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Resoconto dell'Assemblea

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XVI LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 524 di lunedì 26 settembre 2011

Pag. 1

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ANTONIO LEONE

La seduta comincia alle 13.

LORENA MILANATO, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 22 settembre 2011.
(È approvato).

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Albonetti, Alessandri, Berlusconi, Bernini Bovicelli, Bonaiuti, Bossi, Brambilla, Brunetta, Carfagna, Casero, Catone, Cicchitto, Colucci, Cossiga, Crimi, Crosetto, D'Alema, Dal Lago, Della Vedova, Fitto, Franceschini, Frattini, Gelmini, Alberto Giorgetti, Giancarlo Giorgetti, Giro, La Russa, Lupi, Mantovano, Maroni, Martini, Mecacci, Meloni, Miccichè, Misiti, Moffa, Leoluca Orlando, Polidori, Prestigiacomo, Ravetto, Reguzzoni, Romani, Rotondi, Paolo Russo, Saglia, Stefani, Tremonti e Vito sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
Pertanto i deputati in missione sono complessivamente cinquanta, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Discussione delle mozioni Garavini ed altri n. 1-00655, Di Biagio ed altri n. 1-00663 e Zacchera ed altri n. 1-00672, concernenti iniziative relative alle procedure per il voto degli italiani all'estero, alla luce delle vicende delle ultime consultazioni referendarie (ore 13,07).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Garavini ed altri n. 1-00655, Di Biagio ed altri n. 1-00663 e Zacchera ed altri n. 1-00672, concernenti iniziative relative alle procedure per il voto degli italiani all'estero, alla luce delle vicende delle ultime consultazioni referendarie (Vedi l'allegato A - Mozioni).
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
È iscritta a parlare l'onorevole Garavini, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00655. Ne ha facoltà.

LAURA GARAVINI. Signor Presidente, la mozione oggi all'attenzione dell'Aula è stata presentata all'indomani del voto referendario per rispondere alle sollecitazioni di numerosi connazionali e alle prese di posizioni critiche sullo svolgimento del voto per corrispondenza nella circoscrizione Estero. Non mi riferisco solo al disagio che gli elettori all'estero hanno subito nel dover votare un quesito diverso Pag. 2da quello ufficialmente approvato dalla Corte di Cassazione. Voglio fare specifico riferimento alle diverse segnalazioni di irregolarità provenienti dagli stessi elettori iscritti all'AIRE, che hanno denunciato i ritardi nell'invio o la mancata ricezione dei plichi elettorali, plichi che talvolta sono risultati confezionati anche in modo incompleto o impreciso. Queste incertezze si sono spesso estese anche alla riconsegna dei materiali elettorali.
Purtroppo non si tratta di problemi nuovi, essi si erano già manifestati anche nelle scorse tornate elettorali e questo semmai rende ancora più grave il problema. Ricordiamo, ad esempio, gli esempi portati all'attenzione delle cronache giudiziarie a inizio di questa legislatura. Si tratta di episodi che non hanno di certo fatto bene né agli italiani all'estero né ad un'obiettiva valutazione della situazione. Ma, proprio per salvaguardare un sistema di partecipazione che invece è sostanzialmente sano, ci sembra doveroso raccogliere le anomalie registrate nell'esercizio del più fondamentale diritto di cittadinanza. Oggi vogliamo quindi favorire un approfondimento in sede parlamentare, soprattutto allo scopo di cercare gli indifferibili rimedi con il più ampio dialogo possibile ed in forma unitaria.
Prima di richiamare gli elementi specifici contenuti in questa nostra iniziativa, sono però necessarie due premesse. La prima riguarda una valutazione sostanzialmente positiva dell'esperienza del voto per corrispondenza, ormai consolidata da alcuni anni. Al di là dei limiti e delle disfunzioni, che pure sono stati manifestati, l'esercizio del diritto di voto per corrispondenza ha consentito concretamente ad alcuni milioni di cittadini nel mondo di partecipare attivamente alla nostra democrazia. Se è un bel dire che il voto per corrispondenza è strutturalmente fragile ed esposto a troppi rischi di manipolazione, la verità è che senza questo sistema di voto milioni di cittadini italiani si sarebbero visti impossibilitati ad esercitare un loro fondamentale diritto. Si sarebbe in questo modo perpetrata una sospensione del dettato costituzionale che - così recita la Costituzione - dice «Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età» e più avanti aggiunge che l'esercizio del voto è un dovere civico ed è la legge a stabilire i requisiti per l'esercizio di voto dei cittadini residenti all'estero e ad assicurarne l'effettività.
Ora non mi risulta che qualcuno abbia proposto una traduzione dell'effettività del voto migliore di quella assicurata dal sistema per corrispondenza. Questo, di certo, non autorizza ad abbassare la guardia rispetto ai rischi che questo sistema comporta, né ci esime dalla responsabilità di cercare le migliori soluzioni per una sua maggiore messa in sicurezza. E proprio di questo stiamo oggi parlando in Aula. L'intento deve essere chiaro: il nostro scopo è di perfezionare, non di annullare, un sistema di voto che ha dato e sta dando dei frutti positivi.
Ecco che arriviamo alla seconda premessa. Facendo riferimento alla riforma del sistema istituzionale, di cui oggi tanto si parla sulla stampa e nell'opinione pubblica, voglio fare una breve ma fondamentale considerazione. Una tale riforma è tanto necessaria, dal punto di vista di una migliore funzionalità del nostro sistema democratico, quanto è inopportuna e preoccupante se dettata da ragioni propagandistiche e da ventate di antipolitica. Questi interventi, così delicati sul nostro impianto costituzionale, diventano pericolosi se non sono ispirati dall'interesse generale, perché devastano un impianto costituzionale che ha dato equilibrio al Paese per oltre sessant'anni.
Sulla stampa è comparsa recentemente la notizia della decisione del Consiglio dei Ministri di richiedere la procedura d'urgenza per la bozza di riforma costituzionale, a firma del Ministro Calderoli. Le fonti di informazione sono concordi nel segnalare l'intenzione del Governo di eliminare la stessa circoscrizione Estero dalla rappresentanza parlamentare, che verrebbe dimezzata nel numero e riorganizzata con il Senato delle regioni. È evidente, signor Presidente, onorevoli colleghi, che prima di procedere nell'esame Pag. 3delle mozioni è indispensabile rimuovere il macigno che il Governo avrebbe posto sulla strada dell'esercizio del voto degli italiani nel mondo.
Al di là delle procedure regolamentari, diventa politicamente prioritaria una dichiarazione del Governo sul reale contenuto della «bozza Calderoli». Il Governo ci deve dire - e soprattutto deve dirlo ai milioni di connazionali che vivono all'estero - se nella proposta di riforma c'è o non c'è l'abolizione della circoscrizione Estero. La discussione di quest'oggi, infatti, può avere un taglio preciso solo se il Governo pensa ad un mantenimento e ad una permanenza della circoscrizione Estero. Se fosse, invece, confermata la linea abolizionista della maggioranza, saremmo di fronte ad un vero e proprio colpo finale nel rapporto tra l'Italia e le sue comunità nel mondo.
D'altro lato, nel giro degli ultimi tre anni sono stati più che dimezzati i fondi per la lingua e la cultura italiana, sono diminuite radicalmente le risorse destinate all'assistenza diretta ed indiretta dei nostri connazionali in condizioni di grave necessità, è stata fortemente ridotta la rete diplomatico-consolare e tutto ciò a scapito dei diritti e dei servizi che spettano alle nostre comunità così come del dialogo con le autorità dei Paesi di residenza. È stato ridotto il sostegno ai mezzi di informazione degli italiani all'estero e si sta tentando, infine, di svuotare le funzioni e la rappresentatività degli istituti di rappresentanza dei connazionali nel mondo, vale a dire Comites e CGIE.
Ecco che questa mia ferma denuncia non arriva tanto in qualità di eletta nella circoscrizione Estero, ma deriva dalla consapevolezza che tagliare i cordoni con l'italianità all'estero, quella vera fatta di donne e uomini e non quella delle dichiarazioni di circostanza, rappresenta un danno reale e profondo soprattutto per l'Italia stessa e soprattutto proprio in questo momento di gravi difficoltà economiche e sociali per il nostro Paese. Un impegno per riuscire a proiettare la nostra immagine e i nostri interessi nazionali nel mondo sarebbe necessario, da parte del Governo, come l'aria stessa che respiriamo.
Ma vengo al contenuto della mozione. I firmatari, insieme a me, sono partiti dai seguenti presupposti: innanzitutto, il fatto che gli italiani residenti all'estero sono cittadini a tutti i livelli, di pieno diritto, esattamente come quelli residenti sul territorio nazionale.
Proprio per questo, nessuno può limitare o sospendere una prerogativa di cittadinanza sancita nella Costituzione. La circoscrizione Estero rappresenta il modo più realistico per dare rappresentanza diretta ai connazionali. Il voto per corrispondenza è lo strumento più incisivo per dare effettività al loro voto in un contesto così particolare e specifico.
Ecco che la soluzione non può essere di «buttare il bambino con l'acqua sporca», al contrario occorre intervenire sulle modalità di voto per renderlo sempre più funzionale alle finalità democratiche e più sicuro e garantito dal punto di vista della sua pratica attuazione.
Allora, per affrontare seriamente le criticità che si sono manifestate, ci sembra opportuno anzitutto richiedere al Governo di fornire una base documentata di analisi e di discussione. La questione nodale, però, rimane quella di una rivisitazione della legge n. 459 del 2001, vale a dire la legge che regolamenta il voto per corrispondenza, soprattutto per quanto riguarda l'attendibilità degli elenchi degli elettori, la stampa del materiale elettorale, l'invio dei plichi ai cittadini, il controllo delle operazioni nelle diverse circoscrizioni consolari, l'effettiva ricezione della documentazione da parte dei singoli elettori e, infine, la restituzione della documentazione dei plichi ai consolati. Su queste questioni sono stati depositati diversi disegni di legge che affrontano positivamente le problematiche evidenziate.
Noi del Partito Democratico, in particolare, abbiamo avanzato una proposta nel modo più autorevole attraverso la diretta iniziativa dei nostri presidenti di gruppo d'Aula, sia alla Camera che al Senato. Questa non è l'occasione per entrare Pag. 4nel merito delle soluzioni normative indicate, ma deve essere chiaro all'Assemblea che i rimedi ci sono e che proposte concrete sono state avanzate.
Ad esempio, le difformità tra gli elenchi AIRE e quelli dei consolati, oltre ad essere oggetto di un piano straordinario di intervento, da organizzare e realizzare in tempi brevi e con risorse certe, potrebbero essere superate con l'istituzione di un elenco comprendente solo coloro che manifestano formalmente la propria volontà di votare per corrispondenza. In questo modo, si potrebbe evitare la circolazione incontrollata di plichi che, in diversi casi, sono inviati ad indirizzi non esatti o, addirittura, a persone decedute o disinteressate al voto. Il rischio di contraffazione delle schede elettorali potrebbe essere, se non del tutto scongiurato, quantomeno ridotto al minimo se la stampa delle schede avvenisse in Italia, così come pure i controlli sulla custodia del materiale giacente nei consolati e sulle operazioni di rinvio e di ricezione potrebbero essere tranquillamente assolti con il sistema che si usa in Italia, vale a dire coinvolgendo in un comitato elettorale i rappresentanti locali delle diverse forze politiche. Soluzioni, dunque, tecnicamente efficaci, per fare in modo che la scheda elettorale arrivi veramente nelle mani dell'elettore, potrebbero essere concordate anche nei Paesi nei quali il servizio postale è gestito da privati. Il requisito della personalità del voto inoltre può essere assicurato dall'indicazione nel plico di ritorno del numero identificativo di un documento di identità. Per lo scrutinio, infine, si potrebbe prevedere un'organizzazione meno congestionata di quella attuale, decentrando le operazioni presso le corti di appello di alcune grandi città italiane.
Si tratta solo di esempi, ma essi dimostrano come si possa fare tesoro dell'esperienza acquisita intervenendo sulla legge n. 459, con l'obbiettivo di rendere l'esercizio del voto più coerente con il dettato costituzionale.
Ora, anche sull'ipotesi di riforma, non è pensabile che il Governo possa limitarsi ad assistere ad una partita tanto delicata senza esprimere al Parlamento un orientamento che dica parole chiare sul tema centrale della circoscrizione Estero e renda esplicite le possibili soluzioni volte a rafforzare il tasso di sicurezza del voto per corrispondenza.
Il confronto tra le mozioni all'attenzione dell'Aula mi auguro possa raggiungere un duplice obiettivo: prima di tutto porre le condizioni perché il Parlamento possa avere una conoscenza approfondita di tutta la partita sul voto all'estero, già il dibattito mi auguro possa chiarire nel merito alcuni possibili rimedi per i limiti che la legge 27 dicembre 2001, n. 459 ha evidenziato; ma in secondo luogo questa può essere un'occasione per uscire dal sistema di doppie verità che da alcuni anni avvolge ormai le tematiche degli italiani all'estero, un sistema fatto di dichiarazioni ma per lo più vuote e retoriche e da una pratica di Governo riduttiva o addirittura punitiva.
Gli italiani all'estero non sono cittadini di serie B, sono cittadini di pieno diritto. Il Governo ci dica dunque parole chiare e soprattutto assuma impegni precisi sia per l'allineamento dei dati di competenza del Ministero degli affari esteri con quelli dell'AIRE gestiti dal Ministero dell'interno sia per un aggiornamento legislativo che garantisca il corretto funzionamento del diritto di voto per corrispondenza. È il minimo che lo Stato italiano possa fare per dare conto ai propri cittadini italiani all'estero e per far sì che gli italiani all'estero possano continuare a darci una mano nel riprendere il difficile cammino nel contesto internazionale (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Di Biagio, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00663. Ne ha facoltà.

ALDO DI BIAGIO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, le recenti consultazioni referendarie del 12 e 13 giugno scorsi hanno messo in luce alcune evidenti criticità legate alla tutela del diritto di voto per i nostri connazionali residenti all'estero. Da ogni parte della circoscrizione Pag. 5Estero abbiamo ricevuto notizie e denuncie di plichi smarriti e mai recapitati, refusi ortografici e anagrafici sulle schede, disservizi delle società incaricate della distribuzione. In questo modo si è determinata per migliaia di concittadini l'impossibilità di esercitare il proprio diritto al voto, un diritto sancito dalla Carta costituzionale, dove si evidenzia tra l'altro che i requisiti e le modalità per l'esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all'estero sono stabiliti dalla legge che ne assicura l'effettività.
La legge Tremaglia del 2001 ha avuto l'enorme merito sia storico sia normativo di garantire agli italiani all'estero l'effettiva possibilità di esprimere le proprie preferenze elettorali esercitando un loro diritto e tuttavia essa presenta ancora delle lacune di cui alcuni di noi, me compreso, sono ben consapevoli da tempo.
L'esigenza di una riforma del voto all'estero si è manifestata più volte nel corso della legislatura, la vicenda referendaria ha solo contribuito a riportarla alla luce evidenziando ulteriori criticità che sottolineano l'urgente necessità di un intervento legislativo in materia. Purtroppo su questo tema abbiamo capito da tempo il giudizio del Governo, che è un giudizio di noncuranza.
Di fronte ad esso noi vogliamo riaffermare fortemente il diritto di voto degli italiani residenti all'estero e ci aspettiamo una riforma che possa supplire alle lacune attualmente vigenti. Sappiamo bene che la questione è delicata e richiede un serio approfondimento, ma i punti di partenza per questo approfondimento ci sono già, sono contenuti in diverse proposte di legge depositate presso i due rami di questo Parlamento, si tratta di prenderle in mano e portarle avanti.
Per questo impegno il Governo ad avviare quanto prima un percorso di approfondimento e di modifica della legge Tremaglia, legge 27 dicembre 2001, n. 459, calendarizzando al più presto le proposte di legge già depositate alla Camera e al Senato. La questione del voto all'estero ha poi manifestato in sede referendaria una duplice criticità, evidenziando in primo luogo alcune gravi difficoltà gestionali da parte delle strutture consolari legate forse a una deprecabile incuria nella gestione dei plichi e dei dati anagrafici tale da determinare l'invalidamento di alcuni voti e, cosa ancora più grave, è emerso che le liste dei consolati contenevano informazioni diverse rispetto alle liste ufficiali dell'AIRE presso i vari comuni italiani di provenienza.
Si è evidenziato in questi termini un secondo livello di criticità, legato ad un mancato raccordo tra periferia e centro. Tutto ciò è inaccettabile. Nell'approssimarsi di simili eventi ci deve essere un completo e totale allineamento dei dati, salvo forse nei casi eccezionali, che possono essere uno o due legati ad urgenze.
Si può certo accertare che un disallineamento delle liste interessi migliaia di cittadini. Ciò può determinare, come è avvenuto, evidenti problematiche nelle risultanze dei voti e sappiamo bene che in questo modo si rischia di influenzare il quorum.
Occorre evitare che le disfunzioni legate alla gestione del voto all'estero pregiudichino il raggiungimento dei quorum referendari in Italia.
Dunque, abbiamo problemi gestionali presso le anagrafi consolari e una totale assenza di controlli da parte degli enti ufficiali centrali, che richiedono che si avvii un'indagine per chiarire le ragioni e le responsabilità inerenti alle lacune e alle carenze evidenziate, il cui risultato è stata una mancanza di trasparenza nella gestione della questione del voto all'estero, una trasparenza e una correttezza delle dinamiche che al contrario devono essere assicurate ai nostri concittadini, perché contribuiscono e costituiscono garanzie di democrazia.
A fronte di questo scollamento tra amministrazione e società civile abbiamo l'impressione, anche nelle risposte del Ministro ai nostri atti di sindacato ispettivo, di una disinformazione del Governo, unita ad una deprecabile superficialità manifestata nella gestione delle dinamiche di esercizio del diritto di voto. Pag. 6
Per questo abbiamo chiesto che il Governo riferisse in Aula su quanto accaduto.
Parliamo di oltre tre milioni di aventi diritto. Vogliamo tutelare la conquista democratica operata dalla cosiddetta legge Tremaglia a favore di questi nostri cittadini e rendere loro più fruibile e trasparente la partecipazione alle consultazioni elettorali, per una trasparenza ed una correttezza che siano indice di una piena e democratica partecipazione dei cittadini all'esercizio del voto.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire nel prosieguo del dibattito.
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Discussione della proposta di legge: Vietti e Rao: Disposizioni in materia di attribuzione delle funzioni ai magistrati ordinari al termine del tirocinio (A.C. 2984-A) e delle abbinate proposte di legge: Ferranti ed altri; Palomba (A.C. 3046-4619) (ore 13,30).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della proposta di legge di iniziativa dei deputati Vietti e Rao: Disposizioni in materia di attribuzione delle funzioni ai magistrati ordinari al termine del tirocinio; e delle abbinate proposte di legge di iniziativa dei deputati Ferranti ed altri; Palomba.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali - A.C. 2984-A)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che la II Commissione (Giustizia) si intende autorizzata a riferire oralmente.
Il relatore, onorevole Roberto Rao, ha facoltà di svolgere la relazione.

ROBERTO RAO, Relatore. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, il provvedimento che ci avviamo ad esaminare oggi in Aula, come altri che sono stati già approvati dalla Commissione giustizia nel corso di questa legislatura, è il risultato, almeno nel testo che oggi esaminiamo in Aula, della convergenza di posizioni dei gruppi e del Governo, che ha dimostrato una grande sensibilità. Ringrazio anche il sottosegretario Caliendo, che vedo adesso seduto ai banchi del Governo.
Inizialmente maggioranza, opposizione e Governo avevano delle posizioni molto diverse. Potremmo dire eufemisticamente che non collimavano perfettamente, ma grazie ad un atteggiamento costruttivo di tutti, della maggioranza, dell'opposizione e del sottosegretario Caliendo, hanno trovato una soddisfacente sintesi nella forma che ora andiamo ad esaminare in Aula.
Questo provvedimento ha per oggetto una questione particolarmente delicata che, qualora riuscissimo ad affrontarla senza pregiudizi e sterili contrapposizioni politiche (che nel caso in esame avrebbero veramente poco senso), potrebbe essere risolta, evitando gravi disfunzioni all'apparato giudiziario.
Questo discorso delle contrapposizioni sterili vale in termini generali per tutti i provvedimenti che affrontiamo in questa Aula, ma in particolare mi sento di sottolinearlo per i provvedimenti che riguardano la giustizia.
In particolare, oggetto del provvedimento sono gli eventuali limiti nello svolgimento delle funzioni giudiziarie che dovrebbero essere posti ai magistrati al termine del tirocinio, ma anteriormente al conseguimento della prima valutazione di professionalità.
La normativa vigente, approvata all'unanimità, purtroppo, dobbiamo dirlo, solo nella scorsa legislatura - tornerò su questo aspetto -, all'articolo 13, comma 2, Pag. 7del decreto legislativo n. 160 del 2006 prevede che tali magistrati non possano essere destinati agli uffici di procura, alle funzioni giudicanti monocratiche penali e alle funzioni di giudice per le indagini preliminari e di giudice per l'udienza preliminare. L'assegnazione, pertanto, può riguardare esclusivamente gli uffici giudicanti e le sole funzioni civili, monocratiche e collegiali, del lavoro e quelle penali limitatamente al collegio.
È evidente la ratio della norma: i magistrati di prima nomina sono considerati, di fatto, inidonei a svolgere funzioni di particolare rilievo che devono essere svolte in prima persona.
Si possono fare due osservazioni a questo punto. Intanto, si può dire che il Parlamento deve intervenire nuovamente sullo stesso tema su cui è già intervenuto recentemente. Dobbiamo prendere atto, infatti, che, se un esperimento è mal riuscito o non è riuscito affatto, il compito del legislatore è proprio quello di porvi rimedio nel più breve tempo possibile e nel migliore modo possibile.
La seconda osservazione riguarda l'idoneità o meno di questi giovani magistrati ad esercitare alcune funzioni. Sappiamo bene, come insegna il sottosegretario Caliendo, che i cosiddetti «giudici ragazzini» hanno scritto pagine eroiche della storia del nostro Paese, alcune delle quali macchiate con il sangue, altre rimaste nascoste, nell'ombra, e che sono stati in prima linea ogni giorno per anni. Considerarli, poi, ragazzini può essere anche, forse, una forzatura.
Il compito del legislatore e, quindi, anche del Governo, è preoccuparsi di come i magistrati di prima nomina possano svolgere, nella maniera più serena possibile, un compito talmente delicato che finisce per riguardare le libertà e i diritti di altre persone e non essere «sbattuti» in prima linea senza avere maturato la dovuta esperienza.
In Commissione ci siamo interrogati su questo punto, abbiamo valutato che da poco si era intervenuti su questo argomento e, attraverso una discussione approfondita e priva, devo dire la verità, di pregiudizi, abbiamo trovato un'ipotesi di soluzione che siamo qui a proporre all'Aula.
Il testo in esame non contraddice, quindi, la ratio del provvedimento del 2006, ma è volto a modificare, riducendoli, i limiti posti ai magistrati di prima nomina per due ordini di motivi.
Innanzitutto perché si tiene conto delle modifiche apportate alla disciplina dell'accesso in magistratura che, ormai, è diventato un concorso di secondo grado, vinto da candidati che hanno, comunque, una maturazione personale ben più avanzata rispetto ai vincitori di qualche anno fa, non fosse altro per l'età; allora in magistratura entravano di fatto soltanto persone appena laureate.
Inoltre, con particolare riferimento all'esercizio delle funzioni requirenti, non valgono le preoccupazioni sull'inesperienza dei giovani sostituti procuratori essendo essi inseriti in un sistema in cui, all'interno di ciascuna procura, vige, ormai per legge, una struttura piramidale che impone, per determinati atti rilevanti dell'ufficio, il cosiddetto visto del procuratore capo o di un procuratore aggiunto a ciò espressamente delegato. Tale sistema di controllo interno garantisce adeguatamente dagli eventuali errori causati dalla poca, o presunta tale, esperienza del singolo sostituto. Il provvedimento in esame, pertanto, elimina il limite per l'esercizio della funzione requirente.
La Commissione, svolgendo peraltro interessanti audizioni di rappresentanti del Consiglio superiore della magistratura e dell'Associazione nazionale magistrati, si è posta il problema dei limiti da porre all'esercizio della funzione giudicante penale monocratica. In particolare, sono state sottoposte all'esame della Commissione, inizialmente, due proposte di legge.
La prima, adottata poi, inizialmente, come testo base, prevedeva la possibilità di svolgere queste funzioni solo dopo un ulteriore periodo di tirocinio mirato rispetto a quello già previsto per legge.
Una seconda proposta di legge, presentata dal gruppo Partito Democratico, invece, non prevedeva alcuna limitazione per Pag. 8l'esercizio della funzione giudicante monocratica penale, lasciando unicamente i limiti relativi allo svolgimento delle funzioni di GIP e GUP.
Al termine dell'esame in sede referente, il gruppo Italia dei Valori ha presentato una proposta di legge volta a sopprimere qualsiasi limitazione, parificando, quindi, a pieno titolo i magistrati al termine del tirocinio a tutti gli altri magistrati.
Come vedete si è partiti da posizioni apparentemente molto distanti.
Secondo il Governo i limiti vigenti si sarebbero potuti superare unicamente con riferimento alle funzioni requirenti, ritenendo quelle giudicanti monocratiche penali troppo delicate per essere svolte al termine del tirocinio.
Il Consiglio superiore della magistratura, con una delibera del 27 luglio 2011, ha chiesto espressamente la soppressione dell'articolo 13, comma 2, del decreto legislativo n. 160, implicando ciò l'eliminazione di ogni limite.
Tale posizione è stata giustificata, per le funzioni requirenti, ricordando la disciplina gerarchizzata nell'ambito delle procure e, per le funzioni giudicanti, evidenziando l'incongruità della normativa vigente che, nel prevedere il divieto di destinare i magistrati di prima nomina a tutte le funzioni monocratiche penali - così è scritto nel parere - non appare adeguatamente coordinata con la possibilità che a tali funzioni siano destinati, sia pure in supplenza e limitatamente ai processi a citazione diretta, giudici onorari, i quali non hanno superato la rigida selezione conseguente alla partecipazione ad un concorso pubblico di secondo grado come quello per l'accesso in magistratura.
La Commissione ha, quindi, adottato una soluzione di mediazione rispetto a questi punti di partenza per quanto attiene l'esercizio delle funzioni giudicanti penali monocratiche, le quali sono state devolute ai giudici al termine del tirocinio nel caso in cui si riferiscano a reati per i quali è ammessa la citazione diretta (articolo 550 del codice di procedura penale), considerato che altrimenti il Governo avrebbe mantenuta la sua posizione di contrarietà a rivedere i limiti per le funzioni giudicanti penali.
L'esigenza di modificare la norma sui limiti per i magistrati al termine del tirocinio deve essere rinvenuta anche per ragioni strettamente organizzative.
In un sistema giudiziario che appare prossimo al collasso, anche per la mancata copertura di organici - e le responsabilità, ne abbiamo discusso a lungo in Commissione, sono da ricercare da più parti e non soltanto nelle intenzioni del legislatore - appare sempre più urgente eliminare tutti quei limiti che irragionevolmente impediscono l'assegnazione di magistrati nelle cosiddette sedi disagiate.
Il Consiglio superiore della magistratura nella predetta delibera ha affermato che i descritti divieti hanno determinato distinte ricadute in termini di funzionalità nel sistema giudiziario, avendo comportato, per un verso, l'impossibilità di coprire le vacanze progressivamente determinatesi negli uffici requirenti e, per un altro verso, serie difficoltà organizzative nei tribunali con pianta organica inferiore alle venti unità (allo stato attuale presentano tale pianta organica 88 tribunali distribuiti su tutto il territorio nazionale).
Il provvedimento in esame, quindi, è diretto a colmare lacune di organico che oramai hanno assunto un carattere di vera e propria drammaticità, come ci viene ribadito nelle diverse audizioni che sono state svolte e non solo su questo argomento.
L'articolo 2 della proposta di legge, accogliendo peraltro un invito del CSM, è diretto a sopprimere l'articolo 9-bis del decreto legislativo n. 160 del 2006, relativo all'assegnazione di sede dei magistrati al termine del periodo di tirocinio, ritenendo che l'assegnazione provvisoria ivi prevista non abbia più senso a seguito delle modifiche dell'articolo 13, comma 2. Inoltre, tale disposizione, secondo il CSM, avrebbe determinato, nella sua applicazione, problemi pratici con effetti devastanti sulla funzionalità degli uffici. Su questo possiamo dire che c'è stata da subito un'ampia Pag. 9convergenza e la proposta emendativa era stata proprio del Partito Democratico.
L'articolo 3, infine, dispone l'entrata in vigore della legge il giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, escludendo così il periodo di vacatio legis e consentendo l'applicazione ai concorsi in corso, per i quali ci viene segnalata da più parti l'urgenza di intervenire e per i quali, appunto, sono prossime le assegnazioni di destinazione per i magistrati al termine del tirocinio. L'auspicio, se tutto procederà bene in quest'Aula e poi successivamente al Senato, è di poter fare in modo che questa legge intervenga già per l'applicazione ai concorsi in corso.
Ribadisco e concludo, signor Presidente, che l'accordo è positivo e indicativo ancora una volta del fatto che in Commissione giustizia si è lavorato bene in diverse occasioni per risolvere dei problemi. Questo provvedimento porta curiosamente, come primo firmatario di una delle proposte di legge, il nome dell'attuale vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. La sua proposta di legge è stata presentata, per così dire, in tempi non sospetti, quando probabilmente neppure in nuce poteva ipotizzarsi un'elezione, prima al Consiglio superiore della magistratura e poi a vicepresidente, del mio collega di partito e già vicecapogruppo Michele Vietti.
Credo che ora il Consiglio superiore della magistratura non potrà che apprezzare questa norma che contribuirà, come dicevo prima, a risolvere molti problemi organizzativi sia delle procure che dei tribunali.
Ritengo questo sia un viatico. Può essere, infatti, un viatico per provvedimenti di pari importanza e magari di impatto anche maggiore per quanto riguarda l'opinione pubblica, come quello relativo alle intercettazioni sul quale probabilmente ci confronteremo tra qualche giorno, a dimostrazione che questo Parlamento può risolvere ancora molti problemi della giustizia a partire dalla sua organizzazione, soprattutto se questi problemi vengono affrontati senza pregiudizi e guardando all'efficienza del sistema giustizia.

PRESIDENTE. Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire in sede di replica.
È iscritta a parlare l'onorevole Ferranti. Ne ha facoltà.

DONATELLA FERRANTI. Signor Presidente, si tratta di un provvedimento che ha avuto un lungo percorso di gestazione in sede di Commissione giustizia, ma che è poi approdato a un testo votato da tutti i componenti e i gruppi della Commissione.
Credo che esso - se arriverà in porto e se ci sarà un voto unanime dell'Assemblea, al tempo stesso, anche in tempi adeguati e, quindi, brevi - rappresenti un momento importante in quanto sarebbe un momento di attenzione del Parlamento e del Governo alla funzionalità degli uffici giudiziari. Non è certo l'unica via per arrivare a una giustizia che abbia tempi e una funzionalità adeguati alle aspettative del cittadino, ma sicuramente si tratta di un provvedimento che dà conto anche di un'opera di sintesi del Governo e del Parlamento e della capacità di verificare in maniera critica provvedimenti legislativi che sono attualmente in vigore e che non hanno portato gli effetti sperati di funzionalità.
Mi riferisco, in particolare, al divieto introdotto dalla legge 30 luglio 2007, n. 111, sull'ordinamento giudiziario, ed in particolare dall'articolo 13, comma 2, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, poi modificato dalla legge n. 111 del 2007, che prevede appunto il divieto per i magistrati di prima nomina - quindi, per i magistrati che hanno superato un concorso pubblico, uno tra i più duri - e che hanno svolto circa due anni di tirocinio (mi pare, per precisione, un anno e sei mesi), di ricoprire funzioni requirenti, giudicanti monocratiche penali, di giudice per le indagini preliminari e di giudice per l'udienza preliminare.
Questa normativa, come più volte il sottosegretario Caliendo ha sottolineato nelle riunioni in sede di Commissione, era stata voluta da tutte le forze politiche nel tentativo di evitare che i magistrati giovani, i magistrati «ragazzini», così si diceva, Pag. 10fossero catapultati da soli in posti molte volte di frontiera, e affinché in quei posti ci fossero invece magistrati di nomina più avanzata e quindi con maggiore esperienza professionale.
Soprattutto con riferimento poi alle funzioni di pubblico ministero, la ratio di questo divieto veniva dal fatto che bisognava avvicinarsi all'ufficio di procura dopo avere svolto anche e soprattutto funzioni di giudice e, quindi, in nome di quella cultura della giurisdizione che anche noi condividiamo e che sicuramente deve essere portata avanti proprio per garantire la giustizia, il giusto processo, la certezza dell'applicazione della pena.
Queste limitazioni normative, hanno creato delle forti ripercussioni negative nella funzionalità degli uffici. Riguardo a ciò, proprio per la serietà che ha contraddistinto l'attività in sede di Commissione non solo in relazione a questo provvedimento, abbiamo svolto delle audizioni; è stata acquisita, tra l'altro, documentazione dal Consiglio superiore della magistratura, è stato elaborato un parere del Comitato di Presidenza del CSM e, da ultimo, anche una risoluzione al riguardo risulta adottata all'unanimità dal Consiglio superiore della magistratura nella seduta del 27 luglio 2011 che ha affrontato, a distanza di qualche anno dall'entrata in vigore di quel limite, tutte le problematiche connesse al permanere di questo divieto.
Credo che sia intelligenza del legislatore capire che alcuni limiti non hanno funzionato, che comunque hanno portato più effetti negativi che positivi e che alcuni di essi (mi riferisco soprattutto a quello relativo al decreto di destinare ad un ufficio di pubblico ministero i magistrati di prima nomina) sono in qualche modo anacronistici, considerato che oggi sono cambiate anche le modalità di accesso alla magistratura. Infatti, non si può parlare più di magistrati «ragazzini»: si è passati da una media di età di 29 anni nel concorso del 2002 ad una media degli ultimi concorsi (ad esempio quello del 2010) di 33 anni. Ciò dipende dal fatto che non si tratta più di un concorso di primo grado; il percorso stesso degli studi giuridici è stato allungato e reso più complesso e il tirocinio è sempre più pressante e più formativo (come deve essere).
Inoltre, proprio nell'organizzazione sostanzialmente verticistica della procura della Repubblica, che pone una serie di responsabilità in capo al dirigente dell'ufficio (nuova organizzazione prevista dalla modifica dell'ordinamento giudiziario verificatasi con i provvedimenti del 2006, successivamente integrati), questi magistrati di prima nomina, che svolgono funzioni requirenti, non sono più i magistrati «ragazzini» lasciati soli al loro destino, perché il procuratore deve svolgere per legge delle funzioni: si tratta non solo di funzioni di coordinamento, ma anche dell'apposizione del visto rispetto a determinati provvedimenti che riguardano la libertà personale o l'esercizio dell'azione penale in situazioni di particolare delicatezza.
Il permanere di questo divieto ha inciso proprio sulle nuove risorse reperite attraverso concorsi pubblici. Ricordo che, dopo il blocco, lo stallo che ci fu durante il Dicastero Castelli, che non ha svolto concorsi pubblici relativi all'ingresso in magistratura per due, tre anni, successivamente i concorsi si sono svolti con cadenza annuale. Quindi piano piano si sta cercando di colmare i vuoti di organico; ancora oggi vi sono mille e 700 magistrati in meno rispetto a ciò che prevede la pianta organica. Quindi, a fronte di una situazione di carenza di organico aggravata dai pensionamenti fisiologici e da quelli che derivano dalle previsioni della manovra dell'anno scorso, e a fronte del fatto che, nei posti vacanti, non si possono inviare coloro che hanno vinto un concorso e si sono formati per fare quel lavoro, si sono create percentuali di scopertura talmente forti e ampie che hanno portato a parlare di «desertificazione» degli uffici della procura.
Parlerò poi più avanti anche degli uffici giudicanti penali perché questa proposta cerca di intervenire su entrambi i fronti. La risoluzione del Consiglio superiore della magistratura del 27 luglio 2011 dà conto di tutte le scoperture. Voglio indicarne Pag. 11solo due a titolo di esempio: a luglio 2010 risultavano vacanti 292 posti requirenti, mentre al 16 febbraio 2011 sono risultati vacanti ulteriori 203 posti requirenti. Questo è accaduto nonostante, proprio in un provvedimento d'urgenza, approvato dal Parlamento, in materia di trasferimenti d'ufficio, sia stato inserito (è stato accolto dal Governo) un emendamento dell'opposizione (del Partito Democratico) con il quale si è inteso derogare, almeno per un concorso (con riferimento al decreto ministeriale del 2 ottobre del 2009), a quel divieto in modo da dare una risposta, sia pur di emergenza ma comunque una risposta, a quegli uffici che rimanevano assolutamente scoperti.
Quella risposta è stata fornita, alcune sedi sono state coperte in via eccezionale con quei magistrati di prima nomina, però a distanza di un anno abbiamo visto come le scoperture sono state ulteriormente presenti in maniera massiccia. Tra l'altro, ciò quali uffici riguarda? Riguarda prevalentemente le regioni del Sud (in particolare la Campania, la Calabria e la Puglia), ma anche il Piemonte e la Sardegna. Queste sono le sedi nelle quali più gravi sono le scoperture degli uffici di procura. A questa situazione noi riteniamo che la risposta prevista da Alfano, con il cosiddetto trasferimento d'ufficio coatto, non è stato adeguato. Il trasferimento d'ufficio era previsto dalla legge n.133 che aveva avuto applicazione e che prevedeva la disponibilità dei magistrati.
Ad un certo punto, il Governo (ne abbiamo sentito parlare anche in occasione degli interventi in Aula dal Ministro Alfano), considerando disagiate alcune sedi solo perché in realtà non erano gradite ai magistrati, ha pensato di individuare forme di trasferimento che noi chiamiamo - così sono state definite un po' per distinguerle dall'altro trasferimento d'ufficio - coatto, ossia un trasferimento che avrebbe dovuto riguardare magistrati più giovani o magistrati che svolgono funzioni in alcuni uffici da più di dieci anni e che comunque, sulla base di alcune direttive ed alcuni monitoraggi del Consiglio superiore della magistratura, andavano a ricoprire forzosamente certi uffici.
In realtà, anche questo provvedimento - che il Governo lamenta non essere stato applicato adeguatamente dal Consiglio superiore della magistratura e che il CSM dice di non aver avuto i contesti di applicazione adeguati non ha funzionato, anche perché i provvedimenti forzosi sono soggetti alle sospensive del TAR e quindi non risolvono i problemi alla radice. Il dato oggettivo è che le scoperture sono rimaste; si tratta di scoperture gravissime, aggravate anche dal fatto che il trasferimento a domanda di magistrati (quindi il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti), in realtà, per una scelta del Parlamento che sempre è stata assunta nel 2006-2007 e mi riferisco a quei provvedimenti che hanno visto la riforma dell'ordinamento giudiziario, presenta alcuni limiti di compatibilità interna per cui chi ha fatto il pubblico ministero non può svolgere funzioni di giudice e viceversa in uno stesso distretto e pertanto vi è la necessità che chi fa domanda si debba trasferire fuori della regione. Anche questo è un ulteriore elemento che va valutato in un contesto in cui la «coperta corta» non può riuscire a coprire quelle esigenze di efficienza del servizio giustizia che poi sono alla base dei diritti e delle aspettative dei cittadini.
Pertanto, la nostra proposta, quella del Partito Democratico - che abbiamo presentato subito nel 2009, che si è affiancata ed è stata abbinata a quella a firma degli onorevoli Vietti e Rao dell'Unione di Centro per il Terzo Polo -, ha cercato di farsi carico da subito di queste esigenze. Al tempo stesso, essa ha cercato di contemperare tali esigenze con le altre che derivavano da un principio approvato in Parlamento riguardante l'ordinamento giudiziario, in base al quale si chiedeva di far attenzione, garantendo ai magistrati giovani la possibilità di ricoprire posti dove possano essere in qualche modo affiancati dal capo dell'ufficio o da colleghi più anziani e supportati da un adeguato tirocinio mirato. Pag. 12
Quindi, nella nostra proposta - e così è rimasto anche nel testo che è in Aula -, riteniamo che sia ancora valido, anche se porta delle conseguenze di difficoltà organizzativa all'interno dell'ufficio, il divieto per i giudici di prima nomina di ricoprire i posti di GIP e di GUP. Mi riferisco, rispettivamente, al giudice per le indagini preliminari e al giudice dell'udienza preliminare: il primo è il giudice che esamina tutte le misure cautelari che limitano la libertà personale dell'imputato, mentre il secondo è il giudice che, in sede di udienza preliminare, fa da filtro alle richieste del pubblico ministero con il giudice del dibattimento, cioè il giudice che può anche pronunciare una sentenza a seguito di rito abbreviato per un reato che preveda la pena dell'ergastolo.
Parimenti occorre riflettere sul fatto che si sono realizzate, in ordine alla funzionalità degli uffici, disfunzioni gravi e non ragionevoli, anche con riferimento al divieto per un magistrato di prima nomina di svolgere funzioni monocratiche penali: si ricordi che il giudice che svolge funzioni monocratiche penali giudica da solo in dibattimento.
La risoluzione del Consiglio superiore della magistratura fa riferimento, soprattutto, agli uffici, ai tribunali di modeste dimensioni, non particolarmente dotati di organico. Si tratta di piccoli tribunali dove, se i magistrati di prima nomina devono comporre obbligatoriamente il collegio penale, è difficile far sì che vi sia un numero di magistrati congruo per ricoprire posti di GIP e GUP (che a loro volta sono incompatibili con quello del giudice dibattimentale), posti di giudice monocratico penale.
La cosa ancora più incongrua è che, invece, queste stesse funzioni - quelle di giudice monocratico penale - possono essere assegnate ad un GOT, cioè ad un giudice onorario. È un giudice che, a prescindere della preparazione che sicuramente avrà, comunque, non ha superato il vaglio di un concorso pubblico - che è sicuramente molto difficile -, che, soprattutto, non ha effettuato un tirocinio formativo specifico. Sappiamo quali sono le problematiche che attengono alla riorganizzazione dei giudici onorari e anche alla loro figura così precaria all'interno degli uffici giudiziari.
Tuttavia, quello è un altro grande problema che dovrà essere risolto dal Parlamento e dal Governo, ma che adesso non entra nella valutazione di questo provvedimento, se non per dire che anche quel divieto riguardante i MOT e le funzioni monocratiche penali è di per sé irragionevole.
Prima di arrivare alla conclusione dell'intervento, vorrei aggiungere che, tra l'altro, in base alla legge oggi vigente, un magistrato di prima nomina può andare a svolgere, in un organo collegiale, funzioni penali, ma, svolgendo attività monocratiche civili. Quindi: funzioni civili monocratiche, dove, sostanzialmente, si trattano interessi economici di notevole spessore.
Non ha, dunque, senso pensare che un magistrato di prima nomina non possa svolgere funzioni giurisdizionali in un processo di ricettazione e possa invece svolgere funzioni di giudice monocratico civile, con tutte le conseguenze che vi sono in una controversia civile, sia di natura tecnico-giuridica, che di impatto sociale ed economico.
Anche con la ragionevolezza di tutti i componenti, abbiamo cercato di trovare una soluzione alle perplessità da parte del Governo sul fatto che il magistrato di prima nomina potesse trattare tutti i processi in cui è previsto un solo giudice che decide.
A questo punto, in virtù di un'opera di mediazione che a noi sembra ragionevole, ma che non era prevista in alcuna delle due proposte come limite, ma che siamo disposti ad accettare purché vi sia un iter veloce e compatto su questo provvedimento, abbiamo accolto l'indicazione per cui i magistrati di prima nomina potranno svolgere funzioni non solo di sostituto procuratore della Repubblica - e di questo ho già parlato poc'anzi - ma anche funzioni di giudice penale monocratico per tutti i reati «a citazione diretta», in cui non vi è l'udienza preliminare; si tratta di reati che - pur essendo, comunque, tutti Pag. 13gravi - non prevedendo il filtro dell'udienza preliminare, ma essendo a citazione diretta, sono considerati reati di minor gravità o, comunque, di minore allarme sociale, che possono essere giudicate anche da un GOT.
Una limitazione diversa in questo senso sarebbe, infatti, contraddittoria rispetto al fatto che, attualmente, anche nelle circolari del Consiglio superiore della magistratura - ad esempio l'ultimissima, di qualche giorno fa, sulle tabelle organizzative - si tende ad ampliare l'utilizzo e le competenze dei giudici onorari di tribunale (GOT), secondo un approccio di fiducia, anche se ciò, a mio avviso, deve essere sicuramente preceduto da un'idonea formazione e da un'idonea garanzia di coordinamento da parte del presidente di sezione o, comunque, del presidente del tribunale. Dall'altro canto, però, a mio avviso, se non si fa questa modifica, rimarrebbe questo pregiudizio irrazionale di fiducia e credibilità nei confronti dei giovani magistrati.
Ho molto apprezzato lo spirito della prima stesura della proposta di iniziativa dei deputati Vietti e Rao, laddove si voleva un minimo per il tirocinio cosiddetto mirato, ossia quel tirocinio che precede proprio l'immissione nelle funzioni: infatti, considerato che sicuramente questi giovani sono preparati in quanto vincitori di un concorso ed hanno svolto un anno di tirocinio generale, presso tutti gli uffici giudiziari, aiutando i giudici a motivare le sentenze ed essendo valutati per i loro compiti, ma occorre mandarli nelle prime loro sedi con un'adeguata formazione: conseguentemente il cosiddetto tirocinio mirato, attualmente previsto per i sei mesi che precedono il conferimento delle funzioni, deve essere congruo e specifico.
Nel testo finale, in Aula, abbiamo eliminato qualsiasi vincolo di tempo e di durata nella organizzazione del tirocinio mirato, anche tenendo conto delle sollecitazioni che ci vengono dal Governo che ci ha rappresentato la necessità che su questo ci fosse un'intesa del CSM con il Ministro, o comunque un'intesa organizzativa, e che non ci fosse un vincolo precostituito da parte del Parlamento.
Il problema però è vero e rimane; ma, mentre questa legge - e questa è la mia ultima annotazione - se verrà approvata supera anche le problematiche riguardanti la formazione dei neo pubblici ministeri, dei neo giudici monocratici penali, il permanere del divieto non assicura garanzia circa questa formazione. Spiego il perché in due secondi: attualmente i giovani possono andare negli organi collegiali penali e dopo una specie di assegnazione provvisoria che dura 30 mesi introdotta in questa legislatura, quegli stessi magistrati possono essere assegnati in via definitiva alle funzioni di pubblico ministero in altra sede.
Quindi, possiamo trovarci nella situazione concreta in cui c'è un magistrato giovane che va in un collegio penale per 30 mesi, svolge funzioni giurisdizionali, e poi, dopo 30 mesi, senza aver svolto un tirocinio mirato, specifico per funzioni requirenti, si trova ad essere assegnato ad una procura della Repubblica. Questa è la contraddizione che credo sia stata evidenziata anche nella risoluzione adottata all'unanimità dal CSM ma che in qualche modo contraddice anche quella che è la ratio di funzionalità degli uffici.
A noi quello che interessa è che gli uffici giudiziari funzionino; noi vogliamo tendere verso una situazione di efficienza e di qualità. Sarà difficile realizzare entrambi questi obiettivi solo con questo provvedimento, però questo provvedimento è un primo passo di un percorso ragionevole che noi tutti, a mio avviso, dobbiamo compiere in maniera adeguata e celere considerato che, come il sottosegretario sa meglio di me, c'è un concorso di giovani magistrati che deve scegliere la sede a novembre e che è in attesa delle nostre decisioni per capire quale futuro può costruire e soprattutto qual è il proprio destino professionale.
Con questo chiudo il mio intervento augurandomi che ci sia la voglia e la volontà effettiva di arrivare fino in fondo.

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PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Favia. Ne ha facoltà.

DAVID FAVIA. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, nel trattare questa normativa ci troviamo nel campo delle cosiddette leggi ordinamentali. Come diceva correttamente il relatore, quando, nell'analisi dell'effetto di leggi così importanti ci si rende conto che esse non hanno funzionato, essendo opportuno che siano sottoposte a verifica, è bene che all'esito di questa verifica eventualmente si proceda, come in questo caso, a dei cambiamenti. L'unica cosa che possiamo lamentare è che questi cambiamenti vengano proposti e vengano all'attenzione del Parlamento, forse, con un certo ritardo quando delle situazioni critiche - come è stato accennato e come anche io farò tra poco - hanno lasciato purtroppo un segno piuttosto negativo, soprattutto in zone delicate del nostro Paese come il Meridione dove vengono affrontate situazioni di criminalità organizzata.
Come noto, la normativa vigente prevede che una volta superato il concorso i magistrati svolgano un tirocinio della durata di 18 mesi.
Concluso il tirocinio essi vengono assegnati ad una sede provvisoria per due anni e mezzo e poi, all'esito della prima valutazione di professionalità, sono assegnati definitivamente agli uffici giudiziari individuati dal CSM come disponibili.
Attualmente l'articolo 13, comma 2, del decreto legislativo n. 160 del 2006, del quale ci stiamo occupando, preclude ai magistrati di prima nomina, che hanno concluso il tirocinio ma non hanno ancora conseguito la prima valutazione di professionalità, la possibilità di svolgere le funzioni requirenti, quelle giudicanti monocratiche penali, quelle di giudice per le indagini preliminari e di giudice per l'udienza preliminare, i cosiddetti GIP e GUP. Recentemente l'articolo 3-bis del decreto-legge n. 193 del 2009 ha fortunatamente introdotto una deroga a tale disposizione.
La normativa della quale ci stiamo occupando elimina invece il divieto di svolgere funzioni requirenti anteriormente alla prima verifica di professionalità, attenua il divieto di svolgimento di funzioni giudicanti monocratiche penali introducendo un'eccezione per i reati per cui è ammessa, ai sensi dell'articolo 550 del codice di procedura penale, la citazione diretta a giudizio, e conferma, invece, il divieto di svolgere le funzioni di GIP e GUP.
L'articolo 2 introdotto nel corso dell'esame in Commissione, abroga l'articolo 9-bis del decreto legislativo n. 160 del 2006 che disciplina l'assegnazione di sede ai magistrati al termine del periodo del tirocinio, prevedendo l'assegnazione ad una sede provvisoria per due anni e sei mesi.
Il gruppo Italia dei Valori, già nel procedimento di conversione del decreto-legge n. 143 del 2008 proponeva e richiedeva con emendamenti ed ordini del giorno al Governo di prevedere, nonostante il divieto generale di assegnazione di magistrati di prima nomina a funzioni requirenti e funzioni monocratiche penali, deroghe da parte del Consiglio superiore della magistratura in presenza di imprescindibili ragioni di servizio da indicare specificatamente e congruamente motivate.
È sotto gli occhi di tutti ormai che la situazione in cui versano alcuni uffici di procura, soprattutto nel sud del Paese, a causa della mancanza di magistrati è allarmante. Lo testimoniano - e darò alcuni dati - le attuali percentuali di mancata copertura dei posti: 100 per cento a Mistretta, 75 per cento a Enna, a Patti e a Locri, il 66 per cento - i due terzi - a Nicosia, a Ragusa, a Termini Imerese, a Crotone e a Paola, il 60 per cento a Gela, il 50 per cento a Sciacca e a Vibo Valentia, il 40 per cento a Barcellona, a Pozzo di Gotto e a Palmi.
La situazione non sembra risolta dall'applicazione del decreto-legge n. 143 del 2008. I limiti poi posti dalla riforma dell'ordinamento giudiziario attuata con la legge n. 111 del 2007 in merito al passaggio Pag. 15dalla funzione giudicante a quella requirente sta comportando la creazione di significativi vuoti di organico negli uffici della procura della Repubblica, in particolare in quelli da considerare più difficili per collocazione geografica e per ragioni ambientali. Si sente l'esigenza di intervenire con modifiche alle norme vigenti che rimodulino il divieto di assegnazione alle procure della Repubblica dei magistrati di prima nomina.
Non vorremmo poi che la situazione peggiorasse a causa della normativa in itinere che prevederebbe l'abolizione di alcune procure, ossia quelle presso i piccoli tribunali, non toccando i tribunali e accorpandone le funzioni nei tribunali più grandi. Non vorremmo che a causa della mancanza di magistrati, utilizzando anzi questa situazione come scusa, si arrivasse all'abolizione delle procure, il che ovviamente comporterebbe un peggioramento dell'attività. Infatti è chiaro che una funzione svolta da chi non è presente sul territorio è sempre peggiore di quella svolta da chi ha sotto controllo, sott'occhio la situazione.
Tutto ciò che ho detto ora e ciò che ho detto prima potrebbe arrivare addirittura a mettere in crisi l'attuazione del principio costituzionale della obbligatorietà dell'azione penale.
In particolare, tramite la riscrittura del comma 2 dell'articolo 13 in questione si propone che i giovani magistrati siano chiamati a svolgere, come per il passato, funzioni requirenti, senza che ostino preoccupazioni connesse alla naturale e comprensibile inesperienza, essendo essi inseriti in un sistema in cui all'interno di ciascuna procura della Repubblica vige ormai per legge una struttura piramidale che impone, per determinati atti rilevanti dell'ufficio, il visto del procuratore capo o di un procure aggiunto a ciò espressamente delegato. Tale sistema di controllo interno garantisce adeguatamente da eventuali errori causati dalla poca eventuale esperienza del singolo sostituto.
È stato invece mantenuto il divieto di assegnare i magistrati ordinari subito dopo il tirocinio, anteriormente al conseguimento della prima valutazione di professionalità, alla funzione di giudice per le indagini preliminari o dell'udienza preliminare. Su questo ci permettiamo di proporre una riflessione - l'abbiamo già fatto in Commissione e lo rifaremo in Aula presentando una proposta emendativa totalmente abrogativa dell'articolo 13 in questione -, perché crediamo sia necessario un po' più di coraggio. Infatti - come diceva prima la collega - si arriva ad essere magistrati pieni mediamente intorno ai 33 anni, e ci si arriva con degli studi, con un concorso e con un tirocinio: probabilmente potremmo essere un po' più coraggiosi nell'andare a coprire i buchi presenti nell'organico della magistratura attraverso una totale abrogazione dell'articolo 13.
Nel corso dell'iter in Commissione giustizia il rappresentante del nostro gruppo, onorevole Federico Palomba, ha presentato una proposta di legge, l'atto Camera 4619, che prevede l'abrogazione dell'articolo 13 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160 e successive modificazioni, che consentirebbe l'assegnazione di funzioni monocratiche requirenti e giudicanti penali ai magistrati di prima nomina dopo il tirocinio, considerato che oggi il concorso per l'accesso alla magistratura è sostanzialmente un concorso di secondo grado, che consegue ad un tirocinio molto approfondito e considerato che altri funzionari pubblici assumono funzioni delicate subito dopo il superamento del concorso.
Questo indirizzo è stato riproposto con un emendamento, che non è stato approvato in Commissione, mentre è stato accolto un altro emendamento dell'Italia dei Valori che sopprime il divieto per le funzioni requirenti. Sul testo che recepisce quell'emendamento l'Italia dei valori ha espresso parere favorevole, precisando, tuttavia, che avrebbe riproposto in Aula - come dicevo precedentemente - l'emendamento interamente abrogativo del comma 2 dell'articolo 13 del decreto legislativo n. 160 del 2006 e successive modificazioni, per le ragioni che ho esposto e che risponde agli auspici dell'Associazione Pag. 16nazionale magistrati e del Consiglio superiore della magistratura, oltre che a considerazioni di ragionevolezza.
Credo che la situazione sia sotto gli occhi di tutti. Tra l'altro, essa era ed è conseguente all'approvazione da parte del Parlamento della norma sull'ordinamento giudiziario, che vieta di assegnare agli uffici giudiziari con funzioni monocratiche i magistrati all'ingresso in carriera nei primi quattro anni di attività. Nel tempo abbiamo proposto deroghe e nomine, anche attraverso la presentazione di ordini del giorno. Crediamo che ascoltare gli appelli del CSM e dell'ANM sia una cosa estremamente positiva.
Certo è che, la normativa che viene presentata, sulla quale abbiamo espresso voto favorevole, è un rimedio alla drammaticità della situazione attuale - lo diremo meglio nel corso dell'esame delle proposte emendative - ma crediamo sia opportuno essere più coraggiosi giungendo all'abrogazione integrale dell'articolo 13.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche del relatore e del Governo - A.C. 2984-A)

PRESIDENTE. Prendo atto che il relatore, onorevole Rao, non intende replicare.
Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo.

GIACOMO CALIENDO, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Signor Presidente, credo che, tornando a discutere di questo argomento in quest'Aula, vadano fatte alcune precisazioni.
La ratio del divieto di cui all'articolo 13 va ricercata in quarant'anni di studio della «magistratura sociale» e di coloro che si occupano dell'amministrazione della giurisdizione, che ha sempre connotato qualsiasi riflessione in materia di ordinamento giudiziario al punto che la commissione ministeriale presieduta dal Primo presidente della Corte di cassazione, professor Mirabelli, introdusse e previde un divieto per cinque anni di svolgere funzioni requirenti o monocratiche. Inoltre, perché si svolgessero funzioni collegiali, si prevedeva che fossero utilizzabili all'uopo anche i collegi d'appello, in modo che ogni uditore potesse essere uno in ciascun collegio.
Questa proposta, che fu fatta e di cui abbiamo approvato il testo finale nel 1983-1984, non ebbe poi seguito come iniziativa legislativa, perché si attendeva la riforma generale dell'ordinamento giudiziario che risaliva al periodo fascista. Successivamente ci si è correttamente basati su questa ratio, che non era la giovane età, non era - come ho sentito ribadire qui ancora oggi - il fatto che si tratti di un concorso di secondo grado. Non era questa la ratio. La ratio era che un qualsiasi cittadino vincitore del concorso, che fosse anche avvocato, deve entrare nella logica della cultura della giurisdizione di immagazzinare come principi indefettibili quelli del contraddittorio, della realtà di valutazione della prova. Era questa la ratio che portava a dire che dovevano essere inseriti in un collegio. Tale ratio ha indotto nel 2006 tre senatori del Partito Democratico a proporre il divieto. Si tratta di un divieto che è stato condiviso, nonostante la proposta fosse di una parte politica. La proposta era condivisa perché era frutto di quel dibattito e di quella cultura a cui ho fatto riferimento.
Che cosa è avvenuto? Sono stati introdotti degli incentivi, delle possibilità di coprire quei posti. Visto che si sono ricordate alcune sedi di procura che sono rimaste scoperte, vorrei osservare che, quando parliamo di sedi disagiate, si tratta solo di sedi sgradite al punto tale che Lodi, Como, Brescia, cioè sedi attaccate agli aeroporti e alle grandi città italiane, hanno avuto lo stesso posti coperti con il procedimento della disponibilità. Si tratta di un procedimento che presupponeva la possibilità del trasferimento d'ufficio. Non è un istituto nuovo nel nostro ordinamento, durante il terrorismo fu applicato per i posti d'appello.
È evidente che quel sistema può funzionare - ma non dimentichiamo che lo Pag. 17abbiamo introdotto per 100 posti, quindi non per un numero eccessivo - soltanto se chi ha il potere di amministrazione della giurisdizione riduce i posti da pubblicare in un momento di vacanza di 1.300 posti e nello stesso tempo attua il trasferimento d'ufficio, non tanto perché deve essere realizzato, ma perché se i magistrati sanno che possono avere il trasferimento d'ufficio dichiarano la propria disponibilità. E questo non è avvenuto.
Allora, ripubblicando tutti i posti vacanti, si verifica che si scoprono necessariamente i 100 posti e anche se si applicasse il trasferimento d'ufficio non si risolverebbe il problema. È stato questo che ha indotto il Governo a tener conto di due passaggi successivi. In primo luogo, è stato introdotto un potere di controllo, di verifica e di assunzione di responsabilità del procuratore della Repubblica molto più cogente.
Per quanto riguarda le funzioni monocratiche, le abbiamo limitate al contenuto dell'articolo 550 del codice di procedura penale, cioè ai procedimenti a citazione diretta, anche se per i GOT vi sono delle eccezioni disposte dal Consiglio superiore della magistratura. Lo abbiamo fatto perché di fatto i GOT, proprio perché mancano i giudici, possono esercitare le funzioni in supplenza dei magistrati assenti e ciò determinerebbe l'assurdità di avere i GOT che, in funzione di supplenza, svolgerebbero funzioni che non possono svolgere gli altri.
È evidente che per la funzione giudicante di GIP e di GUP, per le particolari complessità della funzione - e lo stesso per quanto riguarda il giudice monocratico per i procedimenti diversi da quelli previsti dall'articolo 550 del codice di procedura penale -, vi è l'opzione di mantenimento del divieto in relazione a quella che era la ratio che aveva portato all'introduzione del generale divieto e si mantengono tutte quelle opzioni, per cui il Governo ha espresso parere favorevole in Commissione a una modifica che poi ha raggiunto quasi l'unanimità, con le precisazioni del rappresentante del gruppo Italia dei Valori a cui è stato fatto riferimento. Mi auguro che si possa approvare al più presto e si possa trovare, quindi, un accordo totale, in modo tale che non vi siano più discussioni, da qui a qualche mese.
Vede, signor Presidente, nel nostro Paese le modifiche anticipano la verifica della praticabilità e dei risultati di una legge. In Germania avviene il contrario. Si ha la sperimentazione di una legge in un Land e poi si applica in tutto il Paese. Da noi, invece, si arriva prima della sperimentazione a proporne la modifica.

PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.
Sospendo la seduta, per una breve pausa tecnica. La seduta riprenderà alle ore 15, per lo svolgimento delle ulteriori due discussioni sulle linee generali previste all'ordine del giorno.

La seduta, sospesa alle 14,30, è ripresa alle 15.

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che non vi sono ulteriori deputati in missione alla ripresa pomeridiana della seduta.
Pertanto i deputati in missione sono complessivamente cinquanta, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Modifica nella costituzione del Comitato per la legislazione.

PRESIDENTE. Comunico che il 25 settembre è venuto a scadenza il turno di presidenza del Comitato per la legislazione del deputato Roberto Zaccaria. Ai sensi dell'articolo 16-bis, comma 2, del Regolamento e sulla base dei criteri stabiliti dalla Giunta per il Regolamento nella seduta del 16 ottobre 2001, le funzioni di presidente del Comitato per il quinto turno di presidenza - a decorre da oggi 26 settembre Pag. 18- sono assunte dalla deputata Carolina Lussana e quelle di vicepresidente dalla deputata Doris Lo Moro, cui spetterà il successivo turno di presidenza. Le funzioni di segretario restano affidate all'onorevole Deodato Scanderebech.

Discussione del disegno di legge costituzionale: Modifiche agli articoli 41, 45, 97 e 118, comma quarto, della Costituzione (A.C. 4144-A); e delle abbinate proposte di legge costituzionale: Vignali ed altri; Vignali ed altri; Beltrandi ed altri; Mantini ed altri; (A.C. 3039-3054-3967-4328) (ore 15,02).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione in prima deliberazione del disegno di legge costituzionale: Modifiche agli articoli 41, 45, 97 e 118, comma quarto, della Costituzione; e delle abbinate proposte di legge costituzionale di iniziativa dei deputati Vignali ed altri; Vignali ed altri; Beltrandi ed altri; Barbieri; Mantini ed altri.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi per la discussione sulle linee generali è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali - A.C. 4144-A)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che il presidente del gruppo parlamentare Partito Democratico ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
Ha facoltà di parlare il relatore, presidente della Commissione Affari costituzionali, onorevole Bruno.

DONATO BRUNO, Relatore. Onorevoli Colleghi, il testo che la I Commissione sottopone all'approvazione dell'Assemblea interviene sugli articoli 41, 45, 97 e 118 della Costituzione, con la finalità di potenziare l'impianto di tali articoli, valorizzando i principi sociali e liberali che sono a fondamento della responsabilità economica.
Il provvedimento intende collocarsi nell'ambito dell'indirizzo culturale e legislativo già tracciato dal diritto dell'Unione europea, in cui la libertà di concorrenza - espressione di una piena libertà economica - è divenuta valore ordinamentale che ha ispirato le politiche legislative di liberalizzazione e di privatizzazione dell'economia nel corso degli anni Novanta.
Accanto a ciò, è la stessa globalizzazione dei mercati che impone in maniera stringente di rafforzare la competitività del sistema Paese e pone la necessità di realizzare profonde riforme istituzionali per favorire le condizioni giuridico-istituzionali che caratterizzano un mercato moderno ed efficace.
Il provvedimento in esame, come risultante dall'esame in sede referente svolto dalla I Commissione, novella l'articolo 41 della Costituzione, modificandone i primi due commi, inserendo un nuovo terzo comma e sostituendo il terzo, che ora diventa quarto comma.
Le ragioni dell'intervento, evidenziate nel corso dell'istruttoria legislativa svolta dalla Commissione e richiamate dalla relazione illustrativa di accompagnamento al disegno di legge Atto Camera, n. 4144, di iniziativa governativa, che la Commissione ha adottato come testo base poggiano su diversi aspetti. In primo luogo, come già evidenziato, si intende potenziare l'impianto dell'articolo 41, valorizzando i principi sociali e liberali che sono a fondamento della responsabilità economica. Al tempo stesso, vi è la finalità di superare incertezze e contraddizioni nella vigente formulazione dell'articolo 41, ampiamente dibattute in questi anni dalla dottrina, che da una parte prevede la libertà dell'iniziativa economica privata e dall'altra stabilisce i suoi limiti.
Com'è noto, il testo vigente dell'articolo 41 stabilisce che l'iniziativa economica privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare Pag. 19danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, e che la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
Le difficoltà interpretative relative al rapporto tra la libertà di iniziativa economica, sancita dal primo comma, e la sua delimitazione, operata dal secondo e dal terzo comma, sono state oggetto di approfondito dibattito da parte della dottrina, che ha tra l'altro evidenziato come nella formulazione dell'articolo si rinvengano le tracce delle opposte posizioni sostenute nell'Assemblea costituente dalle principali forze politiche in materia di iniziativa economica privata e di ruolo dello Stato in economia.
Al contempo, il principio della libera concorrenza è ormai entrato prepotentemente nell'ordinamento giuridico costituzionale attraverso il nuovo testo dell'articolo 117, secondo comma, lettera e), che colloca la tutela della concorrenza tra le materie di esclusiva competenza statale.
La novella disposta dall'articolo 1 del testo in esame sancisce dunque preliminarmente la libertà dell'attività economica privata, oltre che dell'iniziativa economica privata, formalizzando così la diffusa interpretazione della disposizione vigente, secondo la quale la garanzia costituzionale dell'iniziativa economica privata si estende all'attività che ne costituisce lo svolgimento, fermi restando i limiti stabiliti per l'attività economica, pubblica e privata, dal terzo comma, ora quarto comma, dell'articolo 41. Il testo in esame introduce inoltre, al primo comma dell'articolo 41, il principio che è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge.
Viene poi novellato il secondo comma dell'articolo 41 per introdurre, tra i limiti all'iniziativa all'attività economica privata, anche quello del rispetto dei principi fondamentali della Costituzione. Per effetto della novella proposta, il secondo comma dell'articolo 41 reca: «Non possono svolgersi in contrasto con l'utilità sociale, con i principi fondamentali della Costituzione o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Al riguardo, si ricorda che in merito all'interpretazione del vigente secondo comma dell'articolo 41, la giurisprudenza costituzionale è ampiamente intervenuta. In particolare, nella sentenza n. 4 del 1962 la Corte ha rilevato che l'articolo 41 della Costituzione, pur affermando la libertà dell'iniziativa economica privata, ha consentito l'apposizione di limiti al suo esercizio, subordinandola però ad una duplice condizione: e cioè richiedendo, sotto l'aspetto sostanziale, che tali limiti corrispondano all'utilità sociale, e sotto quello formale, che ne sia effettuata la disciplina per opera della legge, alla quale la materia è riservata, sia pure in modo non assoluto. Il testo adottato dalla Commissione prevede poi l'introduzione di un nuovo terzo comma all'articolo 41 della Costituzione, volto a specificare che la legge e i regolamenti disciplinano le attività economiche unicamente al fine di impedire la formazione di monopoli pubblici o privati.
Infine, il vigente terzo comma dell'articolo 41, ora quarto comma, viene interamente riscritto, prevedendo che la legge si conforma ai principi di fiducia e di leale collaborazione tra le pubbliche amministrazioni e i cittadini prevedendo, di norma, controlli successivi. Si indica quindi una preferenza per le forme di controllo successivo delle attività economiche private, senza impedire esplicitamente il ricorso ad altri strumenti, anche di natura preventiva. In particolare, con tale formulazione si segue una tendenza delle politiche legislative economiche degli ultimi anni più recenti che, anche sulla scorta del diritto europeo, si sono dichiaratamente ispirate ad obiettivi di liberalizzazione e semplificazione amministrativa. La finalità è quella di eliminare sia le antinomie presenti nel testo della vigente disposizione sia l'antitesi venutasi a creare tra questa e i principi dell'Unione europea. Se infatti il sistema misto delineato dall'articolo 41 si è di fatto orientato verso un'interpretazione liberista che afferma il primato della libertà d'impresa e che quindi nella sua pratica attuazione non è stato capace di legittimare un disegno Pag. 20globale dell'economia da parte dello Stato per indirizzarla e coordinarla verso fini sociali, è pur vero che esso contiene in sé la capacità di legittimare singole e frammentarie disposizioni capaci di incidere sul sistema economico.
Quanto ai principi dell'Unione europea, va ricordato che l'articolo 16, «Libertà d'impresa», della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, cosiddetta Carta di Nizza, riconosce in modo esplicito la libertà d'impresa come diritto fondamentale dell'individuo, conformemente al diritto dell'Unione europea e alle legislazioni e prassi nazionali. Nel corso dell'esame in sede referente svolto dalla I Commissione è stato quindi accolto un articolo aggiuntivo finalizzato a modificare il secondo comma dell'articolo 45 della Costituzione nel senso di inserire in fine le parole: «e delle piccole imprese». Il testo dell'articolo 45, così emendato, recherebbe dunque la seguente formulazione: «La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell'artigianato e delle piccole imprese».
Il testo che si sottopone all'Assemblea interviene poi sull'articolo 97, che apre la seconda sezione del Titolo III della parte seconda della Carta fondamentale, dedicata alla pubblica amministrazione, sostituendolo interamente. Tale modifica va dunque letta in stretto collegamento con quella relativa alla libertà di iniziativa economica, in quanto il buon funzionamento della pubblica amministrazione costituisce un fattore di competitività per i privati.
Perciò, la finalità dell'intervento emendativo è quella di aggiornare il testo costituzionale valorizzando il modello di amministrazione che si è affermato nell'ordinamento. La modifica prevista dall'articolo propone, in primo luogo, l'inserimento di due nuovi commi iniziali. Si prevede così che «Le pubbliche funzioni sono al servizio delle libertà e dei diritti dei cittadini e del bene comune. L'esercizio, anche indiretto, delle pubbliche funzioni è regolato in modo che ne siano assicurate l'efficienza, l'efficacia, la semplicità e la trasparenza». Si esplicita in tal modo un principio, immanente nell'ordinamento, che evidenzia la finalizzazione delle attività pubbliche al benessere generale, secondo il modello della cosiddetta amministrazione di risultato, ossia un'amministrazione responsabile non solo della legittimità del proprio operato, ma anche dei risultati raggiunti. Con il nuovo secondo comma vengono elevati a rango costituzionale alcuni principi generali dell'attività amministrativa, in parte già ricondotti dalla giurisprudenza costituzionale ai canoni del buon andamento di cui al vigente articolo 97, primo comma, della Costituzione ed enucleati dalla legge sul procedimento amministrativo (legge n. 241 del 1990).
La seconda modifica proposta novella l'attuale primo comma dell'articolo 97, il quale dispone che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge. Tale riserva di legge è stata interpretata come riserva relativa e limitata ai soli uffici-organo, in modo da non irrigidire oltre misura il disegno organizzativo delle amministrazioni. La disposizione si ricollega all'analoga riserva contenuta dall'articolo 95, terzo comma, della Costituzione, in materia di numero e attribuzioni dei ministeri. La novella prevista dall'articolo in esame prevede la sostituzione dell'espressione «pubblici uffici» con quella di «pubbliche amministrazioni». Infine, gli ulteriori commi dell'articolo 97 sono volti a specificare, da una parte, che «nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari, nel rispetto del principio di distinzione tra politica e amministrazione». Dall'altra parte, si introduce il principio in base al quale la carriera dei pubblici impiegati è regolata in modo da valorizzarne la capacità e il merito. In tale modo, diviene principio costituzionale il concetto in base al quale il criterio del merito deve essere impiegato anche nella disciplina delle progressioni in carriera. La finalità delle modifiche proposte all'articolo 97 è dunque quella di elevare al rango costituzionale i modelli di rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione ispirati alla fiducia, alla trasparenza e al rispetto Pag. 21dell'autonomia dell'azione privata, garantendo al contempo la valorizzazione del personale dipendente pubblico.
Infine il testo che si sottopone all'Assemblea novella il quarto comma dell'articolo 118 della Costituzione che, a seguito della revisione costituzionale del Titolo V della parte II, intervenuta nel 2001, riconosce il principio della cosiddetta sussidiarietà orizzontale o sociale, vale a dire di quel modello politico-organizzativo nel quale è favorita l'autonomia del corpo sociale e l'intervento pubblico è previsto solo quando la cittadinanza non possa efficacemente provvedere alla realizzazione degli interessi generali. È in questo senso che il principio viene richiamato dal vigente ultimo comma dell'articolo 118 della Costituzione, ai sensi del quale: «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». Con la novella proposta, volta a rafforzare la portata del principio di sussidiarietà orizzontale, si stabilisce che Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni esercitano le attività che non possono essere svolte adeguatamente dai cittadini singoli o associati.
La I Commissione ha avviato l'esame in sede referente degli abbinati progetti di legge costituzionale (Atti Camera nn. 4144, di iniziativa del Governo, 3039, di iniziativa dei deputati Vignali ed altri, 3054, di iniziativa dei deputato Vignali ed altri, 3967, di iniziativa dei deputati Beltrandi ed altri, 4328, di iniziativa dei deputati Mantini ed altri) il 19 aprile 2011, deliberando successivamente di procedere allo svolgimento di un'indagine conoscitiva nell'ambito dell'istruttoria legislativa sui progetti di legge. La Commissione ha dunque proceduto, nella seduta del 15 settembre 2011, alle audizioni dei seguenti esperti della materia: Piero Calandra, professore di diritto amministrativo, Massimo Luciani, professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico, Ilenia Massa Pinto, professore associato di diritto costituzionale, Giampaolo Rossi, professore ordinario di diritto amministrativo, e Serena Sileoni, ricercatrice dell'Istituto Bruno Leoni.
Il 15 settembre 2011 è stato adottato, come testo base, il disegno di legge costituzionale n. 4144 del Governo.
Nella seduta della Commissione del 21 settembre 2011 sono stati, quindi, esaminati gli emendamenti proposti approvando proposte emendative di diversi gruppi.
Infine, nella seduta del 22 settembre 2011 è stato dato mandato al relatore a riferire in Assemblea in senso favorevole sul testo adottato dalla Commissione nel corso dell'esame in sede referente.
Sul testo elaborato dalla I Commissione nel corso dell'esame in sede referente è stato acquisito il parere favorevole della X Commissione, il parere favorevole con un'osservazione della VI Commissione ed il parere favorevole con osservazioni della XI Commissione.
In particolare, nel parere della Commissione finanze si segnala l'opportunità di affrontare, in questa o in altra sede, il tema dell'inserimento nella Costituzione di alcuni principi fondamentali sanciti dallo Statuto dei diritti del contribuente, di cui alla legge n. 212 del 2000, che ricondurrebbero i rapporti tra fisco e contribuente su un piano di maggiore parità e civiltà giuridica.
La Commissione lavoro, nel proprio parere, ha prospettato l'opportunità di inserire, nell'ambito della nuova formulazione del terzo comma (ora quarto comma), un richiamo espresso ai principi di libera concorrenza e di responsabilità sociale dell'impresa.
Al contempo, relativamente all'articolo 2, sostitutivo dall'articolo 97 della Costituzione, la XI Commissione ha segnalato l'esigenza di chiarire il concetto di semplicità, atteso che esso dovrebbe riferirsi alle modalità di fruizione dei servizi pubblici da parte dei cittadini anziché, come sembra emergere dal testo, all'esercizio delle pubbliche funzioni.
I rilievi espressi dalle Commissioni in sede consultiva potranno, dunque, essere oggetto di specifici approfondimenti nell'ambito del Comitato dei nove. Pag. 22
Quanto al rilievo della Commissione finanze, si ricorda che la questione è stata già affrontata dalla I Commissione nel corso dell'esame in sede referente, decidendo di dedicare ad essa specifici approfondimenti con l'esame di una proposta di legge dell'onorevole Conte che interviene specificamente sull'articolo 53 della Costituzione (A.C. 962).
L'auspicio è, dunque, quello che questa Assemblea possa giungere alla prima approvazione del testo in esame volto a potenziare l'impianto degli articoli 41, 45, 97 e 118 della Costituzione, così contribuendo a dotare l'Italia di una maggiore capacità competitiva, tanto più importante in un momento di così difficile congiuntura economica.
Il testo costituirebbe, inoltre, uno dei pilastri di una revisione costituzionale più ampia che riguarda l'introduzione nella Carta del principio del pareggio di bilancio e il ridisegno dell'architettura dello Stato.
Signor Presidente, mi consenta di aggiungere, in conclusione, che desidero anticipare sin d'ora che è mia intenzione sottoporre alla Commissione, che è convocata domani per esaminare in composizione plenaria, al posto del Comitato dei nove, gli emendamenti presentati all'Assemblea, tre ipotesi di modifica del testo.
La prima modifica che intendo proporre è quella di modificare il nuovo testo del secondo comma dell'articolo 41 per precisare che «la legge non può stabilire limitazioni all'iniziativa e all'attività economica privata se non quando necessario a tutelare i principi fondamentali della Costituzione, la sicurezza, la libertà, la dignità umana».
La seconda modifica che intendo proporre riguarda il nuovo terzo comma dell'articolo 41, che potrebbe essere riformulato nei seguenti termini: «la legge disciplina le attività economiche al fine di impedire la formazione di monopoli».
Infine, la terza modifica servirebbe a richiamare, nella nuova formulazione del quarto comma dell'articolo 118, il principio di sussidiarietà che oggi, nel vigente testo dell'articolo, è menzionato.
Quindi, per quanto riguarda l'articolo 1, al comma 1, capoverso articolo 41, la sostituzione potrebbe leggersi nel seguente modo: «la legge non può stabilire limitazioni all'iniziativa e all'attività economica privata se non quando necessario a tutelare i principi fondamentali della Costituzione, la sicurezza, la libertà, la dignità umana. La legge disciplina le attività economiche al fine di impedire la formazione di monopoli».
Inoltre, per quanto riguarda l'articolo 3, comma 1, il capoverso verrebbe sostituito con il seguente: «Stato, regioni, città metropolitane, province e comuni, sulla base del principio di sussidiarietà, esercitano le attività che non possono essere svolte adeguatamente dai cittadini singoli o associati».
Questo sarà, come ho già detto, oggetto di approfondimento e di discussione nella riunione di domani della Commissione in composizione plenaria, in sostituzione del Comitato dei nove (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

ROBERTO CALDEROLI, Ministro per la semplificazione normativa. Signor Presidente, la discussione del presente disegno di legge costituzionale non è solo un simbolo della nostra idea costituzionale del mercato, della libertà di impresa e del rapporto fra pubblico e privato nel nostro Paese. Certo, essa è anche un simbolo che indica il tipo di società e di pubblico potere che intendiamo realizzare, ma limitarla a questo, come alcuni commentatori hanno fatto frettolosamente, sarebbe davvero sbagliato.
La riforma al nostro esame ha un contenuto giuridico di rango costituzionale di primaria importanza, in grado di condizionare lo svolgimento dell'attività legislativa, statale e regionale, e di quella amministrativa.
È importante, altresì, sottolineare come il presente disegno di legge costituzionale costituisca un provvedimento unitario. Non sono, infatti, singole e frammentarie Pag. 23norme che vengono modificate, bensì un sistema di disposizioni che toccano tutte il medesimo oggetto e che devono essere tutte modificate al fine di conseguire l'obiettivo di una liberazione di risorse economiche e produttive e di una maggiore responsabilizzazione e coinvolgimento dei privati nell'esercizio di funzioni di pubblico interesse.
Innanzitutto, viene in rilievo la modifica dell'articolo 41 della Costituzione, che regola l'iniziativa economica privata nell'ambito della parte I (Diritti e doveri dei cittadini) del titolo III (Rapporti economici).
L'obiettivo di un intervento di questo tipo è quello di potenziare l'impianto della disposizione, raccordando tra l'altro i suoi contenuti con gli indirizzi culturali e legislativi tracciati dal diritto dell'Unione europea. Il Trattato istitutivo della Comunità europea, infatti, tramite la diretta applicabilità del diritto comunitario nel nostro ordinario, ha soppiantato il concetto restrittivo di libertà economica privata desumibile dall'articolo 41 della Costituzione.
Tutti, ormai, convergono sul fatto che vi sia la necessità di una lettura quantomeno evolutiva della disposizione costituzionale attualmente in vigore. La globalizzazione dei mercati, l'integrazione europea ed i rapporti con le economie emergenti impongono un chiarimento costituzionale sul ruolo che rivestono l'iniziativa economica privata e la concorrenza.
L'intervento di revisione costituzionale intende, in primo luogo, eliminare le incertezze e le contraddizioni presenti nell'attuale formulazione dell'articolo 41. Non si è ritenuto di procedere ad un intervento demolitorio della disposizione, bensì si è scelto di introdurre opportune riformulazioni in grado di eliminare le ambiguità di fondo contenute nella norma (già Einaudi, dall'Assemblea costituente, sosteneva che la disposizione conciliasse l'inconciliabile).
Nella proposta di modifica dell'articolo 41 si afferma il principio della libertà economica e si introduce una riserva di legge per l'introduzione di limiti e condizionamenti all'esercizio della stessa. Tali limiti e condizionamenti possono essere evidentemente solo quelli elencati al secondo comma: principi fondamentali della Costituzione; tutela della sicurezza, della libertà e della dignità umana. L'inserimento, fra i limiti, dei principi fondamentali della Costituzione - attualmente non presenti nel testo costituzionale - vuole richiamare l'attenzione degli interpreti e del legislatore sui valori fondanti la Repubblica.
La previsione di una riserva di legge è apparsa altresì necessaria per evitare che i limiti non desumibili dalla legislazione possano essere frapposti in sede amministrativa e in special modo dagli enti locali. Il fondamento legislativo, dunque, svolge una funzione garantistica nei confronti dei cittadini.
In quest'ottica, dunque, si è ritenuta necessaria l'eliminazione del vigente terzo comma. Il rischio che la formulazione attuale presenta è quello, noto a tutti, che la proclamazione di libertà, di cui al primo comma, venga ad essere negata dalla previsione di fini sociali da perseguire con programmi e controlli stabiliti per legge. È vero che la Corte costituzionale - ad esempio nella sentenza n. 78 del 2010 - ha stabilito che i programmi e i controlli non devono essere tali da sopprimere l'iniziativa privata, ma solo da indirizzarla e condizionarla; eppure, è altrettanto vero, come si afferma nella relazione illustrativa, che l'attuale terzo comma è frutto di un compromesso fra diverse anime all'interno dell'Assemblea costituente e che ha permeato di sé, anche e soprattutto attraverso la prassi amministrativa, l'ampio e massiccio intervento pubblico nell'economia, almeno fino all'avvento del Trattato istitutivo della Comunità europea.
A seguito di una proposta emendativa approvata nel corso dell'esame in sede di Commissione, è stata introdotta la possibilità per la legge di intervenire per condizionare le attività economiche solo al fine di impedire la formazione di monopoli pubblici e privati.
Questa specificazione costituisce un nodo politico e costituzionale di primaria Pag. 24importanza. In definitiva, si consolida e trova preciso fondamento costituzionale la legislazione antitrust che, a partire dagli anni Novanta, è stata introdotta anche in Italia.
Ma la modifica fa luce su tutta la Costituzione economica. Infatti, appare in maniera chiara come il diritto di iniziativa economica, così come protetto dalla Costituzione, abbia ad oggetto anche l'attività concorrenziale e che tale libertà debba essere protetta non solo nei confronti delle invasioni indebite realizzate dai pubblici poteri, ma anche dalle alterazioni che possono provenire da soggetti privati.
Questa prospettiva si salda con quanto affermato dalla Corte costituzionale a proposito dell'articolo 117, comma secondo, lettera e), che attribuisce allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia di tutela della concorrenza. Già a proposito di quella disposizione, la Corte ha precisato che non qualunque intervento legislativo statale comunque incidente sugli assetti dei mercati potesse ritenersi ammissibile, bensì solo un intervento concretamente indirizzato all'ampliamento e alla conservazione delle possibilità di accesso alla competizione e di permanenza nella competizione.
Infine, il nuovo terzo comma dell'articolo 41 si ricollega all'affermazione della libertà dell'attività economica di cui al primo comma, richiamando per converso il maggior grado di responsabilizzazione richiesto ai privati. La disposizione intende valorizzare e consacrare quale nuovo principio costituzionale un diverso approccio basato sulla fiducia e sulla leale cooperazione tra pubblica amministrazione e cittadini.
La recente evoluzione del diritto amministrativo si basa su questo principio, avvertito ormai come patrimonio di esperienza da tutti.
Sul piano giuridico, in particolare, la disposizione esplica un effetto immediato e concreto attraverso la preferenza accordata dall'ordinamento costituzionale ai controlli successivi. Tutti i controlli preventivi sull'attività dei privati saranno sottoposti ad uno scrutinio di ragionevolezza severo da parte della Corte costituzionale la quale, in assenza di idonee e fondate ragioni, potrà dichiarare l'illegittimità costituzionale delle disposizioni che li prevedevano.
Sempre in questo scenario complessivo si colloca la modifica proposta all'articolo 45 della Costituzione introdotta con l'emendamento approvato dalla Commissione. Come è noto tale disposizione costituzionale, oltre ad interessare la cooperazione a carattere mutualistico, stabilisce che la legge debba tutelare e dare sviluppo all'artigianato. Ebbene, il richiamo, accanto all'artigianato, anche della piccola impresa, è considerato dal Governo come fortemente opportuno.
La Costituzione contempla oggi una riserva di legge rinforzata, finalizzata a una disciplina diretta alla tutela e allo sviluppo del settore, dunque con l'assegnazione di un compito protettivo e promozionale al legislatore legato all'esigenza di supportare un modello produttivo ispirato all'auto-organizzazione, alla flessibilità e all'assunzione personale di rischio.
Tali caratteri si ritrovano, pur con le dovute distinzioni, anche nell'ambito della piccola impresa. Peraltro, la definizione di piccola impresa è già presente nella legislazione ordinaria ed è, dunque, una realtà giuridicamente rilevante che trova una sua disciplina peculiare.
La modifica dell'articolo 97 si inserisce armonicamente in questo quadro. I principi dell'azione amministrativa enunciati dalla legge sul procedimento amministrativo, anche sotto gli influssi della cosiddetta «amministrazione europea», sono oggi considerati espressivi di esigenze manifestate quotidianamente da tutti i cittadini; il buon andamento e l'imparzialità della pubblica amministrazione di cui oggi parla la Costituzione, devono sempre più divenire garanzia di efficienza del sistema produttivo, della tutela della soddisfazione dei consumatori, della speditezza delle relazioni commerciali oltre che dei diritti dei cittadini.
In assenza di un ripensamento globale della pubblica amministrazione, della sua missione e delle sue regole di funzionamento Pag. 25e di organizzazione la riforma dell'articolo 41 rischierebbe di rimanere zoppa, monca.
A tal fine il disegno di legge costituzionale esplicita nel testo della Costituzione la finalizzazione dello svolgimento delle pubbliche funzioni: garanzia della libertà e dei diritti dei cittadini, servizio del bene comune.
La riformulazione del comma secondo richiama il concetto di amministrazione affermatosi a partire dagli anni Novanta (e di cui la richiamata legge sul procedimento amministrativo è il risultato sul piano legislativo), che agisce non solo per atti ma soprattutto per risultati, e la cui efficacia può, anzi deve, essere misurata.
Fermi restando i principi di buon andamento e di imparzialità previsti dal comma terzo, sono aggiunti oggi principi di efficienza, efficacia, semplicità e trasparenza. A ciò si aggiunga che lo spettro applicativo si amplia non poco, arrivando a coprire tutte le forme, anche indirette, di esercizio delle pubbliche funzioni.
La modifica del comma quarto, frutto del lavoro della Commissione, introduce a livello costituzionale il principio della distinzione tra politica e amministrazione, vero e proprio caposaldo delle riforme in tema di lavoro pubblico del nostro ordinamento. Anche la Corte costituzionale in più pronunce (si ricordi la n. 453 del 1990 o la n. 103 del 2007) ha riconosciuto la validità di tale distinzione e la sua necessità al fine di distinguere l'attività di attuazione e d'implementazione dell'indirizzo politico espresso dalla maggioranza (attività politica) da quella di attuazione e perseguimento delle finalità di pubblico interesse (attività amministrativa). Una previsione del genere a livello costituzionale garantisce ulteriormente e rafforza il principio d'imparzialità dell'amministrazione ed è dunque da salutare con particolare favore.
Si introduce, infine, una disposizione sulle carriere, sancendo a livello costituzionale il principio, già affermato con le recenti riforme del lavoro pubblico, della valorizzazione della capacità e del merito per tutti i pubblici impiegati.
Inoltre, si precisa l'eccezionalità della deroga alla regola del pubblico concorso per l'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni, rimanendo ferma la riserva di legge. La modifica esplica un effetto immediato: la Corte costituzionale sarà chiamata a valutare con uno scrutinio ancora più stretto e penetrante tutti i casi nei quali il legislatore preveda una deroga al pubblico concorso. Dovranno quindi sussistere validi motivi, legati per lo più all'esigenza di garantire il buon funzionamento, e tale deroga dovrà essere limitata allo stretto necessario.
L'ultimo intervento riguarda l'articolo 118, quarto comma, della Costituzione nel quale viene precisato che lo Stato, le regioni, le città metropolitane, le province e i comuni esercitano le attività che non possono essere svolte in modo più efficace per autonoma iniziativa dei cittadini.
Scopo della modifica apportata all'articolo 118 della Costituzione è rafforzare la portata del principio di sussidiarietà orizzontale in base al quale l'azione dei pubblici poteri si configura come sussidiarietà rispetto a quella dei privati singoli e associati. Per ogni attività di pubblico interesse occorrerà dimostrare (e di questo sarà giudice la Corte costituzionale) che i privati non possono ottenere risultati analoghi o comparabili mediante autonoma organizzazione ed iniziativa, e che pertanto sussiste l'obiettiva esigenza di affidarsi ad un ente pubblico. La modifica mira ad aprire nuovi spazi ai privati sia nell'esercizio della loro libertà di iniziativa economica sia ricorrendo alle varie forme riconducibili al cosiddetto terzo settore.
Nell'uno e nell'altro caso si assiste ad una ritrazione della mano pubblica davanti all'efficienza e all'efficacia dimostrata dalla spontanea organizzazione dei cittadini.
Il disegno di legge oggi in discussione dunque costituisce un punto rilevante del programma di Governo e merita apprezzamento sotto il profilo politico, culturale e giuridico.
Con l'approvazione di questo disegno di legge costituzionale Parlamento e Governo, e con loro regioni ed enti locali, si assumono Pag. 26l'onere di una legislazione e di un'amministrazione attente e rigorose, rispettose dei limiti e degli obiettivi che gli articoli 41, 45, 97 e 118, come modificati, pongono.
Non è una sfida da poco e non è una modifica inutile, come credo di aver dimostrato richiamando i concreti effetti giuridici che essa determina. È in realtà una rivoluzione, un cambiamento radicale che deve partire dalla nostra cultura politica per riflettersi poi su quella dei contenuti e del metodo della legislazione, oltre che sull'attività amministrativa.
Vorrei infine sottolineare come l'esame in Commissione abbia confermato che proprio sulle riforme costituzionali di sistema possa svilupparsi un utile dialogo fra le diverse forze politiche, con l'obiettivo di perseguire l'interesse generale, abbandonando contrapposizioni pregiudiziali.
Il Governo, nell'auspicare l'approvazione del disegno di legge costituzionale n. 4144-A, confida che lo stesso metodo possa essere seguito anche per altri importanti progetti di riforma come la riforma complessiva che proprio oggi a mezzogiorno ho illustrato al Capo dello Stato (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Vignali. Ne ha facoltà.

RAFFAELLO VIGNALI. Signor Presidente e onorevoli colleghi, quando i Costituenti redassero l'articolo 41 della nostra Carta fondamentale il panorama delle imprese italiane era assai diverso da quello odierno. Nel 1947 l'Italia, uscita distrutta dalla guerra, era un Paese prevalentemente agricolo, con alcune grandi industrie, un po' di artigianato ed un po' di commercio. Poi, a partire dagli anni Cinquanta, quindi successivamente all'approvazione della Carta costituzionale, e poi decisamente negli anni Sessanta, il mondo intero ha potuto assistere ad un fenomeno unico: la nascita di un'imprenditoria diffusa, unica al mondo, e la trasformazione di un paese arretrato in una delle sette maggiori potenze industriali del mondo. Fu un vero e proprio miracolo, il miracolo italiano appunto. In quegli anni nacque dal talento dei nostri concittadini una miriade di imprese, che porta ancora oggi a fare dell'Italia il Paese con uno dei primati più invidiabili: siamo infatti il Paese con il più alto tasso imprenditoriale del mondo, un tasso di tre volte superiore alla media europea. Ma siamo anche uno dei Paesi in cui è più difficile fare impresa e questo invece è un primato di cui non credo che possiamo andare molto fieri. Nel rapporto 2011 Doing Business della Banca mondiale, l'Italia è collocata al centottantesimo posto per la libertà di impresa. La difficoltà di fare impresa costituisce uno dei fattori più preoccupanti per il futuro della nostra economia e della sua crescita. Essa, non comunque la troppo elevata pressione fiscale, non l'elevato costo del lavoro e non la mancanza di incentivi economici, costituisce il primo fattore di blocco degli investimenti produttivi nel nostro Paese ed il primo fattore di scoraggiamento per i giovani, che rinunciano troppo spesso a fare impresa per questo motivo o che sono costretti ad emigrare in altri Paesi, dove l'imprenditoria è favorita, quando non esaltata.
Vorrei in particolare però concentrarmi sull'articolo 41 della Costituzione, e venire in medias res, in particolare sul comma terzo. Già nel dibattito alla Costituente da parte di molti si sollevarono parecchie perplessità su una formulazione che sanciva il potere dirigistico dello Stato in economia. Uno dei protagonisti avversi alla formulazione poi entrata nel testo della Carta fu Luigi Einaudi, come è stato giustamente ricordato anche dal Ministro Calderoli. Ora nel dibattito in Commissione - e temo accadrà anche qui in Aula - abbiamo ascoltato esponenti della minoranza, ma anche illustri esperti sui media, definire inutili queste modifiche. A questi colleghi vorrei porre alcune domande: siete sicuri che aggiornare la Carta ad una situazione radicalmente mutata sia inutile? Siete certi che l'iperregolamentazione normativa e regolamentare e la Pag. 27moltiplicazione del sistema dei controlli, spesso contraddittori e sovrapposti, non sia il frutto di quella formulazione? Escludete che la contraddittorietà delle indicazioni che derivano da questa iperproduzione regolamentare e burocratica non sia anche la fonte dell'eccessiva discrezionalità di troppi funzionari pubblici ed anche una fonte di corruzione? Siete certi che le nostre imprese soprattutto possano ancora sostenere costi burocratici che ammontano ad oltre un punto di PIL, sottraendo risorse agli investimenti produttivi e quindi alla competitività ed alla produttività?
Lo ricorda ancora oggi Piero Ostellino, che nel suo editoriale sul Corriere della Sera dice: «L'Italia è il paese dove, più che in ogni altro, la nascita di un'azienda e la sua stessa esistenza dipendono da un apparato legislativo e amministrativo invasivo e soffocante. La conseguente dipendenza del mondo dell'impresa - che meglio sarebbe definire assuefazione e adeguamento - dalla discrezionalità della politica, cioè dalle sue concessioni legislative e finanziarie».
Nel dibattito di questo periodo, mi è capitato anche di registrare espressioni ironiche in relazione alla formula inserita nell'articolo 41, primo comma, della Costituzione, come previsto nel provvedimento, secondo la quale tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge è consentito. In effetti, sembrerebbe, a prima vista, una formulazione inutile, perché è ovvia, ma non è così. Chi conosce la vita quotidiana delle imprese sa quante norme arbitrarie vengono inventate e fatte attuare dai funzionari pubblici e dagli addetti ai controlli ai nostri imprenditori. Sancire questo principio nella Costituzione significa, dunque, garantire più legalità, dare certezza della norma, dare riferimenti chiari ed inequivocabili a chi vuole rischiare in proprio e del proprio.
Riformare l'articolo 41 della Costituzione significa anche attuare quanto ci chiede l'Europa. Nella comunicazione detta «Small Business Act» del 2008, essa ci ha chiesto di creare un ambiente in cui sia gratificante fare impresa. Nella revisione dello «Small Business Act» di quest'anno, ci ha chiesto di attuare una legislazione intelligente, che non aggravi con inutili pesi normativi l'attività di impresa e che, quando introduce oneri alle imprese, preveda che questi siano minori e preveda anche tempi di adeguamento più lunghi a seconda della dimensione dell'impresa - quindi, a partire dalle micro e dalle piccole imprese -, sulla base del principio di proporzionalità.
Ancora, nella comunicazione sull'Analisi annuale della crescita, nel gennaio di quest'anno, «Progredire nella risposta globale dell'Unione europea alla crisi», la Commissione europea afferma: «Pur essendo conditio sine qua non per la crescita, il risanamento finanziario non basta a stimolarla. In mancanza di politiche proattive, la crescita potenziale rimarrà probabilmente modesta nel prossimo decennio. Per la crescita sarà essenziale avere un contesto favorevole all'industria e all'impresa e, in particolare, alle piccole e medie imprese». Abbiamo, dunque, bisogno di riformare l'articolo 41 della Costituzione per creare questo contesto favorevole come precondizione alla crescita e allo sviluppo dell'occupazione.
Mi auguro anche che vengano accolti due emendamenti: uno penso di sì, perché ne ha già parlato il presidente Bruno, che prevede di reintrodurre espressamente il richiamo al principio di sussidiarietà, che nel testo novellato è meglio descritto e più incisivo, che penso involontariamente è stato espunto dai lavori in Commissione, perché si tratta di un principio fondamentale, come è anche stato richiamato dal Presidente della Repubblica, proprio in quest'Aula, in occasione della celebrazione dei 150 anni dell'Unità d'Italia, il 17 marzo scorso. Esso è anche irrinunciabile, soprattutto, nella sua definizione orizzontale, ma l'altro riguarda proprio l'introduzione del principio di proporzionalità con riferimento alle norme e ai controlli.
Il principio di proporzionalità, come ci chiede l'Europa, significa che le norme che riguardano le imprese devono essere differenziate sulla base della loro dimensione e dello specifico settore di attività, e che Pag. 28devono prevedere, in base alla dimensione, tempi di adeguamento diversi. Questo accade assai raramente, nel nostro Paese quasi mai: normalmente, si fanno norme sulla «taglia» delle grandi imprese, che, purtroppo, sono sempre meno, e le si fa applicare allo stesso modo a tutte le piccole e anche alle microimprese.
Si producono appunto norme a misura, che creano danni. Allo stesso modo e nello stesso tempo, per risolvere un problema di un settore economico, si producono norme restrittive e si fanno applicare senza differenziazione ad imprese di altri settori, che sono toccate solo in minima parte da quella problematica. Infine, non si differenzia mai l'entrata in vigore di una norma sulla base della dimensione di impresa, quando è di tutta evidenza che le microimprese non hanno risorse economico-finanziarie ed organizzative commisurabili a quelle delle grandi.
Introdurre nella Carta il principio di proporzionalità significa, dunque, adeguare la nostra Carta alla geografia reale del nostro sistema economico, costituito, per quasi il 95 per cento, da micro e piccole imprese e, per circa il 99 per cento, da micro, piccole e medie aziende. Quella che viene definita, troppe volte, con disprezzo, l'anomalia italiana, non è un'anomalia, ma una grande risorsa. L'anomalia, semmai, è immaginare, realisticamente ed illuministicamente, un sistema di grandi imprese, che purtroppo non esiste nella realtà, e disegnare su di esso un sistema delle norme e dei controlli. O, peggio, partire dal sospetto verso chi fa impresa, caricando impropriamente sulle sue spalle obblighi inutili, quando non dannosi.
Concludo, signor Presidente. Cambiare l'articolo 41 della Costituzione, anche per le ragioni espresse sia dal relatore che dal Ministro Calderoli, ritengo sia un elemento importante per garantire un'effettiva libertà d'impresa in un Paese che ha scelto come modello l'economia di mercato.
Abbiamo bisogno di dare fiducia a quei milioni di nostri concittadini, gli imprenditori, che costruiscono ogni giorno, in silenzio, il PIL e l'occupazione di questo Paese contribuendo, non solo al benessere proprio e delle loro famiglie, ma anche a quello del proprio territorio e a quello di tutto il Paese. Abbiamo bisogno di incoraggiarli, non di scoraggiarli, abbiamo bisogno che sentano lo Stato, non come il principale intralcio, ma come il loro primo alleato in un contesto globale nel quale il livello del rischio di impresa si è alzato enormemente. Abbiamo il dovere di ringraziarli, e credo che non lo faremo mai abbastanza, per quanto fanno con il loro impegno, la loro passione e il loro sacrificio per la crescita e la coesione dell'Italia (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Bressa. Ne ha facoltà.

GIANCLAUDIO BRESSA. Signor Presidente, a una settimana di distanza dalla discussione che ci ha visto protagonisti, lunedì scorso, per la modifica dell'articolo 31 della Costituzione ed il riconoscimento dell'equiparazione tra elettorato attivo e passivo, ripartirò da un'affermazione del presidente emerito della Corte costituzionale, professor Livio Paladin, per arrivare però, questa volta, a conclusioni esattamente opposte a quelle che ci hanno portato a votare a favore di quella riforma costituzionale. Partirò dal richiamo che lui faceva alla necessità concettuale e politica di non fare di ogni erba un fascio distinguendo analiticamente, con estrema cura, quanto va ripensato a causa delle sue stesse origini da quanto si dimostra tuttora vivo e vitale. L'articolo 41, nonostante la sua fama di essere un compromesso tra teorie politiche ed economiche diverse, ha dimostrato nel corso degli anni di essere assolutamente in grado di reggere l'evoluzione della storia politica, economica e sociale della nostra Repubblica.
La stessa lettura degli atti dell'Assemblea costituente, e del confronto tra Ruini ed Einaudi è estremamente interessante, e sarebbe bene che quando si citano gli atti dell'Assemblea costituente, questi si citassero nella loro completezza e non facendo riferimento solo a quelle parti che possono essere, in qualche modo, di aiuto alle Pag. 29presenti teorie che si vogliono sostenere oggi in quest'Aula. Tale lettura degli atti dell'Assemblea costituente e del confronto tra Ruini ed Einaudi a proposito del monopolio può essere in positivo per leggere sotto una luce diversa il secondo e il terzo comma dell'articolo 41, trovando in queste disposizioni il fondamento della normativa antitrust. E ciò soprattutto dove Ruini dice, rivolgendosi ad Einaudi: «Il suo atteggiamento contro il monopolio non presuppone l'ipotesi di una libera concorrenza che spontaneamente e automaticamente divide ogni monopolio (...). Occorrono interventi dello Stato per ristabilire e mantenere la libera economia di mercato (...). Nell'articolo (...), che ammette il coordinamento e i controlli a fini sociali, vi è la facoltà di impedire la formazione dei monopoli». Applicando questa lettura al tema della concorrenza si potrebbe sostenere che garantire la concorrenza è una delle modalità per garantire che la libera iniziativa economica non si svolga in contrasto con l'utilità sociale. Concorrenza è dunque un bene pubblico che contribuisce all'utilità sociale. La percezione dell'importanza di questo non era certamente presente al tempo in cui fu approvata la Costituzione ma oggi è possibile rileggere il messaggio fondamentale dell'articolo 41, recuperando la tutela della concorrenza come uno degli aspetti in cui si manifesta l'utilità sociale.
Questo ci permette di sostenere con convinzione la continuità nella validità del messaggio costituzionale ma ci induce anche a confrontarci con il vero problema che abbiamo se si vuole riflettere davvero sull'attualità dell'articolo 41. Il vero problema riguarda la capacità di comprendere e identificare le nuove modalità nelle quali si manifesta l'utilità sociale, contro la quale non può svolgersi la libera iniziativa economica. Da un lato, quindi, ci soccorre la giurisprudenza costituzionale, per cui la Corte, in forza anche dell'articolo 41, in numerose occasioni, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di disposizioni legislative che, operando bilanciamenti tra principi costituzionali, limitavano eccessivamente la libertà di impresa, ovvero ha dichiarato la non fondatezza dell'illegittimità costituzionale quando si lamentava la violazione di un diritto costituzionale concorrente con le esigenze sottese all'articolo 41, e un qualsiasi commentario può fornire decine di sentenze di questo tipo. Ma se la giurisprudenza costituzionale aiuta, decisiva risulta essere la capacità di nuove modalità di definizione dell'utilità sociale.
Sotto questo punto di vista, la questione importante riguarda il come l'utilità sociale venga riconosciuta e chi ha il compito di identificarla. È chiaro che questo è il compito del sistema politico e della legislazione, ma è essenziale che questo compito venga svolto in modo da riflettere una profonda e diffusa adesione nella cultura della società e qui arriviamo al dunque.
Cosa c'è sotto la voglia di cambiare l'articolo 41? Come ho spiegato non ci può esser il fatto della messa in discussione dell'articolo 41 della Costituzione. Si è visto che, sia per interpretazione storica degli atti dell'Assemblea costituente sia per l'interpretazione giurisprudenziale, l'articolo 41 non ha rappresentato in alcun modo un ostacolo alla libertà dell'iniziativa economica privata. C'è una volontà precisa di mettere in discussione il principio costituzionale ed i valori che sottendono all'articolo 41.
Come abbiamo visto quello che servirebbe sarebbe un' iniziativa politica finalizzata ad una legislazione ordinaria capace di dare una scossa all'economia.
La competitività in campo economico, che altro non è che la capacità di crescere nel lungo periodo, dipende dalla qualità delle scelte politiche e delle conseguenti scelte legislative che investe una molteplicità di fattori, ma che oggi riguarda soprattutto tre settori: un sistema della ricerca e dell'istruzione moderno e competitivo, una pubblica amministrazione funzionale e trasparente, un sistema fiscale e redistributivo efficiente ed equo che supporti il lavoro e gli investimenti, non solo materiali, ma anche e soprattutto immateriali. Voi tuttavia questo non siete stati capaci, non solo di farlo, ma nemmeno di Pag. 30pensarlo, per cui ecco la riforma dell'articolo 41, quella che il rettore della Bocconi, Guido Tabellini, ha definito un diversivo che fa perdere tempo prezioso.
Se questo è vero credo, però, sia solo una parte della verità perché la volontà di cambiare l'articolo 41 e a cascata altri articoli della Costituzione, nasconde la velleità culturale di rifondare la Costituzione economica repubblicana, cosa, non solo avventurosa e grave, ma per alcuni aspetti illegittima. Mi spiego: l'articolo 41 della Costituzione afferma al primo comma: «l'iniziativa economica privata è libera», il che significa che l'iniziativa, cioè l'atto di destinazione del capitale ai suoi impieghi, non è limitabile con limiti positivi. Invece all'attività economica privata possono essere imposti anche tutti i limiti che sono funzionali alla protezione dei valori costituzionali elencati nel secondo comma dell'articolo 41, a cominciare dall'utilità sociale.
Come ha sottolineato il professor Luciani in audizione, il limite centrale dell'impianto dell'articolo 41 è proprio il limite dell'utilità sociale e qui abbiamo scoperto, con una formulazione alquanto irrituale da parte del relatore, onorevole Bruno, che nella sua riproposizione il principio di utilità sociale sparirebbe e questo dà anche senso alle parole che pochi istanti prima aveva pronunciato, dicendo che la modifica dell'articolo 41 è uno dei pilastri di una revisione costituzionale più ampia.
Abbiamo ben capito che si tratta di una revisione costituzionale più ampia, ma ciò significa che voi volete completamente snaturare la Costituzione e la cultura economica, politica e sociale che sottende alla nostra Costituzione. Su questo punto tornerò comunque più diffusamente più tardi.
Il limite centrale nell'impianto dell'articolo 41 è proprio il limite dell'utilità sociale perché in quel richiamo all'utilità sociale trova precisa traduzione normativa un progetto di emancipazione personale e sociale che è tracciato dall'articolo 3, comma 2, della Costituzione.
Togliendo il riferimento all'utilità sociale, togliete qualsiasi aggancio dell'articolo 41 con il fondamentale articolo 3, comma secondo, della nostra Costituzione.
In questo contesto, l'articolo 41, comma secondo, della Costituzione vede nel principio dell'utilità sociale un vero principio fondamentale e si sa che un principio fondamentale non è modificabile in sede di revisione costituzionale, cosa che invece voi permetterete di fare con la consueta leggerezza di pensiero che non riesce a nascondere l'arroganza di chi non ha rispetto per la Costituzione, la sua storia, la sua attualità, il suo futuro.
Mi volete spiegare perché, accanto all'utilità sociale, richiamate gli altri principi fondamentali? Che i principi fondamentali debbano essere rispettati non c'è bisogno di scriverlo, farlo mettendoli a confronto con l'utilità sociale significa svalutare il principio dell'utilità sociale e significa non considerarlo al pari degli altri principi fondamentali.
Questo fatto costituzionale comporta un vero e proprio rovesciamento dell'impianto costituzionale, rendendo secondario il limite dell'utilità sociale, palesando il convincimento che l'iniziativa dei privati basti a se stessa e che ci sia un'originaria coincidenza fra interesse individuale e interesse generale.
Se così è, questa vostra riforma non è inutile, come con qualche affanno il Ministro Calderoli ha cercato di spiegarci. Ma non è nemmeno solo sbagliata e pericolosa, è proprio illegittima, perché voi cancellate un principio fondamentale, che neanche il potere di revisione costituzionale può consentire di fare. Ma vi è di più: oltre che a manomettere il testo della Costituzione, mirate a rifondare la filosofia sociale che sottende alla nostra Costituzione.
Se andiamo a leggere gli interventi, le relazioni dei due Ministri che, più di altri, hanno ispirato questo progetto di riforma, riusciamo ad intravedere la filosofia politica e sociale che li ispira. Sono più espliciti - mi riferisco a Tremonti e Sacconi -, direi quasi più sfrontati, rispetto al tono Pag. 31felpato, ma non meno pericoloso, che oggi il relatore Bruno ha qui esibito.
Tremonti, in un'intervista a Piero Ostellino, nel gennaio di quest'anno, diceva: dietro la follia regolativa vi è in ispecie qualcosa che in realtà va nel profondo dell'antropologia culturale, una visione dell'uomo che è o negativa o riduttiva. La visione negativa è quella della gabbia (l'homo homini lupus), il lupo va ingabbiato: è Hobbes. Da questa filosofia sono derivati l'assioma e la contrapposizione moderna fra pubblico e privato, dove pubblico è stato assiomaticamente associato a morale e privato a immorale. Questi pregiudizi hanno oramai impiantato un nuovo Medioevo, popolato da un'infinità di totem giuridici. Per cui, si rende necessaria la revisione dell'articolo 41 della Costituzione, valorizzando i principi morali, sociali e liberali della responsabilità, dell'autocertificazione e del controllo ex post contro i costi di mano morta e di immobilizzo, tipici del vecchio e presente regime. Questi nuovi principi sottendono una visione positiva della persona, delle sue associazioni, della sua capacità di intrapresa. Fin qui il Ministro Tremonti.
Di un'antropologia positiva aveva già parlato il Ministro Sacconi al Meeting di Rimini nell'agosto 2010, anche lui in contrapposizione all'antropologia negativa di Hobbes, per cui, diceva Sacconi, le politiche pubbliche sono in conseguenza prevalentemente repressive e non premiali. Tutta la nostra regolazione è complessa perché insegue anche le più improbabili patologie nei comportamenti umani e si fonda sul presupposto «io non mi fido» e, quindi, sul controllo ex ante.
Segue - e queste sono parole mie -: la ricetta a parole del Governo Berlusconi «meno Stato, più società», equivalente alla big society di Cameron, opposto al big government o alla new governance di Obama.
Premesso che in queste ossessioni filosofiche di Tremonti e Sacconi non vi è molto di originale - se si legge il primo libro de La Repubblica di Platone, la visione conflittualistica e solidaristica di cui si fanno portavoce Trasimaco e Socrate è certamente più piacevole e istruttiva di Tremonti e Sacconi - vi è anche da dire che lo sbrigativo riferimento dei nostri Ministri alla filosofia politica hobbesiana, come alla radice di tutti i mali dell'epoca presente, in quanto fondatrice di un'antropologia negativa, non ha alcun fondamento filosofico.
Se vi è un pensatore politico che invece fonda la propria teoria su un'antropologia positiva e ottimistica, questo è proprio Hobbes, solo con il quale si può dire chiuso il Medioevo e solo con il quale si può dire, per la prima volta, teorizzato il potere politico in senso moderno. Ed è qui, forse, il grave delitto: il potere politico in senso moderno. Questo forse fa venire l'orticaria a qualcuno.
Freudianamente, Tremonti e Sacconi cercano invece di introdurre in Costituzione un nuovo principio, quello che ha attualizzato Melman ne L'Uomo senza gravità: la grande filosofia morale di oggi consiste nel fatto che ogni essere umano dovrebbe trovare nel suo ambiente ciò di cui soddisfarsi pienamente, e se così non succede è uno scandalo, un dolo, un danno. In altri termini, di fronte a sempre nuove possibilità di godimento impera sempre la domanda: perché no?
Tutta la storia del pensiero occidentale ci ha insegnato che la bontà naturale o artificiale dell'ordine costituito risiede nel riconoscere la cultura del limite, cioè l'accettazione da parte degli uomini di limiti alla loro libertà naturale. In fondo, la civilizzazione non è niente altro che la disposizione degli uomini al sacrificio di una parte del desiderio, al contenimento delle loro passioni sfrenate. È il contrattualismo - compreso quello hobbesiano -, è la versione razionale di tale civilizzazione. Ma la logica che ispira Tremonti e Sacconi è caratterizzata dal rifiuto totale della cultura del limite: l'insofferenza per la legge, qualsiasi legge, è sublimata nel nuovo testo dell'articolo 41: «è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge».
Ora, prescindendo dall'ovvietà che il principio di legalità esclude di vietare in via amministrativa ciò che non è vietato Pag. 32dalla legge, dentro questa formulazione c'è molto di più. Al di là della neofilosofia morale del rifiuto della cultura del limite, c'è un problema di diritto costituzionale molto serio. Siamo di fronte alla proposta di costituzionalizzazione di quella che è stata chiamata la norma generale esclusiva. Come ha fatto notare nel corso delle audizioni la professoressa Ilenia Massa Pinto, la prescrizione secondo la quale è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge ha l'effetto di introdurre nell'ordinamento una vera e propria norma secondo la quale tutti i comportamenti che non sono espressamente disciplinati da una norma particolare devono ritenersi esclusi dalla disciplina di quella norma. Sarebbero quindi non oggetto di uno spazio giuridico vuoto, ma disciplinati da una norma generale esclusiva.
L'implicazione giuridica più importante che ne deriverebbe consisterebbe nell'obbligo, nell'imposizione ai giudici di impiegare sempre e comunque l'argomento letterale o a contrario. Nel nostro ordinamento non esiste una gerarchizzazione degli argomenti interpretativi. L'unico orientamento che esiste per l'interprete è l'interpretazione conforme a Costituzione, ma per realizzare un'interpretazione conforme a Costituzione potremmo utilizzare, in un caso, l'argomento a contrario, in un altro, l'argomento analogico o i più diversi canoni interpretativi che la cultura giuridica ha elaborato in centinaia di anni. Con la norma generale esclusiva non sarà più possibile farlo e le norme costituzionali vedrebbero via via indebolire la loro efficacia.
Va sottolineato che è la natura stessa delle disposizioni costituzionali di principio a essere incompatibile con la norma generale esclusiva. I principi costituzionali, tra cui rientra anche la libertà di cui all'articolo 41, devono essere attuati dalla politica attraverso la legislazione ordinaria compiendo una attività di bilanciamento, come insegna la Consulta, con altri principi. I limiti di cui al secondo comma dell'attuale articolo 41 non sono altro che un modo di tutelare altri principi costituzionali, e voi da questo tranquillamente volete prescindere. Mi sono concentrato solo sull'articolo 41 perché la sua riforma è la testata d'angolo su cui si reggono anche le altre ipotesi di riforma dei seguenti articoli. Tutto è condizionato in negativo dallo stravolgimento che la vostra proposta di riforma implica.
Un esempio per tutti. Il tema della sussidiarietà orizzontale è a me talmente caro da avermi fatto presentare un emendamento, durante i lavori della Commissione bicamerale D'Alema, che introduceva il principio in Costituzione. Il testo era molto secco: «Le funzioni che non possono essere adeguatamente svolte dall'autonomia dei privati sono distribuite tra lo Stato, le regioni e le comunità locali secondo il principio della sussidiarietà e della differenziazione, nel rispetto delle autonomie funzionali» eccetera, eccetera. Questa mia proposta, con la modifica dell'articolo 41 che volete imporre, oggi sarebbe improponibile, perché per me la sussidiarietà orizzontale va posta con riferimento al ruolo della pubblica amministrazione, in relazione al conseguimento delle finalità dell'articolo 3 della Costituzione.
Il vero oggetto dell'intervento pubblico non è il bene o il servizio che viene erogato, bensì ciò che tale bene o servizio consente alla persona di fare: istruirsi, mantenersi in salute, avere relazioni sociali, muoversi, avere un'abitazione, eccetera. L'iniziativa autonoma del singolo cittadino non va intesa come una competizione del privato con il pubblico, ma come espressione di una libertà che concorre ad un impegno comune, a risolvere i problemi assunti come propri dall'intera comunità. La finalità sociale non appartiene allo Stato, ma alla comunità. Lo Stato diventa allora la forma di quel contenuto sociale e non può sottrarsi all'esigenza di riflettere in sé questo nuovo legame, quello che Moro chiamava l'anima unitaria della società.
Per concludere, ritornando là dove sono partito, l'articolo 41 non si deve cambiare perché è uno di quegli articoli che, attraverso i principi che determina, Pag. 33qualifica come democratica la nostra Costituzione. Il costituzionalismo ci ha consegnato un sistema di principi e di vincoli capace di limitare qualsiasi potere. La nostra Costituzione è coerente con questi principi. Voi, con questa vostra sciagurata, mal scritta e pericolosa riforma, ci volete proporre un brusco salto all'indietro di qualche secolo, ossia un passaggio dalla democrazia costituzionale, che è una concezione della democrazia limitata, al liberalismo costituzionale, che è una concezione limitata della democrazia. No, grazie. Non solo non ci stiamo, ma faremo tutto il possibile perché questo vostro progetto non abbia a compiersi.
Ritirate questa proposta, è l'unica cosa ragionevole che potete fare. Siete ancora in tempo, non sprecate anche questa occasione (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Italia dei Valori).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Volpi. Ne ha facoltà.

RAFFAELE VOLPI. Signor Presidente, siamo a discutere il disegno di legge costituzionale presentato dal Presidente del Consiglio dei ministri, Berlusconi, dai Ministri Bossi, Tremonti, Calderoli, Romani, Brunetta, Alfano e Fitto. Non vedo il nome del Ministro Sacconi e l'ho aggiunto a penna, perché suggerito ampiamente dal collega Bressa.
Signor Presidente, credo di cogliere negli interventi dei colleghi, anche in quello del collega Bressa, una riflessione importante, iniziale e propedeutica, credo, a far capire, anche all'esterno dell'Aula, che stiamo parlando della Costituzione e di un elemento importante della Costituzione. Il nostro parere, indubbiamente, è che questi interventi siano positivi, importanti e che hanno la necessità di esserci perché, dal nostro punto di vista, anche la Costituzione ha bisogno di essere attualizzata e non vi è dubbio che la Costituzione, che uscì dal grande lavoro dei padri costituenti, era anche una Costituzione di equilibrio, se non di compromesso, fra le anime che erano rappresentate all'interno dell'Assemblea costituente, l'anima cattolica, liberale, laico-socialista e comunista. Quindi, è evidente che quella Costituzione, la nostra Costituzione, risente in questo momento, se non viene cambiata, di una fotografia storica che l'ha influenzata sia nella sua prima parte sia, indubbiamente, nella riproduzione che quegli ideali, che erano allora rappresentati, venivano poi trasferiti nella parte relativa alla cosiddetta Costituzione economica.
Ma colgo il riferimento dei colleghi, che hanno svolto degli interventi importanti non solo qui in Aula ma anche nelle Commissioni. Questo per dire che l'aspetto che mi lascia perplesso è che qualcuno - anzi qualcuna, al femminile - abbia derubricato il lavoro di quest'Aula e, quindi, la proposta che stiamo discutendo, con interventi così qualificanti, ad un manifesto. Ebbene, trovo preoccupante perché lo stesso qualcuno - anzi qualcuna - afferma, rispetto a quello che fa la politica, che «non si fanno le grandi cose per paura di scontentare una parte di elettorato oppure un alleato».
Ebbene, penso che chi ritiene che intervenire sulla Costituzione non sia una grande cosa o, peggio ancora, sia solo un manifesto, ben poco rappresenti la realtà della società economica italiana. Siamo fuori da un concetto che è quello del realismo. Si può essere d'accordo o meno sulle modifiche e ovviamente noi le condividiamo (e rispondo, in maniera sincera, al collega Bressa: credo certamente che sia coraggioso intervenire anche sulla Costituzione e parlare di questi argomenti), ma qualcuno non si è avveduto che questi sono i grandi temi che stanno a compendiare, in maniera assolutamente coerente, quelle necessità, che oggi abbiamo, di intervenire su una situazione difficile. Certo, non è per l'immediato ma dobbiamo costruire anche un futuro che, dalla contemporaneità, guardi a tutto il nostro Paese.
A mio avviso, vi sono degli aspetti estremamente importanti. Anche le citazioni del Ministro sono state, secondo me, assolutamente esplicative e vanno lette insieme, perché è evidente che l'intervento è complessivo e sarà ancora più incisivo Pag. 34con le proposte che sono state presentate dal relatore, che vanno a definire meglio alcuni aspetti importanti. Vi sono poi le novità, perché leggere il testo è, in un certo senso, per l'Aula assolutamente inutile. Vi sono colleghi che hanno - e lo hanno dimostrato - una preparazione assoluta e, quindi, l'importanza del nostro intervento non si desume solo dalla lettura del testo o delle modifiche che vengono fatte alla Costituzione in genere ma, forse, la parte ancora più qualificante è quella che viene aggiunta alla Costituzione, perché è qui che si sostanzia, in maniera forte, la nuova visione che vogliamo dare al rapporto fra cittadino e Stato.
Cominciando proprio dall'articolo 41 della Costituzione, credo che sia importante elevare ad un rango costituzionale il principio di fiducia e di leale collaborazione fra la pubblica amministrazione e il cittadino.
È chiaro che da un concetto come questo ci si eleva e si arriva anche, in prospettiva, ad una forma che non è solo collaborativa, ma di reciproca responsabilità. Questo aiuta il cittadino a vedere lo Stato e la pubblica amministrazione in modo diverso: il cittadino oggi è abituato a sentirsi, a volte, molto vessato dallo Stato e il fatto che si preveda in Costituzione che ci deve essere un rapporto costruttivo fra il cittadino e l'amministrazione, lo Stato e la pubblica amministrazione penso che sia centrale.
Questo passaggio dell'articolo 41, secondo me, va assolutamente letto con le modifiche e le aggiunte all'articolo 97. Infatti, noi siamo stati abituati ad uno Stato spersonalizzato, al Moloch che il cittadino si trovava di fronte, quasi non avesse volto, quasi fosse un macigno da guardare e qualche volta da subire. Ebbene, penso che il passaggio dell'articolo 97 completi il contenuto dell'articolo 41, oltre ovviamente alla parte importante di principio - e il fatto che sia costituzionalizzato è di importanza centrale - del servizio delle libertà e dei diritti dei cittadini.
Ancora di più è importante il passaggio che può sembrare marginale, di definizione: i pubblici uffici diventano le pubbliche amministrazioni e questo segna una differenziazione anche come immagine e come possibilità di rapporto del cittadino verso l'istituzione. Allo stesso modo, è importante - in un momento come questo dove fuori dal Palazzo bisogna scortare tutti, compresi i cervelli che, per nostra sfortuna, non sono fuggiti all'estero - la distinzione tra politica e amministrazione. Questo è un elemento centrale, importante e storico anche per chi dice che non bisogna toccare la Costituzione, ma al quale poi non sta mai bene niente. Noi lo diciamo chiaramente: distinzione tra politica e amministrazione.
Inoltre, è stato introdotto un concetto nuovo, che rende personalizzata la storia della pubblica amministrazione nel rapporto con il cittadino: la carriera del pubblico impiego è costituita anche, in maniera reale, da capacità e merito e non è più automatica. Si deve andare verso una forma di rapporto più umano di quel Moloch che cerchiamo di spostare, di aprire e di rendere più permeabile attraverso le capacità che oggi ci sono - perché le capacità nella pubblica amministrazione ci sono tutte - in modo che possa esserci un rapporto più diretto e più umano.
Dopo abbiamo parlato del principio di sussidiarietà. Qui ci si preoccupa di un concetto ormai assolutamente riconosciuto, ma poi si dice che non siamo sicuri che lo sia e ciò va di pari passo con il dubbio relativo ad un altro concetto che è diventato un valore oramai condiviso come sistema e come concetto - perché altrimenti non lo citeremmo continuamente nelle disposizioni di legge che approviamo - che è quello dell'efficienza, dell'efficacia, della semplicità e della trasparenza. Non possiamo continuare ad avere paura di noi stessi: da una parte facciamo continui richiami ad alcuni elementi che ormai sono diventati valori necessari per mettere a disposizione del cittadino una nuova amministrazione e, dall'altra, abbiamo paura di citarli proprio nell'atto fondamentale, che è quello della Costituzione.
Signor Presidente, non intendo dilungarmi molto, ma ho lasciato per ultimo - Pag. 35non mi sono sbagliato nella numerazione, ma si tratta di una scelta, ogni tanto mi capita di farle anche razionalmente - l'articolo 45. In tale articolo, già citato in maniera molto sostanziosa dal collega Vignali, già era scritto: «la legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell'artigianato» e adesso aggiungiamo: «e delle piccole imprese». Nella modifica di questo articolo, noi, come movimento, ci riconosciamo al 100 per cento, ci riconosciamo in senso politico.
È chiaro che per noi la piccola impresa, gli uomini della piccola impresa, sono i veri uomini della provvidenza, sono loro che tutti i giorni lavorano insieme agli artigiani, questi sono gli uomini della provvidenza. Non sono i banchieri che fanno l'evoluzione, non sono quelli sempre giovani, sempre pronti a dire scendo in campo e poi non scendono mai perché non ne hanno il coraggio. Questi sono gli uomini della provvidenza, sono gli stessi uomini della Provvidenza che a differenza di quelli, o quelle, che ogni giorno ci fanno i concioni, hanno sempre investito nella loro impresa, non hanno pensato in un certo momento storico che non si poteva, anzi non si doveva e non era più interessante fare gli investimenti nella propria impresa e si sono dedicati alla finanza, creando dei guai e dei disastri spaventosi. Le assicuro, signor Presidente, che nella mia provincia si parla addirittura di un quinto della capacità che c'era di investire nell'impresa buttato al vento perché qualcuno ha pensato di diventare un grande finanziere, hanno iniziato a fare questo, poi saltano le banche... Bene, i piccoli imprenditori sono quelli che, anche quando non ne avevano, hanno messo a disposizione della loro impresa il patrimonio di famiglia, sono anche quelli che quando parlano e chiedono le liberalizzazioni, le chiedono perché pensano che siano motivo giusto per poter rendere più funzionale il sistema Italia, a differenza sempre dei soliti che ci fanno le prediche, che magari le liberalizzazioni le chiedono pensando poi di poter aggredire con interesse i settori che vengono liberalizzati. Penso che questi siano gli uomini della Provvidenza.
Credo che la politica oggi abbia necessità di avere coraggio, un coraggio che può essere decisamente esplicitato in queste Aule, un coraggio che però deve essere rappresentativo, deve essere vero. Signor Presidente, penso che guardandoci dietro dobbiamo essere consapevoli che dietro ci sono quelli che lavorano davvero, perché sennò si rischia la famosa domanda di qualcuno «ma chi ho rappresentato»? «Varo, dove sono le mie legioni?», e non si sa perché quelli stanno già facendo altri interessi.
Cambiare la Costituzione non è facile, ma d'altra parte abbiamo anche visto che forse qualcuno sarà preoccupato di questa modifica costituzionale, perché penso per esempio anche alle corporazioni, perché è chiaro che uno Stato che si pone con meno burocrazia vuol dire che ha bisogno anche di molti meno intermediari; volevo ricordare - lo so che qui ce ne sono tanti - per esempio al collega Bressa che la saggezza del costituente si è esplicitata in molti modi, leggendo gli atti preparatori ci si domandò per molto tempo se gli avvocati dovevano o potevano essere parlamentari. Non posso aggiungere altro, perché sennò sarebbe difficile per me uscire dall'Aula! Comunque credo che quando si arriva ad un risultato lo si deve fare con il buonsenso, senza arroccarsi, senza paure, con un coraggio moderato ma sapendo di essere nel giusto. Il coraggio qualche volta ci manca.
Faccio una breve digressione: questo è il Paese delle anomalie. Il mio movimento ha presentato per esempio la proposta del dimezzamento dei parlamentari, il mio movimento. È importante, poi se ne discuterà. La cosa per esempio che mi lascia perplesso è che a parlare del dimezzamento dei deputati sia il Presidente della Camera. È come se l'allenatore di una squadra dicesse «sta partita qui non m'è piaciuta, la prossima volta giochiamo in sei». Secondo me il giorno dopo lo licenziano. Qui ovviamente, essendo nel Paese delle anomalie, questo non succede, ma le Pag. 36anomalie del coraggio sono altre. Nella discussione in cui si citava per esempio prima la parificazione dell'elettorato attivo e passivo che abbiamo votato la scorsa settimana - e che io condivido, tra l'altro - si doveva essere più coraggiosi, perché se si fa un senatore a 25 anni, un senatore può essere eletto Presidente del Senato a 25 anni, quindi può fare il sostituto del Presidente della Repubblica.
Mi risulta che non abbiamo cambiato quella parte. Oggi si diventa senatori a quarant'anni e si può fare il Presidente della Repubblica, se non ricordo male, a cinquanta. Le cose si fanno fino in fondo o non si fanno. Potevamo proporre di fare il Presidente della Repubblica a trentacinque anni. Questa volta facciamo una cosa coraggiosa, magari non sempre la facciamo, però oggi rispondiamo a tutti quelli che fuori dal palazzo forse non hanno merito per dirci che non siamo capaci (Applausi dei deputati dei gruppi Lega Nord Padania e Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Della Vedova. Ne ha facoltà.

BENEDETTO DELLA VEDOVA. Signor Presidente, vorrei fare qualche considerazione non da costituzionalista, quale non sono, ma magari un po' più da economista, quale sono stato. Non penso - lo richiamava il collega Vignali nella discussione - che questa discussione ed eventualmente infine questa modifica sarebbe inutile. Mi sembra però - caro collega Volpi, non è che viviamo in un mondo lontano - che questa discussione, per fare una banale citazione storica, richiami le discussioni a Roma mentre Sagunto, in questo caso l'economia italiana, veniva espugnata. Quando ho ascoltato l'eccellente intervento del presidente Bruno, di illustrazione del disegno di legge, e poi le parole del Ministro Calderoli - capacità e merito da premiare, liberalizzazioni da fare, privatizzazioni come asse portante - mi chiedevo: presidente Bruno, da che maggioranza viene lei? Ministro Calderoli, di che Governo è Ministro? Poi va tutto bene, facciamo una discussione accademica. Va benissimo che la maggioranza proponga l'opposto di quello che pratica e, quindi, scendiamo nella discussione. Però dobbiamo avere tutti presente nel tempo che viviamo, in cui conta quello che succederà nei prossimi tre mesi, non nei prossimi trent'anni, grazie alle modifiche costituzionali, che ci stiamo muovendo in una direzione opposta ai sacri principi che vogliamo modificare.
Mi spiace di aver ascoltato nelle parole del collega Bressa, sicuramente informate a maggiore conoscenza e competenza sullo specifico costituzionale, un accento conservatore di una parte della Costituzione, che anche chi non l'ha studiata sa essere una delle parti più controverse e sostanzialmente più fragili dal punto di vista delle sue conseguenze, perché c'è il diritto comunitario e ci sono tante altre fonti che ormai rendono questa parte specifica della Costituzione meritevole saggiamente di un superamento. Quindi, di che maggioranza siete? Poi ho pensato che forse proprio loro, a partire dall'esperienza del «vorrei ma non posso», cioè del vorrei fare tutte queste cose che informano questa modifica nei principi, ma faccio l'esatto contrario - poi farò due o tre esempi -, vedono come soluzione salvifica mettere tutto nelle mani della Corte costituzionale. Questo è un passo istituzionalmente rilevantissimo, perché è chiaro che chi dice e pensa queste cose e scrive questi nuovi principi costituzionali affida alla Corte costituzionale un ruolo cruciale, anche in prospettiva, rispetto a quello che nei prossimi anni sarà il core business dell'attività del Governo, cioè la tenuta dei conti e il rilancio dell'economia, cioè la creazione di un ambiente in cui l'economia italiana, che non potrà che fare da sola naturalmente, possa ritrovare forza, competitività e quindi concorrenzialità sui mercati internazionali. Quindi, probabilmente c'è un giudizio diverso da quello che ci è capitato di ascoltare frequentemente, a partire dal Presidente del Consiglio, sulla Corte costituzionale.
Però, il mio dubbio di fondo è questo, colleghi della maggioranza e Ministro Calderoli. Non voglio fare il processo alle Pag. 37intenzioni, poi ci tornerò. Il Terzo Polo, con il collega Mantini e il collega Conte, ha presentato una proposta di legge e alcune questioni sono state anche recepite rispetto alla semplificazione, alla distinzione tra politica e gestione. Pensiamo che in modo intelligente, senza riflessi burocratici, il principio della concorrenza, pur con tutte le avvertenze che ci sono state segnalate, vada inserito nei principi. Quindi, il nostro atteggiamento non è di chiusura rispetto alla modifica, che va fatta bene naturalmente, però la mia personale riflessione è che se davvero la maggioranza e il Governo sono spinti da questo comprensibile desiderio di dare una svolta ai principi che ci guidano, com'è possibile che poi si faccia il contrario quotidianamente, mica trent'anni fa o vent'anni fa o dieci anni fa, ma dieci giorni fa? Cioè, non è possibile che uno mi dica le cose bellissime che ho sentito, poi, che so, nell'ultima manovra, si infili una roba pro Trenitalia con una cosa lunare. È stato citato il Ministro Sacconi, se ho capito bene, che non ha messo mano a questo, però spiegate a Sacconi quello che volete fare perché è inutile venire a parlare dei sacri principi della sussidiarietà, della liberalizzazione, della privatizzazione dell'attività economica, che dovrebbe essere tutta libera, salvo quando sia espressamente vietata - in seguito tratterò questa formulazione accattivante per un account pubblicitario o per il finale di un libro o per uno slogan anche o per un comizio, ma forse da raffinare se deve essere la Costituzione dei prossimi sessanta anni - e poi si fa su Trenitalia la legge che avete appena fatto, obbligando i concorrenti di Trenitalia ad avere lo stesso contratto; o si tollera che il primo che ha provato a mettere sui binari, patrimonio pubblico, dei treni privati tra Milano e Torino venga strangolato; oppure se al Senato si sta delineando una riforma dell'ordine forense, e gli avvocati ci sono, ben distribuiti in tutti i gruppi parlamentari. Questo è il segnale che la maggioranza dà.
Non è stato privatizzato un chiodo da questa maggioranza, Lega compresa. Potrei anche fare esempi di grandi, medie municipalizzate della nostra Padania o della nostra Lombardia, dove le municipalizzate non solo non vengono vendute, non solo non vengono messe in concorrenza con i privati, ma diventano dei tetragoni monopoli pubblici statali, ancorché locali che vengono usati per infornate clientelari di assunzioni, per occupare tutto l'occupabile. Questa è la politica e questi sono i principi che guidano l'attività di questa maggioranza e di questo Governo, che saranno decisivi, visto che la scelta è quella di resistere, resistere, resistere, nei prossimi trimestri.
In tre anni e mezzo non abbiamo privatizzato un chiodo. Io, che sono stato in maggioranza e che non avrei mai pensato, all'inizio di questa legislatura, che ad un certo punto non lo sarei più stato, dal primo intervento ho detto «ma scusa, abbiamo scritto nel programma che bisogna privatizzare fino, addirittura, a 700 miliardi di euro, non è stato privatizzato un chiodo».
Perché dico questo? Poi lascio ai costituzionalisti, al collega Mantini, di riflettere e di chiosare con un dialogo serio e non pregiudizialmente ostile a queste modifiche, come mi è parso di cogliere da altre opposizioni, di fare un intervento più organico e più specifico, però, ripeto, noi stiamo discutendo dei sacri principi perché non costa nulla, nemmeno politicamente più di tanto ci costa, ma nel frattempo la cittadella viene espugnata, colpevolmente, perché proprio chi riconosce questi sacri principi come chiave di volta per dare un futuro all'economia italiana poi pratica tutt'altro. La poesia dei grandi principi, la prosa delle riforme stataliste e corporative. Perché, caro collega Volpi, è così. Poi, insomma, qui, se dobbiamo fare similitudini con l'allenatore, io direi che in questo momento, forse, se un allenatore meriterebbe, proprio per le ragioni che abbiamo discusso qui, di essere cambiato mi sembra che stia non a palazzo Montecitorio, ma a palazzo Chigi, ma non dobbiamo invischiare questa discussione nella polemica personale e politica spicciola. Pag. 38
Però questo, cari colleghi, è un problema. È un problema vero. Io ho sentito un richiamo, forse dal collega Bruno, un richiamo importante alla coralità, alla discussione comune, al confronto che necessariamente, sanamente deve caratterizzare una discussione su una modifica costituzionale e personalmente non trovo nulla di sbagliato, anzi, nell'affrontare finalmente anche le modifiche costituzionali della parte I della Costituzione. Vengo da una scuola politica che non ha mai considerato un tabù, come invece buona parte della classe politica italiana, la modifica della parte I della Costituzione. Io credo che sia importante modificare anche la parte I della Costituzione, credo però che, come sempre, per fare le cose bisogna crederci e bisogna essere credibili.
Proseguiremo nella discussione ma penso però a chi governa, come si sta governando in questi semestri, sul mercato e su altri temi (potremmo fare la lista). Abbiamo fatto la legge annuale sulla concorrenza. Oggi «scolpiamo» che «è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge». Questa maggioranza, grazie agli sforzi di chi non a caso poi da questa maggioranza se ne è andato, ha inserito nella legislazione italiana la legge annuale sulla concorrenza. Se un Governo realmente pensasse quanto abbiamo ascoltato sulla necessità di liberalizzare o sulla sussidiarietà e su tutte queste cose, avrebbe approfittato di quello strumento - di cui questa stessa maggioranza si è dotata - per intervenire in modo strutturale, senza l'improvvisazione delle «lenzuolate» di Bersani, sulle liberalizzazioni a partire dai richiami dell'Antitrust. Noi abbiamo perfino fatto i question time chiedendo al Governo perché fosse desaparecida la legge annuale sulla concorrenza e ci è stato risposto: bisogna studiare, bisogna studiare, bisogna studiare! E quindi non si fa nulla nella direzione, invece evocata, quando si parla di cose che temo riempiranno solo gli scaffali degli archivi parlamentari. Quindi, questo è un vulnus che non si può non sottolineare, perché altrimenti non sarebbe serio. Infatti il confronto è serio, se è vissuto e se c'è un minimo, con la m minuscola, di verità in quello che si fa e in quello che si propone, perché sennò è troppo semplice creare l'alibi di continuare a fare gli statalisti corporativi, dicendo però: tanto noi fissiamo nei sacri principi. Questa è una contraddizione, se lo è, che va affrontata, se non è scientifico il parlare d'altro per poter continuare.
Poi vedremo i provvedimenti di questi giorni. Certo, se arriveranno delle buone proposte sarà ancora più colpevole l'inazione dei precedenti tre anni e mezzo, perché tutto quello che potrà uscire nei vari decreti sviluppo, manovre, manovrine ed altro, è già tutto scritto da tempo: per tre anni e mezzo avete scelto scientificamente di non considerare la libertà economica, la concorrenza, la liberalizzazione, la privatizzazione come strumenti di rilancio dell'economia, perché non ci credete e quindi non siete più credibili.
Ma, venendo al merito, e - ripeto - rinviando poi in parte all'intervento dell'onorevole Mantini per quanto riguarda le proposte più complessive, in parte anche considerate ed in parte no, del Terzo Polo, faccio solo un punto sulla questione. «È permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge» diciamo tra virgolette. Per un liberista va benissimo. Mi chiedo solo se sia una formulazione che abbia senso, al di là dal fatto che è mutuata da un libro ed altro, se abbia senso proprio inserirla sic et simpliciter con queste parole. Io poi di mio proporrei qualcosa a proposito della sussidiarietà, ma prima faccio un'altra considerazione.
Vanno benissimo le disposizioni sulle piccole imprese, c'è anche tutta la normativa europea sulle piccole e medie imprese, va bene, sono già superprotette. Il problema economico italiano è che non ci sono imprese che crescono e non che manchino le piccole e medie imprese, ma questo lo metto tra parentesi.
Invece, ho presentato una proposta emendativa su cui poi discuteremo. Rispetto al principio di sussidiarietà mi permetterei di suggerire, onorevole Bruno, di recuperarlo nella prima parte, ad esempio, modificando l'articolo 43 oppure inserendo Pag. 39un comma aggiuntivo all'articolo 41 come modificato, in cui si dice che, nel rispetto del principio di sussidiarietà, l'erogazione dei servizi pubblici essenziali è riservata all'iniziativa economica privata, salvo che, per finalità di preminente interesse generale e per garantire efficienza ed efficacia, la legge non consenta agli enti pubblici l'esercizio dell'attività economica.
Stabilirei questo come principio, nel senso che, quando si fa riferimento a servizi pubblici essenziali, si fa già comunque riferimento a interventi economici ampiamente disciplinati dalla legge, spesso con Authority specifiche. Quindi, diciamo che il connotato di interesse pubblico e di qualità sociale della fornitura di servizi è già ampiamente scontato.
Mi fermo qui. Lo ripeto: va tutto bene, discutiamone, noi siamo aperti e non abbiamo preclusioni, anzi pensiamo che questa sia una strada obbligata per l'Italia. Ma obbligata per l'Italia non è la strada di mettere i buoni principi in Costituzione (cosa che voi meritoriamente state cominciando a fare); obbligata per l'Italia, lo ripeto, nella scansione dei prossimi trimestri se non dei prossimi mesi, è mettere in pratica queste cose. Per tre anni e mezzo - parliamo solo della legislatura in corso - avete fatto altro nella direzione contraria. Sarebbe stato meglio e anche più rigoroso, prima di cominciare a discutere, fare qualcosa di buono.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Calderisi. Ne ha facoltà.

GIUSEPPE CALDERISI. Signor Presidente, il disegno di legge costituzionale al nostro esame intende modificare l'articolo 41 della Costituzione che regola l'iniziativa economica privata, l'articolo 97 sulle pubbliche funzioni e la pubblica amministrazione e il quarto comma dell'articolo 118, relativo al principio di sussidiarietà, al fine di valorizzare i principi sociali e liberali che sono a fondamento della responsabilità economica.
Si tratta di una significativa riforma di alcuni aspetti della nostra Costituzione economica su cui, dopo oltre sessant'anni, è a mio avviso assolutamente necessario intervenire se si vuole affrontare in modo adeguato il problema di fondo che ha l'Italia, quello, cioè, del suo gigantesco debito pubblico, pari al 120 per cento del PIL, la vera ragione per la quale siamo particolarmente esposti alla crisi di fiducia dei mercati, a fronte di una crisi finanziaria di inaudita violenza che sta colpendo un Occidente già segnato dal processo di globalizzazione.
Per affrontare alla radice il problema del nostro gigantesco debito pubblico c'è una sola strada, quella della drastica riduzione del peso dello Stato, dell'area dell'economia intermediata dalla mano pubblica.
Occorre avviare al più presto processi di dismissioni, privatizzazioni e liberalizzazioni a tutti i livelli di Governo, ridurre la spesa pubblica e riformare tutto il nostro welfare, tanto generoso quanto mal distribuito, soprattutto in termini generazionali, riducendo la pressione fiscale e realizzando una vasta defiscalizzazione a vantaggio delle imprese e dei giovani, per dare una sferzata ad un'economia resa finalmente più libera.
Si tratta di un'operazione complessa e molto difficile, che richiede anche a mio avviso - certamente non solo ma necessariamente anche - una riforma della nostra Costituzione economica e della nostra stessa forma di Stato, intesa come rapporto tra pubblici poteri e libertà dei cittadini, libertà anche e soprattutto economica. Una riforma, sia ben chiaro, che non deve affatto riproporre il conflitto ideologico tra liberali e socialisti perché, come ha osservato Ostellino, occorre più Stato ove necessario e più società civile ovunque possibile.
Rispetto al 1948 sono profondamente cambiati tutti gli elementi fondamentali del contesto in cui la Costituzione economica è stata redatta.
È, in primo luogo, cambiata in profondità la cultura politica generale dell'Italia.
Oggi sono venute meno le ragioni storiche della nostra Costituzione, una Costituzione chiusa, assiologica e armistiziale: chiusa, cioè fondativa di un ordine giuridico, Pag. 40e non ricognitiva di un ordine presupposto come nel modello delle Costituzioni aperte, tipico del costituzionalismo del diciottesimo e diciannovesimo secolo; assiologica, cioè che esprime un complesso di valori secondo un modello nel quale issum coincide con iustum; armistiziale, cioè derivante dal conflitto interno all'alleanza delle forze politiche, sociali e militari vincitrici grazie alle quali è nata la Repubblica.
I valori dell'economia sociale di mercato, per quanto declinati in modo differente, sono entrati stabilmente a far parte della coscienza politica condivisa del nostro Paese. È cambiato anche il contesto economico internazionale, che in forza della sua sempre maggiore integrazione riduce per forza di cose gli spazi di autonomia delle politiche economiche nazionali tendenti, per i forti legami di interdipendenza, necessariamente a convergere.
Ma sono probabilmente i vincoli di natura monetaria, finanziaria ed economica derivanti dalla nostra partecipazione all'Unione europea ad avere maggiormente inciso nel processo di obsolescenza della nostra Costituzione economica.
Nonostante l'evidenza di tali ragioni, tuttavia, il tema della revisione della Costituzione economica non è mai riuscito ad entrare stabilmente da protagonista nel dibattito politico.
Se gli ultimi venti anni sono stati caratterizzati da tentativi più o meno riusciti di porre mano ad un aggiornamento anche profondo e complessivo della parte seconda della nostra Costituzione, il tema della riforma della Costituzione economica è finora rimasto ai margini, terreno per la riflessione degli studiosi, o al più per iniziative episodiche di alcuni. Sembra quasi di essere di fronte ad una sorta di interdetto linguistico, ad una rimozione culturale del tema.
Probabilmente la ragione del prevalente disinteresse che finora ha caratterizzato i temi della Costituzione economica è di mera tattica politica e risiede nella diffusa convinzione che la questione presenti un rapporto costi-benefici assai sfavorevole. Nonostante l'evoluzione della cultura politica italiana, nonostante il tramonto delle ideologie novecentesche, nonostante la generale accettazione dei sistemi economici capitalistici (pur con tutte le sfumature, le correzioni e i distinguo possibili), nonostante la convinta adesione all'Unione europea, alla sua cultura economica e ai suoi vincoli politici, è probabile infatti che l'apertura di questo capitolo possa riaprire vecchie fratture e causare nuove lacerazioni, con ciò determinando un costo politico non giustificato dal beneficio che potrebbe ragionevolmente sperarsi di conseguire.
Si tratta di argomenti ispirati alla ragion politica che hanno un indubbio fondamento ma che non possono far dimenticare i costi e i problemi causati dall'attuale stato di dissociazione fra la Costituzione economica formale e la Costituzione economica materiale.
Se è vero, infatti, che i vincoli europei hanno consentito un assestamento del nostro sistema e un recupero delle principali criticità accumulate nel corso del tempo, è altrettanto vero che la logica stessa dei vincoli europei è intrinsecamente diversa da quella delle Costituzioni. A parte il fatto che le violazioni delle regole del Trattato europeo non sono impugnabili davanti alla Corte costituzionale (a differenza delle violazioni delle norme costituzionali), la disciplina economica comunitaria è, infatti, essenzialmente diretta a garantire un adeguato processo di convergenza tra i sistemi economici dei Paesi membri al fine di scongiurare il rischio che le divaricazioni tra le aree economiche e i comportamenti opportunistici di alcuni Paesi possano minare la stabilità del processo di unificazione economica e monetaria. Una logica di tipo interstatuale, pattizio, e tutta focalizzata sul conseguimento del risultato minimo accettabile per gli altri partner, sostanzialmente indifferente alle modalità di conseguimento del risultato medesimo.
Affatto diversa è la logica costituzionale, tutta incentrata sulla fissazione di garanzie nei rapporti tra lo Stato e i cittadini, e nei rapporti tra i cittadini, una Pag. 41logica - quella costituzionale - in cui alla fissazione di diritti e obblighi reciproci si accompagna necessariamente la definizione di regole idonee a rendere efficiente e trasparente il procedimento per il conseguimento del risultato finale.
In questo senso occorre riconoscere che l'equilibrio raggiunto grazie ai vincoli europei sia in una certa misura precario e subottimale. E che non si tratti di un equilibrio stabile, di un traguardo raggiunto in modo definitivo e irreversibile appare difficilmente contestabile proprio in questa fase storica caratterizzata da grandi turbolenze finanziarie e valutarie e da preoccupanti fenomeni di stagnazione o addirittura di recessione economica.
Ma si tratta soprattutto di un equilibrio subottimale, perché i vincoli europei, per quanto rigorosi ed effettivi, non hanno e non possono avere quella capacità conformativa propria di una Costituzione. Basti pensare alle tematiche di finanza pubblica, relativamente alle quali i vincoli europei si concentrano esclusivamente sul risultato quantitativo in termini di indebitamento delle pubbliche amministrazioni e sono del tutto indifferenti alle procedure, ai rapporti istituzionali tra Governo e Parlamento, alle relazioni tra i diversi livelli di Governo, al rapporto fra Stato impositore e cittadino contribuente, la cui puntuale definizione influisce non solo sulla concreta possibilità di conseguire l'obiettivo quantitativo definito in sede europea, ma anche e soprattutto sulla qualità e sulla trasparenza delle scelte operate per conseguire tale obiettivo quantitativo.
Analoga debolezza si può riscontrare anche sul terreno delle politiche per la concorrenza e per il mercato, relativamente alle quali la disciplina di fonte europea, oltre a concentrarsi per forza di cose su profili generali e sulla dimensione continentale, appare soprattutto assistita da meccanismi di tutela e di garanzia molto più complessi e meno efficaci di quelli nazionali. Non possono ad esempio sorprendere, nonostante la produzione normativa e giurisprudenziale europea in materia di imprese pubbliche, aiuti di Stato e servizi economici generali, i dati pubblicati dal dipartimento della pubblica amministrazione e dell'innovazione, secondo i quali il numero complessivo di società e consorzi controllati o partecipati dallo Stato o da altri enti pubblici, nel 2009, è passato da 6.752 a 7.106, con un aumento del 5 per cento su base annua (non conosco i dati relativi al 2010, ma non credo siano molto diversi). Non è cioè un caso che, terminata da tempo la stagione dello Stato imprenditore, delle partecipazioni statali e dei fondi di dotazione in favore degli enti di gestione, assistiamo comunque da diversi anni all'espansione di quella sorta di socialismo municipale, rispetto al quale i ripetuti tentativi di riformare i servizi pubblici locali si sono rivelati insufficienti.
Se leggiamo l'articolo 41 della Costituzione, colpisce fortemente il carattere condizionato del riconoscimento della libertà di iniziativa economica, la mancanza di un qualunque richiamo ai principi della libera concorrenza come essenziale meccanismo di funzionamento del mercato, l'ampiezza della previsione relativa alle forme e ai contenuti dell'intervento diretto dello Stato nell'economia.
Il baricentro dell'impianto culturale della Costituzione economica è rappresentato dai produttori (lavoratori, imprese pubbliche e private), mentre è del tutto assente la categoria del consumatore, che viceversa rappresenta l'architrave dell'economia di mercato.
Anche la scarsa competitività del sistema Paese, frenato da una regolamentazione troppe volte eccessiva e burocratica delle attività economiche, ha trovato una legittimazione istituzionale nell'ampiezza della previsione costituzionale del terzo comma sui programmi e sui controlli che possono essere introdotti per indirizzare a fini sociali l'attività economica.
Il testo dell'articolo 41 della Costituzione risente in modo evidente del contesto storico nel quale fu redatto. Rileggendo i lavori dell'Assemblea costituente non stupisce il fatto che non siano state accolte le proposte avanzate da Luigi Einaudi e dagli altri costituenti liberali, finalizzate a restringere l'intervento pubblico alle situazioni Pag. 42di monopolio di fatto o a sancire in via generale che la legislazione in materia economica deve essere finalizzata a difendere gli interessi e la libertà del consumatore (era un emendamento dell'onorevole Cortese).
Per tutte queste ragioni io mi auguro ancora, nonostante l'intervento dell'onorevole Bressa, che l'opposizione, in particolare il Partito Democratico, dopo aver convenuto (come mi sembra sia accaduto nelle ultime settimane) sull'esigenza di modificare l'articolo 81 della Costituzione per introdurre il principio del pareggio del bilancio, fatto di grande rilevanza politica e culturale - ne discuteremo credo a breve, esaminando l'apposito disegno di legge costituzionale del Governo, che si aggiunge a quelli di iniziativa parlamentare - condivida l'esigenza di una riforma dell'articolo 41 della Costituzione, quanto meno per l'eliminazione del terzo comma, e sia comunque disponibile ad un confronto di merito, costruttivo sulle altre formulazioni, rispetto alle quali la maggioranza, come ha dimostrato il relatore preannunciando delle modifiche, non è affatto chiusa a valutare e a discutere le migliori formulazioni che possano riformare questo articolo della Costituzione. Tutto ciò, fermi restando la direzione e gli obiettivi di fondo della riforma, vale a dire la riduzione della capacità dirigistica dello Stato nell'economia, per favorire l'avvento di condizioni giuridico-istituzionali adeguate alla struttura di un mercato moderno ed efficace.
Certamente, la formulazione dell'articolo 41 della Costituzione è molto delicata. Come ho già detto intervenendo nella Commissione affari costituzionali, citando le riflessioni svolte sul tema dal professor Fabio Cintioli, ritengo opportuno e necessario evitare il passaggio dalla concezione soggettivistica ad una concezione, quanto meno potenzialmente, oggettivistica dell'articolo 41. Se la protezione costituzionale si sposta dalla libertà individuale alla valenza oggettiva del mercato concorrenziale, potremmo a tal punto caricare di contenuti tale ultimo valore, da dargli una potente connotazione finalistica, che potrebbe tradire proprio la radice istituzionale e culturale del progetto di riforma costituzionale.
Vi è, insomma, il rischio che una malintesa cultura del mercato, l'ipostatizzazione della categoria astratta della concorrenza perfetta, la tentazione costruttivistica di affidare alla legislazione la creazione dell'ordine sociale ed economico ottimale, finiscano per produrre esiti opposti rispetto alle intenzioni.

PRESIDENTE. La invito a concludere.

GIUSEPPE CALDERISI. Mi avvio alla conclusione, signor Presidente. In forza di quello che è stato efficacemente definito il paradosso della libertà di concorrenza, la riscrittura delle norme in materia di libertà d'impresa e, in particolare, la sanzione costituzionale del principio della concorrenza, potrebbero paradossalmente finire per appesantire il carico regolatorio e burocratico che grava sulle attività economiche, come del resto, e non a caso, avviene per la normativa comunitaria.
Nel riformare l'articolo 41 della Costituzione, ritengo, pertanto, assolutamente preferibili le formulazioni volte a rafforzare la concezione soggettivistica, che già caratterizza il testo costituzionale.
Non mi soffermo per ragioni di tempo sulle modifiche dell'articolo 97 e dell'articolo 118 della Costituzione, che introduce, però, un importantissimo principio: il principio di sussidiarietà orizzontale. È un grande principio di libertà, che ritengo veramente molto importante, soprattutto, se verrà ulteriormente migliorato secondo le indicazioni e le proposte che ha avanzato già il relatore.
In conclusione, le ragioni che militano a favore di un intervento riformatore della Costituzione economica non sono solo di natura concreta. Proprio la funzione identitaria ed assiologica della nostra Costituzione induce a ritenere che, solo quando la maturazione della coscienza economica nazionale registratasi negli ultimi decenni avrà trovato un'adeguata traduzione in principi e precetti costituzionali, potremmo ritenere compiutamente concluso il lungo processo di transizione del Paese. Pag. 43
Da ultimo, non posso fare a meno di osservare che ritenere inutile porre mano alla Costituzione economica, che, secondo alcuni, risulterebbe oramai irrilevante rispetto ai processi economici in atto, quasi fosse un ferro vecchio ormai irrecuperabile, sarebbe per la nostra Carta costituzionale - questo sì - il peggiore insulto (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. Per ragioni tecniche sospendiamo per cinque minuti la seduta, che riprenderà alle ore 17.

La seduta, sospesa alle 16,55, è ripresa alle 17,05.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Zaccaria. Ne ha facoltà.

ROBERTO ZACCARIA. Signor Presidente, vorrei cominciare col dire che la citazione dei lavori dell'Assemblea costituente e il percorso che ha portato all'approvazione dell'articolo 41 come ha già detto il collega Bressa, rappresenta una ricostruzione a dir poco sommaria. Si è parlato di «compromesso»; vorrei ricordare che il compromesso costituzionale è uno dei valori portanti per fare le Costituzioni e lo è stato anche per la Costituzione italiana. Lo hanno riconosciuto i più illustri commentatori: se in un articolo della Costituzione - che tra l'altro è stato votato da tutti, lo voglio ricordare - si ritrovano radici di una cultura liberale, cattolica e socialista, questo non costituisce un difetto, un limite per una norma costituzionale, rappresenta, semmai, un elemento di ricchezza. La Corte costituzionale ha lavorato, in tutti questi anni su queste basi, arrivando a risultati che sono molto significativi. Esiste, certo, un costituzionalismo un po' approssimativo che ritiene faccia parte della Costituzione soltanto ciò che è scritto in quelle formule che sono contenute negli articoli. Queste persone ignorano però che la giurisprudenza della Corte costituzionale ha esattamente lo stesso valore delle norme interpretate; ad esempio, il principio della concorrenza, al quale tutti si sono richiamati, è già presente nella nostra Costituzione, è stato riconosciuto apertamente dalla Corte. Del resto, tutti coloro che lamentano l'assenza del principio della concorrenza, non tengono conto che anche nella formulazione modificata del testo non si parla di concorrenza. Quindi, è quanto meno singolare evocare la necessità di introdurre questo principio, che già c'è, e non preoccuparsi neppure di formalizzarlo, cosa che avrebbe forse avuto una qualche dignità.
Devo anche dire che, se qualcuno volesse andare a vedere i risultati di questa elaborazione, consiglio di leggere il volume di Astrid, curato da Pinelli e da Treu: «La Costituzione economica: Italia, Europa», Il Mulino 2010, perché si capirebbe molto bene il punto d'arrivo di una elaborazione scientifica sulla Costituzione economica. Il Ministro Calderoli, che ha illustrato dopo il relatore il disegno di legge costituzionale, è stato nel fine settimana a Varenna ad ascoltare gli studiosi del diritto amministrativo che parlavano della Corte dei conti o comunque di alcuni temi di un certo rilievo, e avrà capito come il confronto con quelle realtà sia importante. Il Ministro Calderoli è certamente una persona che, quando vuole, sa tener conto del dibattito scientifico: non in questo caso però! Ora io proverò a porre una serie di domande. Si affronta in questo modo una riforma costituzionale così delicata? Alcuni dei nostri colleghi potrebbero presumere che nella Commissione Affari costituzionali abbiamo discusso per mesi questo argomento. Non è così! Questo provvedimento è stato incardinato ad aprile ma l'esame vero e proprio è iniziato il 7 settembre e non si è mai parlato in maniera approfondita; quindi abbiamo impiegato una quindicina di giorni in Commissione Affari costituzionali per modificare uno dei pilastri della nostra Carta costituzionale.
Quale dibattito c'è stato nel Paese attorno a questi temi? Credo che non vi sia stato alcun dibattito nel Paese su questi argomenti, forse qualche articolo di giornale, qualche presa di posizione di costituzionalisti Pag. 44più o meno improvvisati, ma dibattito vero nel Paese, quello che deve precedere le modifiche costituzionali, non c'è stato.
Vorrei in proposito porre una domanda al rappresentante del Governo che segue in Aula le proposte costituzionali.
Vi è complessivamente una decina di proposte di legge costituzionale tra Camera e Senato e mancano diciotto mesi circa alla fine del legislatura. La settimana scorsa abbiamo votato la modifica relativa agli articoli 31, 56 e 58 della Costituzione. Oggi siamo arrivati improvvisamente in Aula, fra la sorpresa generale e senza alcun tipo di serio approfondimento in Commissione, al punto che il relatore ci sta dicendo che deve già apportare alcune modifiche rispetto ad un testo deliberato due giorni fa perché ci sono degli errori vistosi nella formulazione improvvisata in Commissione. C'è una volontà seria di intervenire sugli articoli 41, 45, 97, e 118, della Costituzione? Inoltre c'è anche la questione della modifica dell'articolo 81 che voi semplificate, ritenete fin troppo elementare, ma certamente in quel caso affronteremo il discorso in maniera seria. La questione non è così semplice come ci dicono coloro che di questo argomento si sono occupati, ma su quel punto c'è certamente un richiamo che proviene dall'Europa e c'è una ragione per fare un approfondimento serio.
Abbiamo poi una riforma costituzionale della giustizia che è stata strombazzata in largo e in lungo e l'abbiamo portata avanti attraverso molteplici sessioni delle Commissioni con audizioni di molti esperti e che ora è ferma. Al Senato c'è una proposta sul bicameralismo e sulla Camera delle regioni, proposta di non poco conto. Il Ministro oggi ci ha detto che è andato ad illustrare al Capo dello Stato la sua proposta di modifica costituzionale. Scherzosamente si diceva che il principio di sussidiarietà vale a maggior ragione tra il Ministro Calderoli e il Governo perché, se nessuno si muove, il Ministro ne presenta una sua che dovrebbe, teoricamente, insieme alle altre cinque, essere esaminata nei diciotto mesi che restano dai due rami del Parlamento con duplice lettura.
Penso realmente che sia legittima la domanda che molti si fanno anche all'esterno di quest'Aula: ma fate sul serio o scherzate? Pensate lontanamente che queste sei proposte - e non parlo della legge elettorale che non è materia costituzionale, ma che avete detto di voler pure cambiare -, che queste sei o sette materie vi consentiranno un esame realistico nei due rami del Parlamento? Io credo onestamente di no. Voi sottoponete il Parlamento, le Camere ad un ritmo di lavoro sommario e improprio. In tre anni e mezzo non avete fatto nulla e ora in diciotto mesi pretendete di fare questa enorme mole di lavoro. Credo che qualche dubbio che dovrebbe venire anche a voi.
Quale dibattito c'è stato all'interno del mondo della dottrina a cui lei è andato a rendere omaggio a Varenna? Tutti i professori che sono venuti qui alla Camera, Luciani, Calandra, Giampaolo Rossi, Massa Pinto, Musu, tutti hanno detto di avere enormi perplessità.
Cito il professor Musu: già oggi può dirsi che la Costituzione attribuisce alla concorrenza un valore. La concorrenza ha anche un valore sociale. Quando noi richiamiamo questi valori sociali ci rendiamo conto che neanche i costituenti liberali avevano accettato questo riferimento, mentre adesso sentiamo dal relatore che dovrebbe scomparire il richiamo alla utilità sociale contenuto nel secondo comma dell'articolo 41.
Bressa vi ha spiegato che i principi fondamentali non si possono modificare attraverso la procedura di revisione costituzionale, e che sul rispetto di questo limite vi è il controllo della Corte costituzionale. È grave questo modo di procedere. Prima si aggiungono alla utilità sociale alcuni principi oscuri e poi si tolgono quelli precedenti. Questa operazione assomiglia più al gioco delle tre carte che non ad una seria operazione di riflessione sulla Costituzione.
Onida, in alcuni articoli su il Sole 24 Ore ha detto: «Meno lacci, ma che c'entra la Carta?» «La lotteria delle riforme: esce l'articolo 41». Effettivamente, questa è l'impressione. Onida ha parlato in alcuni Pag. 45di questi articoli sul Sole 24 Ore come presidente dei costituzionalisti italiani. Ainis dice che l'impresa è l'alibi dell'articolo 41 e, inoltre: l'articolo 41 tace sulla libertà di concorrenza: e allora? Sarebbe forse incostituzionale l'Antitrust? Abbiamo dal 1990 una legislazione molto esplicita in questa direzione, senza bisogno di dire che manca qualcosa. Rodotà parla di «decostituzionalizzazione», lo dice in maniera esplicita, mentre De Minico parla del rischio di attenuare, se non azzerare, il vincolo dell'utilità sociale. Oggi abbiamo capito che lo si azzera, non soltanto lo si attenua; e così tutta una serie di altri autori.
Ma quale confronto avete fatto con la giurisprudenza costituzionale? Quando si modifica una norma che per sessant'anni è stata interpretata - e lei, Ministro Calderoli, ha citato, o comunque, ha letto nelle sue citazioni dei riferimenti alla giurisprudenza della Corte -, possiamo dire che in oltre mezzo secolo non è dato rinvenire neppure una sentenza della Corte che abbia censurato un intervento di liberalizzazione? Questo conta, cioè che la Corte costituzionale non ha mai pensato che le liberalizzazioni potessero essere impedite dall'attuale formulazione dell'articolo 41 della Costituzione.
Quale confronto avete fatto con analoghe Carte costituzionali come, ad esempio, la Carta di Nizza, che dice che è riconosciuta la libertà di impresa conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali? Quale confronto con le forze politiche? Posizioni così distanti, come stiamo enunciando in quest'Aula, avrebbero meritato, comunque, un approfondimento in Commissione, senza andarsi a nascondere dietro il fatto che, comunque, il tema è calendarizzato per l'Aula. Ma cosa vuol dire? Quando una Commissione non ha esaminato un testo, pensiamo seriamente che si possa avviare all'approvazione in Aula? I nostri colleghi ci guardano sbigottiti. Una certa cautela in questa materia sarebbe raccomandabile, comunque.
Di fronte a questo stato di cose, di fronte ad una riforma - anche se ho qualche pudore a definirla riforma - e ad un cambiamento di alcune parti della Costituzione economica che si preannunzia ideologica, sciatta, inutile e in alcune parti decisamente pericolosa - e vi dirò perché -, come potete pensare che vi sia un atteggiamento pregiudiziale dell'opposizione? Ci si augura che si venga a più miti consigli e che si possa collaborare, ma vogliamo scherzare, quando si parte con questa impostazione: «tra una settimana in Aula»? Così si fanno i decreti ingiuntivi, non le Costituzioni. Questa è un'altra tecnica procedurale alla quale noi ci ribelliamo.
Vorrei soffermarmi sul linguaggio sciatto, e potrei usare altre espressioni, come approssimativo e maldestro. Mi scuso, ma questo è quello che risulta leggendo anche superficialmente quel testo. Si mettono insieme l'iniziativa e l'attività economica che, queste, sì, erano state oggetto di dibattito per tanti anni: l'iniziativa nel primo comma e l'attività economica, con tutti i limiti, nel secondo comma.
Non è chiaro in che rapporto stia questo abbinamento con l'evoluzione del dibattito giurisprudenziale. Il principio dell'utilità sociale è annacquato e il riferimento agli altri principi costituzionali è equivoco perché non si dice quali essi siano. Ora il relatore dice di voler togliere il riferimento all'utilità sociale. Guardate che il riferimento all'utilità sociale è il legame tra l'articolo 41 e l'articolo 3, secondo comma, della Costituzione. Se lo si elimina salta il legame con la parte restante della Costituzione. Non è un'operazione puramente semantica e verbale, è sostanzialmente uno stravolgimento, un capovolgimento.
Si parla di limiti che possono essere dettati da leggi e regolamenti. A me non pare che la Costituzione usi altre volte la formula secondo la quale alle libertà economiche si possono porre limiti con regolamenti. Forse qualcuno - perché naturalmente qualcuno cerca di fare lo sforzo - dice che si voleva dire che non si tratta di una riserva assoluta di legge, ma di una riserva relativa. Tuttavia, per distinguere Pag. 46tra riserva assoluta in materia di libertà e riserva relativa ci sono fior di elaborazioni, è facilissimo. Non c'è bisogno di inserire questo riferimento alle leggi e ai regolamenti. Mi pare che anche in questo caso il relatore abbia detto che il riferimento ai regolamenti verrà eliminato. Certo, stiamo discutendo con una Costituzione à la carte, cioè uno arriva, ne toglie un pezzo, ne mette un altro. Quanto meno è necessaria la riflessione. I colleghi di altre Commissioni non possono sapere, potrebbero anche pensare che c'è dietro un dibattito, una riflessione. Invece non è così.
Poi ci sono delle perle. Veramente si parla di diritti dei cittadini, e allora la domanda è: e i non cittadini non hanno questo diritto fondamentale? Non è una questione secondaria. Altro che Costituzione europea, qui torniamo al Medioevo! E poi si parla di libertà delle persone. Che linguaggio! Io veramente non amo fare queste osservazioni, però c'è qualcuno che si rivolge a me e dice: ma voi avete permesso che si scrivesse «diritti dei cittadini», «libertà delle persone»? Però le imprese non ci sono. Singolarmente, tra tutti questi soggetti che vengono nominati, cittadini e persone, non vi sono le imprese, che pure in questa materia dovrebbero essere soggetti importanti. Si parla poi di fiducia e collaborazione tra cittadini e pubblica amministrazione. Va bene, ma fiducia e collaborazione tra i cittadini, tra di loro, non è un problema? Forse lo è!
Poi si improvvisano delle nozioni: pubbliche funzioni, pubbliche amministrazioni al posto di pubblici uffici ed altro ancora. Veramente sembra, a volte, di trovarsi nella situazione in cui una persona guida in stato di ebbrezza e viene fermata. Qui le formulazioni sono disarticolate concettualmente. Vi è alle spalle un dibattito su queste cose? Con riferimento all'articolo 97 non si può usare l'espressione «pubbliche funzioni», perché le pubbliche funzioni possono riferirsi non soltanto alle funzioni amministrative, ma a quelle giurisdizionali, ad altri tipi di funzioni che sono sempre funzioni pubbliche. Allora, usiamo correttamente almeno i termini della Costituzione, facciamoci capire! Dico questo per esemplificare quanto sia sciatto questo modo di procedere, approssimativo e inaccettabile.
Il Ministro Calderoli ha parlato bene della modifica all'articolo 45. Su questo aspetto sono d'accordo anch'io, è l'unico punto. Togliete tutto ed effettuate soltanto l'inserimento: «e delle piccole imprese» nell'articolo 45. Lo possiamo fare, non credo sia una riforma epocale ma, se vi interessa, questo può essere fatto. Ma ritorniamo al percorso principale. La riformulazione della norma generale esclusiva, ossia l'articolo 41, primo comma, è - sento dire da qualche collega - ridicola. Convengo: è ridicola. È ridicola perché il principio costituzionale oggi è fortissimo: «L'iniziativa economica privata è libera».
Non c'è sostanzialmente nessun soggetto che possa porre un limite a questo valore, perché la riserva di legge la troviamo nel terzo comma e, certamente, nel secondo dell'articolo 41 della Costituzione. La legge può intervenire per attuare i limiti di cui al secondo comma, cioè per realizzare l'utilità sociale, la sicurezza, la libertà e la dignità umana. Tutti questi aspetti sono sacrosanti e tipici anche delle impostazioni liberali. Ma che dire dell'iniziativa e dell'attività economica? Si riprende un dibattito ma non si capisce con quale senso. Inoltre, dire che tutto ciò che non è vietato è permesso fa effettivamente sorridere. Lo hanno detto tutti coloro che hanno preso in esame seriamente questa disposizione. Lo ha detto - e, quindi, non la ripeto - la professoressa Massa Pinto che afferma chiaramente come questa operazione tende a forzare l'attività dell'interprete.
Ma un collega, che è intervenuto all'inizio di questo dibattito, ha fatto un'affermazione che è, anche questa, molto preoccupante. Egli sostiene che quella norma - «tutto ciò che non è vietato è permesso» - è importante perché si tendono ad evitare le norme arbitrarie che vengono inventate dalla pubblica amministrazione. Domando a quel collega se ha mai sentito parlare del principio di legalità, che è un cardine della Costituzione. Pag. 47Pertanto, non vi possono essere norme arbitrarie inventate dalla pubblica amministrazione che non siano contenute nella legge. Se le norme arbitrarie sono contenute nella legge sono incostituzionali e, dunque, saranno dichiarate tali dalla Corte o, altrimenti, ci penserà il Consiglio di Stato, a seconda del livello di fonte o di atto. Ma come si fa a pensare a norme arbitrarie inventate dalla pubblica amministrazione e, su questo argomento bizzarro, costruire questa formulazione?
Ma vi è di più. Cerulli Irelli afferma: «Vi è una contraddizione evidente tra il secondo e il terzo comma. È un'inaccettabile gerarchia di interessi, nella quale il contrasto ai monopoli sembra prevalere sulla sicurezza, sulla libertà e sulla dignità umana. È del tutto criticabile anche la soppressione del terzo comma, che fa riferimento, equiparandole, all'attività economica pubblica e a quella privata, del tutto in conformità con i principi del Trattato europeo che ammette l'impresa pubblica purché essa non usufruisca di privilegi ma, al pari di quella privata, sia soggetta alle regole della concorrenza. I programmi e i controlli, cui il testo vigente fa riferimento, sono quelli che si rendono necessari laddove l'attività di impresa si esplichi nell'esercizio dei servizi di interesse generale a rilevanza economica e viene letto in piena conformità alle norme del Trattato europeo». Non è male. Vi è anche questo tipo di critica e non credo che sia una critica pregiudiziale. È una critica che tiene conto della lettura sistematica.
Ma in ordine alle conseguenze pratiche il professor Brancasi, professore di diritto amministrativo, afferma che «non sarebbe più possibile, con questa formulazione, avere servizi privati di pubblica utilità. Più in generale, viene meno la possibilità di misure regolatorie che, talvolta, sono proprio quelle che consentono la liberalizzazione di certe attività. Non sarebbe più possibile, pur nel rispetto delle limitazioni europee, agli aiuti di Stato, incentivare, finanziare e sostenere le attività di impresa. Come misura con cui si pensa di far ripartire lo sviluppo non c'è male. Chissà cosa ne pensa la Confindustria».
E veniamo all'articolo 97. Chiedo scusa ma poiché i colleghi non hanno fatto in tempo a parlarne dirò io qualcosa. Qui veramente si tratta di una formulazione dove si dice tutto e il contrario di tutto. Si parla, appunto, di quelle pubbliche funzioni al servizio delle libertà dei cittadini, dei diritti delle persone e del bene comune. Capisco che le pubbliche funzioni sono al servizio delle libertà dei cittadini, dei diritti delle persone - scritto meglio - e del bene comune, ma mi domando se i diritti delle persone siano superiori al bene comune. Qualcuno se lo potrebbe domandare, legittimamente. Poi si cominciano a riscrivere i principi a cui deve fare riferimento la pubblica amministrazione, qui variamente chiamata «pubbliche amministrazioni» o «pubblici uffici».
Si immagina di poter introdurre qualche principio nuovo quale l'efficienza, l'efficacia, la semplicità e la trasparenza, ma questo punto è molto delicato perché fare elenchi di principi, oltre a quelli che la Costituzione menziona - dice il professor Sorace, un altro amministrativista - è uno sforzo vano dal momento che l'evoluzione degli ordinamenti porta sempre con se anche nuovi principi. Comunque, si deve notare che non sono menzionati - e questo lo dico perché qualcuno su alcuni di questi principi è già intervenuto - i principi di proporzionalità, di partecipazione e di economicità. Si fanno gli elenchi, ma si dimenticano dei punti essenziali e ciò diventa più grave dell'allungamento dell'elenco. Naturalmente il discorso potrebbe continuare, nel senso di sottolineare che questo articolo 97 è importante a condizione, tuttavia, che venga ben calibrato.
Siccome credo di essere arrivato alla fine del tempo a mia disposizione, voglio soffermarmi un attimo sull'articolo 118 della Costituzione. Anche in questo caso si fa un discorso simile a quello che ha ad oggetto l'articolo 41. Tutti dicevano, a tal proposito, che manca la libertà di concorrenza ed hanno fatto interventi interamente Pag. 48volti a sottolineare questo profilo; se invece leggiamo l'articolo si nota che la libertà di concorrenza manca del tutto anche nel nuovo testo, mentre è già garantita, come sappiamo, in base all'interpretazione che ha dato la Corte sul testo vigente.
Con questo disegno di legge si modifica il quarto comma dell'articolo 118, prevedendo che: «Stato, regioni, città metropolitane, province e comuni esercitano le attività che non possono essere svolte adeguatamente dai cittadini singoli o associati». Non vi è il richiamo alla sussidiarietà; mi pare che il relatore abbia detto di volerlo inserire, ma adesso dobbiamo tener conto del fatto che, nella prima formulazione, era talmente viva l'esigenza di parlare di sussidiarietà che, in realtà, tale principio non era neanche stato menzionato.
Ancora una volta, il professor Cerulli Irelli dice che il principio di sussidiarietà orizzontale è stato già inserito nella Costituzione, come ricordato dal collega Bressa. Il testo che si propone di inserire oggi è di tutt'altro tenore e stabilisce il principio che le attività dei pubblici poteri possano solo svolgersi in quei settori nei quali l'attività dei privati non potrebbe svolgersi più proficuamente. Si tratta, perciò, di una norma che pone un limite vincolante per il legislatore il quale, intanto può disciplinare un'azione pubblica in un determinato settore, in quanto non abbia accertato che in quel settore l'attività privata potrebbe svolgersi più adeguatamente. Si tratta del principio dello Stato minimo di matrice ottocentesca, ormai superato da decenni di esperienza e comunque in contrasto palese con altre norme della Costituzione, che attribuiscono allo Stato specifiche responsabilità di azione. Ordine pubblico, giustizia, scuola, tutela dell'ambiente, tutela dei beni culturali e sanità sono tutti settori nei quali la responsabilità di governo è interamente pubblica, questo è il punto nodale.
Si tratta di una norma che sconvolge tutto l'assetto costituzionale e si pone in contrasto con molteplici norme della prima parte della Costituzione vigente, che voi affermate apparentemente di non voler modificare.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

ROBERTO ZACCARIA. Mi avvio alla conclusione, signor Presidente. Vorrei che il collega Calderisi, che ci ha invitato a riflettere per una collaborazione sull'esame di questo testo, capisca, nonostante abbia letto una parte minima delle cose che dovevo leggere, che questi argomenti sono sufficienti ad evidenziare che questa riforma è ideologica, sbagliata, sciatta, inutile e, in molte parti, pericolosa perché stravolge l'impostazione di fondo della nostra Carta costituzionale (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Mantini. Ne ha facoltà.

PIERLUIGI MANTINI. Signor Presidente, l'Unione di Centro per il Terzo Polo si è applicata sul tema della riforma della Costituzione economica, così come proposto dal Governo, presentando una propria proposta di legge costituzionale e dunque esprimendo in modo organico le riserve, le critiche e le proposte.
Qualche premessa politica bisogna farla perché, come ci conferma anche la volontà espressa e annunciata dal relatore pochi minuti fa di togliere in sede di perfezionamento e revisione di questo testo il concetto di «utilità sociale», dovremmo affermare che allo stato dell'arte verrebbe espunta dalla cosiddetta Costituzione economica e quindi dall'articolo 41 sia il riferimento all'utilità sociale sia pure il principio di concorrenza, il che forse la dice lunga, per dirla con una battuta, sul carattere piuttosto evanescente e aleatorio di questa che, essendo una riforma costituzionale, dovrebbe fondarsi su un impianto culturale solido e definito. Tuttavia noi continueremo lungo l'iter a nostra disposizione nel confronto costruttivo.
Come ci ha ricordato il relatore, nel disegno di legge costituzionale del Governo Pag. 49al nostro esame ci si pone infatti l'obiettivo di valorizzare i principi sociali e liberali che sono a fondamento della responsabilità economica nel solco tracciato dal diritto dell'Unione europea in materia di concorrenza e nel contesto nuovo costituito dalla globalizzazione dei mercati. Per il vero, nel Documento di economia e finanza 2011 il Governo attribuisce a queste modifiche costituzionali un rilevante significato di scossa positiva all'economia, con un eccesso davvero esagerato di ottimismo anche con riguardo agli effetti e ai tempi necessariamente lunghi delle riforme costituzionali, a fronte dell'urgenza invece di forti misure per il contenimento della spesa e del debito pubblico e per la crescita del Paese.
Le riforme costituzionali - credo siamo tutti d'accordo - non devono avere carattere contingente, strumentale o peggio propagandistico. Abbiamo in altre sedi avanzato, come Unione di Centro e come Terzo Polo, proposte efficaci per politiche economiche di risanamento e di crescita urgenti, che possono e dovrebbero essere realizzate con priorità assoluta e con larghe intese nel Paese. Non ci sembra invece adeguato lo sforzo del Governo e comprendiamo, pur non volendo aderirvi in modo pregiudiziale, l'impressione da qualcuno sollevata che questa riforma costituzionale della parte economica possa costituire oggettivamente, persino al di là delle intenzioni, un diversivo rispetto alle urgenze che invece il Paese manifesta.
Questa prima osservazione deve essere accompagnata da una seconda premessa, anch'essa non strumentale: francamente per una riforma tanto impegnativa non vediamo il sufficiente e necessario clima costituzionale. Non lo diciamo per un gioco sterile di rimpiattino tra opposizione e maggioranza, ma veramente siamo in una fase politica in cui il dialogo costruttivo rispetto alle priorità del Paese e anche alle capacità di ascolto sulle proposte non trova nella posizione della maggioranza di Governo una condivisione; è un atteggiamento piuttosto di arroccamento intorno ad un Governo privo di credibilità e con una scarsa propensione al dialogo, al confronto e all'intesa. In questo clima certamente diventa molto più difficile immaginare una riforma tanto ardita e ambiziosa quanto quella della parte economica della Costituzione.
Con queste due premesse e rifuggendo dunque dai limiti della contingenza abbiamo pur tuttavia avanzato le nostre proposte di revisione costituzionale sulla stessa materia su cui insiste il disegno di legge costituzionale del Governo.
Solo alcuni nostri emendamenti sono stati accolti - e ciò ci sembra comunque positivo -, tuttavia nel complesso il testo attuale non ci soddisfa. L'articolo 41 della Costituzione è tipica espressione, nella genesi ricavabile dai lavoro dell'Assemblea costituente, dell'incontro tra la cultura liberale e azionista e quella cattolica e socialista. Si volle, infine, privilegiare un modello di economia mista, coerentemente con le altre Costituzioni europee del secondo dopoguerra, nel quale iniziativa economica privata e pubblica cooperano al fine, statuito dal secondo comma dell'articolo 3 della Costituzione, di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno svolgimento dello sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Questo è principio cardine, direi il principio fine della nostra Costituzione economica, che non può, a nostro avviso, essere rimosso o depotenziato.
In tal senso, devono essere anche considerati gli articoli 39 e 40 della stessa Costituzione, in materia di lavoro e diritto di sciopero, l'articolo 42, in materia di disciplina della funzione sociale della proprietà e dell'espropriazione di essa per motivi di interesse generale, nonché l'articolo 43, che consente l'espropriazione o la riserva per legge di determinate imprese o categorie di imprese che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio. Insomma, non è semplice e neppure corretto Pag. 50modificare l'equilibrio della Costituzione economica agendo solo su alcuni principi o alcune formule.
Come comunemente riconosciuto in dottrina, la Costituzione non si limita a garantire ai singoli la tutela di una determinata sfera di autonomia, ma prevede e disciplina tutta una serie di istituti attraverso cui prende corpo in questo decisivo settore l'impegno dei pubblici poteri a ridurre le disuguaglianze di ordine economico e sociale esistenti di fatto tra i cittadini. In questo senso, devono essere interpretate non solo la previsione di un'iniziativa economica pubblica e di una proprietà pubblica, accanto all'iniziativa e alla proprietà privata, nonché la previsione di appositi istituti volti a controllare e ad indirizzare l'una e l'altra verso il conseguimento di fini sociali, ma anche la previsione di un impegno diretto dello Stato volto a favorire un più diffuso ed effettivo esercizio delle libertà economiche. Si pensi all'articolo 45, relativo alla tutela e alla promozione della cooperazione, all'articolo 46, relativo al diritto dei lavoratori a collaborare nei modi previsti dalle leggi alla gestione delle aziende, all'articolo 47, relativo alla tutela del risparmio e all'accesso alla proprietà dell'abitazione. E all'articolo 45, oltre alle «piccole imprese», occorre aggiungere «le professioni», motore dell'economia della conoscenza.
Il riparto dei poteri decisionali per realizzare questo disegno di economia mista ruota intorno all'istituto della riserva di legge. È infatti al Parlamento che spettano tutte le scelte di carattere generale in materia, al fine di garantire la democraticità delle stesse ed evitare possibili abusi della pubblica amministrazione. È alla legge che fanno costante riferimento non solo le disposizioni contenute negli articoli da 41 a 47 della Costituzione, ma anche tutte quelle altre disposizioni che toccano questo tema, ad esempio gli articoli 23 e 25, in materia di potestà impositiva dello Stato, nonché l'articolo 81, come è noto, in materia di decisioni di bilancio.
Questi sommari richiami sono, a nostro avviso, sufficienti per affermare la nostra convinzione dell'inopportunità di modifiche parziali della Costituzione economica, che andrebbe considerata nel suo complesso, ove si pretenda di mutarne la cultura di fondo. Ciò anche in considerazione del fatto che, pure alla luce delle più recenti esperienze dell'Unione europea e della globalizzazione dei mercati, il modello dell'economia mista di mercato non appare affatto depotenziato o superato, sebbene con fattori nuovi che, tuttavia, non inficiano il modello costituzionale o dei principi.
Gli argomenti a suffragio di questa tesi sono molti. Basti pensare al ruolo svolto dai cosiddetti fondi sovrani e per altro verso all'affannosa ricerca negli organismi internazionali di legal standard per l'economia globale. Non occorre piegare la Costituzione alle tendenze iperliberiste della lex mercatoria, ma piuttosto riaffermare ed estendere il modello dell'economia sociale di mercato, che si basa sulla libertà privata e sull'intervento pubblico, prevalentemente però di natura regolatoria.
Nel disegno di legge costituzionale del Governo si sottopone a critica l'espressione «iniziativa economica» che costituisce l'incipit dell'articolo 41 della Costituzione, perché limitativa della più complessiva attività economica che deve, parimenti, essere libera, non solo nella sua fase iniziale. La critica dell'espressione, che ha origini storiche anche sotto il profilo della semantica e della cultura politica del tempo, può essere condivisa perché, in effetti, il principio della libertà economica è più ampio di quello relativo alla sola fase dell'iniziativa.
Tale riconosciuto favor libertatis non può, tuttavia, spingersi, a nostro avviso, fino alle conseguenze proposte nel disegno di legge costituzionale del Governo, secondo cui è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge. Se tale principio ben si adatta al diritto penale, nullum crimen sine lege, non può certo ritenersi condivisibile né applicabile tout court nel campo delle attività economiche soggette, per natura, a regolazioni pubbliche o di parte terza. Si pensi, sin dalle Pag. 51origini storiche, alle misure metriche come la moneta, il tempo e il calendario, i pesi e le misure, fino alle più recenti regole della Borsa e della finanza o della tutela dell'ambiente.
D'altronde, l'uso dell'avverbio «espressamente» spingerebbe a delineare un'ipertrofia normativa della legislazione, un effetto certamente indesiderato anche dai proponenti, allo scopo di eliminare gli atti dell'amministrazione come autorizzazioni, permessi, concessioni, regolamenti, piani, sovvenzioni e così via. Ma una tale concentrazione di espressi divieti nella legge, oltre che risolversi nella antistorica pretesa di una legislazione senza amministrazione, tipica dei regimi assoluti, finirebbe per favorire un modello di Governo centralista, con gli enti locali vincolati dalla legge, e per ridurre le garanzie degli stessi operatori economici nei confronti degli abusi del potere, non potendosi ricorrere nei confronti dei divieti di legge, se non per i profili di incostituzionalità.
A noi sembra, invece, che, ove proprio si voglia riformare il testo dell'articolo 41 della Costituzione per meglio adattarlo alle più recenti esigenze dell'attuale fase storica, ciò possa essere fatto facendo emergere e affermando i principi di concorrenza e di responsabilità sociale, accanto alla libertà dell'attività economica privata e aggiungendo ai compiti che costituiscono riserve di legge il rispetto del principio di semplificazione amministrativa. Questa è la nostra proposta.
In effetti, con la riforma costituzionale del 2001 la tutela della concorrenza è stata per la prima volta considerata nella Costituzione italiana sotto il profilo, appunto, dell'articolo 117, secondo comma, ma è un principio costitutivo dell'originario Trattato istitutivo della Comunità europea, come ben sappiamo, ribadito nei successivi trattati e nelle politiche dell'Unione europea, espressione cardine di una moderna cultura liberale che vede nella par condicio concorsuale la condizione migliore per l'efficienza dei mercati e per lo sviluppo della libertà e del benessere sociali.
Dunque, la nostra non è una visione oggettiva della concorrenza, lo dico al collega Calderisi che sul punto ha insistito. Non vediamo in essa un feticcio, un moloch normativo che presiede ed è sovraordinato a tutto, ma abbiamo una concezione della concorrenza esattamente come un principio servente ai fini della libertà dell'iniziativa economica. Perciò insistiamo perché il principio di concorrenza sia nella Costituzione economica, se la Costituzione economica dobbiamo riformare e così anche il principio di semplificazione amministrativa, che è più efficace, anche perché affermatosi, ormai, nella dottrina, nella giurisprudenza e direi anche nel clima politico. È assai più efficace per dare conto di tutte quelle possibili incrostazioni che, nell'esercizio delle funzioni amministrative, si creano in relazione ai principi di legge, quell'eccesso di oneri burocratici che gravano, naturalmente in modo negativo, sulle nostre imprese e sulla competitività.
A tale proposito, senza far riferimento ad una storia che complessivamente, da Zanardelli in poi, ci parla di semplificazione amministrativa in continuazione, con effetti però assai modesti, bisogna dire che questo principio, elevato a rango costituzionale, sarebbe di grande utilità e perciò noi lo prevediamo come aggiunto al terzo comma dell'articolo 41.
Sull'articolo 97 della Costituzione - e rinviando alla relazione e alla nostra proposta di legge per qualche migliore argomentazione - con senso pratico, proprio perché il relatore ha testé ricordato che c'è uno spazio di miglioramento del testo e che quindi rivaluteremo in Commissione alcuni punti, devo dire che noi avremmo preferito, preferiamo e insisteremo per una formulazione del primo comma dell'articolo 97, relativo appunto alle pubbliche amministrazioni, nel modo seguente: «Le pubbliche funzioni sono al servizio delle libertà dei cittadini e del bene comune, nel rispetto dei diritti e dei doveri». Su questo punto, evidentemente, senza scomodare Mazzini si potrebbe insistere molto, ci sembra questa una formulazione più appropriata: fa emergere naturalmente il carattere strumentale delle amministrazioni e delle funzioni pubbliche nei confronti Pag. 52delle libertà dei cittadini, al servizio dei cittadini e del concetto di bene comune, ma nel rispetto dei diritti e dei doveri, non solo dei diritti, come nella formulazione poco condivisibile attualmente nel testo.
Sul secondo comma ci permettiamo di insistere sul principio secondo cui l'esercizio, anche indiretto, delle pubbliche funzioni è regolato in modo che ne siano assicurate - sin qui vi è un'analogia con il testo proposto dalla Commissione - la legalità, l'efficienza, l'efficacia, la semplicità, la trasparenza e la partecipazione. Ora, insistiamo sull'emersione del principio di legalità e anche su quello di partecipazione, in primo luogo perché il principio di legalità è un principio indefettibile dell'attività amministrativa. Potremmo anche a rigore non considerarlo in Costituzione, ma sappiamo che nelle espressioni di imparzialità e buon andamento dell'articolo 97 della Carta costituzionale del 1948, sempre e comunque si è voluto vedere il riferimento al principio di legalità, come una bussola ineliminabile per le pubbliche amministrazioni. Questo non vuol dire che le pubbliche amministrazioni siano tenute, secondo una visione per così dire veramente «vetero» sul piano storico, alla mera esecuzione della legge. Al contrario, questo sarebbe l'effetto a cui ci porta il testo, prima criticato, di riforma dell'articolo 41, secondo cui tutti i divieti e le regolazioni sono contenuti nella legge (quindi la pubblica amministrazione in qualche modo dovrebbe sparire e dovrebbe limitarsi ad eseguire, secondo un concetto appunto ottocentesco, i dettati della legge).

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ROSY BINDI (ore 17,55).

PIERLUIGI MANTINI. No. Le pubbliche amministrazioni, che esisteranno anche dopo questa riforma, hanno comunque il loro spazio di autonomia e di discrezionalità, esercitano, in modo vincolato in alcuni casi - come ben sappiamo, gli esempi sono scolastici e non sto qui a ripeterli - le loro funzioni e in modo discrezionale invece in altri campi le stesse funzioni, ma sempre con riferimento al principio di legalità. È un principio che dà alle amministrazioni un certo margine di autonomia - non c'è ombra di dubbio - ma in riferimento al principio di legalità.
Quindi insistiamo perché il principio di legalità sia nell'articolo 97, così come insistiamo affinché il principio di partecipazione alle funzioni amministrative sia nella Costituzione. I tempi sono maturi, conosciamo moltissimi istituti nei paesi europei, l'enquête publique in Francia, l'encuesta previa in Spagna, la public examination e la public inquiry nei sistemi anglosassoni, la partecipazione al procedimento, proprio per evitare quello scollamento tra società reale, i cittadini e i cosiddetti pubblici poteri, così diffuso, che è quasi un male oscuro ai nostri tempi.
Francamente i tempi sono maturi affinché il principio di democrazia amministrativa, il principio di partecipazione al procedimento amministrativo, regolato da norme che non consentono di contrapporre la piazza al consiglio comunale o alla sede decisionale, ma che integrano nel procedimento amministrativo uno spazio regolato da termini e responsabilità per la presentazione di osservazioni, di proposte prima che le grandi scelte amministrative siano compiute, abbia un rango costituzionale.
Sempre procedendo in modo strettamente riferito alle nostre proposte emendative, ci dichiariamo soddisfatti per il testo elaborato dalla Commissione, che accoglie un principio su cui noi molto abbiamo insistito, che è quello di portare in Costituzione la distinzione tra amministrazione politica e amministrazione tecnico-professionale, la prima ispirata ai compiti di indirizzo, programmazione e verifica dei risultati, la seconda, invece, titolare delle funzioni di gestione tecniche, amministrative e finanziarie. Ma questo principio non è del tutto soddisfacente se non accompagnato, a proposito degli impieghi nelle pubbliche amministrazioni, anche da un'integrazione. Salutiamo con favore anche il fatto che sia stata accolta la nostra proposta emendativa riferita al Pag. 53fatto che i concorsi sono la regola e solo in casi eccezionali, stabiliti dalla legge - emerge questa eccezionalità adesso nel nuovo testo della Costituzione - si possa derogare al concorso. Però avremmo voluto e vogliamo che questo principio del concorso sia riferito non solo agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni ma anche alle nomine negli enti pubblici. Si tratta di una dizione lievemente più ampia che riguarda per esempio anche le società pubbliche e quindi lo stesso tipo di principio deve valere per un amministrazione dove si esercita in modo diretto o indiretto la funzione pubblica.
Sull'articolo 118 della Costituzione potremmo dire a lungo ed in effetti abbiamo detto a lungo anche nel testo della relazione introduttiva alla nostra proposta di legge, ricordando le ascendenze culturali, il Trattato di Maastricht, la dottrina più risalente - Humboldt, Tosato -, perché è un principio di grandissima importanza per noi, anche dal punto di vista della nostra cultura politica e ricordando l'impegno della Chiesa sulla sussidiarietà orizzontale in tempi anche risalenti. Nell'enciclica Quadragesimo anno, di Pio XI, del 1931 si legge « (...) deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofa sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l'industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l'oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle».
Così pure nell'enciclica Centesimus annus Giovanni Paolo II affermò che una società, un'organizzazione o un'istituzione di ordine superiore ad un altra non deve interferire nell'attività di quest'ultima, a essa inferiore, limitandola nelle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali in vista del bene comune. D'altra parte - cosa forse meno nota - il principio di sussidiarietà è presente perfino nel movimento sindacale, ad esempio nella Carta del lavoro del 1927 (Dichiarazione IX), ove si afferma che - testualmente - l'intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente l'iniziativa privata, o quando siano in gioco interessi politici dello Stato, e che tale intervento può assumere la forma del controllo, dell'incoraggiamento e della gestione diretta. Dunque, siamo favorevoli ad una migliore affermazione ed emersione del principio di sussidiarietà orizzontale.
Valuteremo il testo, che potremo migliorare ancora in Commissione. Certo, noi abbiamo proposto una formulazione che sostanzialmente fa emergere anche qualcosa in più, un testo del seguente tenore: lo Stato, le regioni, le città metropolitane e i comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini singoli e associati per lo svolgimento di attività di interesse generale sulla base dei princìpi di sussidiarietà, di concorrenza e di merito (proprio per non vederne una contrapposizione), e garantiscono atti di autoamministrazione basati sul rispetto della legge e della responsabilità professionale. Qui noi riteniamo che uno dei motori più significativi della sussidiarietà stia proprio in quel percorso che riguarda la capacità di sostituirsi in funzione integrativa alle pubbliche amministrazioni. Quando le pubbliche amministrazioni entro un termine dato - ma naturalmente questa è materia di legislazione - non sono in grado, non solo di rilasciare documenti, autorizzazioni od altro, ma di svolgere la propria funzione, decorso quel termine, dovrebbe esserci un principio di autoamministrazione, cioè un principio di affermazione della conformità legale sotto anche responsabilità professionale e l'avvio quindi delle attività. La legislazione si sta già orientando in questo senso (e potrei fare numerosi esempi), ma dobbiamo capire che questo compito, basato anche sulla responsabilità professionale e quindi sull'assunzione di responsabilità da parte degli individui e delle Pag. 54professioni, è un potentissimo motore di questo principio che noi chiamiamo sussidiarietà orizzontale, volendo intendere che, laddove è possibile, attraverso gli strumenti dell'organizzazione civile e sociale, lo svolgimento di attestazioni e funzioni che hanno un rilievo pubblicistico, non è necessario che lo Stato intervenga, o meglio è opportuno che lo Stato possa intervenire solo - come confusamente, peraltro, si dice in altri punti del disegno governativo - ex post in funzione, appunto di controllo. Anche questo principio di sussidiarietà orizzontale, dunque, potrebbe ricevere una formulazione migliore. In conclusione, il relatore ha aperto uno spazio per miglioramenti del testo, e alla valutazione di quanto lì si potrà fare il gruppo dell'Unione di centro valuterà anche il proprio atteggiamento di voto. Come è noto, sebbene i tempi non inducano moltissimo ad una generica speranza, spes ultima dea.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Favia. Ne ha facoltà.

DAVID FAVIA. Signor Presidente, signor Ministro, onorevoli colleghi, credo che stiamo vivendo un momento molto importante e molto pericoloso senza che il Paese e forse anche senza che la Camera, il Parlamento se ne rendano perfettamente conto, perché l'iter che ha avuto questa proposta di riforma costituzionale è stato un iter molto rapido e molto poco dibattuto.
Io credo che vi sia un contrasto visibile tra quello che è successo la scorsa settimana e quello che rischia di succedere questa settimana. La modifica dell'articolo 31 della Costituzione è stata elaborata in Commissione, vi è stato un confronto franco ed ampio con le opposizioni e alla fine abbiamo trovato degli equilibri e delle mediazioni, dopo un lungo lavoro. Questo assomiglia francamente molto ad un colpo di mano alla chetichella, ad una sorta di vendetta ideologica postuma del pensiero liberale, dove per «postuma» intendo rispetto ai lavori della Costituente, quando peraltro il voto fu favorevole (dirò poi alcune cose, essendomi andato a riguardare i verbali).
Io credo che principi fondamentali come quello dell'articolo 41 della Costituzione non si possano intaccare in assenza di un dibattito ampio - lo diceva bene prima l'onorevole Zaccaria - che non vi è stato in Commissione, ma soprattutto non vi è stato nel Paese. Tutti i corpi sociali che dovrebbero essere coinvolti da questa riforma ne sanno poco o nulla, se non per sporadiche partecipazioni al dibattito che possono esservi state.
Questa modifica era stata annunciata più volte dal Presidente del Consiglio, fortemente auspicata in quanto la sua assenza è stata ritenuta la causa parziale finanche della stagnazione economica del nostro Paese e un ostacolo alle iniziative del Governo per il rilancio e lo sviluppo.
Io ho ascoltato tutto il dibattito, sono l'ultimo ad intervenire e ho sentito delle «perle» che francamente avrei fatto a meno di ascoltare. Questa riforma migliorerebbe la capacità competitiva dell'Italia, come se l'Italia da sessant'anni non abbia partecipato in maniera competitiva alla scena economica mondiale!
Non scherziamo: non è l'articolo 41 della Costituzione che ferma lo sviluppo e non è l'articolo 41 della Costituzione in contrasto con la normativa europea e in contrasto con i principi della libera concorrenza. Sembrerebbe - qualcuno ha detto - che fosse un limite alla libertà economica privata, un limite al ruolo dell'iniziativa economica privata.
Ma quel che più mi ha fatto male è stato ascoltare un ragionamento del tipo: «L'articolo 41 è un compromesso che vi è stato al tempo dell'elaborazione della Costituzione, quindi è contraddittorio proprio perché frutto di un compromesso».
Insomma, io credo che, quando viene fatta una Costituzione in cui, come nel nostro caso (ma non è che la situazione dal punto di vista del confronto delle idee sia cambiata), si confrontano ideologie come quella liberale (c'era Einaudi), quella cattolica e quella socialista, non si può pensare di non arrivare ad un compromesso, alto certamente, come lo è l'articolo Pag. 5541 della Costituzione; necessariamente si deve arrivare ad un compromesso, cosa che oggi non è.
Io cito soltanto alcuni esempi, alcune scintille di responsabilità sociale e responsabilità politica, ma ne vedo poche: nel parere, per quanto favorevole, dell'XI Commissione, si fa un'osservazione e si dice di recuperare il concetto di responsabilità sociale dell'impresa. Ecco, credo che questo sia il principale vulnus che viene fatto all'articolo 41 della Costituzione, cioè proprio la distruzione del suo ultimo comma.
Rivolgo un appello affinché ci si ripensi e, al limite, si torni in Commissione per approfondire ancora di più il dibattito. Infatti, mi sembra che distruggere con una unilateralità ideologica il dettato e l'equilibrio fra le tre fondamentali fonti di pensiero che si sono confrontate al tempo della Costituente, e distruggere così l'articolo 41 della Costituzione, sia un delitto che non può passare impunito. Non passerebbe, comunque, impunito, perché - diciamocelo francamente - questa riforma farà fatica ad uscire da questa legislatura e, se anche ciò avvenisse, non lo farebbe mai con i due terzi dei voti favorevoli; quindi, sarà molto difficile che possa passare positivamente al vaglio del referendum confermativo. Tuttavia, avremmo piacere che non venisse licenziata nemmeno dalle Camere, perché è veramente una bruttissima ed unilaterale riforma.
È una riforma che, implicitamente ed intrinsecamente, viola i principi della Costituzione, se non altro perché ne inquina il valore e il tenore lessicali. La presenza nella Carta fondamentale di una nozione, di una locuzione quale «è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge», francamente, è da brivido; per non parlare di altre «perle», quali «la legge si conforma ai principi di fiducia e di leale collaborazione tra le pubbliche amministrazioni e i cittadini». Faccio notare che il concetto di fiducia è presente nella Costituzione una sola volta, con riferimento alla fiducia che lega il Parlamento al Governo. Utilizzare questa nozione per un concetto che, francamente, può andar bene in una legge ordinaria, ma non nella Costituzione, è un esercizio veramente pericoloso.
Con riferimento all'articolo 97, si dice che «le pubbliche funzioni sono al servizio delle libertà e dei diritti dei cittadini». Ma cosa vuol dire? Ciò dicendo - è stato fatto notare -, si premettono le libertà e i diritti dei cittadini al bene comune. Credo che anche questo sia assolutamente errato e non trova il nostro favore, come anche dire «nel rispetto del principio di separazione tra politica e amministrazione». Questo è ovvio, è già previsto da una legge ordinaria: è follia inserirlo nella Costituzione, perché, in questo modo, essa dismetterebbe le vesti di legge fondamentale, smetterebbe di contenere principi e si porrebbe, pur sovraordinata, da un punto di vista lessicale, sullo stesso piano della legge ordinaria, quando non delle fonti secondarie.
La gran parte delle modifiche introdotte dal testo del Governo, i concetti e le parole utilizzate sono tratte da leggi vigenti e da decreti legislativi, in particolare per quanto riguarda il nuovo articolo 97. La limpidezza del testo costituzionale si perde, il carattere asciutto del principio si svilisce, il valore semantico si stempera. La Carta fondamentale diventa materia e dettaglio.
Per quanto concerne il contenuto, torno a parlare dell'articolo 41. Un'altra frase che è stata detta dal relatore ed anche dal Ministro è che l'intento di questa riforma è di valorizzare i principi sociali e liberali che sono a fondamento della responsabilità economica. Toglierei da questa frase il concetto dei principi sociali. Qui vi sono soltanto gli estremismi, gli iperliberismi.
Vorrei dire solo una cosa: nemmeno Einaudi ha avuto il coraggio di attaccare l'ultimo comma dell'attuale articolo 41 della Costituzione. Testualmente, Einaudi dice: «Il primo emendamento all'articolo 39» - perché quando ne dibattevano di trattava dell'articolo 39 - «da me presentato, si limitava a togliere le parole: «in contrasto con l'utilità sociale», appartenenti al secondo comma. E poi dice: «Ma Pag. 56poiché vedo che l'Assemblea è propensa ad introdurre nei testi legislativi parole le quali non hanno un significato preciso e su cui i commentatori avranno in avvenire ampio campo a discutere, su questo punto preciso non insisto».
Addirittura Einaudi, per venire incontro alla concordia di un dibattito, si tirò indietro da una proposta di modifica del concetto di utilità sociale contenuto nel secondo comma dell'articolo 41; ma giammai si sognò di attaccare il terzo comma, ove si dice che «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».
Mi riferisco al famoso concetto del fine sociale dell'impresa che, con questa riforma, si vorrebbe completamente stralciare.
Noi crediamo che questo sia il pericolo maggiore di questa riforma e ci piace ricordare (chiedo scusa se mi dilungherò un po') le parole del relatore Corbi, in merito a questa materia costituzionale all'epoca dell'Assemblea costituente, il quale afferma che tutti convengono che la vecchia formulazione del diritto romano - parliamo del concetto di proprietà - non può essere accettata perché in troppo stridente contrasto con la realtà e con le esigenze nuove. L'una, cioè la realtà, va superando quel vecchio concetto della proprietà privata; le altre, cioè le esigenze nuove, esigono che ad essa siano imposte limitazioni, non solo per ragioni etiche e politiche, ma anche per motivi economici, produttivistici e di interesse nazionale.
Egli cita poi le Carte costituzionali moderne dell'epoca che riconoscono l'istituto della proprietà privata solo in quanto essa adempie ad una funzione sociale e non contrasta, quindi, con gli interessi della collettività e dell'economia sociale.
Anche allora si usciva da un momento di crisi, anzi, sfortunatamente allora si usciva da un momento di grande crisi - noi ci siamo immersi e non ce ne stiamo chiedendo le ragioni - e diceva sempre Corbi che le norme che la nuova Carta costituzionale deve contenere debbono impedire, facendo tesoro dell'esperienza (e noi non ne stiamo facendo tesoro), per quanto possibile, l'evolversi negativo dei fatti economici ed aprire la strada a quello positivo di essi. In altri termini, la Carta costituzionale deve rendere impossibile ai vecchi principi privilegiati responsabili della catastrofe nazionale - ed è la stessa cosa che stiamo vivendo in questo momento - di riprendere il sopravvento, impedire che possano riprendere il sopravvento a danno di tutto il popolo e garantire invece la possibilità di operare nel Paese una profonda trasformazione economica e sociale alla quale è indispensabile il concorso dello Stato.
Osserva Corbi che taluno si inalbera e protesta ogni qualvolta sente parlare di ordine, di coordinamento, di controllo, di pianificazione economica ed è ancora sollecito nell'esaltare la concezione individualistica del liberismo economico, il che, in ultima analisi, altro non è che un tentativo di giustificare e difendere con formule dottrinarie l'egoismo dei privilegiati.
Credo che mai come in questo momento le parole dei padri costituenti siano attuali, moderne e importanti.
Ricordo che la Costituzione, e soprattutto il testo dell'articolo 41, sono il compromesso e la mediazione fra i tre grandi filoni di pensiero che ancora ci sono e sottolineo che stiamo dibattendo in maniera, francamente, troppo ridotta di una riforma costituzionale, senza che ci sia equilibrio fra questi tre filoni di pensiero.
Porto alcuni esempi sul dettato di questa proposta del nuovo articolo 41: con riferimento a tale articolo la vigente garanzia costituzionale della libertà e dell'iniziativa economica privata viene estesa anche alla libertà dell'attività economica, da intendersi, come evidenziato nella relazione illustrativa, quale successivo momento di svolgimento, intrinsecamente connesso alla fase iniziale di scelta dell'attività stessa.
Inoltre, viene inserita la previsione secondo la quale è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge. Ci rendiamo conto che questo comporterà l'esigenza di una immensa legislazione per Pag. 57comprendere che cosa deve essere evitato? Una sorta di distruzione dei limiti etici.
Arrivo a pensare: viene garantita anche la libertà di delinquere? Certo questo è un paradosso.
Quando si afferma che «l'iniziativa e l'attività economica non possono svolgersi in contrasto con i principi fondamentali della Costituzione», si può dire una cosa del genere in Costituzione? È ovvio che non si possa andare contro i principi fondamentali della Costituzione, ma con questa riforma - vedete la contraddittorietà - si va ad intaccare un principio fondamentale della Costituzione, talché mi sembra del tutto corretto quello che diceva il collega Zaccaria ossia che questo tentativo di riforma è quasi incostituzionale.
Quindi, il nostro parere su questa proposta di riforma dell'articolo 41 è assolutamente contrario in quanto ci sembra che l'attuale articolo 41 non contrasti assolutamente con i principi di concorrenza e di libertà economica, ma tenda a darle un ruolo sociale e a fare in modo che, da una parte, non possa essere in contrasto con l'utilità sociale e, dall'altra, possa essere indirizzata e coordinata per legge a fini sociali. Credo che questo sia un patrimonio della nostra Costituzione che noi dobbiamo tenere assolutamente da conto.
Quanto alla riforma dell'articolo 45 della Costituzione dirò in due parole che siamo d'accordo, perché oltre all'artigianato è giusto tutelare tutto il parterre delle piccole e medie imprese che sono la spina dorsale delle imprese italiane, quindi sul punto non abbiamo problemi.
Per quanto riguarda invece l'articolo 97 della Costituzione crediamo che i nuovi due commi aggiunti non vadano bene. Il concetto di «pubbliche funzioni» è infatti un concetto incomprensibile in quanto qui penso che le si voglia intendere come funzioni amministrative, ma pubbliche funzioni sono anche, per esempio, quelle giurisdizionali quindi c'è una grande confusione semantica e lessicale.
Come si fa poi a dire che sono al servizio delle libertà, dei diritti dei cittadini e infine del bene comune? Anche in questo decalage credo che ci sia un errore in quanto il bene comune deve venire assolutamente per primo. Siamo pertanto critici anche su questa proposta di riforma dell'articolo 97.
Credo, mi auguro - molti lo hanno detto - che ne dovremo ridiscutere in Commissione domani. Mi sembra che il presidente, nonché relatore, abbia preannunciato modifiche fondamentali rispetto al testo attuale, ma credo che la nuova, nuovissima, chiamiamola così, formulazione dell'articolo 118 sia assolutamente preoccupante.
Siamo favorevoli al principio di sussidiarietà, soprattutto alla sussidiarietà orizzontale, ma queste due righe: «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni esercitano le attività che non possono essere svolte adeguatamente dai cittadini singoli o associati» sono una pistola puntata alla tempia delle gestioni pubbliche aventi un contenuto economico.
Francamente di dibattito ce n'è stato poco, ma mi sembra che questo articolo non vada nel senso di una sussidiarietà orizzontale, come può essere interpretata nell'ambito di un confronto sereno sulla situazione socio-economica italiana, ma vada nel senso di una esclusione totale del pubblico da ogni attività che possa avere un benché minimo contenuto economico, anche di quelle attività che sono fondamentali per la società.
Per dirlo con franchezza, mi viene da pensare alla sanità, alla gestione dei servizi pubblici locali e alla scuola. A mio giudizio, nulla vieta che l'entrata in vigore - mi auguro non avvenga - di questa formulazione del quarto comma dell'articolo 118 della Costituzione imponga che finiscano in mano privata la sanità, la scuola e la gestione dei servizi pubblici locali.
Colleghi, non sta a me ricordarvi che, di recente, molto recentemente, un referendum ha sancito che l'acqua deve essere pubblica. È chiaro che una riforma costituzionale fatta dal Parlamento è liberissima di andare in contrasto con l'esito del referendum, ma mi sembra che, ancora una volta, questa maggioranza parlamentare, che era ed è minoranza nel Paese, perché non ha mai vinto le elezioni con il Pag. 5850 per cento più uno dei voti, sia sempre più minoranza nel Paese, perché quando va a proporre una riforma costituzionale, senza dibattito pubblico ed in contrasto con l'esito di un referendum, non fa altro che rinchiudersi ancora di più in un fortino, per andare contro quello che è il sentimento pubblico.
Spero di sbagliarmi, ma trovarmi con una norma costituzionale che obbliga il pubblico a dismettere a favore dei privati la sanità, i servizi pubblici essenziali e la scuola, francamente mi fa un po' rabbrividire. Spererei, allora, non dico in un abbandono, ma, quanto meno, in un rinvio in Commissione del disegno di legge, affinché il dibattito, svolto in maniera più approfondita tra noi, possa essere allargato anche al Paese e ai corpi sociali e affinché la norma possa poi ritornare in Aula. Quello che con stupore ho sentito dire oggi in quest'Aula, e cioè che l'attuale articolo 41 è frutto di un compromesso, che è contraddittorio e, quindi, sbagliato e vada fatto un chiarimento ideologicamente unilaterale, è una cosa «da paura», perché una Carta costituzionale deve essere un compromesso, deve restare in equilibrio tra le diverse idee, tra le diverse radici, tra diverse scuole di pensiero, filosofie e politiche economiche e sociali che permeano tutto il Paese.
Il contrario sarebbe una sorta di colpo di Stato, sarebbe una sorta di dittatura, sarebbe una sorta di unilateralità filosofica ed ideologica che non può assolutamente essere tollerata. Sul compromesso e l'equilibrio a cui è arrivato l'articolo 41 si è basata la ricostruzione dell'Italia del dopoguerra e la possibilità per quest'ultima di arrivare ad essere la settima potenza economica mondiale, che non ha mai trovato un blocco nell'articolo 41. Non scherziamo, non è l'articolo 41 il responsabile della situazione di crisi.
Penso che partendo dall'idea che l'equilibrio, il compromesso e il dibattito siano un valore, sarebbe quanto mai opportuno ritornare quanto prima in Commissione e non andare avanti con questa riforma che, francamente, mi fa paura.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche del relatore e del Governo - A.C. 4144-A)

PRESIDENTE. Prendo atto che il relatore, onorevole Bruno, ed il rappresentante del Governo non intendono replicare.
Il seguito del dibattito è quindi rinviato ad altra seduta.

Discussione del disegno di legge: S. 1474 - Ratifica ed esecuzione dei Protocolli di attuazione della Convenzione internazionale per la protezione delle Alpi con annessi, fatta a Salisburgo il 7 novembre 1991 (Approvato dal Senato) (A.C. 2451-A) e delle abbinate proposte di legge: Zeller ed altri; Froner (A.C. 12-1298) (ore 18,30).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge, già approvato dal Senato: Ratifica ed esecuzione dei Protocolli di attuazione della Convenzione internazionale per la protezione delle Alpi con annessi, fatta a Salisburgo il 7 novembre 1991; e delle abbinate proposte di legge di iniziativa dei deputati Zeller ed altri; Froner.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali - A.C. 2451-A)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che la III Commissione (Affari esteri) si intende autorizzata a riferire oralmente.
Il relatore, onorevole Dozzo, ha facoltà di svolgere la relazione.

Pag. 59

GIANPAOLO DOZZO, Relatore. Signor Presidente, la Convenzione per la protezione delle Alpi è finalizzata a garantire una strategia globale per la conservazione delle Alpi, che costituiscono uno dei principali spazi naturali d'Europa e habitat di molte specie animali e vegetali. È stata firmata a Salisburgo nel 1991 da sei Paesi dell'arco alpino (Austria, Svizzera, Francia, Germania, Italia e Liechtenstein), nonché da un rappresentante della Commissione europea e successivamente dalla Slovenia e del Principato di Monaco. La ratifica della Convenzione da parte italiana è avvenuta con la legge 14 ottobre 1999, n. 403, e la Convenzione è entrata in applicazione per il nostro Paese il 27 marzo 2000.
La Convenzione, che si configura come un accordo quadro, fissa gli obiettivi per una corretta politica ambientale per la salvaguardia delle popolazioni e delle culture locali e per l'armonizzazione tra gli interessi economici e la tutela del delicato ecosistema alpino, stabilendo i criteri cui dovrà ispirarsi la cooperazione tra i Paesi interessati in ottemperanza ai principi della prevenzione, della cooperazione e della responsabilità di chi causa danni ambientali. A tal fine, le parti si impegnano ad assumere misure adeguate anche attraverso la successiva adozione di specifici Protocolli - dei quali appunto con il provvedimento in esame si chiede l'autorizzazione alla ratifica - come viene specificato nell'articolo 2 della Convenzione medesima.
Sono numerosi i settori nei quali le parti si sono impegnate a collaborare nella direzione della messa in atto di una politica globale che garantisca la conservazione e la protezione dell'area alpina. La conservazione dell'equilibrio ambientale è considerata strettamente connessa al mantenimento della popolazione residente nelle forme tradizionali di insediamento. A tal fine, la Convenzione impone la garanzia delle necessarie infrastrutture nonché le condizioni economiche che evitino il progressivo spopolamento delle aree alpine, anche attraverso la pianificazione territoriale. La Convenzione si pone altresì l'obiettivo di promuovere e salvaguardare l'agricoltura di montagna e la silvicoltura, al fine di assicurare l'interesse della collettività in armonia con l'ambiente. Nel campo del turismo, è prevista la limitazione delle attività che danneggiano l'ambiente, anche attraverso l'istituzione di zone di rispetto.
Il settore dei trasporti è preso in considerazione con il fine di ridurre gli effetti ed i rischi derivanti dal traffico a livelli tollerabili per l'uomo, la fauna, la flora e il loro habitat, favorendo, se possibile, il trasferimento su rotaia dei trasporti di merci attraverso la realizzazione di infrastrutture adeguate. Per quanto riguarda l'energia, obiettivo della Convenzione è di ottenere forme di produzione, distribuzione e utilizzazione dell'energia compatibili con l'ambiente e di promuovere il risparmio energetico. Anche la raccolta, il riciclaggio ed il trattamento dei rifiuti dovranno avvenire in forme adeguate, favorendo la prevenzione e la produzione di rifiuti. I nove Protocolli alla Convenzione per la protezione delle Alpi sono stati aperti alla firma in momenti differenti. I Protocolli sono entrati in vigore per le parti contraenti che hanno espresso il proprio consenso ad essere vincolate ai singoli Protocolli a decorrere da tre mesi dopo il giorno in cui almeno tre Stati avevano depositato il proprio strumento di ratifica. Gli unici Stati a non avere ancora ratificato alcun Protocollo solo l'Italia e la Svizzera.
Nel corso dell'esame presso la Commissione di merito è emerso che la questione di maggiore problematicità era rappresentata dall'articolo 11 del Protocollo trasporti. Al riguardo, si segnala che, nel corso dell'esame del provvedimento al Senato, la 8a Commissione (Lavori pubblici, comunicazioni), nella seduta del 5 maggio 2009, ha fornito alla Commissione affari esteri un parere favorevole con un'osservazione volta ad auspicare che l'articolo 11, comma 1, del Protocollo Trasporti, che prevede il divieto di costruzione di nuove strade di grande comunicazione per il trasporto transalpino, venga interpretato Pag. 60nel senso che tale divieto non si applichi alle grandi opere stradali di interesse transnazionale.
La Commissione affari esteri ha quindi valutato di svolgere un ciclo di audizioni per approfondire la questione. Sono stati sentiti le rappresentanze associative dell'autotrasporto, il segretario generale della Convenzione delle Alpi, il presidente della Commissione internazionale per la protezione delle Alpi e il direttore generale per i trasporti terrestri della Commissione europea. Soprattutto dall'audizione delle associazioni dei trasportatori è emerso che il Protocollo, in quanto ispirato al principio di contenimento del traffico attraverso l'arco alpino, va contro gli interessi nazionali, in quanto non prevede disposizioni a favore della libera circolazione delle merci italiani e introduce ostacoli ai nostri flussi di traffico da e verso i principali mercati europei.
Si ritiene che nel Protocollo vi siano pesanti vincoli che rappresentano uno svantaggio per il nostro Paese, quali la procedura di consultazione sui progetti di realizzazione di infrastrutture nel territorio alpino, che pone l'Italia in posizione di minoranza, e l'impegno di non costruire nuove autostrade per il trasporto con origine e destinazione all'esterno del territorio alpino, che in sostanza implica un divieto di costruzione di autostrade che collegano l'Italia all'Europa.
Nel corso del seguito dell'esame, la Commissione affari esteri ha, quindi, approvato, nella seduta del 18 febbraio 2010, un emendamento che esclude, dalla procedura di ratifica, il Protocollo in materia di trasporti. Segnalo che tale modifica è stata valutata positivamente in ragione della delicatezza degli aspetti economici e ambientali che tale Protocollo riveste, nelle premesse dei pareri espressi sul presente disegno di legge da parte della Commissione ambiente e della Commissione parlamentare per le questioni regionali.
Il disegno di legge governativo di autorizzazione, che è stato approvato al Senato il 14 maggio, è stato esaminato congiuntamente alle due proposte di legge di ratifica dei Protocolli alla Convenzione delle Alpi, presentate dai colleghi Zeller ed altri (Atto Camera n.12) e Froner (Atto Camera n. 1298).
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.

PRESIDENTE. Onorevole Dozzo, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

Testo sostituito con errata corrige volante BARTOLOMEO GIACHINO, Sottosegretario di Stato per le infrastrutture e i trasporti. Signor Presidente, onorevoli deputati, condivido molte delle cose che sono state dette dal relatore in ordine alla firma della Convenzione delle Alpi, con questa esclusione, da parte italiana, del Protocollo trasporti. È già stato detto che il libro bianco sull'adattamento ai cambiamenti climatici, pubblicato dall'Unione europea nell'aprile 2009, mette in rilievo come l'arco alpino sarà una delle zone più colpite dal riscaldamento globale. I significativi cambiamenti, dovuti allo scioglimento delle nevi e dei ghiacciai, comporteranno il rischio di inondazioni in inverno e comprometteranno, inoltre, seriamente la funzione di serbatoio idrico che questi svolgono in estate. L'impatto negativo di tale situazione si ripercuoterà in tutti i settori, ambientali, economici e sociali, incluso il turismo invernale, una delle principali risorse economiche delle comunità alpine.
In tale contesto, a partire dal 1991, otto Paesi dell'arco alpino - Austria, Francia, Germania, Italia, Liechtenstein, Principato di Monaco, Slovenia e Svizzera - hanno sottoscritto la Convenzione internazionale per la protezione delle Alpi, entrata poi in vigore successivamente. Tale Convenzione prevede che le parti contraenti assicurino una politica globale per la conservazione e la protezione della Alpi, tenendo equamente conto degli interessi di tutti i Paesi alpini, delle loro regioni nonché dell'Unione europea.
Tra il 1994 e il 2000 sono stati sottoscritti otto Protocolli attuativi, che l'Italia Pag. 61non ha ancora ratificato. L'iter di ratifica del disegno di legge governativo per tali Protocolli è stato assai controverso sin dalla legislatura 2001-2006, quando un disegno di legge governativo era stato esaminato da entrambi i rami del Parlamento. Nel corso degli anni molti sono stati i tentativi di ratificare i Protocolli di attuazione della Convenzione delle Alpi che, come è noto, riveste una grandissima importanza in campo economico, ambientale e sociale, per l'arco alpino e per tutto il Paese.
Anche in questa legislatura vi è stato un lungo e approfondito esame del provvedimento, dapprima al Senato e, quindi, alla Camera che, al momento, ha espunto dal testo il Protocollo trasporti. Tale Protocollo, sottoscritto nel 2000, ed attualmente in vigore in Austria, Francia, Germania, Liechtenstein e Slovenia, riconosce che è necessario ottimizzare l'operatività e la competitività transnazionale dei vari mezzi di trasporto, rafforzando le reti di trasporto all'interno e all'esterno delle Alpi. Esso richiede, inoltre, alle parti di sostenere provvedimenti tesi a trasferire su rotaia, in particolare, il trasporto di merci di lunga distanza, nonché ad armonizzare maggiormente la perfezione per l'utilizzo delle infrastrutture di trasporto.
L'Italia riveste un ruolo di primo piano nell'ambito della Convenzione, sia come maggior contribuente sia come Paese ospite della sede distaccata, Bolzano, dove si trova il segretariato permanente, alla cui guida vi è attualmente un segretario generale, l'italiano Marco Onida, personalità di spicco nel settore degli studi in materia ambientale, nominato nel 2006 dalla Conferenza delle Parti e rinnovato sino alla fine del 2012.
La ratifica dei Protocolli da parte dell'Italia, nonostante sia stata al momento stralciata una parte importante come quella dei trasporti - e poi ne spiegherò i motivi -, è una grande opportunità per permettere di consolidare gli sforzi, finora intrapresi a livello internazionale, per assicurare al Paese un giusto ruolo di riferimento in questa Convenzione, ruolo che non può prescindere dalla considerazione dell'importanza dell'Italia in termini di territorio e popolazione, nonché dell'essere una delle due sedi del segretariato permanente della Convenzione e di avere un italiano come segretario generale.
Ricordo, infine, che nel biennio 2013-2014 la Presidenza della Convenzione passerà all'Italia. È pertanto auspicabile che, entro il 2012, si concluda l'iter di ratifica dei Protocolli in parola, che consentirà di assolvere agli impegni internazionali.
Si è stralciato il Protocollo trasporti per l'importanza specifica che riguarda il nostro Paese. Non sembri irriguardoso che un sottosegretario citi le problematiche italiane dei trasporti all'interno dell'Europa. Noi siamo sempre alla famosa intuizione di Cavour: quando Cavour disse che, per noi, le Alpi sono una protezione, ma rischiano di essere un fattore di esclusione, evidenziava, per primo, la situazione handicappata nella quale si trova il nostro Paese, che ha bisogno di attraversare le Alpi per esportare e per comunicare con il resto dell'Europa. Da questo punto di vista, il Protocollo trasporti, con le sue disposizioni, comporterebbe una cristallizzazione dello status quo nell'area alpina rispetto alle infrastrutture, che danneggerebbe i nostri trasporti, le nostre esportazioni ed il nostro lavoro. L'impostazione del Protocollo trasporti è improntata ad una penalizzazione del trasporto stradale, che non può essere accettata, soprattutto ora, in assenza della realizzazione delle grandi infrastrutture ferroviarie e dei grandi corridoi. Pertanto, è giustificato, da questo punto di vista, il parere favorevole del Governo sull'emendamento che ha escluso il Protocollo dei trasporti dalla Convenzione delle Alpi.
BARTOLOMEO GIACHINO, Sottosegretario di Stato per le infrastrutture e i trasporti. Signor Presidente, onorevoli deputati, condivido molte delle cose che sono state dette dal relatore in ordine alla firma della Convenzione delle Alpi, con questa esclusione, da parte italiana, del Protocollo trasporti. È già stato detto che il libro bianco sull'adattamento ai cambiamenti climatici, pubblicato dall'Unione europea nell'aprile 2009, mette in rilievo come l'arco alpino sarà una delle zone più colpite dal riscaldamento globale. I significativi cambiamenti, dovuti allo scioglimento delle nevi e dei ghiacciai, comporteranno il rischio di inondazioni in inverno e comprometteranno, inoltre, seriamente la funzione di serbatoio idrico che questi svolgono in estate. L'impatto negativo di tale situazione si ripercuoterà in tutti i settori, ambientali, economici e sociali, incluso il turismo invernale, una delle principali risorse economiche delle comunità alpine.
In tale contesto, a partire dal 1991, otto Paesi dell'arco alpino - Austria, Francia, Germania, Italia, Liechtenstein, Principato di Monaco, Slovenia e Svizzera - hanno sottoscritto la Convenzione internazionale per la protezione delle Alpi, entrata poi in vigore successivamente. Tale Convenzione prevede che le parti contraenti assicurino una politica globale per la conservazione e la protezione della Alpi, tenendo equamente conto degli interessi di tutti i Paesi alpini, delle loro regioni nonché dell'Unione europea.
Tra il 1994 e il 2000 sono stati sottoscritti otto Protocolli attuativi, che l'Italia Pag. 61non ha ancora ratificato. L'iter di ratifica del disegno di legge governativo per tali Protocolli è stato assai controverso sin dalla legislatura 2001-2006, quando un disegno di legge governativo era stato esaminato da entrambi i rami del Parlamento. Nel corso degli anni molti sono stati i tentativi di ratificare i Protocolli di attuazione della Convenzione delle Alpi che, come è noto, riveste una grandissima importanza in campo economico, ambientale e sociale, per l'arco alpino e per tutto il Paese.
Anche in questa legislatura vi è stato un lungo e approfondito esame del provvedimento, dapprima al Senato e, quindi, alla Camera che, al momento, ha espunto dal testo il Protocollo trasporti. Tale Protocollo, sottoscritto nel 2000, ed attualmente in vigore in Austria, Francia, Germania, Liechtenstein e Slovenia, riconosce che è necessario ottimizzare l'operatività e la competitività transnazionale dei vari mezzi di trasporto, rafforzando le reti di trasporto all'interno e all'esterno delle Alpi. Esso richiede, inoltre, alle parti di sostenere provvedimenti tesi a trasferire su rotaia, in particolare, il trasporto di merci di lunga distanza, nonché ad armonizzare maggiormente la perfezione per l'utilizzo delle infrastrutture di trasporto.
L'Italia riveste un ruolo di primo piano nell'ambito della Convenzione, sia come maggior contribuente sia come Paese ospite della sede distaccata, Bolzano, dove si trova il segretariato permanente, alla cui guida vi è attualmente un segretario generale, l'italiano Marco Onida, personalità di spicco nel settore degli studi in materia ambientale, nominato nel 2006 dalla Conferenza delle Parti e rinnovato sino alla fine del 2012.
La ratifica dei Protocolli da parte dell'Italia, nonostante sia stata al momento stralciata una parte importante come quella dei trasporti - e poi ne spiegherò i motivi -, è una grande opportunità per permettere di consolidare gli sforzi, finora intrapresi a livello internazionale, per assicurare al Paese un giusto ruolo di riferimento in questa Convenzione, ruolo che non può prescindere dalla considerazione dell'importanza dell'Italia in termini di territorio e popolazione, nonché dell'essere una delle due sedi del segretariato permanente della Convenzione e di avere un italiano come segretario generale.
Ricordo, infine, che nel biennio 2013-2014 la Presidenza della Convenzione passerà all'Italia. È pertanto auspicabile che, entro il 2012, si concluda l'iter di ratifica dei Protocolli in parola, che consentirà di assolvere agli impegni internazionali.
Si è stralciato il Protocollo trasporti per l'importanza specifica che riguarda il nostro Paese. Non sembri presunzione che un sottosegretario citi le problematiche italiane dei trasporti all'interno dell'Europa. Noi siamo sempre alla famosa intuizione di Cavour: quando Cavour disse che, per noi, le Alpi sono una protezione, ma rischiano di essere un fattore di esclusione, evidenziava, per primo, la situazione handicappata nella quale si trova il nostro Paese, che ha bisogno di attraversare le Alpi per esportare e per comunicare con il resto dell'Europa. Da questo punto di vista, il Protocollo trasporti, con le sue disposizioni, comporterebbe una cristallizzazione dello status quo nell'area alpina rispetto alle infrastrutture, che danneggerebbe i nostri trasporti, le nostre esportazioni ed il nostro lavoro. L'impostazione del Protocollo trasporti è improntata ad una penalizzazione del trasporto stradale, che non può essere accettata, soprattutto ora, in assenza della realizzazione delle grandi infrastrutture ferroviarie e dei grandi corridoi. Pertanto, è giustificato, da questo punto di vista, il parere favorevole del Governo sull'emendamento che ha escluso il Protocollo dei trasporti dalla Convenzione delle Alpi.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Froner. Ne ha facoltà.

LAURA FRONER. Signor Presidente, signor sottosegretario, onorevoli colleghi, la Convenzione delle Alpi è un Trattato internazionale stipulato tra gli otto Paesi dell'arco alpino e la Comunità europea con l'obiettivo di promuovere misure concordate, volte allo sviluppo sostenibile del Pag. 62territorio alpino, nonché alla tutela degli interessi economici, sociali ed ambientali delle popolazioni che vivono e lavorano in questo territorio.
Dopo la sottoscrizione della Convenzione quadro, avvenuta nel 1991, quindi ben venti anni fa, tra il 1994 ed il 2000 sono stati firmati otto Protocolli tematici. Essi sono in vigore dal 2002 in Germania, Austria e Liechtenstein, dal 2004 in Slovenia e dal 2005 in Francia. L'Unione europea ne ha finora ratificati quattro. Nel 2008 la Commissione europea, su iniziativa del commissario Tajani, ha proposto la ratifica del Protocollo trasporti, ratifica che è stata appoggiata anche dal Parlamento europeo.
Per quanto riguarda l'Italia, l'iter parlamentare di ratifica è stato più volte iniziato, ma - come è noto - nessuna legislatura è finora riuscita a portarlo a termine. L'attuale Governo ha proposto un disegno di legge volto a ratificare tutti i Protocolli. Tale disegno di legge è stato approvato dal Senato all'unanimità, nel maggio 2009, ma qui alla Camera sono sorte alcune difficoltà, che hanno portato la Commissione affari esteri, nella primavera del 2010, a votare a maggioranza a favore dello stralcio del Protocollo trasporti proposto, nello specifico, dai colleghi della Lega Nord. Lo stralcio di questo Protocollo sembrerebbe rispondere alle problematiche sollevate dalla categoria dell'autotrasporto sulla base della motivazione che la sua entrata in vigore potrebbe pregiudicare la possibilità di realizzare infrastrutture stradali sul territorio italiano.
In realtà, si tratta di una preoccupazione infondata e vorrei spiegarvi il perché. In primo luogo, la disposizione di cui all'articolo 11 del Protocollo trasporti non impedisce affatto che vengano realizzate infrastrutture stradali per migliorare le reti di trasporto in territorio italiano. Vi è una differenza normativa fondamentale tra transito transalpino ed intralpino. I progetti di ampliamento delle infrastrutture stradali nelle regioni alpine italiane sono di carattere intralpino e, come tali, verrebbero assoggettati alla seconda parte dell'articolo 11, che non contiene specifici divieti.
Per ricadere nel divieto di cui alla prima parte dell'articolo 11 occorrerebbe realizzare un'autostrada o una via di grande comunicazione stradale transalpina, cioè che oltrepassi la dorsale principale delle Alpi da un luogo di origine ad uno di destinazione posti all'esterno delle Alpi. Inoltre, poiché il Protocollo è già stato ratificato e attuato in tutti gli altri Paesi alpini, la possibilità di realizzare nuove autostrade per il transito transalpino è comunque preclusa indipendentemente dalla decisione di ratificare o meno il Protocollo in Italia.
In secondo luogo, il Protocollo trasporti è perfettamente in sintonia con il diritto e la politica comunitaria sui trasporti, che è una competenza comunitaria, come è stato opportunamente rilevato nella proposta della Commissione europea del 23 dicembre 2008, approvata su iniziativa del Commissario Tajani e già avallata dal Parlamento europeo. Cito: «La Commissione ritiene che ratificando il Protocollo di attuazione della Convenzione delle Alpi nell'ambito dei trasporti, la Comunità europea oltre ad adempiere agli obblighi che le incombono in virtù del diritto internazionale darà anche a tutte le parti contraenti un segnale politico forte circa il carattere prioritario da attribuire alla ratifica del Protocollo. Il Protocollo sui trasporti costituisce un quadro normativo fondato sui principi di precauzione, prevenzione e causalità volto a garanzie per tutti i modi di trasporto la mobilità sostenibile e la protezione dell'ambiente nella regione delle Alpi, secondo quanto previsto all'articolo 2 della Convenzione.
Le disposizioni contenute nel Protocollo sui trasporti sono in linea con la politica comune dei trasporti della Comunità e rispettano pienamente la strategia tesa a rendere i trasporti più ecologici adottata di recente. La ratifica del Protocollo sui trasporti rafforzerebbe la cooperazione transfrontaliera con la Svizzera, il Liechtenstein e il Principato di Monaco che non fanno parte dell'Unione europea; Pag. 63ciò consentirebbe di garantire che gli obiettivi della Comunità europea siano condivisi dai partner regionali e che le iniziative in questione siano estese all'intera regione alpina. È dunque opportuno che il presente Protocollo sia ratificato dalla Comunità europea».
In terzo luogo, il Protocollo è il risultato di un lungo e complesso negoziato al quale l'Italia ha validamente contribuito alla Conferenza delle Alpi di Lucerna nel 2000. Tutte le questioni relative alla ricerca di un equilibrio tra tutela dell'ambiente e del paesaggio ed accessibilità, mobilità e transito sono state approfonditamente valutate da un gruppo di lavoro a cui hanno partecipato i Ministeri dei trasporti di tutti i Paesi alpini.
In quarto luogo, con il Protocollo è stato istituito su proposta italiana un nuovo gruppo di lavoro che ad oggi risulta essere uno degli organi più efficaci della Convenzione delle Alpi. Da questo gruppo di lavoro è scaturita la prima relazione sullo stato delle Alpi su trasporti e mobilità, il documento scientifico di riferimento su scala internazionale su questo tema.
In quinto luogo, il Protocollo trasporti va visto in modo complessivo e alla luce delle nuove misure sia legislative che finanziarie, rispetto ad alcune infrastrutture, di derivazione comunitaria. Esso punta a rafforzare il trasferimento del trasporto su mezzi alternativi alla gomma, specialmente su rotaia - compresi i corridoi TEN - in piena coerenza con la politica comunitaria.
Recentemente la ratifica da parte dell'Italia è stata invocata anche dal coordinatore del Corridoio 1, Pat Cox, in quanto faciliterebbe l'attuazione delle misure di accompagnamento volte a realizzare nei tempi previsti il tunnel di base del Brennero. Inoltre il Protocollo trasporti va visto in un sistema di protocolli che riguardano altri settori, tutte misure pensate per accrescere e non per penalizzare la competitività dei territori di montagna. Una migliore mobilità può infatti favorire più turismo e quindi può portare più ricchezza per i territori.
Occorre ancora ricordare che la Convenzione delle Alpi ed i suoi Protocolli hanno un'importanza strategica per l'Italia, dal momento che, come è già stato detto anche dal relatore, l'Italia è il Paese che conta il maggior numero di abitanti nell'arco alpino ed assieme all'Austria ha la superficie più estesa. La ratifica da parte dell'Italia è attesa da anni ed è necessaria non solo per rispettare gli obblighi internazionali assunti, ma anche perché rafforzerebbe la posizione politica del nostro Paese nell'ambito della Convenzione e la sua credibilità. I protocolli non vanno intesi come strumenti di vincolo, ma come opportunità. La loro attuazione non fa impoverire un territorio, ma lo rende più competitivo e in ultima istanza più ricco.
La ratifica in tempi rapidi, tra virgolette, di tutti i Protocolli della Convenzione delle Alpi gioverebbe al nostro Paese ed un quadro giuridico certo sarebbe di beneficio a tutte le categorie, compresa quella degli autotrasportatori. Per fare un passo avanti rispetto alla situazione di stallo in cui ci troviamo da almeno un anno a questa parte, vorrei ricordare che, all'atto della ratifica, anche la Francia aveva sollevato la questione degli effetti della ratifica del Protocollo trasporti e, per questo motivo, aveva ratificato il Protocollo, ma aveva legato allo strumento di ratifica una dichiarazione interpretativa. Una simile soluzione potrebbe benissimo essere applicata anche in Italia. Ecco quindi che mi permetto di proporre ai colleghi della maggioranza, in particolare a quelli della Lega, di ritornare sulla loro decisione e di accettare l'emendamento che presenteremo per ricomprendere il Protocollo trasporti nei Protocolli di attuazione da sottoporre alla ratifica, allegando invece una proposta di dichiarazione interpretativa e/o un ordine del giorno unitario ad hoc.
Mi spiego più chiaramente: tenuto conto che il Protocollo trasporti, nella prima parte dell'articolo 11, prevede un limite alla realizzazione dei soli nuovi assi stradali di grande comunicazione transalpini, cioè quelli che attraversano la dorsale centrale alpina da parte a parte, chiarito Pag. 64che questa disposizione non pregiudica di per sé la possibilità di realizzare assi stradali sul territorio italiano né quella di realizzare le necessarie infrastrutture stradali considerate strategiche, come nel caso del Veneto, per mantenere la competitività del Paese, a mio parere, la questione potrebbe essere risolta allegando allo strumento di ratifica una dichiarazione interpretativa, nella quale si espliciti che, con riferimento all'articolo 11 del presente Protocollo, le disposizioni di questo articolo, relative alle strade di grande comunicazione, non sono applicabili ai progetti di vie di grande comunicazione stradale realizzati sul territorio italiano e che non attraversano la dorsale alpina centrale. Pertanto, tali disposizioni non pregiudicano la possibilità di realizzare progetti stradali di grande comunicazione sul territorio italiano, comprese le infrastrutture necessarie per lo sviluppo degli scambi commerciali con i Paesi situati a nord dell'arco alpino.
In alternativa o in aggiunta si potrebbe, come dicevo, proporre un ordine del giorno unitario, che impegni il Governo ad adottare, nel rispetto del Protocollo trasporti e della Convenzione delle Alpi, tutte le iniziative necessarie ad agevolare la movimentazione della merce da e per l'Italia, a realizzare le opere di viabilità intralpine indispensabili per assicurare i collegamenti e gli scambi commerciali sia interni sia internazionali.
Penso che a questo punto il nostro pensiero sia chiaro e mi rivolgo ancora una volta al relatore e alla maggioranza. Nelle ultime settimane, il Ministro dei trasporti austriaco ha lasciato intendere di voler aumentare sensibilmente i pedaggi sul tratto austriaco dell'autostrada Venezia-Monaco, suscitando la giustificata preoccupazione delle aziende italiane che si occupano di autotrasporto. Un'iniziativa di questo tipo dovrebbe essere attentamente valutata e sottoposta all'attenzione delle autorità comunitarie e proprio la cooperazione e la ricerca di soluzioni condivise su problematiche e questioni comuni o transfrontaliere sono alla base della Convenzione delle Alpi, una Convenzione che prevede che le parti contraenti assicurino una politica globale per la conservazione e la protezione delle Alpi, tenendo equamente conto degli interessi di tutti Paesi alpini, delle loro regioni e dell'Unione europea.
È una Convenzione che, nel preambolo del Protocollo trasporti, come dicevo attualmente in vigore in Austria, Francia, Germania, Liechtenstein e Slovenia, riconosce non solo che è necessario ottimizzare l'operatività e la compatibilità transnazionale dei vari mezzi di trasporto, rafforzando le reti di trasporto all'interno e all'esterno delle Alpi, ma anche che determinati problemi possono essere risolti soltanto sul piano transfrontaliero e richiedono misure comuni agli Stati alpini. Perché non provate, quindi, a valutare i vantaggi che potrebbero derivare dalla ratifica della Convenzione internazionale per la protezione delle Alpi con tutti i suoi Protocolli, compreso quello trasporti? È sedendo ai tavoli e non chiamandosi fuori che si possono influenzare le regole e fare valere al meglio le posizioni del nostro Paese e delle aziende italiane. È ratificando, quindi, il Protocollo trasporti che si possono promuovere ed attuare misure concertate, rafforzando le possibilità per l'Italia di contrastare l'adozione di misure unilaterali (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Favia. Ne ha facoltà.

DAVID FAVIA. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, come sappiamo, l'Italia ha ratificato nel 1999 la Convenzione internazionale per la protezione delle Alpi che era stata firmata otto anni prima a Salisburgo. Tale Convenzione reca il riconoscimento tra Austria, Francia, Germania, Italia, Liechtenstein, Principato di Monaco, Slovenia e Svizzera dell'arco alpino come una vasta area unitaria che, per le sue particolari caratteristiche ambientali e culturali, richiede interventi concertati a livello sovranazionale. Pag. 65
Insieme alla Svizzera, siamo, anzi eravamo, perché anche la Svizzera ha provveduto, l'unico tra i Paesi che hanno ratificato la Convenzione a non avere ancora ratificato e dato esecuzione ai Protocolli di attuazione della stessa, oggetto di uno dei punti oggi al nostro esame. Ciò appare, certamente, un po' paradossale considerando che l'Italia è proprio la nazione che vanta la più ampia superficie del territorio alpino in questione.
Questo provvedimento colma davvero una lacuna e pone le premesse per un approccio finalmente globale, organico, coordinato e sovranazionale al governo di una delle più preziose ecoregioni non solo d'Europa, ma del mondo intero, dal punto di vista della ricchezza delle diversità biologiche e anche del valore e dell'importanza in termini paesaggistici.
La Convenzione tende alla salvaguardia dell'ecosistema delle Alpi nell'ambito e in applicazione di principi come lo sviluppo sostenibile e la tutela degli interessi economici delle popolazioni residenti. Essa individua ben dodici settori sui quali tale cooperazione tra gli Stati dovrà enuclearsi; la pianificazione del territorio, la difesa del suolo e del paesaggio, il turismo, lo studio dei trasporti, l'uso dell'energia ed i rifiuti sono i punti salienti, ovvero i Protocolli su cui gli organi previsti dalla suddetta Convenzione dovranno confrontarsi e porre in essere atti concreti, con gli aiuti dei Ministeri dell'ambiente di ogni singolo Paese, al fine di tutelare lo spettacolare ecosistema rappresentato dalla catena alpina. Su questi passaggi il relatore è stato già sufficientemente esaustivo.
La Convenzione prevede, inoltre, l'istituzione della Conferenza delle Parti contraenti e, al suo interno, un Comitato permanente che, di fatto, sarà l'organo esecutivo ristretto. Spero che la previsione della convocazione di tale Conferenza solo una volta ogni due anni non risulti insufficiente a sortire gli effetti sperati o, addirittura, causa di nocumenti a chi, in quella zona stupenda del continente, vive, lavora e si adopera da sempre per il corretto sfruttamento del territorio.
Nel suo passaggio alla Camera, dopo essere stato approvato al Senato, anche al fine di chiarire la compatibilità del Protocollo trasporti con la rete dei Corridoi europei, si è proceduto a svolgere in III Commissione accurati approfondimenti istruttori per verificare l'impatto dell'attuazione dei protocolli annessi alla Convenzione sui diversi comparti economici, con particolare riferimento a quelli in materia di trasporti, attraverso audizioni del direttore generale dei trasporti terrestri della Commissione europea, Enrico Grillo Pasquarelli, del segretario generale della Convenzione internazionale per la protezione delle Alpi, Marco Onida, del presidente della Commissione internazionale delle Alpi, Oscar Del Barba, e di rappresentanti di associazioni ambientaliste e associazioni di categoria dell'autotrasporto.
Le audizioni hanno in qualche modo contribuito a fare chiarezza sulle perplessità emerse all'inizio, facendo venire meno le ragioni e le argomentazioni che avevano impedito finora la ratifica del Protocollo. Tuttavia, inopinatamente, la Commissione ha approvato l'emendamento 1.1 del collega della Lega Pini, volto a sopprimere la lettera i) del comma 1 dell'articolo 1, vale a dire l'esclusione della procedura di ratifica del Protocollo allegato alla Convenzione Alpi in materia di trasporti.
Purtroppo, il lunghissimo iter del provvedimento si trascina da molte legislature tra i due rami del Parlamento e si può anche parlare di un balletto stucchevole. Il Protocollo relativo ai trasporti una prima volta era stato escluso dal Senato, mentre in questa legislatura alla Camera era stato reintrodotto e l'ennesimo cambio di direzione non depone certamente a favore del prestigio dell'Italia. Ci auguriamo che nel dibattito in Aula possa essere fatta ulteriore chiarezza ed eventualmente recuperata questa parte che è stata espunta dalla procedura di ratifica.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

Pag. 66

(Repliche del relatore e del Governo - A.C. 2451-A).

PRESIDENTE. Prendo atto che il relatore ed il rappresentante del Governo rinunciano alla replica.
Il seguito del dibattito è quindi rinviato ad altra seduta.

Annunzio della Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza 2011 (ore 19,03).

PRESIDENTE. Con lettera del Presidente del Consiglio dei ministri e del Ministro dell'economia e delle finanze, in data 23 settembre 2011, è stata trasmessa, ai sensi degli articoli 7, comma 2, lettera b), e 10-bis della legge 31 dicembre 2009, n. 196, e successive modificazioni, la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza 2011.
Alla Nota sono allegate le relazioni sulle spese di investimento e sulle relative leggi pluriennali, previste dal predetto articolo 10-bis.
La Nota di aggiornamento e l'ulteriore documentazione richiamata sono state trasmesse alla V Commissione (Bilancio) e, per il parere, a tutte le altre Commissioni permanenti e alla Commissione parlamentare per le questioni regionali.

Annunzio di una informativa urgente del Governo (ore 19,04).

PRESIDENTE. Avverto che all'ordine del giorno della seduta di domani, martedì 27 settembre 2011, sarà iscritto lo svolgimento di un'informativa urgente del Governo sull'evasione del boss Antonio Pelle dall'ospedale di Locri.

Ordine del giorno della seduta di domani.

PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani.

Martedì 27 settembre 2011, alle 11,30:

1. - Svolgimento di una interpellanza e di interrogazioni.

(ore 12,30).

2. - Informativa urgente del Governo sull'evasione del boss Antonio Pelle dall'ospedale di Locri.

(ore 15).

3. - Seguito della discussione del disegno di legge:
Delega al Governo per il riassetto della normativa in materia di sperimentazione clinica e per la riforma degli ordini delle professioni sanitarie, nonché disposizioni in materia sanitaria (C. 4274-A).
- Relatore: De Nichilo Rizzoli.

4. - Seguito della discussione delle mozioni Di Pietro ed altri n. 1-00391, Tempestini ed altri n. 1-00621, Pezzotta ed altri n. 1-00623, Antonione, Dozzo, Sardelli ed altri n. 1-00625, Pisicchio ed altri n. 1-00629 e Di Biagio e Della Vedova n. 1-00712 concernenti iniziative per garantire la trasparenza delle informazioni relative all'aiuto pubblico allo sviluppo concernenti iniziative per garantire la trasparenza delle informazioni relative all'aiuto pubblico allo sviluppo.

5. - Seguito della discussione del testo unificato delle proposte di legge:
BITONCI ed altri; CERONI ed altri; VANNUCCI ed altri: Disposizioni concernenti la ripartizione della quota dell'otto per mille dell'imposta sul reddito delle persone fisiche devoluta alla diretta gestione statale (C. 3261-3263-3299-A).
Relatore: Ceroni.

6. - Seguito della discussione delle mozioni Garavini ed altri n. 1-00655, Di Biagio ed altri n. 1-00663 e Zacchera ed altri n. 1-00672 concernenti iniziative relative Pag. 67alle procedure per il voto degli italiani all'estero, alla luce delle vicende delle ultime consultazioni referendarie.

7. - Seguito della discussione del disegno di legge (previo esame e votazione delle questioni pregiudiziali di costituzionalità e della questione pregiudiziale di merito presentate):
Norme in materia di intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali. Modifica della disciplina in materia di astensione del giudice e degli atti di indagine. Integrazione della disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche (Approvato dalla Camera e modificato dal Senato) (C. 1415-C).
- Relatore: Bongiorno.

8. - Seguito della discussione della proposta di legge:
VIETTI e RAO: Disposizioni in materia di attribuzione delle funzioni ai magistrati ordinari al termine del tirocinio (C. 2984-A).
e delle abbinate proposte di legge: FERRANTI ed altri; PALOMBA (C. 3046-4619).
- Relatore: Rao.

9. - Seguito della discussione del disegno di legge costituzionale:
Modifiche agli articoli 41, 45, 97 e 118, comma quarto, della Costituzione (C. 4144-A).
e delle abbinate proposte di legge costituzionali: VIGNALI ed altri; VIGNALI ed altri; BELTRANDI ed altri; MANTINI ed altri (C. 3039-3054-3967-4328).
- Relatore: Bruno.

10. - Seguito della discussione del disegno di legge:
S. 1474 - Ratifica ed esecuzione dei Protocolli di attuazione della Convenzione internazionale per la protezione delle Alpi con annessi, fatta a Salisburgo il 7 novembre 1991 (Approvato dal Senato) (C. 2451-A).
e delle abbinate proposte di legge: ZELLER ed altri; FRONER (C. 12-1298).
- Relatore: Dozzo.

La seduta termina alle 19,05.

TESTO INTEGRALE DELLA RELAZIONE DEL DEPUTATO GIANPAOLO DOZZO IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE LINEE GENERALI DEL DISEGNO DI LEGGE DI RATIFICA N. 2451.

GIANPAOLO DOZZO. La Convenzione per la protezione delle Alpi è finalizzata a garantire una strategia globale per la conservazione delle Alpi, che costituiscono uno dei principali spazi naturali d'Europa, e habitat di molte specie animali e vegetali. È stata firmata a Salisburgo nel 1991 da sei paesi dell'arco alpino (Austria, Svizzera, Francia, Germania, Italia e Liechtenstein), nonché da un rappresentante della Commissione europea, e successivamente dalla Slovenia e dal Principato di Monaco. La ratifica della Convenzione da parte italiana è avvenuta con la legge 14 ottobre 1999, n. 403, e la Convenzione è entrata in applicazione per il nostro Paese il 27 marzo 2000.
La Convenzione, che si configura come un accordo-quadro, fissa gli obiettivi per una corretta politica ambientale, per la salvaguardia delle popolazioni e delle culture locali e per l'armonizzazione tra gli interessi economici e la tutela del delicato ecosistema alpino, stabilendo i criteri cui dovrà ispirarsi la cooperazione fra i paesi interessati, in ottemperanza ai principi della prevenzione, della cooperazione e della responsabilità di chi causa danni ambientali. A tali fini, le Parti si impegnano ad assumere misure adeguate, anche attraverso la successiva adozione di specifici Protocolli - dei quali appunto con il provvedimento in esame si chiede Pag. 68l'autorizzazione alla ratifica - come viene specificato nell'articolo 2 della Convenzione medesima.
Numerosi i settori nei quali le Parti si sono impegnate a collaborare nella direzione della messa in atto di una politica globale che garantisca la conservazione e la protezione dell'area alpina. La conservazione dell'equilibrio ambientale è considerata strettamente connessa al mantenimento della popolazione residente nelle forme tradizionali di insediamento; a tal fine la Convenzione impone la garanzia delle necessarie infrastrutture nonché le condizioni economiche che evitino il progressivo spopolamento delle aree alpine, anche attraverso la pianificazione territoriale.
La Convenzione si pone altresì l'obiettivo di promuovere e salvaguardare l'agricoltura di montagna e la silvicoltura, al fine di assicurare l'interesse della collettività in armonia con l'ambiente. Nel campo del turismo, è prevista la limitazione delle attività che danneggiano l'ambiente, anche attraverso l'istituzione di zone di rispetto.
Il settore dei trasporti è preso in considerazione con il fine di ridurre gli effetti ed i rischi derivanti dal traffico a livelli tollerabili per l'uomo, la fauna, la flora ed il loro habitat, favorendo se possibile il trasferimento su rotaia dei trasporti di merci, attraverso la realizzazione di infrastrutture adeguate.
Per quanto riguarda l'energia, obiettivo della Convenzione è di ottenere forme di produzione, distribuzione ed utilizzazione dell'energia compatibili con l'ambiente, e di promuovere il risparmio energetico. Anche la raccolta, il riciclaggio ed il trattamento dei rifiuti dovranno avvenire in forme adeguate, favorendo la prevenzione nella produzione di rifiuti.
I nove Protocolli alla Convenzione per la protezione delle Alpi sono stati aperti alla firma in momenti differenti; i Protocolli sono entrati in vigore per le Parti contraenti che hanno espresso il proprio consenso ad essere vincolate ai singoli Protocolli a decorrere da tre mesi dopo il giorno in cui almeno tre Stati avevano depositato il proprio strumento di ratifica.
Gli unici Stati a non avere ancora ratificato alcun Protocollo sono l'Italia e la Svizzera.
I tre Protocolli sulla pianificazione territoriale e lo sviluppo sostenibile, sulla protezione della natura e del paesaggio e sull'agricoltura di montagna sono stati aperti alla firma il 20 dicembre 1994, nel corso della III Conferenza delle Alpi di Chambéry (Francia).
Il Protocollo nell'ambito della pianificazione territoriale e dello sviluppo sostenibile prevede l'elaborazione di diversi strumenti di pianificazione a livello locale, capaci di combinare gli aspetti dello sviluppo con il rispetto e la valorizzazione dell'ambiente, consentendo uno sviluppo regionale che offra serie opportunità di lavoro alle popolazioni interessate.
L'obiettivo principale del Protocollo sulla protezione della natura e tutela del paesaggio consiste nello stabilire norme internazionali volte a proteggere, curare e ripristinare, se necessario, la natura e il paesaggio nel territorio alpino, in modo da assicurare: l'efficienza funzionale degli ecosistemi; la conservazione degli elementi paesaggistici e delle specie animali e vegetali selvatiche insieme ai loro habitat naturali; la capacità rigenerativa e la produttività delle risorse naturali; la diversità, la peculiarità e la bellezza del paesaggio naturale e rurale.
Il Protocollo sull'agricoltura di montagna prevede principalmente di incentivare l'agricoltura di montagna, considerando le peculiari condizioni delle zone montane nell'ambito della pianificazione territoriale, della destinazione delle aree, del riordinamento e del miglioramento fondiario, nel rispetto del paesaggio naturale e rurale.
Il Protocollo sulle foreste montane è stato aperto alla firma il 27 febbraio 1996, nel corso della IV Conferenza delle Alpi di Brdo (Slovenia) e non risulta firmato dalla sola Unione europea. Esso contempla in generale la predisposizione delle strutture di base per la pianificazione forestale, mantenendo le funzioni protettive delle foreste di alta quota e la loro rilevanza dal punto di vista economico ed ecologico. Nel Pag. 69Protocollo sulle foreste montane le Parti contraenti si impegnano a istituire riserve forestali naturali in numero ed estensione sufficienti, nonché ad apprestare gli strumenti di finanziamento delle misure di incentivazione e compensazione.
I Protocolli sull'energia, la difesa del suolo e il turismo sono stati aperti alla firma il 16 ottobre 1998, nel corso dei lavori della V Conferenza delle Alpi svoltasi a Bled (Slovenia). Anche questi tre Protocolli non risultano firmati dall'Unione europea.
Il Protocollo sull'energia ha l'obiettivo di migliorare la compatibilità ambientale dell'utilizzo dell'energia nell'arco alpino, anche mediante i risparmi ottenuti con l'utilizzazione razionale dell'energia. La preferenza viene accordata alle fonti energetiche rinnovabili, e in zona alpina questo significa anzitutto agli impianti idroelettrici: questi però devono rispettare la funzione ambientale dei corsi d'acqua e l'integrità del paesaggio, consentendo a fiumi e torrenti la conservazione di flussi idrici minimi, come verranno definiti, ed evitando comunque eccessive oscillazioni nel livello delle acque, anche in funzione delle possibilità migratorie della fauna.
Il Protocollo sulla difesa del suolo prevede anzitutto che i terreni meritevoli di protezione vengano inclusi nelle aree protette, vista l'indubbia rilevanza ambientale della loro buona conservazione. In generale il Protocollo raccomanda un uso contenuto del terreno e del suolo, nonché delle risorse minerarie e delle attività estrattive.
Il Protocollo sul turismo persegue l'obiettivo generale di contribuire ad uno sviluppo sostenibile del territorio alpino grazie ad un turismo rispettoso dell'ambiente, impegnando le Parti ad adottare specifici provvedimenti e raccomandazioni che non trascurino gli interessi né della popolazione locale né dei turisti. Le Parti contraenti intendono inoltre promuovere una maggiore cooperazione a livello internazionale tra le rispettive istituzioni competenti, dando particolare rilievo alla valorizzazione delle aree di confine e coordinando le attività turistiche e ricreative che tutelino l'ambiente.
Il Protocollo sulla composizione delle controversie ha il compito di colmare una lacuna della Convenzione base, che in effetti non ha previsto particolari meccanismi in caso di divergenti interpretazioni, fra le Parti, delle disposizioni di essa o dei Protocolli successivi.
Il Protocollo sui trasporti, le cui trattative sono iniziate nel 1994, ha presentato particolari difficoltà nella messa a punto del testo, in considerazione della delicatezza degli aspetti economici e ambientali che esso riveste, concernendo una regione di passaggio come quella alpina.
Il Protocollo mira a un coordinamento dello sviluppo integrato dei sistemi di trasporto transfrontalieri nell'arco alpino; un particolare rilievo assume lo sviluppo del trasporto intermodale. Un'altra preoccupazione del Protocollo è la realizzazione di opere di protezione delle vie di trasporto contro i rischi naturali, speculare a quella della tutela dell'ambiente naturale e umano dall'impatto dei trasporti.
Nei trasporti pubblici si prevede anzitutto il potenziamento di sistemi di trasporto eco-compatibili: pertanto le strutture e le infrastrutture ferroviarie devono essere migliorate intorno a grandi progetti transalpini, che oltre agli assi principali terranno nel debito conto anche gli altri punti della rete e i vari terminali. I trasporti pubblici debbono comunque essere privilegiati per i collegamenti con le numerosissime stazioni turistiche della regione alpina, e si contempla anche la creazione di zone a bassa intensità di traffico o perfino vietate al traffico.
In materia di trasporti stradali, l'articolo 11 del Protocollo fissa l'impegno delle parti contraenti ad astenersi dalla costruzione di strade di grande comunicazione per il trasporto transalpino, mentre solo in ben precise condizioni è consentita quella per il trasporto tra zone diverse dell'arco alpino.
Come riportato nella relazione illustrativa che accompagna il disegno di legge originario (A.S. 1474), in occasione della Pag. 70discussione svoltasi in sede comunitaria, il Governo italiano ha ottenuto che la sottoscrizione della Convenzione fosse accompagnata da una dichiarazione interpretativa mirante a chiarire la portata degli articoli 8 (Valutazione di progetti e procedura di consultazione interstatale) ed 11 (Trasporto su strada). In quella sede il Consiglio e la Commissione europea hanno confermato che il contenuto del Protocollo sui trasporti è conforme all'acquis comunitario e non impone alcun obbligo giuridico supplementare.
Nel corso dell'esame presso la Commissione di merito è emerso che la questione di maggior problematicità era rappresentata dall'articolo 11 del Protocollo Trasporti.
Al riguardo si segnala che, nel corso dell'esame del provvedimento al Senato, la Commissione 8a (Lavori pubblici, comunicazioni), nella seduta del 5 maggio 2009, ha fornito alla Commissione esteri un parere favorevole con un'osservazione volta ad auspicare che l'articolo 11, comma 1, del Protocollo trasporti - che prevede il divieto di costruzione di nuove strade di grande comunicazione per il trasporto transalpino - venga interpretato nel senso che tale divieto non si applichi alle grandi opere stradali di interesse transnazionale.
La Commissione esteri ha quindi valutato di svolgere un ciclo di audizioni per approfondire la questione. Sono stati sentiti le rappresentanze associative dell'autotrasporto, il Segretario generale della Convenzione delle Alpi, il Presidente della Commissione internazionale per la protezione delle Alpi e il Direttore generale per i trasporti terrestri della Commissione europea.
Soprattutto dall'audizione delle associazioni dei trasportatori è emerso che il Protocollo, in quanto ispirato al principio di contenimento del traffico attraverso l'arco alpino, va contro gli interessi nazionali, in quanto non prevede disposizioni a favore della libera circolazione delle merci italiane e introduce ostacoli ai nostri flussi di traffico da e verso i principali mercati europei. Si ritiene che nel Protocollo vi siano pesanti vincoli che rappresentano uno svantaggio per il nostro Paese, quali la procedura di consultazione sui progetti di realizzazione delle infrastrutture nel territorio alpino, che pone l'Italia in posizione di minoranza, e l'impegno di non costruire nuove autostrade per il trasporto con origine e destinazione all'esterno del territorio alpino, che, in sostanza, implica un divieto di costruire autostrade che colleghino l'Italia all'Europa.
Nel corso del seguito dell'esame la Commissione esteri ha, quindi, approvato, nella seduta del 18 febbraio 2010, un emendamento (1.1 presentato dall'onorevole Pini) che esclude dalla procedura di ratifica il Protocollo in materia di trasporti. Segnalo che tale modifica è stata valutata positivamente, in ragione della delicatezza degli aspetti economici e ambientali che tale Protocollo riveste, nelle premesse dei pareri espressi sul presente disegno di legge da parte della Commissione ambiente e della Commissione parlamentare per le questioni regionali.
Il disegno di legge governativo di autorizzazione alla ratifica dei Protocolli alla Convenzione delle Alpi (A.C. 2451), approvato dal Senato il 14 maggio scorso, è stato esaminato congiuntamente a due proposte di legge di ratifica dei Protocolli alla Convenzione delle Alpi, presentate dai colleghi Zeller ed altri (A.C. 12) e Froner (A.C. 1298).
I commi 1 e 2 dell'articolo 1 del provvedimento al nostro esame autorizzano, rispettivamente, la ratifica e l'esecuzione dei Protocolli alla Convenzione delle Alpi analiticamente elencati al comma 1 medesimo.
Il comma 3 stabilisce che lo Stato, le regioni e gli enti locali adotteranno gli atti e le misure previsti dai Protocolli di cui si autorizza la ratifica, mantenendo fermo quanto disposto dall'articolo 3 della legge 14 ottobre 1999, n. 403, circa le attribuzioni della Consulta Stato-regioni dell'Arco alpino. Mediante delibere della Conferenza Unificata Stato-Regioni, Città e Autonomie Locali, di cui all'articolo 8 del Decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono Pag. 71stati disciplinati i rapporti e il coordinamento tra la Consulta Stato-regioni dell'Arco alpino e la Conferenza Unificata.
La Consulta - alla quale è demandato il compito di individuare le strutture amministrative locali che dovranno attuare la Convenzione e i Protocolli specifici - viene convocata periodicamente dalla Conferenza Stato-regioni. Alla Consulta Stato-regioni dell'arco alpino dovranno essere sottoposti i Protocolli, nella fase di negoziazione, prima della loro approvazione in sede internazionale.
L'articolo 2 quantifica l'onere del provvedimento, valutato in 445.000 euro per l'anno 2009 e individua la relativa copertura finanziaria nel bilancio 2009-2011 nell'ambito del programma «Fondi di riserva e speciali» della missione «Fondi da ripartire» dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2009, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento relativo al Ministero degli affari esteri.
L'articolo 3, infine, dispone l'entrata in vigore della legge per il giorno successivo a quello della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.