dell'apertura a distanza.
È uno scenario, un panorama così diverso rispetto a quello delle antiche ideologie, che costringe la politica che voglia affrontare i problemi ad essere pragmatica, post ideologica. La fase delle ideologie è quella in cui abbiamo un nemico; la fase post ideologica è quella in cui abbiamo un avversario, un rivale, un contendente. Il nemico, o lo uccidi o lui uccide te. Il contendente, lo puoi battere o esserne battuto, ma comunque lo rispetti perché condividi con lui le regole. Tale fase post ideologica implica necessariamente che tra gli eredi delle grandi culture politiche del passato sia condiviso il rispetto di alcune norme comuni, vi sia un riconoscimento reciproco, uno sforzo di lavorare per l'interesse generale. Che significa questo? Essere di destra, di sinistra? Ebbene no. Credo significhi soltanto esser figli del tempo in cui si vive. P. J. R. - Non è che lei sta confondendo ideologia e totalitarismo? Per l'ideologia liberale, infatti, l'avversario non è mai stato un nemico: forse sarebbe meglio parlare di transideologia che di postideologia. G. F. - Sì, recepisco la sua correzione e la faccio mia. L'epoca dell'ideologia è stata l'epoca dei totalitarismi, poiché il mondo liberale non si è mai definito in termini ideologici, né ha avuto la presunzione di creare l'uomo nuovo o la società nuova. Questa è stata la grande differenza, radicata nel fatto che al centro della cultura liberale si poneva il valore della libertà.
Perché gli europei, oggi, votano sempre meno? Perché ormai non esiste più l'adesione acritica e senza obiezioni a una chiesa, che sia la chiesa vera e propria o un'altra religione, partito o ideologia. Oggi, molto più pragmaticamente, si formulano domande per avere risposte ai problemi di tutti i giorni, e soprattutto si vuole immaginare la società del futuro. Io credo che immaginare il futuro immediato ed elaborare politiche conseguenti sia un modo per ravvivare nella gente l'interesse per la politica. Questo non ha nulla a che fare con l'adesione acritica che chiedevano i partiti del secolo scorso.
Vi farò un esempio. In spagnolo, in italiano, in inglese, in francese, in tedesco...patria vuol dire terra dei padri. Ma non sarà più così per il bambino che nasce in Italia, figlio di una colf dell'Honduras: non potrà dire che l'Italia è la terra dei suoi padri...ma una politica che guardi al domani ha senz'altro il dovere di far sentire pienamente al cittadino, far sì che si riconosca nei valori della nostra Costituzione, nella nostra lingua, nella nostra bandiera, nelle nostre regole, nelle nostre usanze. Credo che sia una maniera postmoderna di vedere le cose. Pedro G. Cuartango - Sono stato in Italia durante l'ultima campagna elettorale, e ho avvertito la forte polarizzazione della società italiana. In questo senso la sua analisi di ciò che è successo nel suo paese nell'ultimo decennio mi stupisce. L'Italia mi sembra un paese dove tutto è cambiato perché tutto seguitasse uguale. G. F. - Persino i più aspri critici di Berlusconi gli riconoscono l'intuizione di aver favorito in Italia la nascita di una democrazia dell'alternanza o, se proprio ci tenete, di un sistema bipolare. Mi dispiace, ma non mi riconosco in quanto lei afferma, non condivido la sua fotografia del mio paese. La verità è che dopo il cataclisma degli anni '90 in Italia è cambiato tutto. L'Italia è bipolare, sì, ma oggi abbiamo Berlusconi, due anni fa avevamo Prodi...in ciò, fortunatamente, siamo più europei di allora, siamo più in sintonia con le grandi democrazie occidentali.