Camera dei deputati

Vai al contenuto

Sezione di navigazione

Menu di ausilio alla navigazione

Cerca nel sito

MENU DI NAVIGAZIONE PRINCIPALE

Vai al contenuto

Per visualizzare il contenuto multimediale è necessario installare il Flash Player Adobe e abilitare il javascript

Resoconto dell'Assemblea

Vai all'elenco delle sedute >>

XVI LEGISLATURA

Allegato A

Seduta di martedì 28 febbraio 2012

COMUNICAZIONI

Missioni valevoli nella seduta del 28 febbraio 2012.

Albonetti, Alessandri, Allasia, Amici, Antonione, Berardi, Bindi, Bongiorno, Brugger, Bucchino, Buonfiglio, Caparini, Carfagna, Centemero, Cicchitto, Cirielli, Colucci, Commercio, Gianfranco Conte, D'Alema, Dal Lago, Della Vedova, Donadi, Dozzo, Fallica, Fava, Gregorio Fontana, Franceschini, Giancarlo Giorgetti, Iannaccone, Jannone, Leone, Lombardo, Lucà, Lupi, Lussana, Mazzocchi, Melchiorre, Ricardo Antonio Merlo, Migliavacca, Milanato, Misiti, Moffa, Mura, Mussolini, Osvaldo Napoli, Narducci, Nucara, Leoluca Orlando, Picchi, Pisicchio, Razzi, Paolo Russo, Stefani, Stucchi, Valducci.

(Alla ripresa pomeridiana della seduta).

Albonetti, Alessandri, Allasia, Amici, Antonione, Berardi, Bindi, Bongiorno, Brugger, Bucchino, Buonfiglio, Buttiglione, Caparini, Carfagna, Casini, Centemero, Cicchitto, Cirielli, Colucci, Commercio, Gianfranco Conte, D'Alema, Dal Lago, Della Vedova, Donadi, Dozzo, Fallica, Fava, Gregorio Fontana, Franceschini, Giancarlo Giorgetti, Iannaccone, Jannone, Leone, Lombardo, Lucà, Lupi, Lussana, Mazzocchi, Melchiorre, Ricardo Antonio Merlo, Migliavacca, Migliori, Milanato, Misiti, Moffa, Mura, Mussolini, Osvaldo Napoli, Narducci, Nucara, Leoluca Orlando, Picchi, Pisicchio, Razzi, Paolo Russo, Stefani, Stucchi, Valducci.

Annunzio di proposte di legge.

In data 27 febbraio 2012 sono state presentate alla Presidenza le seguenti proposte di legge d'iniziativa dei deputati:
GALLI: «Divieto di propaganda pubblicitaria del gioco d'azzardo, disciplina degli obblighi di informazione e disposizioni in materia di gioco d'azzardo patologico» (5002);
DI PIETRO e ZAZZERA: «Disposizioni per il sostegno della produzione musicale» (5003);
FERRANTI: «Modifiche alla legge 13 aprile 1988, n. 117, in materia di responsabilità civile dei magistrati» (5004).

Saranno stampate e distribuite.

Assegnazione di progetti di legge a Commissioni in sede referente.

A norma del comma 1 dell'articolo 72 del regolamento, i seguenti progetti di legge sono assegnati, in sede referente, alle sottoindicate Commissioni permanenti:

I Commissione (Affari costituzionali):
CASINI ed altri: «Disciplina dei partiti politici, in attuazione dell'articolo 49 della Costituzione, e disposizioni per la democrazia interna e la trasparenza della gestione finanziaria dei medesimi» (4956) Parere delle Commissioni II, V, VI e VII.

III Commissione (Affari esteri):
«Ratifica ed esecuzione della Convenzione sul diritto relativo alle utilizzazioni dei corsi d'acqua internazionali per scopi diversi dalla navigazione, con annesso, fatta a New York il 21 maggio 1997» (4975) Parere delle Commissioni I, II, IV, V, VIII e XII.

VII Commissione (Cultura):
PISICCHIO e GIULIETTI: «Introduzione dell'articolo 65-bis della legge 3 febbraio 1963, n. 69, concernente l'istituzione del Giurì per la correttezza dell'informazione» (4941) Parere delle Commissioni I, II (ex articolo 73, comma 1-bis, del regolamento), V e IX.

Commissioni riunite VI (Finanze) e VIII (Ambiente):
MARIANI ed altri: «Disciplina dell'emissione di obbligazioni destinate alla costituzione di fondi per il finanziamento di interventi di salvaguardia, tutela e recupero dell'ambiente nonché di interventi ecocompatibili, e delega al Governo per l'adozione di misure di incentivo in favore delle imprese operanti nelle attività di tutela dell'ambiente» (4932) Parere delle Commissioni I, II (ex articolo 73, comma 1-bis, del regolamento, per le disposizioni in materia di sanzioni), V, X e XIV.

Trasmissione dal Consiglio di Stato.

Il presidente del Consiglio di Stato, con lettera in data 27 febbraio 2012, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 53-bis, comma 1, della legge 27 aprile 1982, n. 186, il bilancio autonomo di previsione per l'anno 2012 del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali.

Questo documento è trasmesso alla II Commissione (Giustizia) e alla V Commissione (Bilancio).

Trasmissione dal ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare.

Il ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 30, quinto comma, della legge 20 marzo 1975, n. 70, i bilanci consuntivi dal 2006 al 2009, i bilanci di previsione dal 2006 al 2010 e la pianta organica aggiornata al 2010, relativi al Parco Nazionale del Circeo, nonché i bilanci consuntivi dal 2005 al 2009, i bilanci di previsione dal 2005 al 2010 e le piante organiche aggiornate al 2010, degli Enti parco dell'Alta Murgia, delle Dolomiti Bellunesi, dell'Abruzzo Lazio e Molise, dei Monti Sibillini, dell'Arcipelago di La Maddalena, della Val Grande, della Majella, del Pollino, delle Foreste Casentinesi, dell'Aspromonte e dell'Appennino Tosco-Emiliano.

Questa documentazione è trasmessa alla VIII Commissione (Ambiente).

Trasmissione dal Comitato interministeriale per la programmazione economica.

La Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica, in data 27 febbraio 2012, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 6, comma 4, della legge 31 dicembre 2009, n.196, le seguenti delibere CIPE, che sono trasmesse alla V Commissione (Bilancio), nonché alle Commissioni sottoindicate:
n.51/2011 del 3 agosto 2011, concernente «Programma delle infrastrutture strategiche (legge n.443 del 2001). Tangenziale Est esterna di Milano. Approvazione progetto definitivo.» - alla VIII Commissione (Ambiente);
n.83/2011 del 6 dicembre 2011, concernente «Applicazione dell'articolo 33, comma 3, legge n.183 del 2011. Assegnazioni risorse» - alla IX Commissione (Trasporti).

Trasmissioni dal Consiglio regionale dell'Emilia-Romagna

Il presidente del Consiglio regionale dell'Emilia-Romagna, con lettera in data 23 febbraio 2012, ha trasmesso il testo di un voto concernente osservazioni sulla proposta di decisione del Parlamento europeo e del Consiglio su un meccanismo unionale di protezione civile (COM(2011)934 definitivo).

Questa documentazione è trasmessa alla VIII Commissione (Ambiente) e alla XIV Commissione (Politiche dell'Unione europea).

Il presidente del Consiglio regionale dell'Emilia-Romagna, con lettera in data 23 febbraio 2012, ha trasmesso il testo di un voto concernente osservazioni sulla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio recante modifica della direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali e del regolamento relativo alla cooperazione amministrativa attraverso il sistema di informazione del mercato interno (IMI) (COM(2011)883 definitivo).

Questa documentazione è trasmessa alla II Commissione (Giustizia), alla X Commissione (Attività produttive) e alla XIV Commissione (Politiche dell'Unione europea).

Il presidente del Consiglio regionale dell'Emilia-Romagna, con lettera in data 23 febbraio 2012, ha trasmesso il testo di un voto concernente osservazioni sulle proposte di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sugli appalti pubblici (COM(2011)896 definitivo), sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali (COM(2011)895 definitivo) e sull'aggiudicazione dei contratti di concessione (COM(2011)897 definitivo).

Questa documentazione è trasmessa alla VIII Commissione (Ambiente) e alla XIV Commissione (Politiche dell'Unione europea).

Trasmissione dal Garante del contribuente della regione Liguria.

Il Garante del contribuente della regione Liguria, con lettera in data 22 febbraio 2012, ha trasmesso la relazione sullo stato dei rapporti tra fisco e contribuenti nel campo della politica fiscale riferita all'anno 2011, predisposta ai sensi dell'articolo 13, comma 13-bis, della legge 27 luglio 2000, n. 212, e successive modificazioni.

Questa documentazione è trasmessa alla VI Commissione (Finanze).

Atti di controllo e di indirizzo.

Gli atti di controllo e di indirizzo presentati sono pubblicati nell'Allegato B al resoconto della seduta odierna.

MOZIONI FORCOLIN ED ALTRI N. 1-00873, FLUVI ED ALTRI N. 1-00882, BORGHESI ED ALTRI N. 1-00883, BERNARDO ED ALTRI N. 1-00884, GALLETTI, DELLA VEDOVA ED ALTRI N. 1-00888, CESARIO ED ALTRI N. 1-00892, COMMERCIO ED ALTRI N. 1-00893 E FORCOLIN, FLUVI, BORGHESI, LEO, GALLETTI, DELLA VEDOVA, CESARIO E COMMERCIO N. 1-00895 CONCERNENTI L'APPLICABILITÀ DEGLI STUDI DI SETTORE IN RELAZIONE AL NUOVO REGIME DEI CONTRIBUENTI MINIMI

Mozioni

La Camera,
premesso che:
l'articolo 27 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, ha introdotto un regime fiscale agevolato per le nuove iniziative imprenditoriali o professionali;
tale regime si applica per il periodo d'imposta in cui l'attività è iniziata e per i quattro successivi, esclusivamente alle persone fisiche che intraprendono un'attività d'impresa, arte o professione o che l'hanno intrapresa successivamente al 31 dicembre 2007, con l'applicazione di un'imposta sostitutiva dell'imposta sui redditi e delle addizionali regionali e comunali pari al 5 per cento;
il beneficio dell'imposta sostitutiva al 5 per cento è riconosciuto a condizione che:
a) nei 3 anni precedenti l'inizio dell'attività, il contribuente non abbia esercitato attività artistica, professionale o d'impresa;
b) la nuova attività non sia il proseguimento della precedente, ad esclusione del caso in cui l'occupazione già svolta abbia riguardato un praticantato obbligatorio per l'esercizio della professione;
c) nel caso in cui si prosegua un'attività di impresa di un altro soggetto, i ricavi da questo realizzati nell'ultimo periodo di imposta non superino i 30.000 euro;
le condizioni che i contribuenti devono rispettare per rientrare nel regime diventano, quindi, più stringenti ed aggiuntive rispetto a quelle fissate dall'articolo 1, commi 96 e seguenti, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, che aveva introdotto il regime dei minimi; si stima, quindi, che circa 500.000 soggetti fuoriescano dal «vecchio» regime e non rientrino nel «nuovo» regime; per questi si pone il problema del passaggio da un regime che era particolarmente favorevole sia in termini di riduzione degli adempimenti fiscali, sia in termini di riduzione del carico fiscale; questi soggetti potranno usufruire di un regime semplificato che potrà essere applicato fino al verificarsi di cause di decadenza, sulla base delle regole del vecchio regime, ovvero fino all'opzione per il regime ordinario. Comunque, varrà l'obbligo di applicare l'irpef con le regole ordinarie previste dal testo unico delle imposte sui redditi, comprese le addizionali regionali e comunali, gli oneri deducibili e detraibili e l'applicazione per le aziende del criterio della competenza economica, con la conseguente attenzione ai beni ammortizzabili e alle rimanenze di merci; l'imposta sul valore aggiunto dovrà essere versata relativamente alla liquidazione annuale, entro il 16 marzo dell'anno successivo, mentre documenti e fatture dovranno essere conservati ed utilizzati per la predisposizione delle dichiarazioni senza obbligo di registrazione; oltre a tali nuovi obblighi, i «fuoriusciti» dal regime dei minimi dovranno applicare gli studi di settore;
quest'ultimo adempimento sarà l'ostacolo più duro per chi fuoriesce dal regime dei minimi: proprio per i requisiti di accesso, il regime era idoneo ad includere una serie di professionisti non iscritti ad albi, piccoli artigiani e commercianti con un volume d'affari ridotto e con un'attività poco strutturata, e una serie di altri contribuenti che già godono di altri redditi (magari da pensione) e svolgono un'attività residuale autonoma; tali figure, proprio per le caratteristiche di marginalità della loro attività, non dovrebbero compilare il modello per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini degli studi di settore e non dovrebbero essere soggetti agli accertamenti basati su tale strumento;
già prima dell'entrata in vigore del decreto-legge n. 98 del 2011, la Lega Nord aveva sottolineato, attraverso proposte emendative, la necessità di rivedere al rialzo i limiti per accedere al «vecchio» regime dei minimi, al fine di allargare la platea dei beneficiari, in considerazione dell'effettivo vantaggio per i contribuenti; la richiesta di estendere il regime derivava anche dalla valutazione del periodo di estrema difficoltà che le imprese, ma soprattutto le piccole aziende, gli artigiani ed i commercianti stavano affrontando e non hanno ancora superato; ora, con la fuoriuscita dal regime dei minimi, oltre a dover versare le imposte sui redditi secondo le aliquote ordinarie, gli «ex minimi» dovranno «subire» lo strumento degli studi di settore, che, nonostante i correttivi apportati, non sono in grado di rappresentare una realtà in crisi, con fatturati in diminuzione e costi in aumento; il pericolo di non rientrare nei parametri degli studi, con conseguente accertamento e versamento di imposte che non sono in questo momento sopportabili, spingerà molti contribuenti a chiudere i battenti, con conseguenze economiche e sociali drammatiche,

impegna il Governo

ad assumere iniziative normative volte ad esonerare dall'applicazione degli studi di settore i contribuenti che sono fuoriusciti dal regime agevolato dei «minimi» a causa della carenza dei nuovi requisiti di accesso al regime introdotti dall'articolo 27 del decreto-legge n. 98 del 2011.
(1-00873)
«Forcolin, Dozzo, Fugatti, Montagnoli, Comaroli, Lussana, Fogliato, Fedriga, Alessandri, Allasia, Bitonci, Bonino, Bragantini, Buonanno, Callegari, Caparini, Cavallotto, Chiappori, Consiglio, Crosio, D'Amico, Dal Lago, Desiderati, Di Vizia, Dussin, Fabi, Fava, Fogliato, Follegot, Gidoni, Giancarlo Giorgetti, Goisis, Grimoldi, Isidori, Lanzarin, Maggioni, Maroni, Martini, Meroni, Molgora, Laura Molteni, Nicola Molteni, Munerato, Negro, Paolini, Pastore, Pini, Polledri, Rainieri, Reguzzoni, Rivolta, Rondini, Simonetti, Stefani, Stucchi, Togni, Torazzi, Vanalli, Volpi».

La Camera,
premesso che:
i commi da 96 a 117 dell'articolo 1 della legge n. 244 del 2007 avevano introdotto un regime fiscale semplificato per i contribuenti cosiddetti minimi, i cui tratti peculiari erano, sinteticamente, l'esclusione dei contribuenti minimi dalla soggettività passiva ai fini dell'Irap, l'applicazione - anche per le imprese - del criterio di cassa ai fini della determinazione del reddito, l'assoggettamento del reddito ad imposta sostitutiva del 20 per cento, l'estensione dell'ambito applicativo del regime di franchigia dell'iva di cui all'articolo 32-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, l'esclusione dell'applicazione degli studi di settore e la riduzione degli adempimenti contabili;
l'articolo 27 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, ha introdotto un regime fiscale agevolato per le nuove iniziative imprenditoriali o professionali, stabilendo che, a decorrere dal 1o gennaio 2012, il regime fiscale semplificato per i cosiddetti contribuenti minimi si applichi, per il periodo d'imposta in cui l'attività è iniziata e per i quattro successivi, esclusivamente alle persone fisiche che intraprendono un'attività d'impresa, arte o professione o che l'abbiano intrapresa dopo il 31 dicembre 2007;
pertanto, la platea dei beneficiari del cosiddetto «forfettone» è stata ridotta a coloro i quali hanno iniziato l'attività negli ultimi tre anni e mezzo o la iniziano adesso con l'applicazione di un'imposta sostitutiva dell'imposta sui redditi e delle addizionali regionali e comunali pari al 5 per cento (in luogo del 20 per cento);
il suddetto regime fiscale di vantaggio per l'imprenditoria giovanile si applica anche oltre il quarto periodo d'imposta successivo a quello di inizio dell'attività, ma non oltre il periodo d'imposta di compimento del trentacinquesimo anno d'età;
la disposizione, emanata con l'obiettivo di favorire la costituzione di nuove imprese da parte di giovani o di coloro che perdono il posto di lavoro e, inoltre, per favorire la costituzione di nuove imprese, comporta, secondo quanto affermato dalla relazione tecnica, un maggior gettito di 82,8 milioni di euro nel 2013 e di 100 milioni di euro dal 2014 determinato dall'esclusione dal regime agevolato del 96 per cento dei precedenti beneficiari, i quali dovranno fuoriuscire da un regime di particolare favore in termini di riduzione del carico e di adempimenti fiscali;
si tratta di una platea ampia di soggetti (circa 500.000 contribuenti) che dal 2012 dovrà assolvere gli adempimenti relativi all'iva, all'imposizione irpef con le aliquote progressive e alla compilazione dell'allegato sugli studi di settore;
in un momento di particolare difficoltà congiunturale, l'implicita decisione di eliminare il precedente regime speciale dei contribuenti minimi rischia di scoraggiare le attività marginali e, persino, di determinarne la chiusura,

impegna il Governo:

ad assumere iniziative normative volte ad ampliare la platea dei beneficiari del regime speciale per i contribuenti minimi, in modo da:
a) continuare ad esonerare questi soggetti dall'applicazione dell'iva e degli studi di settore;
b) reintrodurre un'imposta sostitutiva dell'irpef e delle addizionali, in linea con la prima aliquota dell'irpef;
c) prevedere l'indicazione in dichiarazione di informazioni di struttura d'impresa minime, per evitare di fare entrare nel regime soggetti non propriamente marginali.
(1-00882)
«Fluvi, Fogliardi, Albini, Carella, Causi, D'Antoni, Graziano, Marchignoli, Piccolo, Pizzetti, Sposetti, Strizzolo, Vaccaro, Verini».

La Camera,
premesso che:
l'articolo 27 del decreto legge n. 98 del 2011, emanato dal Governo Berlusconi ed approvato dalle Camere con il voto decisivo dei gruppi del Popolo della Libertà e della Lega Nord, prevede che, a decorrere dal 1o gennaio 2012, il regime fiscale semplificato per i cosiddetti contribuenti minimi si applica, per il periodo d'imposta in cui l'attività è iniziata e per i quattro successivi, esclusivamente alle persone fisiche che intraprendono un'attività d'impresa, arte o professione o che l'abbiano intrapresa dopo il 31 dicembre 2007. Pertanto, la platea dei beneficiari del cosiddetto «forfettone» (una tassazione forfettaria del 20 per cento per i titolari di partite iva e per i lavoratori autonomi che a fine anno incassano meno di 30 mila euro) è stata ridotta a coloro i quali hanno iniziato l'attività negli ultimi tre anni e mezzo o vorranno iniziarla adesso. Nello stesso tempo, per questi ultimi il beneficio è aumentato: a decorrere dal 1o gennaio 2012, l'imposta sostitutiva dell'imposta sui redditi e delle addizionali regionali e comunali viene ridotta al 5 per cento (in luogo del 20 per cento);
si affermò da parte del Governo Berlusconi che la disposizione veniva emanata con l'obiettivo di favorire la costituzione di nuove imprese da parte di giovani o di coloro che perdono il posto di lavoro e, inoltre, per favorire la costituzione di nuove imprese;
i commi da 96 a 117 dell'articolo 1 della legge n. 244 del 2007 fatta approvare dal Governo Prodi avevano introdotto un regime fiscale semplificato per i contribuenti cosiddetti minimi (il cosidetto «forfettone»). Il regime semplificato operava - per tali contribuenti - come un regime naturale, con la facoltà di optare per l'applicazione dell'iva e delle imposte sul reddito nei modi ordinari;
i tratti peculiari del «forfettone» erano i seguenti: a) l'esclusione dei contribuenti minimi dalla soggettività passiva ai fini Irap; b) l'applicazione - anche per le imprese - del criterio di cassa ai fini della determinazione del reddito; c) l'assoggettamento del reddito ad imposta sostitutiva del 20 per cento; d) l'estensione dell'ambito applicativo del regime di franchigia dell'iva di cui all'articolo 32-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto); e) l'esclusione dell'applicazione degli studi di settore; f) la riduzione degli adempimenti contabili;
ai sensi dei commi da 96 a 117 dell'articolo 1 della legge n. 244 del 2007, si consideravano contribuenti minimi, ed erano pertanto assoggettati al regime previsto dalle disposizioni dei commi fino al 117, le persone fisiche esercenti attività di impresa, arti o professioni che, al contempo:
a) nell'anno solare precedente: 1) avessero conseguito ricavi ovvero percepito compensi, ragguagliati ad anno, non superiori a 30.000 euro; 2) non avessero effettuato cessioni all'esportazione; 3) non avessero sostenuto spese per lavoratori dipendenti o collaboratori;
b) nel triennio solare precedente non avessero effettuato acquisti di beni strumentali, anche mediante contratti di appalto e di locazione, pure finanziaria, per un ammontare complessivo superiore a 15.000 euro;
i soggetti, che per effetto delle disposizioni di cui al comma 1 dell'articolo 27 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, fuoriescono dal regime dei contribuenti minimi, sono in ogni caso esentati dall'irap ed esonerati dagli obblighi di registrazione e di tenuta delle scritture contabili, rilevanti ai fini delle imposte dirette e dell'iva, nonché dalle liquidazioni e dai versamenti periodici rilevanti ai fini dell'iva (comma 3 dell'articolo 27 citato);
il comma 4 dell'articolo 27 citato stabilisce che, per i soggetti esclusi dal regime dei contribuenti minimi, l'applicazione della disciplina prevista dal comma 3 cessa dall'anno successivo a quello in cui viene meno una della condizioni richieste dalla norma per la qualifica di contribuente minimo (sopra richiamate), ovvero si verifica una delle fattispecie indicate al comma 99 dell'articolo 1 della legge finanziaria per il 2008;
il Governo Berlusconi aveva calcolato (si veda la relativa relazione tecnica) che solo il 4 per cento dei soggetti avrebbe potuto continuare ad applicare il regime in oggetto, mentre il complementare 96 per cento ne sarebbe rimasto escluso. Suscita perplessità, a parere dei firmatari del presente atto di indirizzo, il fatto che la stessa maggioranza che sostenne la soppressione del cosidetto forfettone non abbia adeguatamente valutato, al momento dell'approvazione dell'articolo 27 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, le conseguenze esplicitate dalla stessa relazione tecnica allegata dal Governo Berlusconi a tale provvedimento;
l'Italia dei Valori, in più occasioni, ha proposto il mantenimento del regime del cosidetto «forfettone» e l'innalzamento del tetto dei ricavi o dei compensi percepiti per la sua applicazione oltre il valore di 30.000 euro;
nel frattempo, sono state approvate le disposizioni di cui all'articolo 11 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, che obbligano gli operatori finanziari a comunicazioni periodiche all'amministrazione finanziaria dei flussi dei conti dei loro clienti;
la Camera dei Deputati, nella seduta del 7 febbraio 2012, ha approvato la mozione Donadi n. 1-00826, con la quale si impegna il Governo a fare un'ulteriore passo in avanti nel contrasto all'evasione ed all'elusione fiscale rendendo obbligatoria - anche in riferimento a quanto previsto dall'articolo 11 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011 - «la verifica annuale, con le tecnologie informatiche, di tutti i codici fiscali in relazione ad indici noti e trasparenti di "incoerenza" tra indicatori di consumi, investimenti e risparmi rispetto ai redditi dichiarati, anche a livello di nucleo familiare, e procedere alla determinazione degli imponibili evasi sulla base dei saldi tra redditi dichiarati e spese ed investimenti reali e finanziari a qualsiasi titolo effettuati»;
una volta introdotto il meccanismo di accertamento generalizzato sopra descritto, che prevede l'utilizzazione congiunta e coordinata di tutte le banche dati, agli studi di settore non dovrebbe essere assegnato un ruolo prevalente rispetto agli elementi di prova ricavabili dalle altre banche dati o acquistabili attraverso indagini;
gli studi di settore dovrebbero essere comunque elaborati secondo criteri scientificamente inappuntabili e sottratti a manipolazioni strumentali. Le procedure di elaborazione degli studi dovrebbero essere validate da apposite commissioni esterne (e indipendenti) di monitoraggio (anche dei risultati) secondo i suggerimenti forniti dalla commissione cosiddetta «Rey» (la Commissione tecnica per lo studio e l'approfondimento per le problematiche di tipo giuridico ed economico inerenti alla materia degli studi di settore),

impegna il Governo:

a dare attuazione con tempestività agli impegni definiti dalle mozioni sul contrasto all'evasione ed all'elusione fiscali approvate il 7 febbraio 2012 dalla Camera dei deputati e, in particolare, all'impegno di rendere operativa la verifica annuale di tutti i codici fiscali con le tecnologie informatiche;
a prendere le opportune iniziative, anche normative, ferme restando le prerogative del Parlamento, al fine di escludere dall'applicazione degli studi di settore i contribuenti la cui attività poco si presta ad essere descritta mediante le tecniche statistiche utilizzate, quali molti professionisti, i titolari di partite iva che nascondono rapporti che sono sostanzialmente di lavoro dipendente, i monomandatari;
a valutare l'opportunità, tenendo anche conto della particolare difficoltà dell'attuale congiuntura economica, di assumere iniziative normative dirette a ripristinare il regime speciale per i contribuenti minimi di cui i commi da 96 a 117 dell'articolo 1 della legge n. 244 del 2007.
(1-00883)
«Borghesi, Donadi, Barbato, Messina, Paladini».

La Camera,
premesso che:
l'articolo 27 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, recante disposizioni in materia di stabilizzazione finanziaria, ha modificato il regime fiscale semplificato per i cosiddetti contribuenti minimi al fine di favorire la costituzione di nuove imprese da parte di giovani o di coloro che perdono il posto di lavoro;
le nuove disposizioni normative recate dall'articolo 27 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, aumentano il vantaggio fiscale per il cosiddetto regime dei minimi, a fronte dell'introduzione di ulteriori vincoli per la sua adozione;
il «regime dei minimi» si applica, per il periodo d'imposta in cui l'attività è iniziata e per i quattro successivi, esclusivamente alle persone fisiche che intraprendono un'attività di impresa, arte o professione o che l'abbiano intrapresa dopo il 31 dicembre 2007;
per effetto della mutata disciplina, la platea dei contribuenti minimi è ridotta a coloro i quali hanno iniziato l'attività negli ultimi quattro anni o vorranno iniziarla adesso;
è previsto che la permanenza nel suddetto regime fiscale agevolato è possibile anche oltre il quarto periodo d'imposta successivo a quello di inizio attività, ma non oltre il periodo d'imposta di compimento del trentacinquesimo anno d'età;
per i soggetti che hanno iniziato l'attività nel 2011 l'applicazione del regime dei minimi non potrà eccedere il periodo d'imposta in corso al 2015 (fermo rimanendo il limite dei trentacinque anni d'età);
per effetto della mutata disciplina aumentano i vantaggi fiscali e le semplificazioni per i contribuenti minimi, in quanto:
a) l'aliquota dell'imposta sostitutiva dell'imposta sui redditi si riduce al 5 per cento (in luogo del 20 per cento);
b) l'adesione al regime dei contribuenti minimi comporta l'esonero dagli obblighi di liquidazione e versamento dell'iva e da tutti gli altri obblighi previsti dal decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, quali:
1) registrazione fatture emesse, registrazione dei corrispettivi e degli acquisti;
2) tenuta e conservazione dei registri e documenti (con eccezione delle fatture di acquisto e le bollette doganali di importazione);
3) dichiarazione e comunicazione annuale;
4) compilazione e invio elenchi clienti fornitori;
c) è previsto, anche ai fini delle imposte dirette, l'esonero dell'obbligo di registrazione e tenuta delle scritture contabili;
d) i contribuenti minimi non sono soggetti né agli studi di settore, né ai parametri; quindi, sono esonerati dalla compilazione del modello e dalla comunicazione dei dati rilevanti per gli studi di settore;
e) i contribuenti minimi sono esonerati dall'irap;
l'articolo 27 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, prevede, ai commi 3-5, che i soggetti, i quali, pur avendo i requisiti per l'accesso al regime dei minimi ex articolo 1, commi 96-117, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (cosiddetto forfettone), non rientrano nel regime come modificato dallo stesso articolo 27, possono beneficiare di alcune semplificazioni quali:
a) l'esonero dalla tenuta della contabilità;
b) il versamento dell'iva in un'unica soluzione;
la cessazione del regime dei minimi avviene dall'anno successivo a quello in cui viene meno anche una sola delle condizioni richieste e si realizza una delle condizioni di esclusione, ovvero dall'anno stesso in cui i ricavi o compensi percepiti superano il limite di 45 mila euro,

impegna il Governo

a valutare, nell'ambito delle iniziative normative per la riforma fiscale, la possibilità di prevedere benefici fiscali alternativi in capo ai contribuenti che si sono avvalsi del regime dei minimi prima delle modifiche recate dall'articolo 27 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, e che per effetto di esse ne sono fuoriusciti.
(1-00884)
«Bernardo, Leo, Baldelli, Ventucci, Berardi, Del Tenno, Pagano, Antonio Pepe, Savino».

La Camera,
premesso che:
l'articolo 27 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, ha, di fatto, soppresso, con decorrenza 1o gennaio 2012, il regime fiscale dei contribuenti minimi;
tale regime fiscale agevolato prevedeva per piccoli imprenditori e professionisti, a fronte di alcune significative limitazioni alla spesa per beni strumentali e ai compensi percepibili (limite massimo 30.000 euro lordi all'anno), una serie di semplificazioni nel rapporto col fisco durante lo svolgimento della propria attività;
il nuovo regime introdotto dal decreto-legge sopra menzionato prevede un'imposta forfetaria del 5 per cento sul reddito dichiarato e potrà essere applicato, per l'anno in cui l'attività è iniziata e per i quattro successivi, esclusivamente dalle persone fisiche:
a) che intraprendono un'attività d'impresa, arte o professione;
b) che l'hanno intrapresa dopo il 31 dicembre 2007;
per l'accesso a tali benefici sono previste alcune condizioni, quale, ad esempio, quella di non avere esercitato, nei tre anni precedenti l'inizio dell'attività, attività artistica, professionale o d'impresa, anche in forma associata o familiare;
per rientrare nel nuovo regime è possibile proseguire un'attività d'impresa svolta in precedenza da altro soggetto, ma in questo caso l'ammontare dei ricavi realizzati nell'anno precedente non deve essere superiore a 30 mila euro, cioè il limite già previsto per i vecchi minimi;
secondo la relazione tecnica allegata al decreto-legge, il motivo dell'abolizione del regime risiederebbe nella necessità di recuperare maggior gettito (quantificato in circa 100 milioni di euro) per anno fiscale da coloro che rientravano nel regime dei contribuenti minimi;
sono circa 550.000 (pari a circa il 96 per cento dei vecchi contribuenti minimi) i soggetti che non potranno accedere ai benefici perché non presentano i requisiti richiesti e che probabilmente registreranno un sensibile aumento dei costi diretti ed indiretti legati alla loro attività,

impegna il Governo:

ad adottare iniziative normative finalizzate alla reintroduzione del vecchio regime dei contribuenti minimi, al fine di non penalizzare una categoria di contribuenti in questa particolare contingenza economica;
a ricercare soluzioni e coperture alternative a garanzia del gettito recuperato con l'introduzione del nuovo regime dei contribuenti minimi, di cui al decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, prevedendo eventualmente anche un innalzamento dell'imposta sostitutiva e del limite dei compensi.
(1-00888)
«Galletti, Della Vedova, Cera, Muro, Ciccanti, Raisi, Compagnon, Di Biagio, Naro, Volontè».

La Camera,
premesso che:
il regime dei minimi è stato introdotto a decorrere dal periodo d'imposta 2008 dai commi da 96 a 117 dell'articolo 1, legge n. 244 del 2007, ed è stato modificato dall'articolo 27 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111;
per effetto della modica apportata dalla legge di conversione, è possibile per il contribuente beneficiare del regime dei minimi limitatamente al periodo d'imposta nel corso del quale la persona fisica ha compiuto trentacinque anni;
il comma 3 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 del 2011 si riferisce alle persone fisiche che continuano a rispettare i principi fissati per accedere al regime agevolato dei contribuenti minimi secondo le disposizioni di cui alla legge n. 244 del 2007. In particolare, afferma che, nei confronti di tali soggetti, restano fermi gli obblighi di conservazione dei documenti ricevuti ed emessi, ma essi sono «esonerati dagli obblighi di registrazione e di tenuta delle scritture contabili, rilevanti ai fini delle imposte dirette e dell'imposta sul valore aggiunto, nonché dalle liquidazioni e dai versamenti periodici rilevanti ai fini dell'iva previsti dal decreto del Presidente della Repubblica 23 marzo 1998, n. 100. I soggetti di cui al periodo precedente sono altresì esenti dall'imposta regionale sulle attività produttive di cui al decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446»;
a decorrere dal 1o gennaio 2012, i contribuenti che non rispetteranno i requisiti ulteriormente introdotti dalla manovra correttiva dovranno necessariamente fuoriuscire dal regime agevolato in esame e tenere conto delle ordinarie regole di tassazione. Ne deriva che gli «ex minimi» dovranno assoggettare le operazioni effettuate all'iva e versare le imposte sul reddito secondo le disposizioni ordinarie previste dal Testo unico dell'imposta sui redditi;
le disposizioni introdotte dal decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 del 2011 affermano che «a partire al 1o gennaio 2012, il regime di cui all'articolo 1, commi da 96 a 117, della legge 24 dicembre 2007, si applica» solo alle persone fisiche che rispetteranno i suddetti nuovi requisiti necessari per l'accesso o la permanenza nel regime agevolato dei contribuenti minimi. Poiché il comma 113 dell'articolo 1 della legge n. 244 del 2007 che prevede che «i contribuenti minimi sono esclusi dall'applicazione degli studi di settore d i cui all'articolo 62-bis del decreto-legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427» si applica solo a tali soggetti, ne deriva che gli «ex minimi» saranno soggetti alle norme sugli studi di settore;
sussistono dubbi circa l'assoggettamento dei soggetti «ex minimi» alle norme sugli studi di settore;
non è chiaro per quale motivo lo stesso soggetto fosse prima stato esentato dall'applicazione degli studi di settore, vista la ridottissima condizione organizzativa ed economica, mentre adesso, nonostante tali condizioni non siano variate, gli studi di settore si rendono nuovamente applicabili;
in base alle precisazioni dell'amministrazione finanziaria i soggetti «ex minimi» possono essere ugualmente non assoggettati agli studi di settore se si avvalgono delle disposizioni previste per la cosiddetta marginalità economica;
l'Agenzia delle entrate ha predisposto un elenco, aperto e integrabile, delle cause che giustificano l'eventuale non congruità dei ricavi o dei compensi dichiarati rispetto alle risultanze degli studi di settore. Tale elenco, peraltro, fornisce descrizioni sintetiche di circostanze delineate nelle circolari n. 31/E del 22 maggio 2007 e n. 38/E del 12 giugno 2007, sebbene si preoccupi di dettagliare alcune specifiche fattispecie. Al riguardo, l'amministrazione finanziaria ha precisato che, nell'ambito delle giustificazioni sopra ricordate, è possibile far valere, ad esempio, la marginalità economica dell'attività svolta con riguardo, in particolare: a) alle ridotte dimensioni della struttura; b) all'assenza di personale dipendente e di collaboratori; c) allo scarso potere contrattuale nei confronti di imprese committenti; d) alla ridotta articolazione del processo produttivo;
le ridotte dimensioni, l'assenza di personale e altro corrispondono alle caratteristiche dei soggetti minimi che, per l'appunto, esercitando un'attività del tutto marginale, erano stati esentati dalla comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell'applicazione degli studi di settore;
la condizione di marginalità economica costituisce causa giustificativa di non congruità dei ricavi o dei compensi dichiarati rispetto alle risultanze degli studi di settore ed ora, nonostante che la modifica legislativa inserisca gli «ex minimi» tra i soggetti per i quali si applicano gli studi di settore, le precisazioni dell'amministrazione finanziaria inducono a ritenere percorribile la strada che esclude l'applicabilità degli studi nei confronti di quei soggetti che per organizzazione e, in generale, per struttura esercitano l'attività in condizioni di marginalità economica;
il regime del beneficio fiscale è applicabile anche oltre il quarto periodo di imposta successivo a quello di inizio attività, ma non oltre il periodo di imposta di compimento del trentacinquesimo anno di età;
appare evidente che il perdurare dell'inserimento degli «ex minimi» tra coloro ai quali si applicano gli studi di settore non può che causare la chiusura di migliaia di attività con forti ripercussioni sociali,

impegna il Governo:

ad assumere iniziative normative affinché:
a) il regime agevolativo resti in vigore alle condizioni previste dalla legge 24 dicembre 2007, n. 244, innalzando l'aliquota dal 5 per cento all'8 per cento;
b) si preveda una deroga del regime agevolativo per le imprese, innalzando l'età del titolare da 35 anni a 40 anni e abbassando il riferimento al fatturato da 30.000 euro a 25.000 euro.
(1-00892)
«Cesario, Moffa, Calearo Ciman, Catone, D'Anna, Grassano, Gianni, Guzzanti, Lehner, Marmo, Milo, Mottola, Orsini, Pionati, Pisacane, Polidori, Razzi, Romano, Ruvolo, Scilipoti, Siliquini, Stasi, Taddei».

La Camera,
premesso che:
a partire dal 1o gennaio 2012, è entrato in vigore il nuovo regime dei contribuenti «minimi» o «regime fiscale di vantaggio per l'imprenditoria giovanile e lavoratori in mobilità», così come introdotto dall'articolo 27 del decreto-legge n. 98 del 2011 (cosiddetto «Manovra correttiva»), in sostituzione dell'attuale regime dei «minimi» di cui all'articolo 1, commi da 96 a 117, della legge n. 244 del 2007;
a decorrere dal 2012 il nuovo regime dei «minimi» è quindi applicabile esclusivamente:
a) alle persone fisiche che intraprendono un'attività d'impresa o di lavoro autonomo;
b) alle persone fisiche che hanno intrapreso un'attività d'impresa o di lavoro autonomo a partire dal 1o gennaio 2008;
c) per il periodo d'imposta di inizio dell'attività e per i 4 successivi;
l'applicazione è comunque ammessa anche oltre il 4o periodo d'imposta successivo a quello di inizio dell'attività, fino al compimento del 35o anno di età;
la norma stabilisce espressamente che tutti i contribuenti che hanno aperto la partita IVA prima del 1o gennaio 2008, a prescindere dalla loro età, non potranno comunque accedere al nuovo regime dei «minimi» in vigore dal 1o gennaio 2012 indipendentemente dal fatto che dal 2008 al 2011 abbiano adottato il vecchio regime dei «minimi»;
inoltre il contribuente che sceglie di applicare il nuovo regime dei «minimi» a partire dal 2012 deve essere in possesso dei seguenti requisiti:
non deve aver esercitato, nei 3 anni precedenti l'inizio dell'attività, un'attività artistica, professionale o d'impresa, anche in forma associata o familiare;
l'attività da esercitare non deve costituire, in nessun modo, mera prosecuzione di un'altra attività precedentemente svolta sotto forma di lavoro dipendente o autonomo, escluso il caso in cui tale attività costituisca un periodo di pratica obbligatoria ai fini dell'esercizio dell'arte/professione;
se l'attività costituisce il proseguimento di un'impresa esercitata da un altro soggetto, l'ammontare dei ricavi del periodo d'imposta precedente non deve essere superiore a euro 30.000;
a seguito dell'introduzione dei nuovi requisiti elencati sopra, molti contribuenti non avranno più diritto alla fruizione delle agevolazioni concesse dal regime già dal periodo di imposta 2012 e rientreranno automaticamente in un regime contabile semplificato (cosiddetto degli «ex minimi») che prevede sempre l'esonero dall'IRAP, ma stabilisce il calcolo dell'IRPEF con il metodo ordinario e la soggezione agli studi di settore e ai parametri di legge, mentre fino ad oggi era prevista un'imposta sostitutiva dell'imposta sui redditi e relative addizionali del 20 per cento e l'esclusione dagli studi di settore e dai parametri;
si tratta di un elevato numero di contribuenti che, visto anche il particolare momento di crisi economica, dovranno fuoriuscire da un regime particolarmente favorevole sia in termini di riduzione del carico sia per quanto riguarda gli adempimenti fiscali,

impegna il Governo

ad assumere ogni iniziativa utile al fine di prevedere l'esonero dall'applicazione dell'IVA e degli studi di settore per coloro che, in carenza dei nuovi requisiti di accesso alle disposizioni introdotte dall'articolo 27 del decreto-legge n. 98 del 2011, sono costretti ad uscire dal regime speciale dei «contribuenti minimi».
(1-00893)
«Commercio, Lo Monte, Lombardo, Oliveri, Brugger».

La Camera,
preso atto della discussione sulle mozioni concernenti l'applicabilità degli studi di settore in relazione al nuovo regime dei contribuenti minimi,

impegna il Governo

ad adottare iniziative normative per introdurre disposizioni volte a disciplinare in modo organico il trattamento tributario da riservare ai cosiddetti contribuenti minimi, al fine di assicurare agli stessi semplificazioni contabili e meccanismi forfettari di determinazione delle imposte sui redditi, dell'IRAP e dell'IVA.
(1-00895)
«Forcolin, Fluvi, Borghesi, Leo, Galletti, Della Vedova, Cesario, Commercio, Paladini».

MOZIONI ZAMPARUTTI ED ALTRI N. 1-00760, BRAGA ED ALTRI N. 1-00877, LIBÈ, DI BIAGIO ED ALTRI N. 1-00878, DUSSIN ED ALTRI N. 1-00879, MOSELLA ED ALTRI N. 1-00885, MISITI ED ALTRI N. 1-00886, SCILIPOTI ED ALTRI N. 1-00889, GHIGLIA ED ALTRI N. 1-00890, PIFFARI ED ALTRI N. 1-00891 E COMMERCIO ED ALTRI N. 1-00894 CONCERNENTI INTERVENTI PER LA DIFESA DEL SUOLO

Mozioni

La Camera,
premesso che:
la recente tragedia in Liguria e Toscana, a pochi giorni di distanza da quanto accaduto in Campania e a Roma, è solo l'ultima di una lunghissima serie di eventi franosi ed alluvionali che ha visto in Italia causare, dal 1960 al 2010, 3.673 vittime. Nell'ultimo mezzo secolo, praticamente ogni anno, si registrano decessi causati dal dissesto idrogeologico del territorio. Secondo una ricostruzione storica dell'istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Cnr, nel periodo 1900-2002 si sono verificati 4.016 eventi con gravi danni, di cui più di 1.600 hanno prodotto vittime (5.202 per frana e 2.640 per alluvioni) con una frequenza di circa 8 eventi fatali all'anno. Il numero degli sfollati e dei senzatetto supera le 700.000 persone (il 75 per cento a causa di inondazioni). Le frane che hanno prodotto danni alla popolazione si sono verificate in 1.328 comuni (16,4 per cento), e gli eventi di piena hanno colpito 1.156 comuni (14,3 per cento). Nel periodo esaminato tutte le province italiane sono state colpite da almeno una frana o un'inondazione. Dallo studio si evince, inoltre, che l'indice di mortalità per frana supera di gran lunga quello per inondazione;
il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, attraverso l'analisi dei piani di assetto idrogeologico delle autorità di bacino, ha elaborato una mappa delle aree ad alta criticità idrogeologica, da cui si evince che ben 29.500 chilometri quadrati (pari al 10 per cento del territorio nazionale) hanno un'elevata probabilità di essere colpiti da una frana o da un'esondazione e l'89 per cento dei comuni italiani ha almeno un'area in cui è molto probabile che si verifichi, prima o poi, un fenomeno franoso o alluvionale di una certa gravità;
nel rapporto 2010 del centro studi del Consiglio nazionale dei geologi è indicato che, su queste aree a elevato rischio idrogeologico, sono stati costruiti 1 milione e 200 mila edifici, per uso residenziale e non, di cui oltre 6 mila sono scuole, mentre gli ospedali sono 531. Sono 6 milioni le persone che vivono in zone ad alto rischio idrogeologico, di cui il 19 per cento, ovvero oltre un milione di persone, vivono in Campania, 825.000 in Emilia Romagna e oltre mezzo milione in ognuna delle tre grandi regioni del Nord, Piemonte, Lombardia e Veneto, territori in cui, insieme alla Toscana, persone e cose sono maggiormente esposte a pericoli, per l'elevata densità abitativa e per l'ampiezza dei territori. A questo si aggiunge il costante rischio di erosione costiera che interessa oltre 540 chilometri lineari di litorali italiani;
l'elevato rischio sismico, invece, interessa quasi il 50 per cento dell'intero territorio nazionale e il 38 per cento dei comuni. Si calcola che, lungo queste superfici ad alto rischio sismico, sono stati costruiti circa 6 milioni e 300 mila edifici, di cui 28 mila sono scuole e 2.188 sono ospedali, con gli edifici a prevalente uso residenziale realizzati prima dell'entrata in vigore della legge antisismica per le costruzioni. Sono 3 milioni gli italiani che vivono in zone ad alto rischio sismico. Nella classifica delle regioni con le maggiori superfici a elevato rischio sismico, svetta la Sicilia con 22.874 chilometri quadrati e quasi 1 milione e mezzo di edifici, di cui circa 5 mila scuole e 400 ospedali, segue la Calabria con 15 mila chilometri quadrati e oltre 7 mila edifici, di cui 3.130 scuole e 189 ospedali, al terzo posto c'è la Toscana con quasi 14.500 chilometri quadrati;
i più alti vertici istituzionali hanno sottolineato l'importanza di mettere in sicurezza la vita delle popolazioni e l'esigenza di investire nella prevenzione per tutelare la popolazione dal rischio sismico ed idrogeologico che caratterizza il Paese, ed in particolare il Mezzogiorno, anche per effetto di un vero e proprio dissesto prodottosi nei decenni;
sempre più spesso sono proprio gli interventi antropici a creare i presupposti favorevoli ai dissesti o a creare le condizioni per l'innesco di fenomeni franosi o l'esondazione dei fiumi, costruendo senza tenere in debito conto i delicati equilibri che presenta il territorio italiano;
conoscere l'ubicazione delle aree pericolose è fondamentale in quanto la riattivazione di frane e l'inondazione di aree già allagate in passato sono di gran lunga i fenomeni di dissesto più ricorrenti in Italia. L'analisi dei dati storici nell'ambito del progetto Avi del Cnr ha evidenziato che in Italia, fra 9.000 località colpite da frane, oltre il 25 per cento è stata colpita più di una volta e che sono oltre il 40 per cento le località colpite in modo ricorrente dalle alluvioni. Inoltre, mentre non si può impedire che si verifichi un evento sismico, con una corretta opera di prevenzione, nel caso di frane e alluvioni, si può limitare o addirittura evitare che queste si trasformino in fenomeni devastanti per l'uomo e l'ambiente;
nell'annuario dei dati ambientali elaborato dall'Ispra, il costo complessivo dei danni provocati dagli eventi franosi ed alluvionali dal 1951 al 2009, rivalutato in base agli indici Istat al 2009, risulta superiore a 52 miliardi di euro, quindi circa 1 miliardo di euro all'anno, due volte e mezzo quello che viene stanziato in media dallo Stato ogni anno per le opere di prevenzione e più di quanto servirebbe per le opere più urgenti di riduzione del rischio idrogeologico sull'intero territorio nazionale, valutate dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare in 40 miliardi di euro;
il Sottosegretario Guido Bertolaso il 29 luglio 2009, nel corso dell'audizione in Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici della Camera dei deputati, ha affermato che la somma delle richieste per la riparazione dei danni, causati dalle avversità atmosferiche nel periodo ottobre 2008 - giugno 2009 è pari a 4,6 miliardi di euro, una cifra più di cento volte superiore a quella dei fondi che il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ha a disposizione in media ogni anno per le attività di difesa del suolo. A fronte di somme di questo genere si riesce a stanziare al massimo il 10 per cento di quello che viene richiesto;
la mozione n. 1-00324, approvata all'unanimità dalla Camera dei deputati il 26 gennaio 2010, impegnava il Governo, tra l'altro, a «presentare ed a dotare delle opportune risorse pluriennali il piano nazionale straordinario per il rischio idrogeologico, secondo le indicazioni già comunicate alle Camere»;
ad oggi però risulta che il miliardo di euro stanziato per la messa in sicurezza del territorio dalla legge n. 191 del 2009 (legge finanziaria per il 2010), articolo 2, comma 240, è stato ridotto, con il decreto-legge n. 195 del 2009, articolo 17, a 900 milioni di euro, ulteriormente ridotti a 800 milioni di euro dall'articolo 2, comma 12-quinquies del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10 (cosiddetto decreto- legge milleproroghe per il 2011), che peraltro non sono stati ancora assegnati al capitolo di spesa del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare;
dall'estate 2010 alla primavera 2011 ben 13 regioni italiane hanno chiesto lo stato di calamità naturale per dissesto idrogeologico;
oggi, un numero molto consistente di opere di sistemazione idraulica e montana, realizzate nella prima metà del Novecento, non sono più strutturalmente adeguate alla loro funzione. I necessari radicali e diffusi interventi di manutenzione straordinaria di queste opere impongono una strategia d'azione finalizzata all'individuazione di priorità di intervento e, in caso di impossibilità di sviluppo di un piano di intervento efficace e completo, a considerare la delocalizzazione di manufatti a rischio;
in Italia il ricorso ad interventi strutturali è ancora praticamente l'unico sistema adottato, ma la prevenzione si attua anche attraverso interventi non strutturali, quali l'applicazione di adeguate norme di uso del suolo, di piani di protezione civile, del monitoraggio dei fenomeni ma, soprattutto, la diffusione di una radicata e ampia conoscenza del livello di esposizione al rischio. Ancora oggi, e malgrado le immagini ricorrenti dei disastri provocati dai dissesti idrogeologici, si vedono persone sui ponti ad osservare il passaggio della piena, automobilisti che impegnano sottopassi allagati, cittadini che cercano di proteggere dalle acque locali seminterrati, spesso perdendo la vita. La mancanza di cultura del rischio idrogeologico si traduce in un atteggiamento fatalista nei confronti di calamità naturali, che potrebbero invece essere previste e prevenute. Un corretto approccio per mitigare gli effetti delle calamità è basato, quindi, sulla conoscenza dei fenomeni e degli scenari che essi possono produrre e sulla definizione di comportamenti a tutti i livelli che bisogna adottare per contenere il rischio: la consapevolezza del rischio, infatti, rende tutti - politici, amministrazioni e popolazione - responsabili delle azioni per la sua mitigazione;
malgrado l'Italia sia un Paese esposto praticamente a tutti i rischi geologici esistenti, non tutte le regioni si sono dotate ancora di un ufficio geologico e il numero di geologi impiegati nelle pubbliche amministrazioni rimane sempre molto esiguo. Questo accade nonostante la figura di un geologo, profondo conoscitore del territorio su cui opera e delle modalità di attivazione dei fenomeni di dissesto, sarebbe in grado di monitorare le aree a rischio e condurre un'efficace opera di previsione e prevenzione dei rischi;
l'aspettativa da parte del soggetto «esposto al rischio» (alluvionale, idrogeologico, sismico, vulcanico e altro) di un risarcimento statale non è fondata su alcuna norma giuridica esistente e di fronte ai costi crescenti, che i Governi devono affrontare per riparare i danni causati da disastri naturali, in tutto il mondo si sta cercando di sviluppare sistemi di assicurazione contro le calamità naturali;
lo stesso rapporto Ocse presentato a Roma nel 2010 evidenziava che, in Italia, il ricorso alle assicurazioni private contro le calamità naturali è limitato e occorrerebbe mettere a punto un sistema pubblico-privato in grado di migliorare la copertura assicurativa per le perdite causate dalle catastrofi naturali e rafforzare gli incentivi ad investire in misure di mitigazione dal rischio, come, ad esempio, premi più bassi,

impegna il Governo:

ad invertire la proporzione tra le risorse destinate all'emergenza rispetto a quelle destinate alla prevenzione, anche ristabilendo una quota di finanziamento sui fondi annuali destinati agli interventi di difesa del suolo, da destinare obbligatoriamente alla manutenzione dei corsi d'acqua e delle opere;
a non concedere alcun condono e, anzi, a favorire la delocalizzazione dei manufatti a rischio rispetto ad una loro messa in sicurezza secondo un'adeguata analisi costi/benefici;
a promuovere la comunicazione ai cittadini sui comportamenti da tenere in caso di calamità naturali e per non aumentare il livello di rischio nelle aree vulnerabili ed a rendere facilmente consultabile, anche attraverso il sito del portale cartografico nazionale del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, la mappa delle aree a più elevato rischio idrogeologico;
a rafforzare la presenza della figura professionale del geologo nella pubblica amministrazione;
ad assumere iniziative volte a istituire un sistema di assicurazione per la copertura finanziaria dei danni causati da disastri naturali.
(1-00760)
«Zamparutti, Beltrandi, Bernardini, Farina Coscioni, Mecacci, Maurizio Turco, Colombo, Giulietti, Bucchino, Versace».

La Camera,
premesso che:
la recente tragedia in Liguria e Toscana, a pochi giorni di distanza da quanto accaduto in Campania e a Roma, è solo l'ultima di una lunghissima serie di eventi franosi ed alluvionali che ha visto in Italia causare, dal 1960 al 2010, 3.673 vittime. Nell'ultimo mezzo secolo, praticamente ogni anno, si registrano decessi causati dal dissesto idrogeologico del territorio. Secondo una ricostruzione storica dell'istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Cnr, nel periodo 1900-2002 si sono verificati 4.016 eventi con gravi danni, di cui più di 1.600 hanno prodotto vittime (5.202 per frana e 2.640 per alluvioni) con una frequenza di circa 8 eventi fatali all'anno. Il numero degli sfollati e dei senzatetto supera le 700.000 persone (il 75 per cento a causa di inondazioni). Le frane che hanno prodotto danni alla popolazione si sono verificate in 1.328 comuni (16,4 per cento), e gli eventi di piena hanno colpito 1.156 comuni (14,3 per cento). Nel periodo esaminato tutte le province italiane sono state colpite da almeno una frana o un'inondazione. Dallo studio si evince, inoltre, che l'indice di mortalità per frana supera di gran lunga quello per inondazione;
il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, attraverso l'analisi dei piani di assetto idrogeologico delle autorità di bacino, ha elaborato una mappa delle aree ad alta criticità idrogeologica, da cui si evince che ben 29.500 chilometri quadrati (pari al 10 per cento del territorio nazionale) hanno un'elevata probabilità di essere colpiti da una frana o da un'esondazione e l'89 per cento dei comuni italiani ha almeno un'area in cui è molto probabile che si verifichi, prima o poi, un fenomeno franoso o alluvionale di una certa gravità;
nel rapporto 2010 del centro studi del Consiglio nazionale dei geologi è indicato che, su queste aree a elevato rischio idrogeologico, sono stati costruiti 1 milione e 200 mila edifici, per uso residenziale e non, di cui oltre 6 mila sono scuole, mentre gli ospedali sono 531. Sono 6 milioni le persone che vivono in zone ad alto rischio idrogeologico, di cui il 19 per cento, ovvero oltre un milione di persone, vivono in Campania, 825.000 in Emilia Romagna e oltre mezzo milione in ognuna delle tre grandi regioni del Nord, Piemonte, Lombardia e Veneto, territori in cui, insieme alla Toscana, persone e cose sono maggiormente esposte a pericoli, per l'elevata densità abitativa e per l'ampiezza dei territori. A questo si aggiunge il costante rischio di erosione costiera che interessa oltre 540 chilometri lineari di litorali italiani;
l'elevato rischio sismico, invece, interessa quasi il 50 per cento dell'intero territorio nazionale e il 38 per cento dei comuni. Si calcola che, lungo queste superfici ad alto rischio sismico, sono stati costruiti circa 6 milioni e 300 mila edifici, di cui 28 mila sono scuole e 2.188 sono ospedali, con gli edifici a prevalente uso residenziale realizzati prima dell'entrata in vigore della legge antisismica per le costruzioni. Sono 3 milioni gli italiani che vivono in zone ad alto rischio sismico. Nella classifica delle regioni con le maggiori superfici a elevato rischio sismico, svetta la Sicilia con 22.874 chilometri quadrati e quasi 1 milione e mezzo di edifici, di cui circa 5 mila scuole e 400 ospedali, segue la Calabria con 15 mila chilometri quadrati e oltre 7 mila edifici, di cui 3.130 scuole e 189 ospedali, al terzo posto c'è la Toscana con quasi 14.500 chilometri quadrati;
i più alti vertici istituzionali hanno sottolineato l'importanza di mettere in sicurezza la vita delle popolazioni e l'esigenza di investire nella prevenzione per tutelare la popolazione dal rischio sismico ed idrogeologico che caratterizza il Paese, ed in particolare il Mezzogiorno, anche per effetto di un vero e proprio dissesto prodottosi nei decenni;
sempre più spesso sono proprio gli interventi antropici a creare i presupposti favorevoli ai dissesti o a creare le condizioni per l'innesco di fenomeni franosi o l'esondazione dei fiumi, costruendo senza tenere in debito conto i delicati equilibri che presenta il territorio italiano;
conoscere l'ubicazione delle aree pericolose è fondamentale in quanto la riattivazione di frane e l'inondazione di aree già allagate in passato sono di gran lunga i fenomeni di dissesto più ricorrenti in Italia. L'analisi dei dati storici nell'ambito del progetto Avi del Cnr ha evidenziato che in Italia, fra 9.000 località colpite da frane, oltre il 25 per cento è stata colpita più di una volta e che sono oltre il 40 per cento le località colpite in modo ricorrente dalle alluvioni. Inoltre, mentre non si può impedire che si verifichi un evento sismico, con una corretta opera di prevenzione, nel caso di frane e alluvioni, si può limitare o addirittura evitare che queste si trasformino in fenomeni devastanti per l'uomo e l'ambiente;
nell'annuario dei dati ambientali elaborato dall'Ispra, il costo complessivo dei danni provocati dagli eventi franosi ed alluvionali dal 1951 al 2009, rivalutato in base agli indici Istat al 2009, risulta superiore a 52 miliardi di euro, quindi circa 1 miliardo di euro all'anno, due volte e mezzo quello che viene stanziato in media dallo Stato ogni anno per le opere di prevenzione e più di quanto servirebbe per le opere più urgenti di riduzione del rischio idrogeologico sull'intero territorio nazionale, valutate dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare in 40 miliardi di euro;
il Sottosegretario Guido Bertolaso il 29 luglio 2009, nel corso dell'audizione in Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici della Camera dei deputati, ha affermato che la somma delle richieste per la riparazione dei danni, causati dalle avversità atmosferiche nel periodo ottobre 2008 - giugno 2009 è pari a 4,6 miliardi di euro, una cifra più di cento volte superiore a quella dei fondi che il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ha a disposizione in media ogni anno per le attività di difesa del suolo. A fronte di somme di questo genere si riesce a stanziare al massimo il 10 per cento di quello che viene richiesto;
la mozione n. 1-00324, approvata all'unanimità dalla Camera dei deputati il 26 gennaio 2010, impegnava il Governo, tra l'altro, a «presentare ed a dotare delle opportune risorse pluriennali il piano nazionale straordinario per il rischio idrogeologico, secondo le indicazioni già comunicate alle Camere»;
ad oggi però risulta che il miliardo di euro stanziato per la messa in sicurezza del territorio dalla legge n. 191 del 2009 (legge finanziaria per il 2010), articolo 2, comma 240, è stato ridotto, con il decreto-legge n. 195 del 2009, articolo 17, a 900 milioni di euro, ulteriormente ridotti a 800 milioni di euro dall'articolo 2, comma 12-quinquies del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10 (cosiddetto decreto- legge milleproroghe per il 2011), che peraltro non sono stati ancora assegnati al capitolo di spesa del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare;
dall'estate 2010 alla primavera 2011 ben 13 regioni italiane hanno chiesto lo stato di calamità naturale per dissesto idrogeologico;
oggi, un numero molto consistente di opere di sistemazione idraulica e montana, realizzate nella prima metà del Novecento, non sono più strutturalmente adeguate alla loro funzione. I necessari radicali e diffusi interventi di manutenzione straordinaria di queste opere impongono una strategia d'azione finalizzata all'individuazione di priorità di intervento e, in caso di impossibilità di sviluppo di un piano di intervento efficace e completo, a considerare la delocalizzazione di manufatti a rischio;
in Italia il ricorso ad interventi strutturali è ancora praticamente l'unico sistema adottato, ma la prevenzione si attua anche attraverso interventi non strutturali, quali l'applicazione di adeguate norme di uso del suolo, di piani di protezione civile, del monitoraggio dei fenomeni ma, soprattutto, la diffusione di una radicata e ampia conoscenza del livello di esposizione al rischio. Ancora oggi, e malgrado le immagini ricorrenti dei disastri provocati dai dissesti idrogeologici, si vedono persone sui ponti ad osservare il passaggio della piena, automobilisti che impegnano sottopassi allagati, cittadini che cercano di proteggere dalle acque locali seminterrati, spesso perdendo la vita. La mancanza di cultura del rischio idrogeologico si traduce in un atteggiamento fatalista nei confronti di calamità naturali, che potrebbero invece essere previste e prevenute. Un corretto approccio per mitigare gli effetti delle calamità è basato, quindi, sulla conoscenza dei fenomeni e degli scenari che essi possono produrre e sulla definizione di comportamenti a tutti i livelli che bisogna adottare per contenere il rischio: la consapevolezza del rischio, infatti, rende tutti - politici, amministrazioni e popolazione - responsabili delle azioni per la sua mitigazione;
malgrado l'Italia sia un Paese esposto praticamente a tutti i rischi geologici esistenti, non tutte le regioni si sono dotate ancora di un ufficio geologico e il numero di geologi impiegati nelle pubbliche amministrazioni rimane sempre molto esiguo. Questo accade nonostante la figura di un geologo, profondo conoscitore del territorio su cui opera e delle modalità di attivazione dei fenomeni di dissesto, sarebbe in grado di monitorare le aree a rischio e condurre un'efficace opera di previsione e prevenzione dei rischi;
l'aspettativa da parte del soggetto «esposto al rischio» (alluvionale, idrogeologico, sismico, vulcanico e altro) di un risarcimento statale non è fondata su alcuna norma giuridica esistente e di fronte ai costi crescenti, che i Governi devono affrontare per riparare i danni causati da disastri naturali, in tutto il mondo si sta cercando di sviluppare sistemi di assicurazione contro le calamità naturali;
lo stesso rapporto Ocse presentato a Roma nel 2010 evidenziava che, in Italia, il ricorso alle assicurazioni private contro le calamità naturali è limitato e occorrerebbe mettere a punto un sistema pubblico-privato in grado di migliorare la copertura assicurativa per le perdite causate dalle catastrofi naturali e rafforzare gli incentivi ad investire in misure di mitigazione dal rischio, come, ad esempio, premi più bassi,

impegna il Governo:

ad aumentare adeguatamente le risorse destinate alla prevenzione, anche ristabilendo una quota di finanziamento sui fondi annuali destinati agli interventi di difesa del suolo, da destinare obbligatoriamente alla manutenzione dei corsi d'acqua e delle opere;
a non concedere alcun nuovo condono e, anzi, a favorire la delocalizzazione dei manufatti a rischio rispetto ad una loro messa in sicurezza secondo un'adeguata analisi costi/benefici;
a promuovere la comunicazione ai cittadini sui comportamenti da tenere in caso di calamità naturali e per non aumentare il livello di rischio nelle aree vulnerabili ed a rendere facilmente consultabile, anche attraverso il sito del portale cartografico nazionale del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, la mappa delle aree a più elevato rischio idrogeologico;
a rafforzare il ruolo della figura professionale del geologo nella pubblica amministrazione;
a valutare la possibilità di assumere iniziative volte a istituire un sistema di assicurazione per la copertura finanziaria dei danni causati da disastri naturali.
(1-00760)
(Testo modificato nel corso della seduta)«Zamparutti, Beltrandi, Bernardini, Farina Coscioni, Mecacci, Maurizio Turco, Colombo, Giulietti, Bucchino, Versace».

La Camera,
premesso che:
la tutela e la sicurezza del territorio italiano, unitamente alla tutela delle acque, rappresentano un interesse prioritario della collettività; il suolo è una risorsa ambientale non riproducibile, la cui trasformazione produce effetti permanenti su ambiente e paesaggio;
la fragilità del territorio italiano è documentata e sempre più evidente: i dati di recente forniti dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare classificano circa il 10 per cento del territorio nazionale ad elevata criticità idrogeologica, ossia a rischio di alluvioni, frane e valanghe; i due terzi delle aree esposte a rischio riguardano i centri urbani, le infrastrutture e le aree produttive; più in generale e con diversa intensità, il rischio di frane e alluvioni riguarda tutto il territorio nazionale: l'89 per cento dei comuni sono soggetti a rischio idrogeologico e 5,8 milioni di italiani vivono sotto tale minaccia;
alla particolare conformazione geologica del territorio italiano, alla fragile e mutevole natura dei suoli che lo compongono ed all'acuirsi delle variazioni climatiche estreme, non è stata contrapposta una tutela specifica dalla forte pressione antropica che si registra nel nostro Paese: l'Italia è, infatti, un Paese fortemente antropizzato, con una densità media pari a 189 abitanti per chilometro quadrato, assai superiore alla media dell'Europa pari a 118 abitanti per chilometro quadrato e con fortissime sperequazioni nella distribuzione territoriale;
secondo i dati Istat, il trend del consumo di suolo nel nostro Paese è cresciuto a ritmi impressionanti, pari a 244.000 ettari all'anno di suolo divorato da cemento ed asfalto; si è assistito, negli ultimi decenni, ad una crescita continua dell'urbanizzazione, al diffondersi di una cementificazione spesso incontrollata, all'artificializzazione di corsi d'acqua minori, fiumare e canali e alla sottrazione di aree libere, agricole e boschive, quali presidi per la tenuta del territorio italiano, di cui si paga un prezzo altissimo ogni qualvolta, sul nostro Paese, si abbattono piogge particolarmente intense;
l'assenza di un'adeguata pianificazione territoriale da parte degli stessi enti preposti alla gestione del territorio ed il ricorso improprio agli oneri di urbanizzazione quale fonte prioritaria di finanziamento per i bilanci comunali, hanno spesso privato il «bene suolo» del suo valore pubblico, riducendolo ad un mero serbatoio da cui attingere risorse;
la pratica dell'abusivismo, le continue deroghe alla normativa urbanistica e le ricorrenti politiche di condono edilizio, hanno minato la creazione di una cultura diffusa in materia di sicurezza del territorio, di rispetto delle regole e di salvaguardia del suolo come risorsa per le generazioni future;
anche nella gestione delle risorse pubbliche per la tutela dell'ambiente si evidenzia un deficit di pianificazione e programmazione con una spesa improduttiva e molte volte dirottata su altre finalità; un recente studio dell'Associazione artigiani e piccole imprese Mestre (Cgia) ha indicato che solo l'1,1 per cento delle imposte «ecologiche» sull'energia, sui trasporti e sulle attività inquinanti, pagate dai cittadini allo Stato e agli enti locali, è destinato alla protezione dell'ambiente; il 98,9 per cento va a coprire altre voci di spesa;
più in generale, occorre sottolineare come la politica di tutela del territorio continua a destinare la gran parte delle risorse disponibili, che restano comunque scarse, all'emergenza, anziché ad una effettiva opera di prevenzione e messa in sicurezza del territorio, che è l'unico modo per prevenire danni economici e perdite di vite umane inaccettabili; ad esempio, a fronte di un finanziamento della legge n. 183 del 1989 per la difesa «strutturale» del suolo, pari a soli 2 miliardi di euro negli ultimi 20 anni, sono stati spesi ben 213 miliardi di euro per arginare le mille emergenze che si sono verificate: 161 miliardi di euro per coprire i danni provocati dai terremoti e 52 miliardi di euro per riparare i disastri derivanti dal dissesto idrogeologico. Tra il 1999 ed il 2008 sono stati spesi 58 miliardi di euro per la difesa del suolo, la riduzione dell'inquinamento e l'assetto idrogeologico, ma di questi oltre il 50 per cento è stato assorbito dalle spese in parte corrente e solo 26 miliardi di euro sono stati destinati ad investimenti per la prevenzione dei rischi;
gli stanziamenti ordinari riguardanti la difesa del suolo e il rischio idrogeologico, iscritti nei bilanci di previsione degli ultimi anni, indicano pesanti riduzioni di risorse, facendo venir meno la certezza di poter disporre delle risorse necessarie a politiche di prevenzione, che hanno bisogno di continuità per poter essere efficaci e registrando, nei fatti, uno spostamento delle modalità di finanziamento che privilegia una gestione straordinaria, mediante strumenti che non sempre hanno prodotto risultati soddisfacenti;
il piano straordinario per la prevenzione del rischio idrogeologico, previsto dalla legge finanziaria per il 2010, che ha assegnato per interventi straordinari al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare fondi per 1 miliardo di euro a valere sulle risorse del fondo per le aree sottoutilizzate diretti a rimuovere le situazioni a più elevato rischio idrogeologico, non ha fin qui prodotto i risultati attesi; i suddetti fondi destinati a finanziare gli accordi di programma sottoscritti con le regioni, che concorrevano con 954 milioni di euro a valere sulla quota regionale del fondo per le aree sottoutilizzate, per la realizzazione degli interventi prioritari di prevenzione, sono stati ridotti di oltre 200 milioni di euro per far fronte alle emergenze delle alluvioni in Liguria, Toscana, Veneto, Emilia, Sicilia e Campania;
ad oggi, il piano straordinario per il dissesto presenta evidenti e notevoli difficoltà di attuazione, con pregiudizio dell'azione dello Stato nel campo della difesa del suolo. Nonostante la sottoscrizioni degli accordi di programma con tutte le regioni, sono stati effettivamente assegnati soltanto 100 milioni di euro delle risorse statali previste, parte delle risorse dei cofinanziamenti regionali in molti casi non sono più disponibili, mentre il taglio di risorse operato dal decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, ha rimodulato in riduzione gli accordi già sottoscritti. Per far fronte a questa criticità, il Governo si è impegnato per inserire nella delibera del Cipe del 20 gennaio 2012 - che individua ed assegna le risorse e gli interventi di rilevanza strategica regionale - gli interventi per la mitigazione del rischio idrogeologico già individuati negli accordi sottoscritti con le regioni del Mezzogiorno, per complessivi 680 milioni di euro;
ancora prima dell'individuazione di nuove risorse economiche, occorre però mettere mano con decisione all'infrastrutturazione istituzionale nel campo delle politiche per la difesa del suolo. La maggiore criticità oggi riscontrabile è, infatti, dovuta al mancato completamento del riassetto della governance e da una frammentazione e sovrapposizione di competenze: soggetti e strumenti che appesantiscono, rendendolo meno efficiente, a volte paralizzandolo, il sistema di pianificazione, programmazione, gestione e monitoraggio degli interventi;
a livello nazionale si sconta, a tutt'oggi, la mancanza di una regia unitaria delle azioni di difesa del suolo e di gestione della risorsa idrica; l'adeguamento alle normative comunitarie - direttiva n. 2000/60/CE sulle acque ed alluvioni - avrebbe necessariamente richiesto la definizione di ruoli e competenze che sono ancora confuse tra livelli distrettuali e regionali, con l'effetto di non rendere riconoscibile la catena delle responsabilità; l'attuale revisione dei livelli istituzionali e la diversa attribuzione di funzioni in materia di pianificazione territoriale di scala vasta e di tutela delle risorse ambientali rischiano, peraltro, di creare nuove criticità;
il sistema di gestione proposto per la difesa del suolo, la tutela delle acque e i servizi idrici è di tipo spiccatamente centralistico, incapace di coordinare sinergicamente competenze, ruoli, responsabilità e poteri decisionali delle istituzioni interessate e di armonizzare contenuti, modalità di approvazione, attuazione ed aggiornamento dei diversi strumenti di pianificazione; l'istituzione delle otto autorità di bacino distrettuali, non ancora operative, a cui viene attribuita la potestà pianificatoria, trova limiti nella stessa delimitazione territoriale dei distretti approvata, nella loro architettura istituzionale, dovuta ad un eccessivo peso ministeriale e ad un conflitto latente con il sistema delle regioni, deleterio per gli organismi che dovrebbero fondarsi sul principio cooperativo tra Stato e regioni a fronte di competenze concorrenti in materia territoriale, e nella stessa operatività economica di tali organismi, a causa delle crescenti difficoltà finanziarie del settore pubblico;
i piani di gestione dei distretti idrografici e i relativi programmi di azione, da predisporre per il raggiungimento degli obiettivi della direttiva sulle acque n. 2000/60/CE entro il termine di nove anni dalla sua emanazione, sono stati adottati dai vomitati istituzionali delle autorità di bacino, ma sono tuttora in attesa di definitiva approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, con il risultato di aver prodotto fin qui solo effetti limitativi per i territori interessati, senza aver invece dispiegato le azioni positive in essi previste;
a livello comunitario, oltre alla direttiva quadro sulle acque n. 2000/60/CE, solo parzialmente attuata con il decreto legislativo n. 152 del 2006 (Testo unico in materia ambientale), altri importanti atti legislativi comunitari in materia di gestione delle acque e di difesa del suolo sono stati parzialmente assunti e recepiti dal nostro Paese, tra cui la direttiva sulle alluvioni n. 2007/60/Ce, recepita con il decreto legislativo n. 49 del 2010 che, però, mal si integra con il Testo unico in materia ambientale;
tratto fondante del progetto comunitario, a cui dovrebbe ispirarsi l'azione del nostro Paese in materia di difesa del suolo, è il perseguimento di un'azione programmatica non limitata al semplice bilanciamento delle esigenze di sicurezza, di quelle ecologiche ed economiche, ma finalizzata all'obiettivo di un cambiamento del modello di sviluppo, attraverso scelte di destinazione ed uso del territorio. Punti caratterizzanti di tale programma sono la ricostruzione ecologica dei corsi d'acqua, lo sfruttamento dei processi di qualificazione dell'agricoltura come cura e presidio del territorio, l'introduzione dell'analisi economica nei processi decisionali, al fine di realizzare gli interventi che portano maggior beneficio alla collettività piuttosto che favorire la redditività immediata del singolo, l'assunzione, nel quadro degli scenari di cambiamento, anche dei cambiamenti climatici, la promozione di politiche di adattamento piuttosto che il ricorso ad interventi strutturali, la valorizzazione di pratiche di tipo «negoziale-dialogico» e di partecipazione e coinvolgimento del pubblico nella ricerca di scelte condivise;
la maggior parte degli interventi finalizzati alla difesa del suolo, realizzati in Italia, sono interventi strutturali di difesa passiva, nonostante sia ormai dimostrato che il binomio «dissesto-intervento di difesa del dissesto» può dar luogo a soluzioni localmente soddisfacenti, ma se applicato diffusamente può provocare effetti negativi, non solo perché spesso il rapporto costo/efficacia è sfavorevole, ma anche perché la realizzazione di un intervento a monte può aggravare i pericoli a valle. Al contrario, occorre puntare sulle attività di carattere preventivo, che pongano l'enfasi sul valore delle regole di uso del suolo, sul monitoraggio delle situazioni di rischio e sul grado di conoscenza e consapevolezza delle popolazioni del livello di esposizione al rischio di un territorio;
anche la gestione delle sempre più frequenti emergenze dovute al dissesto idrogeologico, in capo nel nostro Paese ad un sistema di protezione civile tra i più qualificati al mondo, ha dovuto misurarsi negli ultimi anni con crescenti difficoltà: il decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10 (cosiddetto decreto-legge milleproroghe per il 2011), ha introdotto, a carico delle regioni, l'obbligo di attingere a risorse proprie, mediante l'apposizione di addizionali fiscali regionali e l'aumento dell'accisa sulla benzina a carico di cittadini ed imprese già colpite da eventi calamitosi, per far fronte a situazioni per le quali il Governo dichiari lo stato di emergenza, con la conseguenza di aggravare una situazione già difficile e rallentare, per effetto di ricorsi avanzati dalle regioni, la tempestività degli interventi; il fondo regionale di protezione civile, utile negli anni passati a garantire il funzionamento del sistema regionale, così come previsto dalla legge finanziaria per il 2001, e la copertura dei danni causati da eventi di pertinenza regionale è stato praticamente azzerato; il fondo nazionale per la protezione civile, unica fonte di finanziamento delle attività istituzionali e per il funzionamento della struttura, ha subito dal 2006 al 2011 una riduzione di oltre il 50 per cento delle risorse, concentrata in particolare negli anni 2009-2011, con un ulteriore aggravio della manovra economica di luglio 2011; inoltre, le modalità di ritardata erogazione, dal Ministero dell'economia e delle finanze al dipartimento di protezione civile, delle risorse incidono negativamente sulla programmazione e sull'operatività degli interventi di messa in sicurezza e protezione della popolazione. La sentenza n. 22 del 2012 della Corte costituzionale, dando ragione alle regioni ricorrenti, ha dichiarato incostituzionale una parte delle norme contenute nel decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10 (cosiddetto decreto-legge milleproroghe per il 2011), cancellando l'obbligo per le regioni di innalzamento delle proprie imposte e dell'accisa sulla benzina, ma lascia irrisolti una serie di problemi relativi al funzionamento della protezione civile, per i quali è necessario un intervento tempestivo del Governo e del Parlamento;
l'importanza di un'azione istituzionale più incisiva in materia di difesa del suolo e di contrasto al dissesto idrogeologico è stata già oggetto della mozione n. 1-00324, approvata all'unanimità dalla Camera dei Deputati il 26 gennaio 2010, con la quale si impegnava il Governo, oltre a dare attuazione al piano nazionale straordinario per il rischio idrogeologico, a «promuovere iniziative normative di competenza che introducano norme a favore della difesa del suolo e della riduzione del rischio idrogeologico, in modo tale da costituire un quadro di riferimento certo per le singole normative regionali che individui alcuni punti qualificanti per una gestione rispettosa e sostenibile del paesaggio e del territorio»;
è necessario richiamare ad un nuovo e più incisivo impegno il Parlamento e il Governo, anche alla luce dei deludenti risultati registrati in questi anni e della necessità di individuare soluzioni tempestive ed avanzate per fronteggiare il ripetersi di episodi calamitosi ed emergenziali, sempre più gravi e difficilmente risolvibili esclusivamente con interventi ex post, sempre più costosi e sostanzialmente inefficaci,

impegna il Governo:

ad invertire la logica di priorità degli interventi in materia di difesa del suolo, contrastando ogni iniziativa di indebolimento della pianificazione territoriale e di ricorso a nuovi condoni edilizi, salvaguardando la centralità della pianificazione territoriale integrata di scala vasta anche nelle scelte in itinere di ridefinizione dei livelli istituzionali esistenti, privilegiando la logica della prevenzione rispetto a quella di gestione dell'emergenza, anche nell'allocazione delle risorse economiche che devono essere rese stabili, utilizzabili in tempi certi e ricondotte ad una gestione ordinaria delle procedure, in primo luogo salvaguardando e sbloccando le risorse previste dagli accordi di programma già sottoscritti con le regioni per gli interventi prioritari di prevenzione dal rischio idrogeologico;
a dare piena attuazione, nell'ambito della propria competenza, ai principi e ai contenuti delle direttive europee in materia di gestione delle risorse idriche e di alluvioni, assumendo le opportune iniziative di natura amministrativa e normativa che possano portare ad una significativa riorganizzazione del sistema di responsabilità e competenze, che elimini sovrapposizioni ed incongruenze del quadro esistente, puntando ad una maggiore cooperazione tra i livelli amministrativi ed il sistema delle competenze tecniche esterne, ad un effettivo coordinamento tra politiche settoriali e territoriali, nonché ad una reale attuazione dei requisiti di partecipazione pubblica attiva e di informazione/educazione al rischio, anche mediante la valorizzazione di esperienze virtuose di programmazione negoziata territoriale, come i contratti di fiume;
ad adottare iniziative normative volte ad apportare le modifiche al quadro normativo vigente nella logica unitaria della difesa idrogeologica, della gestione integrata dell'acqua e del governo delle risorse idriche, al fine di rendere finalmente operative le autorità di bacino distrettuali, secondo una governance che tenga conto delle esigenze di riequilibrio istituzionale sostenute dalle regioni, di una delimitazione più funzionale dei distretti e di un sistema di governo in grado di riconoscere e valorizzare il patrimonio di conoscenze ed esperienze delle strutture tecniche di bacino esistenti a livello regionale e locale, nonché a portare a definitiva e rapida approvazione i piani di gestione dei distretti idrografici e i relativi programmi di azione, ai fini del raggiungimento degli obiettivi previsti della direttiva sulle acque n. 2000/60/CE;
ad assumere iniziative volte a promuovere e sostenere un piano straordinario di manutenzione diffusa del territorio e dei corsi d'acqua, che coinvolga il sistema delle autonomie locali e che preveda la possibilità di deroghe rispetto ai vincoli di spesa imposti dal patto di stabilità e l'incentivazione della partecipazione attiva della popolazione, anche mediante la sperimentazione di progetti che coinvolgano lavoratori temporaneamente beneficiari di ammortizzatori sociali;
a promuovere le opportune modifiche normative che garantiscano la possibilità del sistema della protezione civile di operare in modo tempestivo ed efficace nel campo del contrasto ai danni provocati dal dissesto idrogeologico, mediante il superamento delle criticità contenute nelle norme attualmente in vigore, in particolare del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10 (cosiddetto decreto-legge milleproroghe per il 2011).
(1-00877)
«Braga, Mariani, Maran, Lenzi, Bocci, Bratti, Esposito, Ginoble, Iannuzzi, Marantelli, Margiotta, Morassut, Motta, Benamati, Realacci, Viola, Codurelli».

La Camera,
premesso che:
la tutela e la sicurezza del territorio italiano, unitamente alla tutela delle acque, rappresentano un interesse prioritario della collettività; il suolo è una risorsa ambientale non riproducibile, la cui trasformazione produce effetti permanenti su ambiente e paesaggio;
la fragilità del territorio italiano è documentata e sempre più evidente: i dati di recente forniti dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare classificano circa il 10 per cento del territorio nazionale ad elevata criticità idrogeologica, ossia a rischio di alluvioni, frane e valanghe; i due terzi delle aree esposte a rischio riguardano i centri urbani, le infrastrutture e le aree produttive; più in generale e con diversa intensità, il rischio di frane e alluvioni riguarda tutto il territorio nazionale: l'89 per cento dei comuni sono soggetti a rischio idrogeologico e 5,8 milioni di italiani vivono sotto tale minaccia;
alla particolare conformazione geologica del territorio italiano, alla fragile e mutevole natura dei suoli che lo compongono ed all'acuirsi delle variazioni climatiche estreme, non è stata contrapposta una tutela specifica dalla forte pressione antropica che si registra nel nostro Paese: l'Italia è, infatti, un Paese fortemente antropizzato, con una densità media pari a 189 abitanti per chilometro quadrato, assai superiore alla media dell'Europa pari a 118 abitanti per chilometro quadrato e con fortissime sperequazioni nella distribuzione territoriale;
secondo i dati Istat, il trend del consumo di suolo nel nostro Paese è cresciuto a ritmi impressionanti, pari a 244.000 ettari all'anno di suolo divorato da cemento ed asfalto; si è assistito, negli ultimi decenni, ad una crescita continua dell'urbanizzazione, al diffondersi di una cementificazione spesso incontrollata, all'artificializzazione di corsi d'acqua minori, fiumare e canali e alla sottrazione di aree libere, agricole e boschive, quali presidi per la tenuta del territorio italiano, di cui si paga un prezzo altissimo ogni qualvolta, sul nostro Paese, si abbattono piogge particolarmente intense;
l'assenza di un'adeguata pianificazione territoriale da parte degli stessi enti preposti alla gestione del territorio ed il ricorso improprio agli oneri di urbanizzazione quale fonte prioritaria di finanziamento per i bilanci comunali, hanno spesso privato il «bene suolo» del suo valore pubblico, riducendolo ad un mero serbatoio da cui attingere risorse;
la pratica dell'abusivismo, le continue deroghe alla normativa urbanistica e le ricorrenti politiche di condono edilizio, hanno minato la creazione di una cultura diffusa in materia di sicurezza del territorio, di rispetto delle regole e di salvaguardia del suolo come risorsa per le generazioni future;
anche nella gestione delle risorse pubbliche per la tutela dell'ambiente si evidenzia un deficit di pianificazione e programmazione con una spesa improduttiva e molte volte dirottata su altre finalità; un recente studio dell'Associazione artigiani e piccole imprese Mestre (Cgia) ha indicato che solo l'1,1 per cento delle imposte «ecologiche» sull'energia, sui trasporti e sulle attività inquinanti, pagate dai cittadini allo Stato e agli enti locali, è destinato alla protezione dell'ambiente; il 98,9 per cento va a coprire altre voci di spesa;
più in generale, occorre sottolineare come la politica di tutela del territorio continua a destinare la gran parte delle risorse disponibili, che restano comunque scarse, all'emergenza, anziché ad una effettiva opera di prevenzione e messa in sicurezza del territorio, che è l'unico modo per prevenire danni economici e perdite di vite umane inaccettabili; ad esempio, a fronte di un finanziamento della legge n. 183 del 1989 per la difesa «strutturale» del suolo, pari a soli 2 miliardi di euro negli ultimi 20 anni, sono stati spesi ben 213 miliardi di euro per arginare le mille emergenze che si sono verificate: 161 miliardi di euro per coprire i danni provocati dai terremoti e 52 miliardi di euro per riparare i disastri derivanti dal dissesto idrogeologico. Tra il 1999 ed il 2008 sono stati spesi 58 miliardi di euro per la difesa del suolo, la riduzione dell'inquinamento e l'assetto idrogeologico, ma di questi oltre il 50 per cento è stato assorbito dalle spese in parte corrente e solo 26 miliardi di euro sono stati destinati ad investimenti per la prevenzione dei rischi;
gli stanziamenti ordinari riguardanti la difesa del suolo e il rischio idrogeologico, iscritti nei bilanci di previsione degli ultimi anni, indicano pesanti riduzioni di risorse, facendo venir meno la certezza di poter disporre delle risorse necessarie a politiche di prevenzione, che hanno bisogno di continuità per poter essere efficaci e registrando, nei fatti, uno spostamento delle modalità di finanziamento che privilegia una gestione straordinaria, mediante strumenti che non sempre hanno prodotto risultati soddisfacenti;
il piano straordinario per la prevenzione del rischio idrogeologico, previsto dalla legge finanziaria per il 2010, che ha assegnato per interventi straordinari al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare fondi per 1 miliardo di euro a valere sulle risorse del fondo per le aree sottoutilizzate diretti a rimuovere le situazioni a più elevato rischio idrogeologico, non ha fin qui prodotto i risultati attesi; i suddetti fondi destinati a finanziare gli accordi di programma sottoscritti con le regioni, che concorrevano con 954 milioni di euro a valere sulla quota regionale del fondo per le aree sottoutilizzate, per la realizzazione degli interventi prioritari di prevenzione, sono stati ridotti di oltre 200 milioni di euro per far fronte alle emergenze delle alluvioni in Liguria, Toscana, Veneto, Emilia, Sicilia e Campania;
ad oggi, il piano straordinario per il dissesto presenta evidenti e notevoli difficoltà di attuazione, con pregiudizio dell'azione dello Stato nel campo della difesa del suolo. Nonostante la sottoscrizioni degli accordi di programma con tutte le regioni, sono stati effettivamente assegnati soltanto 100 milioni di euro delle risorse statali previste, parte delle risorse dei cofinanziamenti regionali in molti casi non sono più disponibili, mentre il taglio di risorse operato dal decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, ha rimodulato in riduzione gli accordi già sottoscritti. Per far fronte a questa criticità, il Governo si è impegnato per inserire nella delibera del Cipe del 20 gennaio 2012 - che individua ed assegna le risorse e gli interventi di rilevanza strategica regionale - gli interventi per la mitigazione del rischio idrogeologico già individuati negli accordi sottoscritti con le regioni del Mezzogiorno, per complessivi 680 milioni di euro;
ancora prima dell'individuazione di nuove risorse economiche, occorre però mettere mano con decisione all'infrastrutturazione istituzionale nel campo delle politiche per la difesa del suolo. La maggiore criticità oggi riscontrabile è, infatti, dovuta al mancato completamento del riassetto della governance e da una frammentazione e sovrapposizione di competenze: soggetti e strumenti che appesantiscono, rendendolo meno efficiente, a volte paralizzandolo, il sistema di pianificazione, programmazione, gestione e monitoraggio degli interventi;
a livello nazionale si sconta, a tutt'oggi, la mancanza di una regia unitaria delle azioni di difesa del suolo e di gestione della risorsa idrica; l'adeguamento alle normative comunitarie - direttiva n. 2000/60/CE sulle acque ed alluvioni - avrebbe necessariamente richiesto la definizione di ruoli e competenze che sono ancora confuse tra livelli distrettuali e regionali, con l'effetto di non rendere riconoscibile la catena delle responsabilità; l'attuale revisione dei livelli istituzionali e la diversa attribuzione di funzioni in materia di pianificazione territoriale di scala vasta e di tutela delle risorse ambientali rischiano, peraltro, di creare nuove criticità;
il sistema di gestione proposto per la difesa del suolo, la tutela delle acque e i servizi idrici è di tipo spiccatamente centralistico, incapace di coordinare sinergicamente competenze, ruoli, responsabilità e poteri decisionali delle istituzioni interessate e di armonizzare contenuti, modalità di approvazione, attuazione ed aggiornamento dei diversi strumenti di pianificazione; l'istituzione delle otto autorità di bacino distrettuali, non ancora operative, a cui viene attribuita la potestà pianificatoria, trova limiti nella stessa delimitazione territoriale dei distretti approvata, nella loro architettura istituzionale, dovuta ad un eccessivo peso ministeriale e ad un conflitto latente con il sistema delle regioni, deleterio per gli organismi che dovrebbero fondarsi sul principio cooperativo tra Stato e regioni a fronte di competenze concorrenti in materia territoriale, e nella stessa operatività economica di tali organismi, a causa delle crescenti difficoltà finanziarie del settore pubblico;
i piani di gestione dei distretti idrografici e i relativi programmi di azione, da predisporre per il raggiungimento degli obiettivi della direttiva sulle acque n. 2000/60/CE entro il termine di nove anni dalla sua emanazione, sono stati adottati dai vomitati istituzionali delle autorità di bacino, ma sono tuttora in attesa di definitiva approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, con il risultato di aver prodotto fin qui solo effetti limitativi per i territori interessati, senza aver invece dispiegato le azioni positive in essi previste;
a livello comunitario, oltre alla direttiva quadro sulle acque n. 2000/60/CE, solo parzialmente attuata con il decreto legislativo n. 152 del 2006 (Testo unico in materia ambientale), altri importanti atti legislativi comunitari in materia di gestione delle acque e di difesa del suolo sono stati parzialmente assunti e recepiti dal nostro Paese, tra cui la direttiva sulle alluvioni n. 2007/60/Ce, recepita con il decreto legislativo n. 49 del 2010 che, però, mal si integra con il Testo unico in materia ambientale;
tratto fondante del progetto comunitario, a cui dovrebbe ispirarsi l'azione del nostro Paese in materia di difesa del suolo, è il perseguimento di un'azione programmatica non limitata al semplice bilanciamento delle esigenze di sicurezza, di quelle ecologiche ed economiche, ma finalizzata all'obiettivo di un cambiamento del modello di sviluppo, attraverso scelte di destinazione ed uso del territorio. Punti caratterizzanti di tale programma sono la ricostruzione ecologica dei corsi d'acqua, lo sfruttamento dei processi di qualificazione dell'agricoltura come cura e presidio del territorio, l'introduzione dell'analisi economica nei processi decisionali, al fine di realizzare gli interventi che portano maggior beneficio alla collettività piuttosto che favorire la redditività immediata del singolo, l'assunzione, nel quadro degli scenari di cambiamento, anche dei cambiamenti climatici, la promozione di politiche di adattamento piuttosto che il ricorso ad interventi strutturali, la valorizzazione di pratiche di tipo «negoziale-dialogico» e di partecipazione e coinvolgimento del pubblico nella ricerca di scelte condivise;
la maggior parte degli interventi finalizzati alla difesa del suolo, realizzati in Italia, sono interventi strutturali di difesa passiva, nonostante sia ormai dimostrato che il binomio «dissesto-intervento di difesa del dissesto» può dar luogo a soluzioni localmente soddisfacenti, ma se applicato diffusamente può provocare effetti negativi, non solo perché spesso il rapporto costo/efficacia è sfavorevole, ma anche perché la realizzazione di un intervento a monte può aggravare i pericoli a valle. Al contrario, occorre puntare sulle attività di carattere preventivo, che pongano l'enfasi sul valore delle regole di uso del suolo, sul monitoraggio delle situazioni di rischio e sul grado di conoscenza e consapevolezza delle popolazioni del livello di esposizione al rischio di un territorio;
anche la gestione delle sempre più frequenti emergenze dovute al dissesto idrogeologico, in capo nel nostro Paese ad un sistema di protezione civile tra i più qualificati al mondo, ha dovuto misurarsi negli ultimi anni con crescenti difficoltà: il decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10 (cosiddetto decreto-legge milleproroghe per il 2011), ha introdotto, a carico delle regioni, l'obbligo di attingere a risorse proprie, mediante l'apposizione di addizionali fiscali regionali e l'aumento dell'accisa sulla benzina a carico di cittadini ed imprese già colpite da eventi calamitosi, per far fronte a situazioni per le quali il Governo dichiari lo stato di emergenza, con la conseguenza di aggravare una situazione già difficile e rallentare, per effetto di ricorsi avanzati dalle regioni, la tempestività degli interventi; il fondo regionale di protezione civile, utile negli anni passati a garantire il funzionamento del sistema regionale, così come previsto dalla legge finanziaria per il 2001, e la copertura dei danni causati da eventi di pertinenza regionale è stato praticamente azzerato; il fondo nazionale per la protezione civile, unica fonte di finanziamento delle attività istituzionali e per il funzionamento della struttura, ha subito dal 2006 al 2011 una riduzione di oltre il 50 per cento delle risorse, concentrata in particolare negli anni 2009-2011, con un ulteriore aggravio della manovra economica di luglio 2011; inoltre, le modalità di ritardata erogazione, dal Ministero dell'economia e delle finanze al dipartimento di protezione civile, delle risorse incidono negativamente sulla programmazione e sull'operatività degli interventi di messa in sicurezza e protezione della popolazione. La sentenza n. 22 del 2012 della Corte costituzionale, dando ragione alle regioni ricorrenti, ha dichiarato incostituzionale una parte delle norme contenute nel decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10 (cosiddetto decreto-legge milleproroghe per il 2011), cancellando l'obbligo per le regioni di innalzamento delle proprie imposte e dell'accisa sulla benzina, ma lascia irrisolti una serie di problemi relativi al funzionamento della protezione civile, per i quali è necessario un intervento tempestivo del Governo e del Parlamento;
l'importanza di un'azione istituzionale più incisiva in materia di difesa del suolo e di contrasto al dissesto idrogeologico è stata già oggetto della mozione n. 1-00324, approvata all'unanimità dalla Camera dei Deputati il 26 gennaio 2010, con la quale si impegnava il Governo, oltre a dare attuazione al piano nazionale straordinario per il rischio idrogeologico, a «promuovere iniziative normative di competenza che introducano norme a favore della difesa del suolo e della riduzione del rischio idrogeologico, in modo tale da costituire un quadro di riferimento certo per le singole normative regionali che individui alcuni punti qualificanti per una gestione rispettosa e sostenibile del paesaggio e del territorio»;
è necessario richiamare ad un nuovo e più incisivo impegno il Parlamento e il Governo, anche alla luce dei deludenti risultati registrati in questi anni e della necessità di individuare soluzioni tempestive ed avanzate per fronteggiare il ripetersi di episodi calamitosi ed emergenziali, sempre più gravi e difficilmente risolvibili esclusivamente con interventi ex post, sempre più costosi e sostanzialmente inefficaci,

impegna il Governo:

a contrastare ogni iniziativa di indebolimento della pianificazione territoriale e di ricorso a nuovi condoni edilizi, salvaguardando la centralità della pianificazione territoriale integrata di scala vasta anche nelle scelte in itinere di ridefinizione dei livelli istituzionali esistenti, privilegiando la logica della prevenzione rispetto a quella di gestione dell'emergenza, anche nell'allocazione delle risorse economiche che devono essere rese stabili, utilizzabili in tempi certi e ricondotte ad una gestione ordinaria delle procedure, in primo luogo salvaguardando e sbloccando le risorse previste dagli accordi di programma già sottoscritti con le regioni per gli interventi prioritari di prevenzione dal rischio idrogeologico;
a dare piena attuazione, nell'ambito della propria competenza, ai principi e ai contenuti delle direttive europee in materia di gestione delle risorse idriche e di alluvioni, assumendo le opportune iniziative di natura amministrativa e normativa che possano portare ad una significativa riorganizzazione del sistema di responsabilità e competenze, che elimini sovrapposizioni ed incongruenze del quadro esistente, puntando ad una maggiore cooperazione tra i livelli amministrativi ed il sistema delle competenze tecniche esterne, ad un effettivo coordinamento tra politiche settoriali e territoriali, nonché ad una reale attuazione dei requisiti di partecipazione pubblica attiva e di informazione/educazione al rischio, anche mediante la valorizzazione di esperienze virtuose di programmazione negoziata territoriale, come i contratti di fiume;
ad adottare iniziative normative volte ad apportare le modifiche al quadro normativo vigente nella logica unitaria della difesa idrogeologica, della gestione integrata dell'acqua e del governo delle risorse idriche, al fine di rendere finalmente operative le autorità di bacino distrettuali, secondo una governance che tenga conto delle esigenze di riequilibrio istituzionale sostenute dalle regioni, di una delimitazione più funzionale dei distretti e di un sistema di governo in grado di riconoscere e valorizzare il patrimonio di conoscenze ed esperienze delle strutture tecniche di bacino esistenti a livello regionale e locale, nonché a portare a definitiva e rapida approvazione i piani di gestione dei distretti idrografici e i relativi programmi di azione, ai fini del raggiungimento degli obiettivi previsti della direttiva sulle acque n. 2000/60/CE;
ad assumere iniziative volte a promuovere e sostenere un piano straordinario di manutenzione diffusa del territorio e dei corsi d'acqua, che coinvolga il sistema delle autonomie locali e che possa prevedere eventuali deroghe rispetto ai vincoli di spesa imposti dal patto di stabilità e l'incentivazione della partecipazione attiva della popolazione, anche mediante la sperimentazione di progetti che coinvolgano lavoratori temporaneamente beneficiari di ammortizzatori sociali;
a promuovere le opportune modifiche normative che garantiscano la possibilità del sistema della protezione civile di operare in modo tempestivo ed efficace nel campo del contrasto ai danni provocati dal dissesto idrogeologico, mediante il superamento delle criticità contenute nelle norme attualmente in vigore, in particolare del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10 (cosiddetto decreto-legge milleproroghe per il 2011).
(1-00877)
(Testo modificato nel corso della seduta)«Braga, Mariani, Maran, Lenzi, Bocci, Bratti, Esposito, Ginoble, Iannuzzi, Marantelli, Margiotta, Morassut, Motta, Benamati, Realacci, Viola, Codurelli».

La Camera,
premesso che:
le politiche di attenzione al governo del territorio sono fondamentali e imprescindibili, sia per il corretto ed equilibrato sviluppo ambientale del Paese, che per le conseguenze non trascurabili dovute a eventi ambientali calamitosi;
i recenti tragici eventi avvenuti in Liguria e Toscana, a Roma e in Campania, senza dimenticare quelli del messinese, hanno messo alla luce, ancora di più rispetto al passato, le gravissime carenze strutturali presenti nel nostro Paese rispetto al tema del dissesto idrogeologico del territorio;
sono sempre più manifesti, infatti, i danni provocati da frane, inondazioni, alluvioni, eventi sismici che feriscono, il più delle volte anche mortalmente, una larghissima parte del territorio nazionale, non capace di sopportare eventi di tale portata, in quanto impoverito, danneggiato ed improvvidamente usato dall'uomo;
negli ultimi decenni l'intero patrimonio territoriale nazionale ha subito una progressiva e continua riduzione delle aree libere e naturali a vantaggio di un incremento degli insediamenti urbani e industriali, con incrementi vicini anche al 500 per cento rispetto ai primi anni del dopoguerra;
i riferimenti statistici più recenti dimostrano come tale tendenza abbia conosciuto un'ulteriore accelerazione negli ultimi anni, in particolare nelle aree metropolitane del Sud, e come la crescita della superficie urbanizzata in alcune aree abbia limitato fortemente il mantenimento delle attività agricole primarie e favorito una crescita esponenziale dei consumi energetici;
sono più di 29.000 i chilometri quadrati di territorio nazionale che presentano elevati aspetti di criticità sotto il profilo idrogeologico e più di 10 milioni i cittadini che vivono in insediamenti abitati costruiti su queste aree, mentre più del 40 per cento dei comuni presenta superfici ad elevato rischio sismico, evidenziando la drammatica emergenza in atto sulla quasi totalità del territorio nazionale, in particolare nel Mezzogiorno ma non solo, le cui conseguenze, in termini di perdita di vite umane e di danni economici sono note a tutti;
il dissesto idrogeologico rappresenta per il nostro Paese un problema di notevole rilevanza; il rischio idrogeologico ed idraulico è diffuso in modo capillare e si presenta in modo differente a seconda dell'assetto geomorfologico del territorio: frane, esondazioni e dissesti morfologici di carattere torrentizio, trasporto di massa lungo le conoidi nelle zone montane e collinari, esondazioni e sprofondamenti nelle zone collinari e di pianura;
tutto ciò è da sommare ai terremoti che hanno colpito la penisola causando danni economici consistenti, valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro, impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale, per non tacere della perdita di vite umane;
la riqualificazione edilizia del patrimonio abitativo italiano stenta a decollare: a quanto risulta dalle indicazioni di studi effettuati sulla materia, circa il 70 per cento dell'intero patrimonio necessita di interventi di miglioramento ed efficientamento; i recenti «piani casa» varati hanno trovato evidenti difficoltà a decollare e, comunque, non hanno tenuto conto di misure che prevedono un corretto e rispettoso utilizzo del territorio, nonché di un sistema di incentivazione per il recupero e la riqualificazione del patrimonio edilizio, per la delocalizzazione dalle aree esposte a forte rischio e per garantire priorità di intervento in queste ultime;
uno degli aspetti più rilevanti, legato all'aumento del rischio idrogeologico, è quello relativo al fenomeno dell'abusivismo, che, come tanti casi di cronaca hanno drammaticamente dimostrato, è connesso alla violazione delle norme in materia di sicurezza; dati alla mano, salta all'occhio come il fenomeno sia maggiore nelle aree del Paese a tradizionale presenza malavitosa: in Campania, Sicilia, Calabria e Puglia si concentra il 46,2 per cento delle infrazioni accertate dalle forze dell'ordine, ma le infrazioni sono ben più distribuite se intese come incoerenze con le indicazioni di cui ai piani stralcio di bacino per l'assetto idrogeologico (Pai) di cui alla legge n. 267 del 1998;
sono necessarie azioni in funzione del ripristino delle condizioni di sicurezza del territorio e del miglioramento dell'efficienza del patrimonio abitativo e industriale presente nel Paese, con particolare attenzione agli aspetti che riguardano l'esposizione al rischio idrogeologico e sismico;
sono state tantissime le risorse investite negli ultimi anni per fronteggiare le emergenze legate agli eventi, che hanno provocato ingentissimi danni alla difesa del suolo, che però, in assenza di piani di prevenzione ben strutturati e organizzati e dell'attenzione continua e prioritaria ai conseguenti interventi di mitigazione del rischio, hanno perso efficacia e con un ulteriore ritardo sul concorso delle azioni di prevenzione richiamate;
recentemente il Parlamento ha approvato iniziative in materia, presentate anche dai gruppi proponenti il presente atto di indirizzo, che indirizzavano il Governo a prevedere misure, anche finanziarie, finalizzate all'adozione di un piano di interventi straordinari per il recupero del territorio dal rischio idrogeologico che, ad oggi, risultano non essere state messe in pratica;
il problema del dissesto idrogeologico del territorio e dei cambiamenti climatici non riguarda solo l'Italia ma - come ha avuto modo di sottolineare di recente anche il presidente del Consiglio nazionale dei geologi in occasione dell'incontro a Vancouver con la Federazione nazionale dei geologi canadesi, proprio per un confronto globale sulle questioni professionali ed ambientali in materia di dissesto idrogeologico - coinvolge anche altri Paesi dove insistono criticità non meno gravi, per cui è fondamentale che la difesa complessiva dell'ambiente diventi un obiettivo strategico e prioritario anche dell'agenda europea,

impegna il Governo:

a dare seguito agli atti di indirizzo approvati in Parlamento, che già impegnavano i precedenti Governi a destinare risorse all'attuazione del piano straordinario di interventi per la messa in sicurezza e riqualificazione del territorio nazionale e del patrimonio abitativo pubblico e privato, esposto a rischio sismico e idrogeologico;
ad adottare iniziative, nell'ambito delle proprie competenze e nel rispetto delle competenze attribuite alle regioni e agli enti locali dalla legislazione vigente, anche di natura economica, finalizzate alla predisposizione di un piano ventennale di opere che prevedano:
a) la messa in sicurezza del territorio nazionale attraverso una stima completa delle aree dove intervenire, un elenco delle opere e dei relativi costi, l'individuazione degli interventi sulla base di indici tecnici che ne determinino le priorità e il coinvolgimento di tutti gli organismi preposti;
b) un congruo stanziamento per un impegno di spesa annuale per l'ottimizzazione del territorio nazionale;
c) la valutazione dell'opportunità di vincolare una quota del bilancio statale alla costituzione di un fondo di garanzia per il lucro cessante delle attività economiche esistenti sul territorio oggetto di evento sismico e/o idrogeologico;
ad adottare tutte le misure necessarie per favorire la prevenzione dei fenomeni e gli interventi a difesa del suolo, sollecitando il rafforzamento e lo sviluppo delle attività di complesso monitoraggio del territorio nazionale;
ad assumere iniziative di competenza per rafforzare il sistema dei controlli e prevedere un inasprimento delle sanzioni sui comportamenti dei singoli cittadini e dei privati in funzione di una maggiore attenzione al rispetto del suolo, garantendo l'applicazione di sanzioni certe per gli attori che non rispettino le normative in materia;
a promuovere una rivisitazione della normativa vigente in materia di controlli, al fine di prevedere l'introduzione di meccanismi sanzionatori in caso di inadempienze accertate da parte delle pubbliche amministrazioni;
a sviluppare un sistema di contrasto efficiente all'abusivismo e all'edificazione selvaggia;
ad assumere iniziative volte a prevedere una progressiva delocalizzazione di tutti gli insediamenti, abitativi e produttivi, dalle aree a forte rischio idrogeologico;
ad adoperarsi nelle competenti sedi europee affinché, anche a livello comunitario, si affronti al più presto il delicato problema della prevenzione e della difesa del territorio, anche eventualmente sollecitando l'adozione di provvedimenti incisivi che consentano soluzioni condivise e comuni per la gestione del territorio e per il monitoraggio delle situazioni a rischio idrogeologico e che eventualmente prevedano anche la costituzione di un fondo per la bonifica degli alvei dei fiumi e dei loro affluenti, nonché la costituzione di un centro europeo di raccolta dati.
(1-00878)
«Libè, Di Biagio, Galletti, Della Vedova, Dionisi, Mondello, Lusetti».

La Camera,
premesso che:
le politiche di attenzione al governo del territorio sono fondamentali e imprescindibili, sia per il corretto ed equilibrato sviluppo ambientale del Paese, che per le conseguenze non trascurabili dovute a eventi ambientali calamitosi;
i recenti tragici eventi avvenuti in Liguria e Toscana, a Roma e in Campania, senza dimenticare quelli del messinese, hanno messo alla luce, ancora di più rispetto al passato, le gravissime carenze strutturali presenti nel nostro Paese rispetto al tema del dissesto idrogeologico del territorio;
sono sempre più manifesti, infatti, i danni provocati da frane, inondazioni, alluvioni, eventi sismici che feriscono, il più delle volte anche mortalmente, una larghissima parte del territorio nazionale, non capace di sopportare eventi di tale portata, in quanto impoverito, danneggiato ed improvvidamente usato dall'uomo;
negli ultimi decenni l'intero patrimonio territoriale nazionale ha subito una progressiva e continua riduzione delle aree libere e naturali a vantaggio di un incremento degli insediamenti urbani e industriali, con incrementi vicini anche al 500 per cento rispetto ai primi anni del dopoguerra;
i riferimenti statistici più recenti dimostrano come tale tendenza abbia conosciuto un'ulteriore accelerazione negli ultimi anni, in particolare nelle aree metropolitane del Sud, e come la crescita della superficie urbanizzata in alcune aree abbia limitato fortemente il mantenimento delle attività agricole primarie e favorito una crescita esponenziale dei consumi energetici;
sono più di 29.000 i chilometri quadrati di territorio nazionale che presentano elevati aspetti di criticità sotto il profilo idrogeologico e più di 10 milioni i cittadini che vivono in insediamenti abitati costruiti su queste aree, mentre più del 40 per cento dei comuni presenta superfici ad elevato rischio sismico, evidenziando la drammatica emergenza in atto sulla quasi totalità del territorio nazionale, in particolare nel Mezzogiorno ma non solo, le cui conseguenze, in termini di perdita di vite umane e di danni economici sono note a tutti;
il dissesto idrogeologico rappresenta per il nostro Paese un problema di notevole rilevanza; il rischio idrogeologico ed idraulico è diffuso in modo capillare e si presenta in modo differente a seconda dell'assetto geomorfologico del territorio: frane, esondazioni e dissesti morfologici di carattere torrentizio, trasporto di massa lungo le conoidi nelle zone montane e collinari, esondazioni e sprofondamenti nelle zone collinari e di pianura;
tutto ciò è da sommare ai terremoti che hanno colpito la penisola causando danni economici consistenti, valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro, impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale, per non tacere della perdita di vite umane;
la riqualificazione edilizia del patrimonio abitativo italiano stenta a decollare: a quanto risulta dalle indicazioni di studi effettuati sulla materia, circa il 70 per cento dell'intero patrimonio necessita di interventi di miglioramento ed efficientamento; i recenti «piani casa» varati hanno trovato evidenti difficoltà a decollare e, comunque, non hanno tenuto conto di misure che prevedono un corretto e rispettoso utilizzo del territorio, nonché di un sistema di incentivazione per il recupero e la riqualificazione del patrimonio edilizio, per la delocalizzazione dalle aree esposte a forte rischio e per garantire priorità di intervento in queste ultime;
uno degli aspetti più rilevanti, legato all'aumento del rischio idrogeologico, è quello relativo al fenomeno dell'abusivismo, che, come tanti casi di cronaca hanno drammaticamente dimostrato, è connesso alla violazione delle norme in materia di sicurezza; dati alla mano, salta all'occhio come il fenomeno sia maggiore nelle aree del Paese a tradizionale presenza malavitosa: in Campania, Sicilia, Calabria e Puglia si concentra il 46,2 per cento delle infrazioni accertate dalle forze dell'ordine, ma le infrazioni sono ben più distribuite se intese come incoerenze con le indicazioni di cui ai piani stralcio di bacino per l'assetto idrogeologico (Pai) di cui alla legge n. 267 del 1998;
sono necessarie azioni in funzione del ripristino delle condizioni di sicurezza del territorio e del miglioramento dell'efficienza del patrimonio abitativo e industriale presente nel Paese, con particolare attenzione agli aspetti che riguardano l'esposizione al rischio idrogeologico e sismico;
sono state tantissime le risorse investite negli ultimi anni per fronteggiare le emergenze legate agli eventi, che hanno provocato ingentissimi danni alla difesa del suolo, che però, in assenza di piani di prevenzione ben strutturati e organizzati e dell'attenzione continua e prioritaria ai conseguenti interventi di mitigazione del rischio, hanno perso efficacia e con un ulteriore ritardo sul concorso delle azioni di prevenzione richiamate;
recentemente il Parlamento ha approvato iniziative in materia, presentate anche dai gruppi proponenti il presente atto di indirizzo, che indirizzavano il Governo a prevedere misure, anche finanziarie, finalizzate all'adozione di un piano di interventi straordinari per il recupero del territorio dal rischio idrogeologico che, ad oggi, risultano non essere state messe in pratica;
il problema del dissesto idrogeologico del territorio e dei cambiamenti climatici non riguarda solo l'Italia ma - come ha avuto modo di sottolineare di recente anche il presidente del Consiglio nazionale dei geologi in occasione dell'incontro a Vancouver con la Federazione nazionale dei geologi canadesi, proprio per un confronto globale sulle questioni professionali ed ambientali in materia di dissesto idrogeologico - coinvolge anche altri Paesi dove insistono criticità non meno gravi, per cui è fondamentale che la difesa complessiva dell'ambiente diventi un obiettivo strategico e prioritario anche dell'agenda europea,

impegna il Governo:

a dare seguito agli atti di indirizzo approvati in Parlamento, che già impegnavano i precedenti Governi a destinare risorse all'attuazione del piano straordinario di interventi per la messa in sicurezza e riqualificazione del territorio nazionale e del patrimonio abitativo pubblico e privato, esposto a rischio sismico e idrogeologico;
ad adottare iniziative, nell'ambito delle proprie competenze e nel rispetto delle competenze attribuite alle regioni e agli enti locali dalla legislazione vigente, anche di natura economica, finalizzate alla predisposizione di un piano ventennale di opere che prevedano:
a) la messa in sicurezza del territorio nazionale attraverso una stima completa delle aree dove intervenire, un elenco delle opere e dei relativi costi, l'individuazione degli interventi sulla base di indici tecnici che ne determinino le priorità e il coinvolgimento di tutti gli organismi preposti;
b) un congruo stanziamento per un impegno di spesa annuale per l'ottimizzazione del territorio nazionale;
c) la valutazione dell'opportunità di vincolare una quota del bilancio statale alla costituzione di un fondo di garanzia per il lucro cessante delle attività economiche esistenti sul territorio oggetto di evento sismico e/o idrogeologico;
ad adottare tutte le misure necessarie per favorire la prevenzione dei fenomeni e gli interventi a difesa del suolo, sollecitando il rafforzamento e lo sviluppo delle attività di complesso monitoraggio del territorio nazionale;
ad assumere iniziative di competenza per rafforzare il sistema dei controlli e prevedere un inasprimento delle sanzioni sui comportamenti dei singoli cittadini e dei privati in funzione di una maggiore attenzione al rispetto del suolo, garantendo l'applicazione di sanzioni certe per gli attori che non rispettino le normative in materia;
a promuovere una rivisitazione della normativa vigente in materia di controlli, al fine di prevedere l'introduzione di meccanismi sanzionatori in caso di inadempienze accertate da parte delle pubbliche amministrazioni;
a sviluppare un sistema di contrasto efficiente all'abusivismo e all'edificazione selvaggia;
ad assumere iniziative volte a prevedere, ove possibile, una progressiva delocalizzazione di tutti gli insediamenti, abitativi e produttivi, dalle aree a forte rischio idrogeologico;
ad adoperarsi nelle competenti sedi europee affinché, anche a livello comunitario, si affronti al più presto il delicato problema della prevenzione e della difesa del territorio, anche eventualmente sollecitando l'adozione di provvedimenti incisivi che consentano soluzioni condivise e comuni per la gestione del territorio e per il monitoraggio delle situazioni a rischio idrogeologico e che eventualmente prevedano anche la costituzione di un fondo per la bonifica degli alvei dei fiumi e dei loro affluenti, nonché la costituzione di un centro europeo di raccolta dati.
(1-00878)
(Testo modificato nel corso della seduta)«Libè, Di Biagio, Galletti, Della Vedova, Dionisi, Mondello, Lusetti».

La Camera,
premesso che:
il 21 aprile 2009, la Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici della Camera dei Deputati, ha approvato una risoluzione volta alla definizione di un programma pluriennale di interventi per la difesa del suolo, votata positivamente da tutte le forze politiche presenti nella Commissione parlamentare;
la risoluzione, facendo presente che il nostro Paese è fortemente compromesso da fenomeni di dissesto idrogeologico e che appare ormai urgente ed inderogabile attivare serie misure di contrasto alla rottura degli equilibri del particolare e rinomato territorio naturale delle regioni italiane, ha segnalato che, per fare fronte a problematiche così complesse ed impellenti, sarebbe necessario prevedere un programma pluriennale di interventi, coordinato dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, ma da attuarsi da parte degli enti periferici e territoriali competenti per legge, il cui valore non avrebbe dovuto essere inferiore ad almeno 5 miliardi di euro;
il 26 gennaio 2010 è stata approvata all'unanimità dall'assemblea della Camera dei deputati la mozione n. 1-00324 che, tra l'altro, ha impegnato il Governo ad attuare quanto previsto dalla risoluzione n. 8-00040, approvata dalla Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici il 21 aprile 2009;
in effetti, la situazione di rischio idrogeologico del territorio italiano è nota e conclamata. Uno studio del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare evidenzia che il 9,8 per cento della superficie nazionale è ad alta criticità idrogeologica e che sono 6.633 i comuni interessati, pari all'81,9 per cento dei comuni italiani. In particolare, il 24,9 per cento dei comuni è interessato da aree a rischio frana, il 18,6 per cento da aree a rischio alluvione e il 38,4 per cento da aree a rischio sia di frana che di alluvione;
l'articolo 2, comma 240, della legge finanziaria per il 2010, ha destinato 900 milioni di euro ai piani straordinari diretti a rimuovere le situazioni a più elevato rischio idrogeologico (individuate dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentite le autorità di bacino e il dipartimento della protezione civile);
in attuazione delle procedure introdotte a norma delle predette disposizioni, si è riscontrato che non sempre esse si sono dimostrate snelle e in grado di rispondere tempestivamente alle effettive necessità dei territori interessati, evidenziando spesso ritardi nelle fasi di predisposizione dei provvedimenti convenzionali ed amministrativi, impossibilità di poter disporre di risorse adeguate ed effettivamente spendibili, disallineamenti tra i tempi in cui sarebbe necessario effettuare gli interventi rispetto a quelli in cui questi sono necessari o diventano concretamente eseguibili;
va sottolineato che i veri conoscitori dello stato di salute del territorio e delle relative necessità di interventi per la messa in sicurezza e per la prevenzione dei rischi e dei pericoli derivanti dalle calamità naturali sono gli amministratori locali e, pertanto, sembrerebbe opportuno mettere gli stessi amministratori al centro delle attività relative all'individuazione, alla predisposizione ed esecuzione degli interventi di mitigazione allo scopo censiti;
appare necessaria una revisione delle norme vigenti in campo di prevenzione e di lotta al dissesto idrogeologico, eliminando le disposizioni che, di fatto, rendono farraginose le procedure atte all'esecuzione degli interventi ed all'assegnazione delle risorse;
nell'auspicato processo di ricognizione delle norme potrebbe essere inserita la previsione di un fondo volto a risarcire i soggetti che, a seguito di eventi calamitosi legati al dissesto idrogeologico, abbiano subito danni ai loro beni;
al riguardo va fatto presente che il fabbisogno finanziario necessario per la realizzazione degli interventi di messa in sicurezza complessiva delle situazioni di dissesto del territorio nazionale appare essere quasi imponente: si calcola un ammontare di 44 miliardi di euro, di cui 27 miliardi di euro per l'area del Centro-Nord, 13 miliardi di euro per il Mezzogiorno e 4 miliardi di euro per il patrimonio costiero;
risulta, altresì, evidente che, se non si procederà al più presto ad effettuare un vasto piano di prevenzione e messa in sicurezza del territorio, sarà sempre più difficile ed insostenibile fare fronte agli interventi di risarcimento e di ricostruzione delle opere distrutte o danneggiate a seguito di danni provocati dalle calamità naturali,

impegna il Governo:

ad intraprendere iniziative urgenti finalizzate a modificare l'attuale disciplina in materia di interventi nelle situazioni a più elevato rischio idrogeologico e a salvaguardare la sicurezza delle infrastrutture e il patrimonio ambientale e culturale, sopprimendo il sistema centralizzato dei commissari previsto dall'articolo 17, comma 1, del decreto-legge n. 195 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 26 del 2010;
ad attivare un organico programma di interventi per il riassetto territoriale delle aree a rischio idrogeologico, da parte del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare d'intesa con le singole regioni, articolato attraverso azioni che prevedano progetti strategici di difesa dal rischio idrogeologico relativi alle aree urbane o agli insediamenti produttivi di particolare rilievo, interventi puntuali di riduzione del rischio idrogeologico, anche con riferimento ai piccoli comuni, e interventi di manutenzione diffusa del territorio nonché di singole opere di difesa esistenti;
ad assumere iniziative volte a istituire un sistema di finanziamento delle opere basato sulla concessione e conseguente erogazione delle risorse direttamente ai comuni, alle province, ai consorzi di bonifica, alle comunità montane e agli altri soggetti competenti ai sensi della normativa vigente in materia di difesa del territorio e tutela dell'ambiente, prevedendo la concessione di contributi da parte dello Stato, pari agli oneri per capitale ed interessi di ammortamento di mutui o altre operazioni finanziarie che i predetti soggetti possano essere autorizzati a contrarre con la Cassa depositi e prestiti o istituti finanziari, nell'ambito di autorizzazioni di spesa pluriennali a carico dello Stato di almeno 100.000.000 euro annui, nel rispetto dei saldi di finanza pubblica;
ad assumere iniziative normative per prevedere l'esclusione di tali finanziamenti pluriennali dai vincoli previsti dal patto di stabilità e dalle percentuali di indebitamento cui sono soggetti gli enti beneficiari dei contributi statali;
ad intraprendere specifiche iniziative, anche di natura normativa, volte a prevedere l'istituzione di un fondo compartecipato dallo Stato, dalle regioni e dagli enti locali, finalizzato alla concessione di indennizzi e per il risarcimento dei danni provocati dalle calamità naturali connessi al dissesto idrogeologico del territorio;
ad assumere iniziative di competenza, anche normative, finalizzate a prevedere che i comuni possano concedere crediti edilizi in favore di soggetti che procedono alla delocalizzazione dei propri immobili situati in aree classificate a rischio, verso siti sicuri.
(1-00879)
«Dussin, Alessandri, Lanzarin, Togni, Bitonci, Giancarlo Giorgetti, D'Amico, Polledri, Simonetti, Fogliato, Lussana, Fugatti, Fedriga, Montagnoli».

La Camera,
premesso che:
i recenti disastri avvenuti in Italia, dalla Liguria alla Sicilia, dalla Toscana alla Calabria, così come quelli passati, su tutti il Veneto, dimostrano, ancora un volta, la fragilità del territorio italiano, fortemente esposto al rischio di frane e alluvioni;
le cause di un simile dissesto non sono da ricondurre esclusivamente a fattori naturali, come la conformazione idrogeologica del territorio. Vi sono fattori umani, riconducibili alla cementificazione selvaggia, all'alta densità della popolazione, al disboscamento, allo stato di abbandono e alla mancata manutenzione e cura dei territori montani, dei versanti e dei corsi d'acqua, oltre ad una pratica costante di diffuso abusivismo edilizio. A ciò si aggiungano i cambiamenti climatici in atto, responsabili di eventi eccezionali, ma che, dato il loro ripetersi ciclicamente negli ultimi anni, cominciano ad assumere i caratteri dell'ordinarietà;
in particolare, la mancanza di adeguati piani di urbanizzazione e riqualificazione dei territori da parte degli enti locali, accanto a misure di contrasto ai fenomeni dell'abusivismo del tutto inefficaci e in alcuni casi tali da facilitare le pratiche illegali, hanno contribuito a diffondere una politica «dell'emergenza», anziché principi fondamentali, quali quelli della prevenzione e della tutela del territorio;
secondo i dati dell'indagine realizzata da Legambiente con la collaborazione del dipartimento della protezione civile «Ecosistema Rischio 2011», sono pari a 6.633 le amministrazioni comunali italiane classificate a rischio idrogeologico potenziale più elevato;
lo stesso documento informa che l'85 per cento dei comuni intervistati, pari a 1.121, ha evidenziato la presenza sul territorio di competenza di abitazioni ed edifici costruiti su aree a rischio frana; nello specifico, il 56 per cento dei comuni ha dichiarato la presenza di fabbricati industriali in zone pericolose, il 31 per cento di interi quartieri, il 20 per cento di strutture pubbliche come scuole e ospedali, il 26 per cento di strutture commerciali o ricettive;
si tratta, pertanto, di circa due comuni su tre, quelli che possiedono nel proprio territorio abitazioni in aree di golenali, in prossimità degli alvei e in aree a rischio frana. In un terzo dei casi si tratta addirittura di interi quartieri;
è stato calcolato che i fenomeni legati al dissesto idrogeologico interessano complessivamente il 10 per cento del territorio nazionale, con punte di criticità in Calabria, Molise, Basilicata, Umbria, Valle d'Aosta e Provincia autonoma di Trento, dove il 100 per cento dei comuni è classificato a rischio. La superficie delle aree ad alta criticità idrogeologica si estende per 29.517 chilometri quadrati, di cui 12.263 chilometri quadrati (4,1 per cento del territorio) a rischio alluvioni e 15.738 chilometri quadrati (5,2 per cento del territorio) a rischio frana. Si stima che siano oltre 5 milioni i cittadini che si trovano in zone esposte al pericolo di frane o alluvioni;
l'utilizzo delle moderne tecnologie e dei sistemi di previsione del meteo più sviluppati ha, il più delle volte, trovato un ostacolo nella sottovalutazione dei rischi, nella mancanza da parte delle amministrazioni di idonei piani di prevenzione e di messa in sicurezza del territorio e nell'impreparazione della popolazione;
sino a questo momento, sono mancate azioni efficaci finalizzate alla tutela del territorio e alla difesa dai fenomeni del dissesto idrogeologico. Le risorse investite hanno perlopiù riguardato le circostanze legate alla necessità di arginare le emergenze: il funzionamento della macchina dei soccorsi, l'assistenza alla popolazione colpita dagli eventi disastrosi, il sostegno alle attività produttive colpite e gli interventi di prima necessità e urgenza;
recentemente il Ministro Clini ha affermato che «negli ultimi vent'anni i danni da dissesto idrogeologico sono ammontati, in media, a 2,5 miliardi di euro all'anno. Se non si inverte il trend i danni continueranno a crescere perché gli eventi diventano più frequenti»,

impegna il Governo:

ad attuare un nuovo piano straordinario di interventi finalizzato alla tutela e alla messa in sicurezza del territorio più esposto ai rischi idrogeologici e ad arginare in questo modo l'attuale situazione emergenziale;
ad assumere iniziative volte a prevedere misure di lungo periodo, nell'ambito delle proprie competenze, destinate alla salvaguardia del territorio, per far fronte ad un aumento costante dei fenomeni di rischio, dovuti a fattori naturali e umani;
nei limiti delle proprie competenze, a predisporre interventi per attuare piani di prevenzione, di manutenzione e di monitoraggio continuo del territorio, anche prevedendo la delocalizzazione delle strutture e dei fabbricati a rischio;
ad assumere iniziative, anche normative, volte a rendere più stretti i vincoli che vietano la costruzione nelle zone esposte al pericolo, anche attraverso la predisposizione di sanzioni più aspre per i comportamenti contrari alle norme in materia;
ad assumere iniziative volte a formare la popolazione sui principi essenziali per la diffusione di una cultura della difesa del suolo e della salvaguardia del territorio, come bene comune.
(1-00885)
«Mosella, Pisicchio, Fabbri, Tabacci, Brugger».

La Camera,
premesso che:
i recenti disastri avvenuti in Italia, dalla Liguria alla Sicilia, dalla Toscana alla Calabria, così come quelli passati, su tutti il Veneto, dimostrano, ancora un volta, la fragilità del territorio italiano, fortemente esposto al rischio di frane e alluvioni;
le cause di un simile dissesto non sono da ricondurre esclusivamente a fattori naturali, come la conformazione idrogeologica del territorio. Vi sono fattori umani, riconducibili alla cementificazione selvaggia, all'alta densità della popolazione, al disboscamento, allo stato di abbandono e alla mancata manutenzione e cura dei territori montani, dei versanti e dei corsi d'acqua, oltre ad una pratica costante di diffuso abusivismo edilizio. A ciò si aggiungano i cambiamenti climatici in atto, responsabili di eventi eccezionali, ma che, dato il loro ripetersi ciclicamente negli ultimi anni, cominciano ad assumere i caratteri dell'ordinarietà;
in particolare, la mancanza di adeguati piani di urbanizzazione e riqualificazione dei territori da parte degli enti locali, accanto a misure di contrasto ai fenomeni dell'abusivismo del tutto inefficaci e in alcuni casi tali da facilitare le pratiche illegali, hanno contribuito a diffondere una politica «dell'emergenza», anziché principi fondamentali, quali quelli della prevenzione e della tutela del territorio;
secondo i dati dell'indagine realizzata da Legambiente con la collaborazione del dipartimento della protezione civile «Ecosistema Rischio 2011», sono pari a 6.633 le amministrazioni comunali italiane classificate a rischio idrogeologico potenziale più elevato;
lo stesso documento informa che l'85 per cento dei comuni intervistati, pari a 1.121, ha evidenziato la presenza sul territorio di competenza di abitazioni ed edifici costruiti su aree a rischio frana; nello specifico, il 56 per cento dei comuni ha dichiarato la presenza di fabbricati industriali in zone pericolose, il 31 per cento di interi quartieri, il 20 per cento di strutture pubbliche come scuole e ospedali, il 26 per cento di strutture commerciali o ricettive;
si tratta, pertanto, di circa due comuni su tre, quelli che possiedono nel proprio territorio abitazioni in aree di golenali, in prossimità degli alvei e in aree a rischio frana. In un terzo dei casi si tratta addirittura di interi quartieri;
è stato calcolato che i fenomeni legati al dissesto idrogeologico interessano complessivamente il 10 per cento del territorio nazionale, con punte di criticità in Calabria, Molise, Basilicata, Umbria, Valle d'Aosta e Provincia autonoma di Trento, dove il 100 per cento dei comuni è classificato a rischio. La superficie delle aree ad alta criticità idrogeologica si estende per 29.517 chilometri quadrati, di cui 12.263 chilometri quadrati (4,1 per cento del territorio) a rischio alluvioni e 15.738 chilometri quadrati (5,2 per cento del territorio) a rischio frana. Si stima che siano oltre 5 milioni i cittadini che si trovano in zone esposte al pericolo di frane o alluvioni;
l'utilizzo delle moderne tecnologie e dei sistemi di previsione del meteo più sviluppati ha, il più delle volte, trovato un ostacolo nella sottovalutazione dei rischi, nella mancanza da parte delle amministrazioni di idonei piani di prevenzione e di messa in sicurezza del territorio e nell'impreparazione della popolazione;
sino a questo momento, sono mancate azioni efficaci finalizzate alla tutela del territorio e alla difesa dai fenomeni del dissesto idrogeologico. Le risorse investite hanno perlopiù riguardato le circostanze legate alla necessità di arginare le emergenze: il funzionamento della macchina dei soccorsi, l'assistenza alla popolazione colpita dagli eventi disastrosi, il sostegno alle attività produttive colpite e gli interventi di prima necessità e urgenza;
recentemente il Ministro Clini ha affermato che «negli ultimi vent'anni i danni da dissesto idrogeologico sono ammontati, in media, a 2,5 miliardi di euro all'anno. Se non si inverte il trend i danni continueranno a crescere perché gli eventi diventano più frequenti»,

impegna il Governo:

ad attuare un nuovo piano di interventi finalizzato alla tutela e alla messa in sicurezza del territorio più esposto ai rischi idrogeologici e ad arginare in questo modo l'attuale situazione emergenziale;
ad assumere iniziative volte a prevedere misure di lungo periodo, nell'ambito delle proprie competenze, destinate alla salvaguardia del territorio, per far fronte ad un aumento costante dei fenomeni di rischio, dovuti a fattori naturali e umani;
nei limiti delle proprie competenze, a predisporre interventi per attuare piani di prevenzione, di manutenzione e di monitoraggio continuo del territorio, anche prevedendo la delocalizzazione delle strutture e dei fabbricati a rischio;
ad assumere iniziative, anche normative, volte a rendere più stretti i vincoli che vietano la costruzione nelle zone esposte al pericolo, anche attraverso la predisposizione di sanzioni più aspre per i comportamenti contrari alle norme in materia;
ad assumere iniziative volte a formare la popolazione sui principi essenziali per la diffusione di una cultura della difesa del suolo e della salvaguardia del territorio, come bene comune.
(1-00885)
(Testo modificato nel corso della seduta)«Mosella, Pisicchio, Fabbri, Tabacci, Brugger».

La Camera,
premesso che:
il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, certifica che: circa il 10 per cento del territorio nazionale risulta a rischio alluvione, frane e valanghe; i due terzi delle aree esposte a rischio sono ubicati nei centri urbani, nelle infrastrutture e nelle aree produttive; l'89 per cento dei comuni sono soggetti a rischio idrogeologico; 5,8 milioni di italiani sono interessati da questo rischio;
negli ultimi sessanta anni l'Italia è stata ampiamente urbanizzata e antropizzata, con una densità media di 189 abitanti per chilometro quadrato, con stravolgimenti irreversibili degli ecosistemi;
si registra l'assenza di una moderna pianificazione territoriale da parte degli enti di gestione del territorio, che, di fatto, utilizzano gli oneri di urbanizzazione per finanziare i bilanci comunali;
la pratica dell'abusivismo sfrenato in diverse regioni del Paese, insieme a piani regolatori obsoleti, che consentono agli amministratori di concedere licenze edilizie in siti a rischio idrogeologico elevato, rende fragile il territorio italiano, che, in presenza di eventi naturali come piogge intense e durature o terremoti di magnitudo modesta, porta a gravissimi episodi distruttivi di persone e cose;
le risorse finanziarie disponibili per il territorio sono sempre più assorbite dall'emergenza e non coprono i necessari investimenti di prevenzione, tanto è vero che negli ultimi venti anni sono stati spesi circa 52 miliardi di euro per il dissesto idrogeologico e soltanto 2 miliardi di euro per la prevenzione;
per i terremoti, negli ultimi 30 anni, vi sono stati investimenti di circa 161 miliardi di euro per coprire i danni, mentre per gli adeguamenti sismici delle strutture e delle infrastrutture esistenti gli stanziamenti nei bilanci dello Stato e delle regioni sono irrisori;
il piano straordinario per la prevenzione del rischio idrogeologico, previsto dalla legge finanziaria per il 2010, che ha assegnato al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare fondi per le aree sottoutilizzate per 1 miliardo di euro, non ha dato alcun risultato concreto, anche perché si è dovuto far ricorso a parte di questi fondi per le emergenze alluvionali in Liguria, Toscana, Veneto, Emilia-Romagna, Sicilia e Campania,

impegna il Governo:

a coordinare, nell'ambito delle proprie competenze, l'attuazione delle direttive europee in materia e, nello specifico, i principi in esse contenuti, attraverso l'assunzione di iniziative, anche di natura amministrativa, che portino ad una riorganizzazione e ad un coordinamento dei vari livelli di governance, eliminando le sovrapposizioni di competenze attualmente esistenti;
ad assumere le iniziative di competenza volte al completamento dei piani di bacino distrettuali e all'approvazione di piani di gestione idrografica ai fini di raggiungere gli obiettivi previsti dalla direttiva n. 2000/60/CE;
ad assumere iniziative, anche normative, volte a finanziare un piano straordinario di manutenzione del territorio e dei corsi d'acqua, di concerto con le regioni interessate, derogando, ove possibile, ai vincoli imposti dal patto di stabilità e nel rispetto degli accordi di programma sottoscritti con le regioni, finalizzati a ridurre il livello di rischio idrogeologico.
(1-00886)
«Misiti, Fallica, Grimaldi, Iapicca, Miccichè, Pugliese, Soglia, Stagno d'Alcontres, Terranova, Mario Pepe (MistoR-A)».

La Camera,
premesso che:
gli ultimi disastri causati da eventi atmosferici straordinari, con conseguenti frane, alluvioni o esondazione di fiumi, hanno destato, giustamente, nell'opinione pubblica grande preoccupazione;
il consumo spesso incontrollato del suolo e la crescita esponenziale delle cementificazioni e delle urbanizzazioni su un territorio, come quello italiano già particolarmente a rischio dal punto di vista idrogeologico, hanno determinato una situazione tale da rendere irrimandabile la questione della messa in sicurezza del suolo;
basterebbe consultare una qualsiasi fonte di informazione pubblica per avere la dimensione di un fenomeno di proporzioni tali da mettere paura a chiunque e, soprattutto, per mettere in evidenza i ritardi e le responsabilità di una politica che da decenni, a livello nazionale e locale, non è stata in grado di darsi gli strumenti necessari per affrontare una questione di tale importanza per il Paese;
da sempre il nostro Paese, da un punto di vista geologico, è stato un territorio a rischio e le gravi alluvioni che a partire dagli anni Cinquanta, dal Po a Firenze, dalla Valtellina a Crotone, da Sarno a Messina, per finire con le ultime in Liguria, Toscana e Veneto, si sono succedute ne sono, purtroppo, la dimostrazione sul campo;
alla fragilità territoriale si è sempre accompagnata una scarsa cura del suolo, sino ad arrivare a modificazioni parziali o radicali dei corsi d'acqua, annullandone le caratteristiche geologiche naturali con le conseguenze a tutti note;
per quanto riguarda i corsi d'acqua, non si può non denunciare le escavazioni selvagge o le canalizzazioni decise dall'uomo che hanno portato ad uno stravolgimento del territorio circostante e dei corsi d'acqua, producendo esondazioni estremamente pericolose;
gli eventi recenti accaduti: le alluvioni di Genova il 4 novembre 2011, dello Spezzino e della Lunigiana il 25 ottobre 2011, di Roma il 20 ottobre 2011, dell'ascolano e del teramano del marzo 2011, il disastro avvenuto nell'ottobre 2009 nel messinese, le colate di fango a Sarno del 5 maggio 1998, senza andare oltre, con decine di morti e migliaia di sfollati, hanno richiamato l'attenzione dei cittadini italiani sul problema del dissesto idrogeologico;
secondo il primo rapporto sullo stato del territorio italiano realizzato dal centro studi del Consiglio nazionale dei Geologi (Cng), in collaborazione con il Cresme, presentato a Roma il 13 ottobre 2010, sono 6 milioni gli italiani che abitano in aree considerate a grave rischio idrogeologico, mentre 1 milione e 260.000 sono gli edifici soggetti a rischio frane e alluvioni e 6000 di questi edifici sono scuole e 531 gli ospedali;
in tale situazione, la mancanza di una politica organica di difesa del suolo ha costretto il nostro Paese a rincorrere le emergenze con gravi danni economici, nonché con un numero consistente di vittime, senza che si sia mai trovata una soluzione accettabile;
gli stanziamenti distribuiti dallo Stato troppo spesso sono serviti solo a riparare i danni, ma certamente non hanno affrontato alla radice i problemi che rischiano di ripresentarsi al prossimo evento atmosferico straordinario;
ad esempio, per quanto riguarda la provincia di Messina, già nel giugno 2010 fu denunciata la situazione del territorio di Naso dove, a causa delle abbondanti piogge, si erano verificati gravi fenomeni di dissesto idrogeologico, causati da movimenti franosi da imputare ad una scorretta raccolta delle acque così come, pochi mesi prima, vi erano stati movimenti franosi che avevano, sempre nella stessa provincia, coinvolto la borgata Sfaranda, una popolosa frazione del comune di Castello Umberto;
nella stessa città di Messina, il 1o ottobre 2009, la furia degli elementi provocò la morte di numerose persone, in un'area che già era stata colpita nel mese di settembre da un forte nubifragio e che già precedentemente, nell'ottobre 2007, era stata duramente colpita;
la provincia di Messina continua a subire gravi danni a causa di un dissesto idrogeologico che avrebbe bisogno di interventi radicali e decisivi, a dimostrazione che gli interventi emergenziali, seppure indispensabili, non riescono a dare risposte serie e durature, così come richieste giustamente dalla locali popolazioni;
tali fenomeni dimostrano che non si possono più ammettere ritardi, come giustamente tutti gli esperti del settore si affannano a dichiarare, nella determinazione di strumenti normativi che consentano un continuo monitoraggio del territorio, ai quali devono fare seguito atti concreti tesi a rimarginare i danni prodotti dall'uomo sul territorio;
non a caso la Camera dei deputati approvò all'unanimità, il 26 gennaio 2010, una mozione con la quale si impegnava il Governo a dare attuazione al piano nazionale straordinario per il rischio idrogeologico, promuovendo iniziative normative di competenza che introducessero norme a favore della difesa del suolo e della riduzione del rischio idrogeologico;
altro elemento che non si può ignorare è il progressivo abbandono del territorio agricolo che aveva sempre rappresentato un costante fattore di controllo e presidio e ciò ha sicuramente determinato un aggravamento dei fenomeni di dissesto idrogeologico;
l'assenza di risorse destinate alla prevenzione del dissesto idrogeologico non è sicuramente un segnale positivo e sarebbe da incoscienti non intervenire finanziariamente su questo fronte, sapendo collegare la ripresa economica e lo sviluppo al recupero e alla messa in sicurezza del territorio che rappresenta un bene prezioso per il nostro magnifico Paese,

impegna il Governo:

ad attuare in maniera compiuta il piano nazionale di prevenzione del dissesto idrogeologico varato nel 2009, provvedendo alle eventuali modifiche migliorative di tale piano, alla luce del ripetersi di gravi fenomeni di dissesto idrogeologico sull'intero territorio nazionale;
a promuovere la tutela e la gestione dei bacini idrografici attraverso il ripristino degli equilibri idrogeologici, favorendo un governo integrato del sistema delle acque, basato su principi di prevenzione del danno;
a promuovere una normativa organica sulla gestione del suolo che determini attività di presidio e controllo territoriale, recuperando, al contempo, il ruolo di una figura chiave come quella dei geologi che sono quasi del tutto assenti dalle piante organiche degli enti locali;
a introdurre, con carattere prioritario, politiche di salvaguardia e messa in sicurezza del territorio nelle politiche di rilancio dell'economia e dello sviluppo, cominciando ad intervenire in quelle aree che negli ultimi anni hanno, più di altre, subito gravi danni a causa del profondo dissesto idrogeologico del proprio territorio;
ad assumere, per quanto di competenza, in caso di accertata pericolosità di alcune aree nel nostro Paese a forte rischio idrogeologico, tutte le iniziative necessarie al fine di mettere in sicurezza gli abitanti e gli eventuali insediamenti produttivi;
ad intervenire in sede europea, stante i gravi fenomeni climatici verificatisi in più luoghi del continente, affinché si arrivi a politiche unitarie di difesa del suolo attraverso, se necessario, la previsione di fondi europei destinati a tale scopo.
(1-00889)
«Scilipoti, Moffa, Calearo Ciman, Catone, Cesario, D'Anna, Grassano, Gianni, Guzzanti, Lehner, Marmo, Milo, Mottola, Orsini, Pionati, Pisacane, Polidori, Razzi, Romano, Ruvolo, Siliquini, Stasi, Taddei».

La Camera,
premesso che:
gli ultimi disastri causati da eventi atmosferici straordinari, con conseguenti frane, alluvioni o esondazione di fiumi, hanno destato, giustamente, nell'opinione pubblica grande preoccupazione;
il consumo spesso incontrollato del suolo e la crescita esponenziale delle cementificazioni e delle urbanizzazioni su un territorio, come quello italiano già particolarmente a rischio dal punto di vista idrogeologico, hanno determinato una situazione tale da rendere irrimandabile la questione della messa in sicurezza del suolo;
basterebbe consultare una qualsiasi fonte di informazione pubblica per avere la dimensione di un fenomeno di proporzioni tali da mettere paura a chiunque e, soprattutto, per mettere in evidenza i ritardi e le responsabilità di una politica che da decenni, a livello nazionale e locale, non è stata in grado di darsi gli strumenti necessari per affrontare una questione di tale importanza per il Paese;
da sempre il nostro Paese, da un punto di vista geologico, è stato un territorio a rischio e le gravi alluvioni che a partire dagli anni Cinquanta, dal Po a Firenze, dalla Valtellina a Crotone, da Sarno a Messina, per finire con le ultime in Liguria, Toscana e Veneto, si sono succedute ne sono, purtroppo, la dimostrazione sul campo;
alla fragilità territoriale si è sempre accompagnata una scarsa cura del suolo, sino ad arrivare a modificazioni parziali o radicali dei corsi d'acqua, annullandone le caratteristiche geologiche naturali con le conseguenze a tutti note;
per quanto riguarda i corsi d'acqua, non si può non denunciare le escavazioni selvagge o le canalizzazioni decise dall'uomo che hanno portato ad uno stravolgimento del territorio circostante e dei corsi d'acqua, producendo esondazioni estremamente pericolose;
gli eventi recenti accaduti: le alluvioni di Genova il 4 novembre 2011, dello Spezzino e della Lunigiana il 25 ottobre 2011, di Roma il 20 ottobre 2011, dell'ascolano e del teramano del marzo 2011, il disastro avvenuto nell'ottobre 2009 nel messinese, le colate di fango a Sarno del 5 maggio 1998, senza andare oltre, con decine di morti e migliaia di sfollati, hanno richiamato l'attenzione dei cittadini italiani sul problema del dissesto idrogeologico;
secondo il primo rapporto sullo stato del territorio italiano realizzato dal centro studi del Consiglio nazionale dei Geologi (Cng), in collaborazione con il Cresme, presentato a Roma il 13 ottobre 2010, sono 6 milioni gli italiani che abitano in aree considerate a grave rischio idrogeologico, mentre 1 milione e 260.000 sono gli edifici soggetti a rischio frane e alluvioni e 6000 di questi edifici sono scuole e 531 gli ospedali;
in tale situazione, la mancanza di una politica organica di difesa del suolo ha costretto il nostro Paese a rincorrere le emergenze con gravi danni economici, nonché con un numero consistente di vittime, senza che si sia mai trovata una soluzione accettabile;
gli stanziamenti distribuiti dallo Stato troppo spesso sono serviti solo a riparare i danni, ma certamente non hanno affrontato alla radice i problemi che rischiano di ripresentarsi al prossimo evento atmosferico straordinario;
ad esempio, per quanto riguarda la provincia di Messina, già nel giugno 2010 fu denunciata la situazione del territorio di Naso dove, a causa delle abbondanti piogge, si erano verificati gravi fenomeni di dissesto idrogeologico, causati da movimenti franosi da imputare ad una scorretta raccolta delle acque così come, pochi mesi prima, vi erano stati movimenti franosi che avevano, sempre nella stessa provincia, coinvolto la borgata Sfaranda, una popolosa frazione del comune di Castello Umberto;
nella stessa città di Messina, il 1o ottobre 2009, la furia degli elementi provocò la morte di numerose persone, in un'area che già era stata colpita nel mese di settembre da un forte nubifragio e che già precedentemente, nell'ottobre 2007, era stata duramente colpita;
la provincia di Messina continua a subire gravi danni a causa di un dissesto idrogeologico che avrebbe bisogno di interventi radicali e decisivi, a dimostrazione che gli interventi emergenziali, seppure indispensabili, non riescono a dare risposte serie e durature, così come richieste giustamente dalla locali popolazioni;
tali fenomeni dimostrano che non si possono più ammettere ritardi, come giustamente tutti gli esperti del settore si affannano a dichiarare, nella determinazione di strumenti normativi che consentano un continuo monitoraggio del territorio, ai quali devono fare seguito atti concreti tesi a rimarginare i danni prodotti dall'uomo sul territorio;
non a caso la Camera dei deputati approvò all'unanimità, il 26 gennaio 2010, una mozione con la quale si impegnava il Governo a dare attuazione al piano nazionale straordinario per il rischio idrogeologico, promuovendo iniziative normative di competenza che introducessero norme a favore della difesa del suolo e della riduzione del rischio idrogeologico;
altro elemento che non si può ignorare è il progressivo abbandono del territorio agricolo che aveva sempre rappresentato un costante fattore di controllo e presidio e ciò ha sicuramente determinato un aggravamento dei fenomeni di dissesto idrogeologico;
l'assenza di risorse destinate alla prevenzione del dissesto idrogeologico non è sicuramente un segnale positivo e sarebbe da incoscienti non intervenire finanziariamente su questo fronte, sapendo collegare la ripresa economica e lo sviluppo al recupero e alla messa in sicurezza del territorio che rappresenta un bene prezioso per il nostro magnifico Paese,

impegna il Governo:

ad attuare in maniera compiuta il piano nazionale di prevenzione del dissesto idrogeologico varato nel 2009, provvedendo alle eventuali modifiche migliorative di tale piano, alla luce del ripetersi di gravi fenomeni di dissesto idrogeologico sull'intero territorio nazionale;
a promuovere la tutela e la gestione dei bacini idrografici attraverso il ripristino degli equilibri idrogeologici, favorendo un governo integrato del sistema delle acque, basato su principi di prevenzione del danno;
a promuovere una normativa organica sulla gestione del suolo che determini attività di presidio e controllo territoriale, recuperando, al contempo, il ruolo di una figura chiave come quella dei geologi;
a introdurre, con carattere prioritario, politiche di salvaguardia e messa in sicurezza del territorio nelle politiche di rilancio dell'economia e dello sviluppo, cominciando ad intervenire in quelle aree che negli ultimi anni hanno, più di altre, subito gravi danni a causa del profondo dissesto idrogeologico del proprio territorio;
ad assumere, per quanto di competenza, in caso di accertata pericolosità di alcune aree nel nostro Paese a forte rischio idrogeologico, tutte le iniziative necessarie al fine di mettere in sicurezza gli abitanti e gli eventuali insediamenti produttivi;
ad intervenire in sede europea, stante i gravi fenomeni climatici verificatisi in più luoghi del continente, affinché si arrivi a politiche unitarie di difesa del suolo attraverso, se necessario, la previsione di fondi europei destinati a tale scopo.
(1-00889)
(Testo modificato nel corso della seduta)«Scilipoti, Moffa, Calearo Ciman, Catone, Cesario, D'Anna, Grassano, Gianni, Guzzanti, Lehner, Marmo, Milo, Mottola, Orsini, Pionati, Pisacane, Polidori, Razzi, Romano, Ruvolo, Siliquini, Stasi, Taddei».

La Camera,
premesso che:
l'Assemblea della Camera dei deputati ha approvato all'unanimità il 26 gennaio 2010 una specifica mozione inerente al dissesto idrogeologico;
la difesa del suolo appare sempre più una necessità ineludibile; si ripetono, infatti, eventi che evidenziano come si tratti di un'emergenza costante su tutto il territorio nazionale; il dissesto idrogeologico è evento legato alla particolare conformazione geologica del Paese, alla fragile e mutevole natura dei suoli che lo compongono ed all'acuirsi delle variazioni climatiche estreme;
alluvioni, esondazioni, arretramenti delle rive, frane, subsidenze, come ovviamente i terremoti, comportano perdite di vite umane e ingenti danni materiali e ambientali; l'intervento umano e la pressione antropica sul territorio hanno accelerato o innescato tali processi naturali oppure hanno trasformato il territorio, rendendolo vulnerabile a processi destabilizzanti;
è doveroso ricordare che quello della difesa del suolo non è un problema di facile soluzione. La commissione interministeriale per lo studio della sistemazione idraulica e della difesa del suolo, presieduta dal professor De Marchi, nella relazione conclusiva del 1970, individuava i gravi problemi idrogeologici dell'Italia, proponendo un piano d'intervento trentennale che prevedeva la spesa di ben 9.700 miliardi di lire di allora;
a quella commissione va riconosciuto il merito di aver sviluppato un approccio sistemico ai problemi connessi col governo del territorio, ma anche di aver rivolto l'attenzione all'interazione tra opere umane e ambiente complessivamente inteso; tuttavia, le proposte della commissione De Marchi sono state attuate con grave ritardo, tramite la legge quadro n. 183 del 1989 sulla difesa del suolo, circa 20 anni dopo la loro redazione;
limitando il campo di osservazione al solo rischio idrogeologico negli ultimi 80 anni si sono verificati più di 5.400 alluvioni e 11.000 frane; secondo il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sono a «rischio elevato» l'89 per cento dei comuni umbri, l'87 per cento di quelli lucani, l'86 per cento di quelli molisani, il 71 per cento di quelli liguri e valdostani, il 68 per cento di quelli abruzzesi, il 44 per cento di quelli lombardi. In pratica, oltre la metà degli italiani vive in aree soggette ad alluvioni, frane, smottamenti, terremoti, fenomeni vulcanici e persino maremoti; secondo una dettagliata tabella elaborata dal Cineas, il consorzio universitario del Politecnico di Milano, che si occupa della cultura del rischio, nel solo decennio 1994-2004, per tamponare i danni di alluvioni, terremoti e frane più gravi, lo Stato ha dovuto stanziare complessivamente 20.946 milioni di euro. Vale a dire oltre 2 miliardi di euro l'anno ai quali va aggiunto un altro miliardo e mezzo complessivo per gli interventi minori;
secondo i dati diffusi alcuni anni fa dal dipartimento della protezione civile nel periodo 1968-2000, l'intervento statale solo per l'emergenza e la ricostruzione post-terremoto ha superato i 120 miliardi di euro, con una media di 3,8 miliardi all'anno. In Italia il 40 per cento della popolazione vive in aree a rischio sismico, dove il 64 per cento degli edifici non è costruito secondo le norme antisismiche e dove sono morte 120.000 persone nell'ultimo secolo. Milioni di persone sono esposte al rischio vulcanico, che nell'area vesuviana è incerto non nel «se» ma in un «quando» che gli scienziati concordano nel definire prossimo;
complessivamente, a partire dal 1968, l'anno del terremoto del Belice, lo Stato ha speso una somma quantificabile tra i 140 ed i 150 miliardi di euro, una massa di risorse in grado di condizionare gli equilibri dei bilanci pubblici annuali e pluriennali;
l'Italia è un Paese fortemente antropizzato, con una densità media pari a 189 abitanti per chilometro quadrato, assai superiore alla media dell'«Europa a 15», pari a 118 abitanti per chilometro quadrato (la Francia conta 114 abitanti per chilometro quadrato, la Spagna 89), ma con fortissime sperequazioni nella distribuzione territoriale: ai 68 abitanti per chilometro quadrato della Sardegna si contrappongono i 379 abitanti per chilometro quadrato della Lombardia, che da sola registra una volta e mezzo gli abitanti della Finlandia; la Campania arriva a 420 abitanti per chilometro quadrato, ma proprio nella cosiddetta «zona rossa», soggetta a rischio di distruzione pressoché totale in caso di ripresa di attività del Vesuvio, spiccano i comuni con la più alta densità abitativa d'Italia (oltre 12.000 abitanti per chilometro quadrato), caratterizzati da un'espansione edilizia incontrollata, come Portici o San Giorgio a Cremano;
tutto ciò comporta problemi di ogni genere: dai servizi pubblici, costantemente prossimi al collasso, al degrado dei suoli e delle falde acquifere, alle difficoltà di attuare politiche sociali, abitative, di sviluppo, migratorie e di integrazione adeguate a causa della mera mancanza di spazio;
è, pertanto, necessario adottare adeguati provvedimenti che consentano di perseguire il nostro modello di sviluppo economico e sociale, ottimizzando le risorse di spazio disponibili e tenendo conto del fatto che i costi delle emergenze possono essere ridotti solo se si impongono scelte specifiche di politica territoriale indirizzate alla prevenzione, alla costante manutenzione, all'uso delle migliori tecniche costruttive, all'apposizione di vincoli e limitazioni di uso;
appare opportuno programmare interventi strategici e politiche attive per evitare di dover essere costretti a fronteggiare quello che ad oggi si rileva essere un stato di continua emergenza;
il 12 novembre 2009 il Governo ha presentato alla Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici della Camera dei deputati i dati sul rischio idrogeologico attuale, le stime per gli interventi di messa in sicurezza e le procedure, anche straordinarie, per attivare gli interventi, a cominciare da quelle pluriennali previste dal piano nazionale straordinario per il rischio idrogeologico; l'estensione delle aree a criticità idrogeologica è pari al 9,8 per cento del territorio nazionale, del quale il 6,8 per cento coinvolge direttamente zone con beni esposti, quindi centri urbani, infrastrutture e aree produttive, tutti strettamente connessi con lo sviluppo economico del Paese; il fabbisogno necessario per la realizzazione di interventi per la sistemazione complessiva della situazione di dissesto su tutto il territorio nazionale è stimato in 44 miliardi di euro, dei quali 27 miliardi per il Centro-Nord e 13 miliardi per il Mezzogiorno, oltre a 4 miliardi per il fabbisogno relativo al recupero e alla tutela del patrimonio costiero italiano,

impegna il Governo:

a promuovere iniziative normative di competenza che introducano norme a favore della difesa del suolo e della riduzione del rischio idrogeologico, tramite le quali, nell'assoluto rispetto delle competenze regionali, siano previste misure dissuasive per le costruzioni di scarsa qualità ed in aree a rischio;
a promuovere politiche attive e coordinate per una reale, strutturale e preventiva difesa del suolo, in modo tale da evitare una situazione di costante emergenza.
(1-00890)
«Ghiglia, Baldelli, Gibiino, Aracri, Brambilla, Cosenza, Di Cagno Abbrescia, Tommaso Foti, Germanà, Iannarilli, Lisi, Pili, Pizzolante, Stradella, Tortoli, Vella, Vessa».

La Camera,
premesso che:
le alluvioni che hanno interessato in questi mesi il nostro Paese, ripropongono ancora una volta il tema della fragilità del nostro territorio e la necessità ormai improcrastinabile della sua messa in sicurezza;
peraltro, gli effetti conseguenti ai cambiamenti climatici in atto sono ormai tali che gli eventi estremi in Italia hanno subito un aumento esponenziale, passando da uno circa ogni 15 anni prima degli anni '90, a 4-5 all'anno;
secondo i recenti dati forniti dal Consiglio nazionale dei geologi, dal 1996 al 2008 in Italia sono stati spesi più di 27 miliardi di euro in relazione a dissesto idrogeologico e terremoti, oltre al fatto che 6 milioni di italiani abitano nei 29.500 chilometri quadrati del territorio considerati ad elevato rischio idrogeologico e ben 1.260.000 sono gli edifici a rischio frane e alluvioni. Di questi sono 6.000 le scuole e 531 gli ospedali;
si continua a rincorrere le emergenze e le calamità e a contare i danni e troppo spesso, purtroppo, le numerose vittime, stanziando ogni volta ingenti risorse economiche necessarie per ricostruire le zone colpite;
l'emergenza diventa così, oltre a un evidente danno economico e sociale, spesso un meno evidente business per la ricostruzione, senza, però, mai essere tradotto in investimenti duraturi attraverso interventi di prevenzione e di buona pianificazione urbanistica e del territorio;
i dati forniti dal Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare pro tempore, Stefania Prestigiacomo, durante l'audizione del 20 settembre 2010 in Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici della Camera dei deputati circa lo stato di dissesto e di rischio idrogeologico su tutto il territorio nazionale, parlano di un 9,8 per cento della superficie nazionale ad alta criticità idrogeologica; di 6.633 i comuni interessati, pari all'81,9 per cento dei comuni italiani; di un 24,9 per cento dei comuni interessato da aree a rischio frana; di un 18,6 per cento di aree a rischio alluvione; e di un 38,4 per cento di aree a rischio sia di frana che di alluvione;
le regioni che hanno pressoché la totalità dei comuni con aree a rischio idrogeologico sono la Calabria, l'Abruzzo, la Basilicata, la Campania, il Lazio, la Liguria, le Marche, il Molise, la Toscana, l'Umbria, la Valle d'Aosta e la Provincia autonoma di Trento. Queste regioni non rappresentano evidentemente tutte le aree a rischio idrogeologico, come dimostrano gli eventi anche recenti che hanno colpito la Lombardia, il Piemonte, il Veneto ed altre regioni. È tutto il nostro territorio che mostra la sua fragilità e che necessita di interventi di messa in sicurezza A questo si aggiunge il crescente grado di rischio di erosione costiera, che interessa oltre 540 chilometri lineari dei litorali italiani in cui sono direttamente coinvolti beni esposti;
sempre durante la medesima audizione, veniva sottolineato come «il fabbisogno necessario per la realizzazione degli interventi per la sistemazione complessiva delle situazioni di dissesto su tutto il territorio nazionale è stimato in circa 40 miliardi di euro. Di contro, per azioni di emergenze di protezione civile, indennizzi e opere a seguito di eventi calamitosi, nel solo bacino del fiume Po, dal 1994 al 2005, sono stati spesi oltre 12,5 miliardi di euro, dei quali oltre 5,5 miliardi di euro per far fronte alla sola alluvione del 2000. Inoltre, per gli interventi di gestione dell'emergenza della zona di Sarno è stato speso oltre mezzo miliardo di euro. In sintesi si stima che la spesa dello Stato per le attività di emergenza sia stata mediamente tra 2 e 3,5 miliardi di euro all'anno. La spesa per la prevenzione è stata in media di 250 milioni l'anno. Per ogni milione speso per prevenire, ne abbiamo spesi 10 per riparare i danni della mancata prevenzione»;
a ciò va aggiunto che nella XVI legislatura gli stanziamenti ordinari del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare per la difesa del suolo si sono ridotti in maniera inaccettabile. Un taglio di quasi l'85 per cento;
la tutela delle acque rappresenta un interesse prioritario della collettività; un bene comune, peraltro, ribadito con forza dall'esito del referendum del giugno 2011. In questo ambito, manca una regia unitaria di gestione della risorsa idrica capace di armonizzare e coordinare con efficacia le diverse competenze e ruoli tra i vari soggetti istituzionali coinvolti;
esiste sulla carta un piano straordinario contro il dissesto idrogeologico, dotato di risorse per circa due miliardi e mezzo di euro fra fondi statali e cofinanziamento regionale, da definire attraverso la stipula di accordi di programma con le regioni. Ma detto piano non è praticamente mai decollato: risorse, di fatto, in gran parte «virtuali». Il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare non li ha mai messi a disposizione e i tagli indiscriminati a regioni ed enti locali da parte del Governo Berlusconi hanno fatto sì che queste ultime non hanno più risorse da investire e che quel poco che potrebbero spendere è limitato a causa dei vincoli del patto di stabilità;
è, invece, necessario che le spese sostenute dalle regioni e dagli enti locali per gli interventi di prevenzione e manutenzione del territorio e di contrasto al dissesto idrogeologico possano beneficiare dell'esclusione dai vincoli del patto di stabilità, che rappresentano un evidente fortissimo freno per l'avvio di interventi concreti da realizzare sui territori;
nell'audizione alla Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici della Camera dei deputati del 30 novembre 2011, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, Corrado Clini, ha sottolineato la necessità di «creare una capacità di investimento pubblico per la prevenzione del rischio idrogeologico che sia sostenuta da un'entrata stabile e sicura e che non sia assoggettata, come è avvenuto con l'ultima legge di stabilità, ai tagli che hanno quasi azzerato il fondo esistente presso il Ministero dell'ambiente per la prevenzione del dissesto idrogeologico»;
l'attuazione del suddetto piano straordinario contro il dissesto idrogeologico, come sottolinea l'Associazione nazionale bonifiche e irrigazioni (Anmbi), composto in gran parte da progetti immediatamente cantierabili, permetterebbe anche importanti ricadute occupazionali;
i cantieri, come ha più volte denunciato l'Associazione nazionale dei costruttori, «non sono mai stati avviati». Solo risorse virtuali, quando invece ci sarebbe bisogno urgente di certezza di finanziamenti;
l'avvio di un piano pluriennale per la messa in sicurezza del territorio del nostro Paese non solo avrebbe una straordinaria valenza e un reale interesse pubblico, ma rappresenterebbe la vera «grande opera» strategica di cui il nostro Paese ha prioritariamente bisogno. In più, al contrario della miriade di opere infrastrutturali a cui si è data priorità, sarebbe l'unica opera pubblica diffusa su tutto il territorio nazionale, in grado di attivare da subito migliaia di cantieri con evidenti ricadute positive dal punto di vista occupazionale. L'opera di risanamento territoriale, al contrario della grande opera infrastrutturale, è, infatti, distribuita e diffusa sul territorio, realizzabile anche per gradi e per processi di intervento monitorati nel tempo, in grado di produrre attività ed economie durevoli, oltre che un elevato numero di persone impiegate nettamente superiore al modello della «grande infrastruttura»;
nell'audizione alla Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici della Camera dei deputati del 14 dicembre 2011, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare Clini ha ricordato come le politiche per la difesa del suolo devono riguardare gli elementi strutturali del rischio, ossia: la messa in sicurezza del territorio e la riduzione dei rischi legati agli usi impropri del territorio, compreso il fenomeno dell'abusivismo. Fenomeno quest'ultimo, che - a detta dello stesso Ministro - «non può essere ulteriormente tollerato, ma che deve essere combattuto anche laddove sia stato regolarizzato, quando diventa un fattore di rischio per la sicurezza del territorio»;
sotto questo aspetto il nostro territorio è, infatti, consumato e segnato profondamente, anche «grazie» al contributo nefasto del fenomeno dell'abusivismo troppo spesso ignorato o tollerato, soprattutto in alcune aree del nostro Paese, e anzi alimentato anche dalle, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, deprecabili norme di condono edilizio approvate negli anni scorsi;
i ripetuti condoni edilizi hanno, infatti, contribuito fortemente ad alimentare la convinzione diffusa che sul territorio si possa compiere qualsiasi azione anche senza avere l'autorizzazione di legge. È, invece, indispensabile sconfiggere questa cultura e riportare la necessaria trasparenza e rigore su tutti gli interventi urbanistici che trasformano il territorio e il paesaggio;
peraltro, va evidenziato che gli interessi che sottendono spesso al comparto delle costruzioni, si sommano agli storici interessi legati ai cambi di destinazione d'uso delle aree agricole e all'edificabilità dei suoli, entrando così troppo spesso in conflitto con una seria e corretta programmazione e gestione del nostro territorio. Purtroppo, i piani urbanistico-territoriali hanno troppo spesso accompagnato ed assecondato questo orientamento, anche perché gli oneri di urbanizzazione vengono spesso usati per ripianare i bilanci dei comuni e questo spinge i comuni stessi a costruire per fare cassa, anche a scapito di una corretta gestione del territorio. Da questo punto di vista, ricordiamo che l'Italia è il primo Paese tra quelli europei per la cementificazione;
un lavoro predisposto dal Wwf Italia con l'Università dell'Aquila fa, infatti, emergere dati che devono far riflettere: dal 1956 al 2001 la superficie urbanizzata del nostro Paese è aumentata del 500 per cento e si è valutato che dal 1990 al 2005 l'Italia è stata capace di trasformare oltre 3,5 milioni di ettari, cioè una superficie grande quasi quanto il Lazio e l'Abruzzo messi insieme. Fra questi ci sono 2 milioni di fertile terreno agricolo che oggi è stato coperto da capannoni, case, strade ed altro;
ogni italiano vede oggi attribuirsi una media di 230 metri quadrati di urbanizzazione ed anche se le percentuali cambiano da regione a regione (dai 120 metri quadrati per abitante della Basilicata ai 400 del Friuli Venezia Giulia), l'insieme dà l'immagine di un territorio quasi saturo, disordinato, una sorta di città diffusa;
secondo il dossier presentato recentemente dal Fai e dal Wwf sul consumo del suolo «Terra rubata - viaggio nell'Italia che scompare», nei prossimi 20 anni la superficie occupata dalle aree urbane crescerà di circa 600 mila ettari, pari ad una conversione urbana di 75 ettari al giorno, e raffigurabile come un quadrato di 6.400 chilometri quadrati;
la pianificazione urbanistica e l'assetto del territorio sono, quindi, inevitabilmente strettamente connesse. Il governo del territorio include, infatti, l'urbanistica, l'edilizia, i programmi infrastrutturali, il contrasto al dissesto idrogeologico, la difesa del suolo, la tutela del paesaggio;
gli interventi per la tutela e il risanamento del suolo e del sottosuolo vanno, quindi, necessariamente coordinati - se vogliono essere realmente efficaci - con le leggi urbanistiche e con i piani regolatori, soprattutto con quelli urbanistici comunali, e non soltanto con i grandi piani territoriali. Spesso, infatti, gli enti locali - per motivazioni politiche, quali, ad esempio, l'approvazione dei piani urbanistici o la destinazione delle aree edificabili - non attuano il principio della prevenzione e, a volte, strutture pubbliche, quali scuole, caserme, ospedali, stazioni, vengono costruite in aree a rischio, come, per esempio, quelle nelle prossime vicinanze dei fiumi,

impegna il Governo:

ad avviare, in raccordo con le regioni, un piano pluriennale per la difesa del suolo nel nostro Paese, quale vera e prioritaria opera infrastrutturale in grado non solamente di mettere in sicurezza il nostro fragile territorio, ma di attivare migliaia di cantieri, con evidenti ricadute importanti dal punto di vista economico e occupazionale;
a individuare ulteriori risorse, nonché lo «sblocco» di risorse già previste per la prevenzione del rischio idrogeologico, anche attraverso:
a) la rimodulazione di delibere Cipe e di fondi esistenti;
b) la revisione - in accordo con le regioni - delle priorità della «legge obiettivo» al fine di mettere al primo posto le opere di difesa del suolo, a cominciare dai piani stralcio predisposti dalle autorità di bacino per la messa in sicurezza delle aree più a rischio;
c) l'individuazione di ulteriori forme di finanziamento, peraltro già ipotizzate dal Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, quali, per esempio, l'istituzione di un fondo rotativo finalizzato alla messa in sicurezza del territorio, la previsione di un credito d'imposta per investimenti che hanno effetti positivi sulla sicurezza del suolo, la previsione di una fiscalità finalizzata e quindi di una possibile tassa di scopo;
ad attivarsi affinché le spese sostenute dalle regioni e dagli enti locali per gli interventi di prevenzione e manutenzione del territorio e di contrasto al dissesto idrogeologico possano beneficiare dell'esclusione dai vincoli del patto di stabilità, che rappresentano un fortissimo freno per l'avvio di interventi concreti da realizzare sui territori;
a velocizzare i tempi medi di trasferimento delle risorse, già stanziate, a favore dei territori colpiti da calamità naturali;
a individuare le opportune iniziative normative affinché i comuni provvedano a redigere in tempi brevi dei piani attuativi minimi per la messa in sicurezza del loro territorio, individuando da subito le aree a rischio prioritario;
a integrare le risorse del fondo esistente presso il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare per la prevenzione del dissesto idrogeologico;
a prevedere, nell'ambito delle proprie prerogative e in stretto coordinamento con gli enti locali interessati, una mappatura degli insediamenti urbanistici nelle aree a più elevato rischio idrogeologico, individuando idonee forme di agevolazione finalizzate alla loro eventuale delocalizzazione, prevedendo contestualmente il divieto assoluto di edificabilità, in dette aree;
ad adottare opportune iniziative normative volte a prevedere una disciplina rigorosa in materia di pianificazione urbanistica e di governo del territorio, che contenga principi irrinunciabili, omogenei e condivisi in modo tale da costituire un quadro di riferimento certo e rigoroso per le regioni, con particolare riferimento alla necessità di riconoscere il territorio come bene comune e risorsa limitata, perseguendo l'obiettivo di limitare il consumo del suolo, anche attraverso il contenimento della diffusione urbana, disincentivando nuovi impieghi di suolo a fini insediativi e infrastrutturali e favorendo il riuso e la riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti.
(1-00891)
«Piffari, Donadi, Borghesi, Evangelisti, Paladini».

La Camera,
premesso che:
le alluvioni che hanno interessato in questi mesi il nostro Paese, ripropongono ancora una volta il tema della fragilità del nostro territorio e la necessità ormai improcrastinabile della sua messa in sicurezza;
peraltro, gli effetti conseguenti ai cambiamenti climatici in atto sono ormai tali che gli eventi estremi in Italia hanno subito un aumento esponenziale, passando da uno circa ogni 15 anni prima degli anni '90, a 4-5 all'anno;
secondo i recenti dati forniti dal Consiglio nazionale dei geologi, dal 1996 al 2008 in Italia sono stati spesi più di 27 miliardi di euro in relazione a dissesto idrogeologico e terremoti, oltre al fatto che 6 milioni di italiani abitano nei 29.500 chilometri quadrati del territorio considerati ad elevato rischio idrogeologico e ben 1.260.000 sono gli edifici a rischio frane e alluvioni. Di questi sono 6.000 le scuole e 531 gli ospedali;
si continua a rincorrere le emergenze e le calamità e a contare i danni e troppo spesso, purtroppo, le numerose vittime, stanziando ogni volta ingenti risorse economiche necessarie per ricostruire le zone colpite;
l'emergenza diventa così, oltre a un evidente danno economico e sociale, spesso un meno evidente business per la ricostruzione, senza, però, mai essere tradotto in investimenti duraturi attraverso interventi di prevenzione e di buona pianificazione urbanistica e del territorio;
i dati forniti dal Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare pro tempore, Stefania Prestigiacomo, durante l'audizione del 20 settembre 2010 in Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici della Camera dei deputati circa lo stato di dissesto e di rischio idrogeologico su tutto il territorio nazionale, parlano di un 9,8 per cento della superficie nazionale ad alta criticità idrogeologica; di 6.633 i comuni interessati, pari all'81,9 per cento dei comuni italiani; di un 24,9 per cento dei comuni interessato da aree a rischio frana; di un 18,6 per cento di aree a rischio alluvione; e di un 38,4 per cento di aree a rischio sia di frana che di alluvione;
le regioni che hanno pressoché la totalità dei comuni con aree a rischio idrogeologico sono la Calabria, l'Abruzzo, la Basilicata, la Campania, il Lazio, la Liguria, le Marche, il Molise, la Toscana, l'Umbria, la Valle d'Aosta e la Provincia autonoma di Trento. Queste regioni non rappresentano evidentemente tutte le aree a rischio idrogeologico, come dimostrano gli eventi anche recenti che hanno colpito la Lombardia, il Piemonte, il Veneto ed altre regioni. È tutto il nostro territorio che mostra la sua fragilità e che necessita di interventi di messa in sicurezza A questo si aggiunge il crescente grado di rischio di erosione costiera, che interessa oltre 540 chilometri lineari dei litorali italiani in cui sono direttamente coinvolti beni esposti;
sempre durante la medesima audizione, veniva sottolineato come «il fabbisogno necessario per la realizzazione degli interventi per la sistemazione complessiva delle situazioni di dissesto su tutto il territorio nazionale è stimato in circa 40 miliardi di euro. Di contro, per azioni di emergenze di protezione civile, indennizzi e opere a seguito di eventi calamitosi, nel solo bacino del fiume Po, dal 1994 al 2005, sono stati spesi oltre 12,5 miliardi di euro, dei quali oltre 5,5 miliardi di euro per far fronte alla sola alluvione del 2000. Inoltre, per gli interventi di gestione dell'emergenza della zona di Sarno è stato speso oltre mezzo miliardo di euro. In sintesi si stima che la spesa dello Stato per le attività di emergenza sia stata mediamente tra 2 e 3,5 miliardi di euro all'anno. La spesa per la prevenzione è stata in media di 250 milioni l'anno. Per ogni milione speso per prevenire, ne abbiamo spesi 10 per riparare i danni della mancata prevenzione»;
a ciò va aggiunto che nella XVI legislatura gli stanziamenti ordinari del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare per la difesa del suolo si sono ridotti in maniera inaccettabile. Un taglio di quasi l'85 per cento;
la tutela delle acque rappresenta un interesse prioritario della collettività; un bene comune, peraltro, ribadito con forza dall'esito del referendum del giugno 2011. In questo ambito, manca una regia unitaria di gestione della risorsa idrica capace di armonizzare e coordinare con efficacia le diverse competenze e ruoli tra i vari soggetti istituzionali coinvolti;
esiste sulla carta un piano straordinario contro il dissesto idrogeologico, dotato di risorse per circa due miliardi e mezzo di euro fra fondi statali e cofinanziamento regionale, da definire attraverso la stipula di accordi di programma con le regioni. Ma detto piano non è praticamente mai decollato: risorse, di fatto, in gran parte «virtuali». Il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare non li ha mai messi a disposizione e i tagli indiscriminati a regioni ed enti locali da parte del Governo Berlusconi hanno fatto sì che queste ultime non hanno più risorse da investire e che quel poco che potrebbero spendere è limitato a causa dei vincoli del patto di stabilità;
è, invece, necessario che le spese sostenute dalle regioni e dagli enti locali per gli interventi di prevenzione e manutenzione del territorio e di contrasto al dissesto idrogeologico possano beneficiare dell'esclusione dai vincoli del patto di stabilità, che rappresentano un evidente fortissimo freno per l'avvio di interventi concreti da realizzare sui territori;
nell'audizione alla Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici della Camera dei deputati del 30 novembre 2011, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, Corrado Clini, ha sottolineato la necessità di «creare una capacità di investimento pubblico per la prevenzione del rischio idrogeologico che sia sostenuta da un'entrata stabile e sicura e che non sia assoggettata, come è avvenuto con l'ultima legge di stabilità, ai tagli che hanno quasi azzerato il fondo esistente presso il Ministero dell'ambiente per la prevenzione del dissesto idrogeologico»;
l'attuazione del suddetto piano straordinario contro il dissesto idrogeologico, come sottolinea l'Associazione nazionale bonifiche e irrigazioni (Anmbi), composto in gran parte da progetti immediatamente cantierabili, permetterebbe anche importanti ricadute occupazionali;
i cantieri, come ha più volte denunciato l'Associazione nazionale dei costruttori, «non sono mai stati avviati». Solo risorse virtuali, quando invece ci sarebbe bisogno urgente di certezza di finanziamenti;
l'avvio di un piano pluriennale per la messa in sicurezza del territorio del nostro Paese non solo avrebbe una straordinaria valenza e un reale interesse pubblico, ma rappresenterebbe la vera «grande opera» strategica di cui il nostro Paese ha prioritariamente bisogno. In più, al contrario della miriade di opere infrastrutturali a cui si è data priorità, sarebbe l'unica opera pubblica diffusa su tutto il territorio nazionale, in grado di attivare da subito migliaia di cantieri con evidenti ricadute positive dal punto di vista occupazionale. L'opera di risanamento territoriale, al contrario della grande opera infrastrutturale, è, infatti, distribuita e diffusa sul territorio, realizzabile anche per gradi e per processi di intervento monitorati nel tempo, in grado di produrre attività ed economie durevoli, oltre che un elevato numero di persone impiegate nettamente superiore al modello della «grande infrastruttura»;
nell'audizione alla Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici della Camera dei deputati del 14 dicembre 2011, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare Clini ha ricordato come le politiche per la difesa del suolo devono riguardare gli elementi strutturali del rischio, ossia: la messa in sicurezza del territorio e la riduzione dei rischi legati agli usi impropri del territorio, compreso il fenomeno dell'abusivismo. Fenomeno quest'ultimo, che - a detta dello stesso Ministro - «non può essere ulteriormente tollerato, ma che deve essere combattuto anche laddove sia stato regolarizzato, quando diventa un fattore di rischio per la sicurezza del territorio»;
sotto questo aspetto il nostro territorio è, infatti, consumato e segnato profondamente, anche «grazie» al contributo nefasto del fenomeno dell'abusivismo troppo spesso ignorato o tollerato, soprattutto in alcune aree del nostro Paese, e anzi alimentato anche dalle, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, deprecabili norme di condono edilizio approvate negli anni scorsi;
i ripetuti condoni edilizi hanno, infatti, contribuito fortemente ad alimentare la convinzione diffusa che sul territorio si possa compiere qualsiasi azione anche senza avere l'autorizzazione di legge. È, invece, indispensabile sconfiggere questa cultura e riportare la necessaria trasparenza e rigore su tutti gli interventi urbanistici che trasformano il territorio e il paesaggio;
peraltro, va evidenziato che gli interessi che sottendono spesso al comparto delle costruzioni, si sommano agli storici interessi legati ai cambi di destinazione d'uso delle aree agricole e all'edificabilità dei suoli, entrando così troppo spesso in conflitto con una seria e corretta programmazione e gestione del nostro territorio. Purtroppo, i piani urbanistico-territoriali hanno troppo spesso accompagnato ed assecondato questo orientamento, anche perché gli oneri di urbanizzazione vengono spesso usati per ripianare i bilanci dei comuni e questo spinge i comuni stessi a costruire per fare cassa, anche a scapito di una corretta gestione del territorio. Da questo punto di vista, ricordiamo che l'Italia è il primo Paese tra quelli europei per la cementificazione;
un lavoro predisposto dal Wwf Italia con l'Università dell'Aquila fa, infatti, emergere dati che devono far riflettere: dal 1956 al 2001 la superficie urbanizzata del nostro Paese è aumentata del 500 per cento e si è valutato che dal 1990 al 2005 l'Italia è stata capace di trasformare oltre 3,5 milioni di ettari, cioè una superficie grande quasi quanto il Lazio e l'Abruzzo messi insieme. Fra questi ci sono 2 milioni di fertile terreno agricolo che oggi è stato coperto da capannoni, case, strade ed altro;
ogni italiano vede oggi attribuirsi una media di 230 metri quadrati di urbanizzazione ed anche se le percentuali cambiano da regione a regione (dai 120 metri quadrati per abitante della Basilicata ai 400 del Friuli Venezia Giulia), l'insieme dà l'immagine di un territorio quasi saturo, disordinato, una sorta di città diffusa;
secondo il dossier presentato recentemente dal Fai e dal Wwf sul consumo del suolo «Terra rubata - viaggio nell'Italia che scompare», nei prossimi 20 anni la superficie occupata dalle aree urbane crescerà di circa 600 mila ettari, pari ad una conversione urbana di 75 ettari al giorno, e raffigurabile come un quadrato di 6.400 chilometri quadrati;
la pianificazione urbanistica e l'assetto del territorio sono, quindi, inevitabilmente strettamente connesse. Il governo del territorio include, infatti, l'urbanistica, l'edilizia, i programmi infrastrutturali, il contrasto al dissesto idrogeologico, la difesa del suolo, la tutela del paesaggio;
gli interventi per la tutela e il risanamento del suolo e del sottosuolo vanno, quindi, necessariamente coordinati - se vogliono essere realmente efficaci - con le leggi urbanistiche e con i piani regolatori, soprattutto con quelli urbanistici comunali, e non soltanto con i grandi piani territoriali. Spesso, infatti, gli enti locali - per motivazioni politiche, quali, ad esempio, l'approvazione dei piani urbanistici o la destinazione delle aree edificabili - non attuano il principio della prevenzione e, a volte, strutture pubbliche, quali scuole, caserme, ospedali, stazioni, vengono costruite in aree a rischio, come, per esempio, quelle nelle prossime vicinanze dei fiumi,

impegna il Governo:

ad avviare, in raccordo con le regioni, un piano pluriennale per la difesa del suolo nel nostro Paese, quale vera e prioritaria opera infrastrutturale in grado non solamente di mettere in sicurezza il nostro fragile territorio, ma di attivare migliaia di cantieri, con evidenti ricadute importanti dal punto di vista economico e occupazionale;
a valutare la possibilità di individuare ulteriori risorse, nonché lo «sblocco» di risorse già previste per la prevenzione del rischio idrogeologico, anche attraverso:
a) la rimodulazione di delibere Cipe e di fondi esistenti;
b) la revisione - in accordo con le regioni - delle priorità della «legge obiettivo» al fine di mettere al primo posto le opere di difesa del suolo, a cominciare dai piani stralcio predisposti dalle autorità di bacino per la messa in sicurezza delle aree più a rischio;
c) l'individuazione di ulteriori forme di finanziamento, peraltro già ipotizzate dal Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, quali, per esempio, l'istituzione di un fondo rotativo finalizzato alla messa in sicurezza del territorio, la previsione di un credito d'imposta per investimenti che hanno effetti positivi sulla sicurezza del suolo;
a valutare la possibilità che le spese sostenute dalle regioni e dagli enti locali per gli interventi di prevenzione e manutenzione del territorio e di contrasto al dissesto idrogeologico possano beneficiare dell'esclusione dai vincoli del patto di stabilità, che rappresentano un fortissimo freno per l'avvio di interventi concreti da realizzare sui territori;
a velocizzare i tempi medi di trasferimento delle risorse, già stanziate, a favore dei territori colpiti da calamità naturali;
a individuare le opportune iniziative normative affinché i comuni provvedano a redigere in tempi brevi dei piani attuativi minimi per la messa in sicurezza del loro territorio, individuando da subito le aree a rischio prioritario;
a valutare la possibilità di integrare le risorse del fondo esistente presso il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare per la prevenzione del dissesto idrogeologico;
a prevedere, nell'ambito delle proprie prerogative e in stretto coordinamento con gli enti locali interessati, una mappatura degli insediamenti urbanistici nelle aree a più elevato rischio idrogeologico, studiando idonee forme di agevolazione finalizzate alla loro eventuale delocalizzazione, prevedendo contestualmente il divieto assoluto di edificabilità, in dette aree;
ad adottare opportune iniziative in materia di governo del territorio che, con particolare riferimento alla necessità di riconoscere il territorio come bene comune e risorsa limitata, perseguano l'obiettivo di limitare il consumo del suolo, anche attraverso il contenimento della diffusione urbana, disincentivando nuovi impieghi di suolo a fini insediativi e infrastrutturali e favorendo il riuso e la riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti.
(1-00891)
(Testo modificato nel corso della seduta)«Piffari, Donadi, Borghesi, Evangelisti, Paladini».

La Camera,
premesso che:
la consistente accentuazione di eventi meteo-climatici, per molti aspetti anomali, aggrava costantemente la vulnerabilità del territorio del nostro Paese;
la superficie del territorio italiano a rischio idrogeologico è pari a 21.504 chilometri quadrati, di cui 13.760 per frane e 7.744 per alluvioni e rappresenta il 7,1 per cento della superficie nazionale. I comuni interessati sono 5.553, pari al 68,8 per cento del totale;
l'elevata esposizione al suddetto rischio di frane e alluvioni costituisce un problema di grande rilevanza sociale, sia per il numero di vittime che per i danni prodotti alle abitazioni, alle industrie ed alle infrastrutture;
le cause del dissesto idrogeologico sono da ricercarsi, oltreché nella fragilità del territorio, anche nella modificazione radicale degli equilibri idrogeologici lungo i corsi d'acqua e nella mancanza d'interventi manutentivi da parte dell'uomo soprattutto nelle aree montane in abbandono;
l'elevata vulnerabilità del territorio annovera tra le possibili cause oltre ai fattori naturali anche e soprattutto i fattori antropici quali ad esempio l'errata pianificazione territoriale, lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, i criteri di difesa del suolo frammentari e spesso non coerenti. Non sempre, infatti, è stato seguito un modello di sviluppo compatibile con le esigenze di difesa del suolo e di conseguenza le situazioni di degrado e di rischio potenziale sono aumentate, ed hanno comportato negli ultimi anni un elevato impegno di spesa, da parte degli enti pubblici, per il risanamento dei danni provocati da frane e alluvioni;
le recenti calamità abbattutesi sul nostro Paese ci impongono un imperativo non più eludibile: quello di uscire dalla cultura dell'emergenza per incentivare una nuova cultura della prevenzione dei rischi ambientali;
l'avvicendarsi di calamità naturali come terremoti ed alluvioni ed il relativo stanziamento di cospicui fondi per la ricostruzione del territorio rappresentano un'emergenza, al punto che qualsiasi decisione amministrativa non scaturisce più dalla diligente, corretta, sana e buona programmazione ma viene sovente trasformata in una contingenza ove poter operare ricorrendo a decreti straordinari o ad ordinanze, o come sistema per introdurre forzature negli stessi strumenti di programmazione nazionale;
tale approccio ha portato a considerare i corsi d'acqua semplici manifestazioni idrauliche da cui difendersi in nome della sicurezza della vita umana, come «qualcosa» che incute timore e che contribuisce alla diffusione della cosiddetta «difesa passiva del territorio», una politica, cioè, che, basandosi esclusivamente o quasi sulla ricostruzione e sulla riparazione a danno avvenuto, instaura quella logica perversa dell'intervento straordinario, mettendo, così, in secondo piano i sistemi della prevenzione;
il ricorrere di fenomeni di dissesto idrogeologico negli ultimi anni non può essere attribuito ad eventi esclusivamente naturali o solo alle intemperanze del clima ma anche e soprattutto a un modello di sfruttamento intensivo e poco programmato del territorio, primo fra tutti l'abusivismo edilizio;
occorre adottare una strategia di intervento di lungo respiro, capace di inquadrare i vari interventi in una più generale ipotesi di sistemazione idrogeologica del territorio nazionale per eliminare le criticità esistenti, ed operare una inversione di rotta condannando con forza l'ordinarietà della pianificazione straordinaria, superando la cultura dell'emergenza permanente e modificando la politica finora adottata nella pianificazione e nella gestione dei corsi d'acqua e del territorio, contrastando qualsivoglia forma di cementificazione selvaggia, di abusivismo, di ricorso a sanatorie edilizie, e sostenendo una sorta di contaminazione di saperi, un'azione interdisciplinare in grado di coinvolgere, oltre a quelle tradizionali dell'ingegneria idraulica, le competenze di ecologia, geologia, ingegneria ambientale, architettura del paesaggio, biologia e scienze forestali;
nel quadro dei fattori che concorrono a definire la pericolosità di un'area rispetto ad eventi di dissesto idrogeologico, l'attività antropica riveste un ruolo determinante. Spesso l'incidenza umana modifica le dinamiche naturali, incrinando i delicati equilibri di un territorio ad alta fragilità, innescando, con una sorta di reazione a catena, nuovi fattori di rischio oppure incrementando la pericolosità di fenomeni di dissesto già presenti;
dal rapporto «Ecosistema Rischio 2009», indagine condotta da Legambiente e dal dipartimento per la protezione civile, emerge che complessivamente sono ancora troppe le amministrazioni comunali che tardano a implementare un'efficace ed adeguata politica di prevenzione, informazione e pianificazione d'emergenza. Soltanto il 34 per cento dei comuni risulta infatti svolgere un lavoro positivo di mitigazione del rischio idrogeologico, che è conseguibile soltanto attraverso una politica congiunta di previsione e prevenzione. Quasi un comune su tre non fa praticamente nulla per ridurre i rischi e prevenire i danni conseguenti ad alluvioni e frane;
sempre riguardo alla questione delle risorse finanziarie sono state sottolineate varie criticità: oltre alla loro insufficienza per coprire i costi di ripristino dei luoghi colpiti da fenomeni di dissesto idrogeologico, i criteri di ripartizione delle risorse hanno finora tenuto conto soltanto degli indici demografici e di superficie delle regioni, causando talune sproporzioni. Pertanto, occorrerebbe, ancorare l'erogazione dei fondi disponibili a parametri maggiormente legati alle effettive condizioni di rischio;
con due distinte risoluzioni parlamentari, del 4 febbraio 2009 (n. 8-00030) e del 24 aprile 2009 (n. 8-00040) ben antecedenti dunque ai tragici eventi alluvionali degli ultimi anni, la Commissione VIII (Ambiente) della Camera dei deputati ha impegnato il Governo ad incrementare i fondi della protezione civile diretti al ripristino delle condizioni di sicurezza del territorio, ad individuare adeguati stanziamenti per il fondo per l'assetto idrogeologico del Ministero dell'ambiente e a sostenere ed attuare un organico programma di interventi diretti principalmente alla prevenzione del rischio idrogeologico ed alla manutenzione del territorio ed in tale ambito ad individuare confacenti risorse economiche;
purtroppo, il verificarsi di fenomeni eccezionali dovuti ad avversità atmosferiche non è prevedibile né costante nel tempo: non ci sono fattori di incidenza che possono preannunciare tali fenomeni. L'unica sicurezza è che le gravi conseguenze dei fenomeni meteorologici sul territorio e soprattutto in termini di vite umane sono inscindibilmente collegate con la vulnerabilità e fragilità del nostro territorio e con la struttura idraulica e geologica del terreno;
l'emergenza sembra essere stata negli ultimi decenni e da parte dei governi che si sono avvicendati, quasi una «cultura amministrativa» ove si è persa qualsiasi iniziativa di programmazione ordinaria, fino a rappresentare la gestione ordinaria dell'intero assetto territoriale del nostro suolo;
ancora oggi, non a caso, ad ogni piena, ad ogni evento alluvionale eccezionale, ricompaiono puntuali le proposte ed i meccanismi dell'intervento straordinario e delle grandi opere, al di fuori di piani e programmi adeguati che rischiano di sconfinare in un sistema di interventi disarticolati;
affrontare le calamità naturali alluvioni esclusivamente come «emergenza» significa, altresì, semplificare i problemi, restringere i tempi, facilitare la lettura delle cause ripercorrendo il più delle volte scelte ed indirizzi, ma anche errori, del passato;
il più delle volte i disastri ambientali che vedono protagonisti i fiumi italiani sono infatti la diretta conseguenza di scelte sciagurate compiute dall'uomo come l'abusivismo o l'urbanizzazione delle aree golenali. Diventa improrogabile allora che soprattutto i sindaci segnino un'inversione di tendenza verso la buona gestione del territorio, mettendo la sicurezza dei cittadini tra le priorità assolute della loro amministrazione;
ben il 90 per cento dei comuni hanno nel proprio territorio abitazioni in aree golenali, in prossimità degli alvei e in aree a rischio frana. Più della metà dei comuni, il 56 per cento, vedono addirittura sorgere in aree a rischio fabbricati industriali. Di fronte ad una situazione tanto grave ancora oltre il 40 per cento non svolge attività di manutenzione ordinaria dei corsi d'acqua e delle opere di difesa idraulica, poco più di un comune su tre ha realizzato reti di monitoraggio per l'allerta della popolazione in caso di pericolo e solo il 54 per cento è attivo nelle delocalizzazioni dei fabbricati dalle aree a rischio e nelle opere di consolidamento dei versanti franosi o dei corsi d'acqua;
negli ultimi anni gli stanziamenti per la difesa del suolo da parte dello Stato sono stati costantemente ridotti. Le risorse finanziarie si sono concentrate su investimenti una tantum stanziati in occasione delle emergenze piuttosto che sulla programmazione ordinaria;
i costi delle emergenze, peraltro notevoli, possono essere ridotti solo se si interviene in via preventiva attraverso una costante manutenzione. Da un'indagine sulle esigenze manutentorie è emerso che occorre un programma poliennale di interventi che, nell'attuale situazione della finanza pubblica, potrebbe essere finanziato attraverso limiti di impegno di durata quindicennale;
la legge n. 191 del 2009 (Legge finanziaria per il 2010), all'articolo 2, comma 240, ha destinato ai piani straordinari diretti a rimuovere le situazioni a più elevato rischio idrogeologico (individuate dal Ministero dell'ambiente, sentite le autorità di bacino e il dipartimento della protezione civile) 900 milioni di euro a valere sulle disponibilità del Fondo infrastrutture, attraverso accordi di programma con le regioni;
il 20 gennaio 2012 il Cipe, con l'approvazione della delibera cosiddetta «Frane e versanti» ha sbloccato 679,7 milioni di euro per interventi contro il dissesto idrogeologico nel Mezzogiorno grazie ai quali verranno finanziati 518 interventi identificati tra il 2010 e il 2011 attraverso un processo di collaborazione tra le sette regioni del sud interessate e il Ministero dell'ambiente. Sulla cifra totale, 352 milioni sono messi a disposizione dalle regioni sui programmi attuativi regionali e 262 milioni attraverso i programmi attuativi interregionali. Le sette regioni del Mezzogiorno che beneficeranno degli interventi sono, oltre alla Campania, Basilicata, Calabria, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia,

impegna il Governo:

ad adottare una strategia di intervento di lungo respiro, capace di inquadrare le varie iniziative in una più generale ipotesi di sistemazione idrogeologica del territorio nazionale mirata ad eliminare le criticità esistenti, e di operare una inversione di rotta condannando con forza l'ordinarietà della pianificazione straordinaria, superando la cultura dell'emergenza permanente, modificando la politica finora adottata nella pianificazione e nella gestione dei corsi d'acqua e del territorio, e contrastando qualsivoglia forma di cementificazione selvaggia, di abusivismo o di ricorso a sanatorie edilizie;
ad impedire la ulteriore manomissione di porzioni di territorio, attraverso la nuova edificazione di insediamenti residenziali e produttivi che potrebbero essere localizzati in aree a rischio, attualmente non sufficientemente tutelate e vincolate;
ad adottare un piano nazionale per la messa in sicurezza del territorio dal rischio idrogeologico, che contempli le operazioni di messa in sicurezza delle zone a rischio, le delocalizzazioni degli edifici nelle aree golenali, la manutenzione del territorio ma anche e soprattutto la formazione dei cittadini attraverso la diffusione di una cultura della difesa del suolo come bene comune;
ad assicurare con rapidità, con riferimento specifico ai fenomeni idrogeologici, a tutto il territorio nazionale una tutela unitaria ed uniforme.
(1-00894)
«Commercio, Lo Monte, Lombardo, Oliveri, Brugger».

La Camera,
premesso che:
la consistente accentuazione di eventi meteo-climatici, per molti aspetti anomali, aggrava costantemente la vulnerabilità del territorio del nostro Paese;
la superficie del territorio italiano a rischio idrogeologico è pari a 21.504 chilometri quadrati, di cui 13.760 per frane e 7.744 per alluvioni e rappresenta il 7,1 per cento della superficie nazionale. I comuni interessati sono 5.553, pari al 68,8 per cento del totale;
l'elevata esposizione al suddetto rischio di frane e alluvioni costituisce un problema di grande rilevanza sociale, sia per il numero di vittime che per i danni prodotti alle abitazioni, alle industrie ed alle infrastrutture;
le cause del dissesto idrogeologico sono da ricercarsi, oltreché nella fragilità del territorio, anche nella modificazione radicale degli equilibri idrogeologici lungo i corsi d'acqua e nella mancanza d'interventi manutentivi da parte dell'uomo soprattutto nelle aree montane in abbandono;
l'elevata vulnerabilità del territorio annovera tra le possibili cause oltre ai fattori naturali anche e soprattutto i fattori antropici quali ad esempio l'errata pianificazione territoriale, lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, i criteri di difesa del suolo frammentari e spesso non coerenti. Non sempre, infatti, è stato seguito un modello di sviluppo compatibile con le esigenze di difesa del suolo e di conseguenza le situazioni di degrado e di rischio potenziale sono aumentate, ed hanno comportato negli ultimi anni un elevato impegno di spesa, da parte degli enti pubblici, per il risanamento dei danni provocati da frane e alluvioni;
le recenti calamità abbattutesi sul nostro Paese ci impongono un imperativo non più eludibile: quello di uscire dalla cultura dell'emergenza per incentivare una nuova cultura della prevenzione dei rischi ambientali;
l'avvicendarsi di calamità naturali come terremoti ed alluvioni ed il relativo stanziamento di cospicui fondi per la ricostruzione del territorio rappresentano un'emergenza, al punto che qualsiasi decisione amministrativa non scaturisce più dalla diligente, corretta, sana e buona programmazione ma viene sovente trasformata in una contingenza ove poter operare ricorrendo a decreti straordinari o ad ordinanze, o come sistema per introdurre forzature negli stessi strumenti di programmazione nazionale;
tale approccio ha portato a considerare i corsi d'acqua semplici manifestazioni idrauliche da cui difendersi in nome della sicurezza della vita umana, come «qualcosa» che incute timore e che contribuisce alla diffusione della cosiddetta «difesa passiva del territorio», una politica, cioè, che, basandosi esclusivamente o quasi sulla ricostruzione e sulla riparazione a danno avvenuto, instaura quella logica perversa dell'intervento straordinario, mettendo, così, in secondo piano i sistemi della prevenzione;
il ricorrere di fenomeni di dissesto idrogeologico negli ultimi anni non può essere attribuito ad eventi esclusivamente naturali o solo alle intemperanze del clima ma anche e soprattutto a un modello di sfruttamento intensivo e poco programmato del territorio, primo fra tutti l'abusivismo edilizio;
occorre adottare una strategia di intervento di lungo respiro, capace di inquadrare i vari interventi in una più generale ipotesi di sistemazione idrogeologica del territorio nazionale per eliminare le criticità esistenti, ed operare una inversione di rotta condannando con forza l'ordinarietà della pianificazione straordinaria, superando la cultura dell'emergenza permanente e modificando la politica finora adottata nella pianificazione e nella gestione dei corsi d'acqua e del territorio, contrastando qualsivoglia forma di cementificazione selvaggia, di abusivismo, di ricorso a sanatorie edilizie, e sostenendo una sorta di contaminazione di saperi, un'azione interdisciplinare in grado di coinvolgere, oltre a quelle tradizionali dell'ingegneria idraulica, le competenze di ecologia, geologia, ingegneria ambientale, architettura del paesaggio, biologia e scienze forestali;
nel quadro dei fattori che concorrono a definire la pericolosità di un'area rispetto ad eventi di dissesto idrogeologico, l'attività antropica riveste un ruolo determinante. Spesso l'incidenza umana modifica le dinamiche naturali, incrinando i delicati equilibri di un territorio ad alta fragilità, innescando, con una sorta di reazione a catena, nuovi fattori di rischio oppure incrementando la pericolosità di fenomeni di dissesto già presenti;
dal rapporto «Ecosistema Rischio 2009», indagine condotta da Legambiente e dal dipartimento per la protezione civile, emerge che complessivamente sono ancora troppe le amministrazioni comunali che tardano a implementare un'efficace ed adeguata politica di prevenzione, informazione e pianificazione d'emergenza. Soltanto il 34 per cento dei comuni risulta infatti svolgere un lavoro positivo di mitigazione del rischio idrogeologico, che è conseguibile soltanto attraverso una politica congiunta di previsione e prevenzione. Quasi un comune su tre non fa praticamente nulla per ridurre i rischi e prevenire i danni conseguenti ad alluvioni e frane;
sempre riguardo alla questione delle risorse finanziarie sono state sottolineate varie criticità: oltre alla loro insufficienza per coprire i costi di ripristino dei luoghi colpiti da fenomeni di dissesto idrogeologico, i criteri di ripartizione delle risorse hanno finora tenuto conto soltanto degli indici demografici e di superficie delle regioni, causando talune sproporzioni. Pertanto, occorrerebbe, ancorare l'erogazione dei fondi disponibili a parametri maggiormente legati alle effettive condizioni di rischio;
con due distinte risoluzioni parlamentari, del 4 febbraio 2009 (n. 8-00030) e del 24 aprile 2009 (n. 8-00040) ben antecedenti dunque ai tragici eventi alluvionali degli ultimi anni, la Commissione VIII (Ambiente) della Camera dei deputati ha impegnato il Governo ad incrementare i fondi della protezione civile diretti al ripristino delle condizioni di sicurezza del territorio, ad individuare adeguati stanziamenti per il fondo per l'assetto idrogeologico del Ministero dell'ambiente e a sostenere ed attuare un organico programma di interventi diretti principalmente alla prevenzione del rischio idrogeologico ed alla manutenzione del territorio ed in tale ambito ad individuare confacenti risorse economiche;
purtroppo, il verificarsi di fenomeni eccezionali dovuti ad avversità atmosferiche non è prevedibile né costante nel tempo: non ci sono fattori di incidenza che possono preannunciare tali fenomeni. L'unica sicurezza è che le gravi conseguenze dei fenomeni meteorologici sul territorio e soprattutto in termini di vite umane sono inscindibilmente collegate con la vulnerabilità e fragilità del nostro territorio e con la struttura idraulica e geologica del terreno;
l'emergenza sembra essere stata negli ultimi decenni e da parte dei governi che si sono avvicendati, quasi una «cultura amministrativa» ove si è persa qualsiasi iniziativa di programmazione ordinaria, fino a rappresentare la gestione ordinaria dell'intero assetto territoriale del nostro suolo;
ancora oggi, non a caso, ad ogni piena, ad ogni evento alluvionale eccezionale, ricompaiono puntuali le proposte ed i meccanismi dell'intervento straordinario e delle grandi opere, al di fuori di piani e programmi adeguati che rischiano di sconfinare in un sistema di interventi disarticolati;
affrontare le calamità naturali alluvioni esclusivamente come «emergenza» significa, altresì, semplificare i problemi, restringere i tempi, facilitare la lettura delle cause ripercorrendo il più delle volte scelte ed indirizzi, ma anche errori, del passato;
il più delle volte i disastri ambientali che vedono protagonisti i fiumi italiani sono infatti la diretta conseguenza di scelte sciagurate compiute dall'uomo come l'abusivismo o l'urbanizzazione delle aree golenali. Diventa improrogabile allora che soprattutto i sindaci segnino un'inversione di tendenza verso la buona gestione del territorio, mettendo la sicurezza dei cittadini tra le priorità assolute della loro amministrazione;
ben il 90 per cento dei comuni hanno nel proprio territorio abitazioni in aree golenali, in prossimità degli alvei e in aree a rischio frana. Più della metà dei comuni, il 56 per cento, vedono addirittura sorgere in aree a rischio fabbricati industriali. Di fronte ad una situazione tanto grave ancora oltre il 40 per cento non svolge attività di manutenzione ordinaria dei corsi d'acqua e delle opere di difesa idraulica, poco più di un comune su tre ha realizzato reti di monitoraggio per l'allerta della popolazione in caso di pericolo e solo il 54 per cento è attivo nelle delocalizzazioni dei fabbricati dalle aree a rischio e nelle opere di consolidamento dei versanti franosi o dei corsi d'acqua;
negli ultimi anni gli stanziamenti per la difesa del suolo da parte dello Stato sono stati costantemente ridotti. Le risorse finanziarie si sono concentrate su investimenti una tantum stanziati in occasione delle emergenze piuttosto che sulla programmazione ordinaria;
i costi delle emergenze, peraltro notevoli, possono essere ridotti solo se si interviene in via preventiva attraverso una costante manutenzione. Da un'indagine sulle esigenze manutentorie è emerso che occorre un programma poliennale di interventi che, nell'attuale situazione della finanza pubblica, potrebbe essere finanziato attraverso limiti di impegno di durata quindicennale;
la legge n. 191 del 2009 (Legge finanziaria per il 2010), all'articolo 2, comma 240, ha destinato ai piani straordinari diretti a rimuovere le situazioni a più elevato rischio idrogeologico (individuate dal Ministero dell'ambiente, sentite le autorità di bacino e il dipartimento della protezione civile) 900 milioni di euro a valere sulle disponibilità del Fondo infrastrutture, attraverso accordi di programma con le regioni;
il 20 gennaio 2012 il Cipe, con l'approvazione della delibera cosiddetta «Frane e versanti» ha sbloccato 679,7 milioni di euro per interventi contro il dissesto idrogeologico nel Mezzogiorno grazie ai quali verranno finanziati 518 interventi identificati tra il 2010 e il 2011 attraverso un processo di collaborazione tra le sette regioni del sud interessate e il Ministero dell'ambiente. Sulla cifra totale, 352 milioni sono messi a disposizione dalle regioni sui programmi attuativi regionali e 262 milioni attraverso i programmi attuativi interregionali. Le sette regioni del Mezzogiorno che beneficeranno degli interventi sono, oltre alla Campania, Basilicata, Calabria, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia,

impegna il Governo:

ad adottare una strategia di intervento di lungo respiro, capace di inquadrare le varie iniziative in una più generale ipotesi di sistemazione idrogeologica del territorio nazionale mirata ad eliminare le criticità esistenti, superando la pianificazione straordinaria e l'emergenza permanente;
ad assumere eventuali iniziative per impedire la ulteriore manomissione di porzioni di territorio, attraverso la nuova edificazione di insediamenti residenziali e produttivi che potrebbero essere localizzati in aree a rischio;
ad adottare un piano nazionale per la messa in sicurezza del territorio dal rischio idrogeologico, che contempli le operazioni di messa in sicurezza delle zone a rischio, le delocalizzazioni degli edifici nelle aree golenali, la manutenzione del territorio ma anche e soprattutto la formazione dei cittadini attraverso la diffusione di una cultura della difesa del suolo come bene comune;
ad assicurare con rapidità, con riferimento specifico ai fenomeni idrogeologici, a tutto il territorio nazionale una tutela unitaria ed uniforme.
(1-00894)
(Testo modificato nel corso della seduta)«Commercio, Lo Monte, Lombardo, Oliveri, Brugger».