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Resoconti delle Giunte e Commissioni

Resoconto della Giunta per il regolamento
Giunta per il regolamento

SOMMARIO

Martedì 29 marzo 2011


Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente in tema di modalità procedurali per l'elevazione di conflitti di attribuzione ... 3
ALLEGATO 1 (Intervento on. Marina Sereni) ... 21
ALLEGATO 2 (Intervento on. David Favia) ... 28
ALLEGATO 3 (Considerazioni integrative dell'intervento svolto dall'onorevole Calderisi nella seduta del 24 marzo 2011) ... 33

Giunta per il regolamento - Resoconto di martedì 29 marzo 2011


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Martedì 29 marzo 2011. - Presidenza del Presidente Gianfranco FINI.

La seduta comincia alle 16.05.

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente in tema di modalità procedurali per l'elevazione di conflitti di attribuzione.

Gianclaudio BRESSA, intervenendo preliminarmente sull'ordine dei lavori, sottolinea come la riunione della Giunta per il Regolamento, che ha per oggetto questioni di grande rilevanza, tali da non renderne opportuna la sconvocazione, si svolga in concomitanza con la seduta dell'Assemblea nella quale sono previste votazioni.

David FAVIA, intervenendo anch'egli prima che si riprenda la discussione di merito sulle comunicazioni del Presidente rese alla Giunta il 24 marzo scorso, richiede una precisazione in ordine all'esito che assumeranno i lavori della Giunta: dal momento che il comma 2 dell'articolo 16 del Regolamento prevede che la Giunta renda pareri su questioni di interpretazione del Regolamento, prospetta la possibilità che, posta in votazione un'ipotesi di parere, ove questa fosse respinta, la Giunta dovrebbe avere la possibilità di pronunciarsi anche su ulteriori ipotesi alternative.

Gianfranco FINI, Presidente, nell'informare i membri della Giunta, con riferimento alla contestualità dei lavori con l'Assemblea, che tale concomitanza sarà valutata dagli organi competenti sull'attuazione delle deliberazioni di cui all'articolo 48-bis del Regolamento, fa presente - quanto alla questione sollevata dall'on. Favia - di aver ritenuto opportuno convocare la Giunta per il Regolamento, organo di consulenza procedurale del Presidente della Camera, per conoscerne gli orientamenti che in essa si manifestano, da considerare ai fini delle decisioni che matureranno in seno all'Ufficio di Presidenza. Sarà, certamente, sua cura rappresentare a quest'ultimo organo tutte le opinioni espresse in seno alla Giunta sulla questione.
Passando al seguito della discussione sulle comunicazioni, rese lo scorso 24 marzo, in merito alle modalità procedurali per l'elevazione di conflitti di attribuzione, ricorda che in quella data la riunione della Giunta era stata aggiornata alla seduta odierna e che avevano già chiesto di intervenire i colleghi Bressa e Leone.


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Gianclaudio BRESSA ritiene che la discussione alla quale è chiamata la Giunta possa definirsi allo stesso tempo strana e complicata. Innanzitutto si sofferma sul fatto che essa sarebbe da qualificare come una discussione sulle procedure, ma già solo questa definizione non manca di suscitargli perplessità. Una procedura si attiva solo se la pretesa da cui si parte e che si vuole vedere soddisfatta è una pretesa fondata; le procedure sono sempre riconducibili ad un fatto, ad un diritto, ad una regola, non valgono di per sé stesse. Anche nel caso di specie la discussione sulle procedure non può quindi prescindere dal merito e dalla conseguente pretesa da soddisfare. Solo se si richiama il merito della questione, infatti, si può impostare un discorso sulla procedura che sia a tutela della dignità delle Istituzioni e del Parlamento, che dovrebbe essere l'unico valore la cui salvaguardia dovrebbe stare a cuore a tutti.
Richiama quindi i fatti che hanno condotto all'odierna discussione. Con una lettera del 1o marzo scorso i presidenti dei Gruppi di maggioranza hanno chiesto al Presidente che la Camera accerti «la sussistenza delle condizioni per sollevare un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato davanti alla Corte costituzionale», richiamando a tal fine il dibattito svoltosi in Assemblea il 3 febbraio scorso quando in ordine alla richiesta dell'autorità giudiziaria di autorizzazione alla perquisizione negli uffici dell'on. Berlusconi l'Aula ha deliberato la restituzione degli atti alla medesima autorità giudiziaria. In particolare si sono invocate le considerazioni esposte dal relatore e dai deputati intervenuti a favore della proposta della Giunta per le autorizzazioni, sia quanto «alla sussistenza di tutti i presupposti per il riconoscimento della ministerialità, sia quanto alla superficialità con la quale i magistrati (dapprima quelli della procura, poi il giudice delle indagini preliminari), in presenza della qualità soggettiva dell'indagato, e tenuto conto proprio della funzione al momento esercitata, non hanno comunque rimesso gli atti al tribunale dei ministri per la valutazione da parte di quest'ultimo, come pure il buon senso - in difetto di una corretta lettura delle leggi e della più recente giurisprudenza costituzionale - avrebbe dovuto suggerire». La richiesta in questione veniva quindi considerata come «una sorta di prosecuzione logica» della deliberazione assunta dall'Assemblea, che non aveva «sortito alcun effetto», non potendo sottovalutarsi «la portata lesiva delle prerogative della Camera di questo comportamento dei magistrati, fondato su un'interpretazione scorretta della disciplina vigente».
Non può esimersi a questo punto di richiamare i fatti materiali da cui origina la richiesta: in una notte della primavera del 2010, il Presidente del Consiglio riceveva una telefonata dalla signora Michelle Conceicao dos Santos Oliveira, che lo avvisava di un problema riguardante un'amica. Il Presidente del Consiglio faceva a sua volta una serie di telefonate al Capo di gabinetto della Questura di Milano - presso la quale si trovava in stato di fermo con l'accusa di furto la persona in questione, Karima el Mahroug, minore - rappresentandogli che la suddetta signorina era la nipote di Mubarak e sollecitandolo ad accelerare la procedura per il suo rilascio, con l'affidamento al consigliere regionale Minetti. Effettivamente seguiva l'affidamento alla consigliera Minetti, che a sua volta la affidava alla signora Michelle Conceicao dos Santos Oliveira. Già su questa ricostruzione non può non registrare la singolarità rappresentata dal fatto che si affidi la nipote del Capo di Stato egiziano di quel momento ad una signora, che lungi dall'essere un diplomatico accreditato presso lo Stato italiano, risulta, invece, essere, come si evince dagli atti della procura di Milano, una prostituta brasiliana. Su tale ricostruzione dei fatti si è sviluppato quindi il dibattito in Assemblea il 3 febbraio, quando in particolare l'on. Paniz ha ricordato che il Presidente del Consiglio ha operato «nella convinzione, vera o sbagliata che fosse, che Karima El Mahroug fosse parente di un presidente di Stato». E, a supporto della fondatezza di questa ricostruzione, faceva un riferimento a


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quanto era accaduto nei rapporti tra Svizzera e Libia qualche tempo prima. L'on. Paniz si riferiva evidentemente ad un episodio che aveva visto, nel 2008, coinvolto il figlio più giovane di Gheddafi, arrestato insieme alla moglie a Ginevra per maltrattamenti nei confronti di domestici. All'arresto era seguita una crisi diplomatica, estesasi anche oltre l'ambito delle relazioni tra la Svizzera e la Libia. Lo stesso on. Paniz successivamente, in sede di esame presso la Giunta per le autorizzazioni, ha qualificato come pienamente legittima la richiesta dei Capigruppo di maggioranza di elevare il conflitto, ritenendo che la Camera nella seduta del 3 febbraio 2011 aveva mandato un chiaro segnale all'autorità giudiziaria di Milano, statuendo sulla ministerialità del reato. In questa luce la richiesta dei Capigruppo di maggioranza costituirebbe, secondo la definizione della dottrina ed in particolare del prof. Cerri in una recente pubblicazione sulla giustizia costituzionale, un'ipotesi di scuola di vindicatio potestatis, in cui cioè si rivendicherebbe in radice il potere di qualificare come ministeriale o no il reato; non si tratterebbe, invece, per loro stessa scelta, di instaurare un conflitto da menomazione, e cioè della contestazione della legittimità dei modi di esercizio dell'altrui potere quando da ciò possa derivare un ostacolo al pieno esercizio delle proprie attribuzioni.
In una recente intervista lo stesso Presidente del Consiglio è tornato poi sui fatti, ribadendo di aver agito nella preoccupazione di evitare l'insorgere di una crisi analoga a quella che si era verificata tra la Svizzera e la Libia, e sottolineando come gli fosse stata segnalata un'analogia del suo comportamento con quello tenuto dall'on. Craxi in occasione della crisi di Sigonella.
Riservandosi di tornare più diffusamente su quest'ultima nel seguito del suo intervento, richiama nuovamente il giudizio espresso nella lettera dei Capigruppo sulla portata lesiva delle prerogative della Camera derivante dal comportamento tenuto dai magistrati, fondata su un'interpretazione scorretta della disciplina vigente suscettibile di introdurre «se trascurata e - come non improbabile - ripetuta in futuro in casi analoghi, una modifica implicita della Costituzione quanto ai rapporti fra poteri dello Stato.» Ora, proprio quanto a questo giudizio circa la scorrettezza dell'interpretazione in questione, ricorda come, per dottrina e giurisprudenza conforme, risulti pacifico che non spetta alla Camera operare la qualificazione ministeriale del reato e che tale opzione sia il risultato di una scelta effettuata consapevolmente al momento della genesi della nuova disciplina costituzionale approvata nel 1989. Al riguardo richiama un precedente verificatosi proprio alla Camera il 24 maggio 1990, un anno dopo l'approvazione della nuova legge costituzionale, quando l'Assemblea, in ordine ad una richiesta di autorizzazione a procedere, approvò le conclusioni della Giunta, deliberate nella seduta del 4 aprile 1990. Tali conclusioni erano nel senso della restituzione degli atti all'autorità giudiziaria, in quanto la richiesta, «pur perfetta nei suoi elementi costitutivi», sembrava rimettere alla Camera la valutazione se «i fatti di cui alla richiesta possano o meno considerarsi commessi nell'esercizio della funzione ministeriale»; la Giunta aggiungeva quindi che «la qualificazione giuridica dei fatti, in ipotesi costituenti reato, non spetta né alla Giunta stessa né alla Camera, bensì esclusivamente al titolare dell'azione penale».
A questo punto del procedimento, ritiene che l'unica strada giuridicamente corretta da percorrere sia che gli avvocati del Presidente del Consiglio sollevino la questione di competenza davanti alla Corte di Cassazione, mentre l'elevazione di un conflitto di attribuzioni è da lui ritenuta una pretesa manifestamente infondata. Il conflitto tra poteri dello Stato deve, infatti, insorgere tra organi costituzionali titolari entrambi di autonome attribuzioni costituzionali. Nel caso di specie le attribuzioni oggetto di contestazione sono invece quelle della Procura della Repubblica e del Gip del Tribunale di Milano, da una parte, e del Tribunale dei ministri di Milano, dall'altra. Si tratta,


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come è evidente, di organi appartenenti tutti ad un unico potere, il potere giudiziario: circostanza che esclude la configurabilità di un conflitto di attribuzioni. Sempre con riferimento alla richiesta dei Capigruppo, laddove si imputa all'autorità giudiziaria di aver «colpevolmente (o peggio dolosamente)» omesso di trasmettere gli atti al Tribunale dei ministri, giudica quest'accusa destituita di ogni fondamento, dal momento che non vi è alcuna norma che imponga all'autorità giudiziaria ordinaria, convinta della non ministerialità di un reato, di trasmettere gli atti al Tribunale dei ministri. Al riguardo richiama le motivazioni contenute in una recente sentenza della Corte di Cassazione del 3 marzo scorso, che chiarisce in modo inoppugnabile proprio quest'aspetto.
A questo punto del suo intervento ritiene utile richiamare le ragioni che condussero, dopo il verificarsi dei casi Lockheed e Sigonella, ad una riforma della disciplina della responsabilità penale ministeriale. Il primo dei casi citati è il classico caso di scuola di reato ministeriale, riferibile al fatto che l'evento criminoso era conseguenza diretta del ricoprire la carica di ministro; ci si trovava quindi di fronte ad una tipica ipotesi di reato ministeriale funzionale. Quanto invece al caso Sigonella, invocato, come detto, dallo stesso Presidente del Consiglio a termine di paragone della sua condotta, i fatti svoltisi a partire dal 7 ottobre 1985 con il dirottamento della nave Achille Lauro sono a tutti noti; desidera soltanto ricordare che la vicenda fu attentamente seguita in ogni passaggio dal Governo italiano - e cioè oltre che dal Presidente del Consiglio, dal Ministro degli esteri e dal Ministro della difesa, in continuo costante contatto con i vertici diplomatici e militari e con le controparti internazionali - vide il coinvolgimento di numerose personalità politiche internazionali, a cominciare dal Presidente degli Stati Uniti, richiese ben 88 contatti telefonici, 16 vertici, 1 comunicazione alle Camere e 2 conferenze stampa del Presidente del Consiglio Craxi. Gli eventi degli anni '70 e '80 avevano, in definitiva, fatto maturare la convinzione che la Commissione inquirente si fosse trasformata in un organismo corporativo e opaco, che procedeva ad un'archiviazione sistematica delle denunce.
La necessità di intervenire sulla responsabilità penale ministeriale si impose quindi in maniera netta, a seguito dello svolgimento di due referendum, l'ultimo dei quali si tenne nel novembre 1987 ed ebbe come esito l'abrogazione della legge istitutiva della Commissione inquirente. La revisione della disciplina doveva comportare essenzialmente l'eliminazione del filtro parlamentare sulla fondatezza dell'accusa. Il dibattito parlamentare al riguardo fu chiaro ed in equivoco; cita per tutti le parole del deputato Calderisi nella seduta dell'Assemblea del 7 marzo 1988: «Questa legge così com'è è destinata a riprodurre una situazione di paralisi della giustizia in questa materia [...] è gravissimo che si dia il segnale che la classe politica possa invocare per i suoi ministri non la contestazione di un reato che la magistratura asserisce essere stato compiuto e su cui bisogna indagare ma il diritto di violare la legge. Si stabilisce che coloro che vengono eletti perché attuino le norme possano ergersi al di sopra delle norme stesse». Si tratta di parole che giudica integralmente condivisibili.
Con la riforma del 1988-89, si poneva quindi il problema di conservare al Parlamento un'interlocuzione sulle condotte ministeriali penalmente rilevanti ma senza consentire l'esercizio di una giurisdizione domestica e castale; si lavorava cioè su quell'ipotesi che già Moro, dieci anni prima, in occasione dello scandalo Lockheed aveva preconizzato, quando in occasione della seduta comune del Parlamento dal 3 al 5 maggio 1977 aveva ritenuto che fosse meglio restituire il potere d'accusa e il conseguente giudizio all'organo normale di giurisdizione. Se ne trasse quindi la conclusione che lo schema dovesse essere rovesciato. La competenza principale per la punizione dei reati ministeriali doveva essere trasferita al giudice ordinario. Con la riforma del 1989 al Parlamento, quindi, sarebbe spettata solo l'autorizzazione a procedere, che può essere


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negata solo quando ricorrano le condizioni di cui all'articolo 9, comma 3, della legge costituzionale n. 1 del 1989, ma non spettava in alcun modo l'accertamento della ministerialità del reato.
Ricostruite le origini della normativa costituzionale, che evidentemente escludono una competenza delle Camere in ordine alla qualificazione della natura del reato, prima di passare alla disamina dei precedenti e della prassi, sottolinea come la linea difensiva scelta dal Presidente del Consiglio, a suo avviso finalizzata a provocare l'estinzione del procedimento, sia palesemente suscettibile di compromettere sul piano politico e dell'opinione pubblica la sua credibilità; l'istituzione parlamentare deve quindi, a suo avviso, rimanere fuori da questa scelta, data l'impossibilità di ricondurre quello che, a suo avviso, è un grossolano sopruso compiuto sulle procedure di polizia a funzioni ministeriali.
Una volta giudicato inammissibile ed errato il conflitto - giudizio che auspica sia condiviso dalla Giunta e dall'Ufficio di Presidenza - rimane dunque la domanda sulla sorte della richiesta dei Capigruppo. Se la conclusione dell'Ufficio di Presidenza è nel senso da lui auspicato non vi è dubbio che la procedura si debba arrestare. Del resto la prassi depone chiaramente in questo senso. Giova rammentare al riguardo alcune considerazioni di carattere sistematico in ordine al valore della prassi: la prassi è una fonte non scritta del diritto parlamentare, che trova legittimazione nell'autonomia costituzionale delle Camere. La prassi è il farsi ed il ripetersi uniforme e condiviso di certi modi di condursi, di dare soluzione pratica alle insorgenze quotidiane nella vita del Parlamento. La prassi è suscettibile di diventare consuetudine se negli attori parlamentari si insinua l'elemento dell'opinio necessitatis; la prassi ha la forza persuasiva del precedente. Nell'idea della ricerca dei precedenti è contenuta la convinzione profonda che non si possa cambiare soluzione ai problemi a seconda dell'interlocutore che si ha davanti, nemmeno a colpi di maggioranza. Non vi può essere una prassi ad personam, nemmeno per estensione analogica della lex ad personam. La Presidenza della Camera, quella attuale come le precedenti, fornisce la prova lineare di ciò quando elenca i precedenti a fondamento delle proprie decisioni; un'apposita struttura della Camera, l'Ufficio del Regolamento, esiste anche per questo.
Quanto all'analisi puntuale dei precedenti relativi alla materia oggi in discussione essa rivela come le analogie sono in realtà assai più marcate di quanto non si voglia far credere. Tralasciati qui i casi della XV legislatura, si sofferma in particolare sul caso Faggiano Sardelli. Si è detto che nel caso oggi in esame vi è una pronuncia dell'Assemblea da tutelare, ma anche in quello vi era stata una pronunzia dell'Assemblea che il 20 giugno 2002 aveva convalidato l'elezione di Sardelli e respinto il ricorso di Faggiano. Con il conflitto - poi non elevato - ci si sarebbe doluti innanzi alla Corte costituzionale di un processo penale che, in definitiva, minacciava l'integrità del potere di verifica dei risultati elettorali che aveva condotto alla convalida dell'elezione di Sardelli. Sono evidenti le analogie con il caso in questione. Rileva inoltre il fatto che - incidenter tantum - nella relazione del collega Leone sulla richiesta di autorizzazione alla perquisizione domiciliare si ritenga dovuta la trasmissione degli atti al Tribunale dei ministri non può considerarsi in alcun modo una pronunzia sul merito della questione. La decisione della Camera riguardava la richiesta di autorizzazione alla perquisizione in un ufficio dell'on. Berlusconi, e non concerneva in alcun modo una richiesta di autorizzazione ai sensi dell'articolo 96 della Costituzione. La Camera con la delibera del 3 febbraio ha travalicato le proprie competenze.
Di recente, peraltro, si è avuta la dimostrazione di come gli organi coinvolti nella procedura possano avere opinioni diverse, senza che questo alteri la procedura medesima: si riferisce alla delibera dell'Ufficio di Presidenza del 2 marzo 2011, nella quale quest'organo, andando di diverso avviso rispetto alla Giunta per le autorizzazioni, si è pronunciato a favore


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della costituzione in giudizio in un conflitto di attribuzioni riguardante l'on. Sgarbi.
Un'altra argomentazione alla quale si sente di controbattere è quella che vuole che l'Assemblea sia sovrana e non le si possa sottrarre il diritto di decidere. Giudica questa argomentazione tanto approssimativa quando infondata. La Costituzione - all'articolo 1 - stabilisce che solo il popolo è sovrano e che quella sovranità si esercita nei modi e nei limiti della Costituzione. Preso alla lettera il principio che l'Assemblea è sovrana, esso condurrebbe ad esiti paradossali, palesemente confliggenti con le caratteristiche delle democrazie costituzionali dei nostri tempi. Ulteriore conferma del fatto che il principio di sovranità dell'Assemblea non può essere declinato in questi termini si trova nella disciplina della programmazione dei lavori.
La questione della c.d. «sovranità del Parlamento» e, per esso, di ciascuna Camera, e, all'interno di questa, dell'Assemblea, va esaminata sottoponendo il tradizionale slogan del costituzionalismo britannico della sovereignity of Parliament ad una serie di caveat, che ne circoscrivano e delimitino la residua portata nell'odierno diritto costituzionale italiano. Della «sovranità del Parlamento» va ricordata preliminarmente la valenza: con essa si intende affermare nell'ordinamento costituzionale il principio democratico: essendo il Parlamento l'unico organo eletto a suffragio universale, ad esso spetta naturalmente una posizione di primazia, che si traduce nella potestà (ad esso solo riservata) di rappresentare la nazione (rinvia al riguardo alla sentenza della Corte costituzionale n.106 del 2002).
Detto questo, peraltro, va subito rilevato che, al di là di una eco simbolica dell'istanza ora evocata, la nozione di «sovranità» si rivela impropria se, intesa rigorosamente (vale a dire come pienezza dei poteri, plenitudo potestatis, sottratta a limiti giuridici), viene predicata di qualsiasi organo costituito. All'interno dell'ordinamento costituzionale vigente, ciascun organo - compreso il Parlamento - è tenuto ad operare «nelle forme e nei limiti della Costituzione», i quali, ai sensi dell'articolo 1 della Costituzione, astringono l'attività dello stesso popolo sovrano, e, dunque, a maggior ragione, di ogni autorità costituita, incluso l'organo direttamente rappresentativo del corpo elettorale. Ragionare di «sovranità del Parlamento», pertanto, significa evocare un concetto stantio, che ricorda per alcuni aspetti il diritto costituzionale inglese prima dell'insieme delle riforme che ne hanno segnato il sostanziale superamento (dall'European Communities Act, 1972, allo Human Rights Act 1998), il costituzionalismo della Terza repubblica francese (1875-1940) e quello italiano degli anni settanta (ove si ragionava di «centralità del Parlamento»). Il Parlamento - e ciascuna delle due Camere di cui esso si compone - è invece un organo dotato di un ambito di competenza costituzionalmente prestabilito, sia pure a portata generale, come deve continuarsi a ritenersi, malgrado la sopravvenuta competenza generale del legislatore regionale ai sensi dell'articolo 117, quarto comma, peraltro sensibilmente ridimensionata nella sua portata operativa nell'arco del decennio trascorso dal momento della sua entrata in vigore.
Se questo ragionamento vale per la principale potestà parlamentare, quella legislativa (aggiungasi che vale anche per la potestà di manifestare la sfiducia al Governo, che può esprimersi solo nelle forme tipiche di cui all'articolo 94 Cost., e che dunque non è neanch'essa libera nella forma, pur essendola nel fine), la medesima tesi deve essere sostenuta per quanto concerne la tutela da parte di ciascuna delle Camere della sfera attribuzioni riconosciutale dalla Costituzione nei rapporti con altri poteri, ed in particolare col potere giudiziario, che essa può tutelare, quando ne ricorrano le circostanze, per la via del conflitto di attribuzione ai sensi dell'articolo 134 della Costituzione. La sanzione ultima di una eventuale esorbitanza da parte di una delle Camere dall'esercizio delle sue funzioni, o meglio, dall'ambito ben preciso in cui il conflitto


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di attribuzione può essere esercitato, risiede nell'inammissibilità di un conflitto, che la Corte costituzionale può deliberare, rifiutandosi di esaminare un ricorso nel merito.
Per quanto attiene alla questione della sovranità di ciascuna Camera intesa come Assemblea, vale a dire come plenum, rispetto alle sue parti, incluse fra queste le sedi nelle quali le diverse forze politiche sono tutte rappresentate, anche tale questione richiede una serie di precisazioni (che devono peraltro intrecciarsi con quanto appena visto, che si riferisce all'uso dei propri poteri da parte della Camera medesima). In via generale si può sicuramente convenire sul principio per cui tutte le competenze che la Costituzione assegna alle Camera, devono in ultima istanza essere esercitate dal plenum dell'Assemblea. Quando la Costituzione intende riconoscere ad istanze diverse dal plenum facoltà spettanti alla Camera, essa lo fa espressamente: è il caso delle Commissioni di inchiesta ai sensi dell'articolo 82 della Costituzione (si noti che l'inchiesta è un'attività che la camera non può esercitare direttamente, ma che deve esercitare, ove ritenga di farlo, necessariamente mediante una commissione individuata secondo le modalità di cui all'articolo 82 della Costituzione) e delle Commissioni in sede deliberante ai sensi dell'articolo 72 della Costituzione. In questo ultimo caso, la stessa Assemblea non ha il potere di spogliarsi dell'esercizio della potestà legislativa a vantaggio di una sua Commissione, atteso che sia il Governo, sia una minoranza qualificata dell'Assemblea o della Commissione hanno facoltà di riportare la decisione nel plenum, a nulla valendo la volontà in senso contrario della maggioranza dell'Assemblea medesima. È alla luce di questo delicato rapporto regola - eccezione (la regola della spettanza al plenum del potere di decisione in ultima istanza, fermi i limiti costituzionali di competenza, e l'eccezione dei limiti a tale potere) che va esaminata la questione dell'esistenza di poteri filtro e di garanzia posti in capo al Presidente ed all'Ufficio di Presidenza delle due Camera. Al riguardo si deve muovere dalla constatazione che quelli sopra citati sono sì organi interni alle Camere medesime, ma che essi godono di un riconoscimento costituzionale espresso nell'articolo 63 della Costituzione, sia per quanto riguarda ciascuna delle due Camere, sia per quanto concerne il Parlamento in seduta comune. Tale espressa menzione costituzionale non può essere banalizzata.
Se essa vale anzitutto a riconoscere all'Assemblea il potere di scegliere il proprio Presidente ed il proprio Ufficio di Presidenza (a differenza di quanto accadeva ancora sotto lo Statuto, ove il Presidente del Senato era di nomina regia, come in molte monarchie costituzionali) e se tale è quindi la sua funzione storica originaria, occorre chiedersi se non si radichino in tale articolo altre funzioni degli organi in esame ed in particolare funzioni di garanzia finalizzate a consentire alla Camera di vincolare se stessa, autosottraendosi, mediante alcuni suoi organi interni, alle estreme conseguenze del principio maggioritario. Occorre in definitiva chiedersi se a tali organi la Costituzione non affidi implicitamente una funzione simile ai legacci con cui Ulisse ed i suoi compagni fecero ricorso per resistere alle sirene, secondo un'immagine nota nella teoria costituzionale per spiegare gli organi aventi funzioni contro-maggioritarie.
Le funzioni spettanti al Presidente ed all'Ufficio di Presidenza sono note e complesse e non è possibile richiamarle in questa sede. Esse includono sicuramente la garanzia del corretto funzionamento dell'organo Camera, inclusa la facoltà di decidere, come accade e di norma come deve accadere, a maggioranza, con criteri liberi nel fine, in uno stile di schietta politicità. Ciò vale sicuramente per il merito delle scelte legislative e di indirizzo politico che sono il «pane quotidiano» di un'Assemblea politica e rispetto alle quali l'apposizione di «briglie» da parte del Presidente e dell'Ufficio di Presidenza sarebbe semplicemente impensabile, in quanto da essa deriverebbe direttamente


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un vulnus al contenuto essenziale del principio democratico di cui agli articoli 1, 70 e 94 della Costituzione.
Diverso è però il discorso per quanto attiene alle altre funzioni che pure spettano alla Camera, e che con sicurezza non rientrano nel perimetro legislazione-indirizzo politico delimitato dai citati articoli 1, 70 e 94 della Costituzione. È esattamente questo il caso che stiamo esaminando, come chiaramente ha spiegato il Presidente Fini nelle sue comunicazioni quando ha affermato che «La delibera è infatti considerata di carattere procedurale, costituendo un adempimento di tipo istituzionale, legato all'esercizio di prerogative della Camera; come tale nella prassi è assimilata alle decisioni adottate dall'Assemblea su questioni di carattere regolamentare...». Rispetto a queste «altre» funzioni è essenziale che la Camera mostri capacità di operare con self restraint, e di rispettare rigorosamente le condizioni procedurali di esercizio dei suoi poteri, quali sono stabilite, oltre che da norme costituzionali, legislative e regolamentari (di regolamenti parlamentari cioè), anche da prassi, convenzioni, e regole di correttezza costituzionale. Indipendentemente dalla qualificazione giuridica di queste ultime e sul loro riconoscimento, rispetto e prudente interpretazione evolutiva che riposa la funzionalità di un sistema parlamentare efficiente, al punto che, ove tale corpus di norme, non scritte e non giuridiche, sia rigorosamente stabilmente rispettato, diventa secondaria l'esistenza stessa di una Costituzione scritta (come il caso britannico ben dimostra). Ma anche nel caso italiano, nel quale le norme scritte hanno un ruolo del tutto prevalente, esse non sono in grado, da sole, di consentire al sistema di funzionare in maniera fluida e funzionale senza l'emersione, il riconoscimento ed il rispetto di tali regole convenzionale e di correttezza, che vengono talora chiamate «precedenti», ma che richiedono un continuo vaglio razionale per individuarne una reason ed elevarle a regole (ed evitare che si dia luogo ad una semplice rincorsa del «peggior precedente» che sembra talora caratterizzare la democrazia maggioritaria italian style).
Nel caso del ruolo di filtro dell'Ufficio di Presidenza, al di fuori dell'ambito legislativo e di indirizzo politico di cui agli articoli 1, 70 e 94 della Costituzione, il rispetto della correttezza parlamentare si salda con il suo ruolo di garanzia. Esso è come un buon freno in una buona automobile: richiede di essere usato con prudenza nei momenti giusti, ma se non utilizzato quando occorre, rischia di aprire la via a conseguenze letali.
Tutto ciò premesso con riferimento alla sovranità dell'Assemblea, con riguardo all'intervento del collega Calderisi nella riunione del 24 marzo, sottolinea come egli abbia detto due cose, a suo avviso, errate. La prima è relativa alle procedure di raccordo con le Istituzioni dell'Unione europee. Come l'on. Calderisi ben sa, le decisioni prese dalla Giunta del Regolamento a quel proposito erano interamente comprese nell'ambito della funzione legislativa della Camera (sia in chiave di partecipazione alla fase ascendente della legislazione comunitaria, sia come denunzia della violazione della sussidiarietà legislativa), anche in raccordo con il Senato, come egli stesso ha puntualizzato nella seduta del 1o luglio 2010. Nel caso dei conflitti tra poteri viene in gioco tutt'altra funzione e - soprattutto - viene in rilievo la posizione costituzionale della sola Camera, del solo Senato o della sola Commissione d'inchiesta. Il riferimento alla sussidiarietà e al Trattato di Lisbona è dunque fuori luogo.
La seconda affermazione errata è quella per cui quando nell'ordinamento giuridico italiano si dice 'Camera' s'intende l'Assemblea, salvo i casi espressamente previsti dalla Costituzione.
Questa tesi è anzitutto un implicito ma pesante rilievo critico contro i Presidenti della Camera che hanno seguito la prassi più volte richiamata dal Presidente e dai colleghi intervenuti, non investendo l'Assemblea. Essa però è anche molto forzata. Si è detto, citando il prof. Lippolis, che quando l'articolo 66 della Costituzione attribuisce alla 'Camera' la verifica dei


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titoli di ammissione (vale a dire la convalida delle elezioni e la verifica sulle cause d'incompatibilità) intende l'Assemblea. Non è così. Anzitutto, di regola, quando la Giunta propone la convalida delle elezioni l'Assemblea prende atto senza votazioni. Ma soprattutto, quando essa è destinataria di istanze di riapertura del procedimento di verifica per sopravvenienza di prove, ai sensi dell'articolo 4 del Regolamento della Giunta delle elezioni, la Giunta stessa di fatto può bloccare il procedimento ed evitare che l'Assemblea si pronunzi (come accadde proprio nel caso Faggiano-Sardelli, sul finire della XIV legislatura, in cui la maggioranza fece mancare il numero legale presso la Giunta delle elezioni). In quel caso l'Assemblea non si pronunziò perché mancava una proposta della Giunta.
Per rimanere in tema di competenze della 'Camera' in tema di verifica dei poteri ai sensi dell'articolo 66 della Costituzione, anche qui è solo la Giunta delle elezioni ad accertare le cause d'incompatibilità. Ciò è tanto vero che - se il deputato si dimette da deputato e opta per la carica dichiarata incompatibile - le dimissioni si annunziano all'Assemblea ma non si votano. Se invece il deputato non si dimette, l'Aula non è chiamata a votare sulla sussistenza della causa d'incompatibilità ma sulla decadenza. È un paradosso, se si vuole, ma è così. L'accertamento dell'incompatibilità che, secondo il collega, spetterebbe alla Camera è invece svolto dalla Giunta delle elezioni. Inoltre è proprio nella materia dei reati ministeriali - sotto la disciplina previgente - a offrire un ulteriore esempio. La Costituzione prevedeva la messa in stato d'accusa dei ministri da parte del Parlamento in seduta comune, che, secondo la logica sopra citata, si sarebbe dovuto pronunciare su tutte le denunce. Invece, già con una legge del 1962 e poi con quella del 1978, si intestò un potere di filtro alla Commissione inquirente che poteva ben sottrarre al plenum le decisioni finali.
Infine, per decidere autonomamente se inserire all'ordine del giorno una proposta così impegnativa, e cioè l'elevazione di un conflitto di attribuzione sul caso Ruby, il Presidente della Camera dovrà tener conto dell'interesse della Camera ad agire, vale a dire se la Camera possa vantare una legittima pretesa a modificare il corso del giudizio. In altri termini: se l'autorità giudiziaria fosse costretta dal giudizio costituzionale a considerare il reato ministeriale e richiedesse l'autorizzazione a procedere, la Camera dovrebbe decidere se concedergliela o meno. In caso affermativo, tutta la discussione in corso sarebbe inutile. Si arriverebbe esattamente al punto in cui si è oggi. Ma, nel caso opposto, in cui la Camera volesse denegare l'autorizzazione, allora tutta la battaglia della maggioranza avrebbe avuto sì un senso, ma condurrebbe a dovere invocare che sussiste la ragion di Stato o un altro preminente interesse pubblico. Ma tutti gli organi coinvolti in questa valutazione possono ragionevolmente credere che sussista tale interesse, al cospetto del tipo di credenziali, certamente di natura non diplomatica, vantate da alcune protagoniste della vicenda in questione? Si può riconoscere un interesse della Camera ad affermare che lo scandalo dell'Olgettina è stato un affare di politica internazionale? A queste domande ritiene che la risposta non possa che essere univocamente negativa.
In conclusione ribadisce la propria convinzione che qualora, all'esito della riunione dell'Ufficio di Presidenza, dovesse mancare una proposta di elevazione del conflitto, la procedura debba arrestarsi. Ciò peraltro non comporterebbe alcun pregiudizio per il Governo, dal momento che questo potrebbe benissimo - ove lo ritenga - elevare il conflitto a tutela delle proprie attribuzioni qualora effettivamente le consideri lese. Se, invece, la prassi e i precedenti fossero pretermessi e calpestati e se, con essi, lo fossero la praticabilità democratica e procedurale, sicuramente, a suo giudizio, le prerogative del Parlamento avrebbero subito una grave lesione. Tutto ciò al fine di impedire che si arrivi ad un giudizio da parte della magistratura, così come la legge prevede. Per di più, sulla base di una pretesa


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inconsistente sul piano giuridico, costruita su una logica che ridicolizza, se non addirittura umilia il Parlamento italiano, che risulterebbe così essere l'unico soggetto al mondo a credere che Karima El Mahroug, detta Ruby rubacuori, sia la nipote di Mubarak.

Antonio LEONE preliminarmente ritiene necessario fare una premessa sulla vicenda dalla quale è scaturita la richiesta degli onorevoli Cicchitto, Reguzzoni e Sardelli, caratterizzata da contrapposizioni politiche probabilmente insanabili, già emerse nel dibattito in Giunta per le autorizzazioni e trapelate pure negli interventi svolti da alcuni colleghi nella precedente seduta: si tratta, a suo avviso, di contrapposizioni, da una parte, frutto di una diversa valutazione dei fatti, dall'altra del comportamento della magistratura che rischiano di non far osservare con il dovuto distacco la questione di merito, che riguarda il conflitto di attribuzioni, ossia l'esistenza o meno di una lesione delle attribuzioni della Camera e, conseguentemente, dell'interesse o meno ad agire della stessa. Nella consapevolezza che la Giunta per il Regolamento non è la sede per affrontare né il dibattito politico né il tema della fondatezza o meno del conflitto - che potrà essere sviluppato in Ufficio di Presidenza e, poi, auspica, in Assemblea - ritiene particolarmente importante che la discussione in Giunta si mantenga entro i confini segnati dalla competenza della stessa e dall'oggetto della convocazione. Richiami in questo senso sono stati fatti anche da qualche collega intervenuto nel dibattito, anche se, a suo avviso, non tutti, come, ad esempio, l'onorevole Bressa, si sono poi attenuti al criterio della competenza della Giunta. Ricorda infatti che a questa compete esclusivamente la valutazione delle modalità procedurali con le quali la Camera sarà chiamata a pronunciarsi sulla richiesta di elevazione del conflitto di attribuzioni, senza che gli orientamenti espressi debbano essere guidati dalle opinioni sul merito della vicenda giudiziaria e offrendo invece valutazioni che, astraendosene il più possibile, si sposino con i principi costituzionali e regolamentari cui si deve fare rigoroso riferimento.
In proposito, si chiede se su questioni così rilevanti come quelle attinenti l'elevazione o meno di un conflitto di attribuzioni, la decisione dell'Ufficio di Presidenza, ove fosse respinta la proposta di elevazione, possa essere considerata come definitiva manifestazione di volontà della Camera nel suo complesso. La risposta fornita dai deputati dell'opposizione è stata affermativa. Ritiene tuttavia che gli elementi da considerare in questa fattispecie siano molteplici.
In primo luogo, rammenta come nella riunione della Giunta del 24 marzo scorso, il Presidente della Camera abbia ricordato che tutta la procedura che disciplina le modalità di elevazione o di resistenza in giudizio nei conflitti di attribuzioni non è in alcun modo contenuta nei Regolamenti parlamentari, ma frutto - per la maggior parte degli aspetti - di una prassi. La prassi costante stabilisce, ad esempio, la competenza istruttoria dell'Ufficio di Presidenza; la prassi - sia pure più recente - attribuisce alla Giunta competente per materia un ruolo consultivo; sempre la prassi costante disciplina le modalità di discussione e voto in Assemblea, trattando le questioni in materia di conflitti come questioni procedurali ai sensi dell'articolo 41 del Regolamento. Ancora la prassi costante vuole che - quando si tratta di resistere in un giudizio promosso da altro potere - l'eventuale deliberazione sfavorevole dell'Ufficio di Presidenza non precluda la successiva sottoposizione della questione all'Assemblea. In proposito, ricorda il valore delle prassi nel diritto parlamentare, valore già richiamato da alcuni colleghi: una prassi è la ripetizione costante nel tempo di un comportamento procedurale, ritenuto conforme ai principi regolamentari e costituzionali e, entro questi limiti, essa è vincolante quanto una norma scritta. Segnala tuttavia che ci sono aspetti relativi alla materia all'esame che non sono disciplinati da una prassi, perché non si sono mai posti in concreto o, se questo è avvenuto, non è mai stata assunta


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una soluzione dirimente, poi ripetuta nel tempo e pertanto sono sostanzialmente non regolati. È il caso della questione specifica all'esame della Giunta, sulla quale si possono - non del tutto congruamente - invocare solo singoli, sparuti precedenti: quando il precedente è però - di fatto - uno solo, e molto discutibile, non crede si possa ritenerlo vincolante.
Come ricordato dal Presidente nella sua relazione, in tre soli precedenti vi è stata una deliberazione sfavorevole all'elevazione di un conflitto da parte dell'Ufficio di Presidenza, e in essi non vi è stato successivo approdo in Assemblea. Due di essi non sono a suo avviso pertinenti e, dunque, non sono invocabili. Si tratta di due casi (quelli della XV legislatura) in cui l'Ufficio di Presidenza ha convenuto, in uno (caso D'Elia), su proposta del relatore, e con una sola astensione, che non sussistevano i presupposti per l'elevazione di un conflitto e, nell'altro (caso Mancini), all'unanimità e sulla base di unanime orientamento conforme della Giunta per le autorizzazioni, che mancassero gli estremi per elevare un conflitto, non sussistendo violazione dell'articolo 68 della Costituzione. In entrambi i casi nessuno ha avanzato richiesta di sottoporre la questione all'Assemblea.
Quanto invece al cosiddetto precedente Faggiano-Sardelli della XIV legislatura, ricorda che ci fu reiezione - a parità di voti - della proposta di proporre alla Camera l'elevazione di un conflitto d'attribuzione nei confronti dell'autorità giudiziaria: deve ricordare che il Presidente, nel proclamare il risultato della deliberazione, ha chiarito che ci si trovava di fronte ad un'ipotesi del tutto inedita, senza precedenti ed infatti ha avvertito che, per quanto riguardava un eventuale seguito della questione in Assemblea, si sarebbe riservato ogni valutazione. Il seguito in Assemblea, quindi, come ha ricordato anche il Presidente Fini, nella sua relazione introduttiva, non era stato escluso: il Presidente si è riservato un approfondimento dato il carattere inedito della vicenda. Vero è che la questione non è poi approdata in Assemblea; ma è vero pure che, anche in questo caso (ed a differenza della fattispecie concreta all'esame della Giunta), nessuno ne fece richiesta e che il Presidente, né allora, né dopo, ha sciolto espressamente - cioè con una decisione esplicita e motivata - la riserva fatta. Non ritiene che un precedente, a suo avviso incerto e che pone più dubbi di quanti ne risolva, possa fondare oggi una decisione proceduralmente così importante e che così tanto rischia di pesare sul senso delle prerogative parlamentari. Rileva in proposito come, ove non c'è una prassi, e nemmeno una pronuncia motivata, ma solo una riserva di approfondimento, vi sia in realtà un vuoto normativo. Ed è proprio per questo che, a suo avviso, è stata convocata la Giunta per il Regolamento: infatti, come rappresentato dal Presidente, già nella riunione dell'Ufficio di Presidenza immediatamente successiva alla richiesta dei Capigruppo di maggioranza, i precedenti in questione non appaiono immediatamente applicabili.
Ritiene quindi che il compito della Giunta sia quello di colmare il vuoto, assumendo le necessarie iniziative interpretative in conformità ai principi regolamentari e costituzionali. Reputa peraltro necessario che - risolto in un modo o nell'altro il caso di specie - si proceda ad una «codificazione» della procedura sui conflitti di attribuzioni, al fine di evitare, in futuro, di trovarsi nuovamente di fronte alle stesse incertezze di oggi.
Ritiene inoltre che l'esclusione della competenza dell'Assemblea a pronunciarsi ogni qualvolta in Ufficio di Presidenza maturi un orientamento negativo sulla richiesta di elevazione del conflitto non possa che dipendere da un dato regolamentare (o costituzionale) che in modo inconfutabile lo preveda. Una previsione del genere esiste, ad esempio, come ha ricordato l'onorevole Calderisi, nel Regolamento con riferimento ad altre fattispecie, come per le proposte di modifica del Regolamento, per le quali è stabilito che - ove la Giunta si esprima in senso contrario - non è possibile sottoporle all'Assemblea. Si tratta, a suo avviso, di un'eccezione scritta al principio della «sovranità» dell'Assemblea - titolata in via generale a


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manifestare la definitiva volontà della Camera - che non può essere estesa analogicamente né desunta interpretando in modo affrettato uno sparuto precedente. In presenza dell'attribuzione alla Camera del potere di elevare conflitto fra poteri (attribuzione che discende dall'articolo 134 della Costituzione, in quanto la Camera è potere dello Stato o - meglio - organo competente «a dichiarare definitivamente la volontà del potere» cui essa appartiene, secondo quanto stabilisce l'articolo 37 della legge n. 87 del 1953), la decisione finale su una richiesta del genere (ossia proprio la manifestazione di quella «volontà definitiva» del potere) deve - a suo avviso - essere comunque riservata all'Assemblea, che è appunto sovrana ed è l'organo plenario cui spetta ogni decisione definitiva, in particolare quando essa si riverbera nei rapporti con altri poteri dello Stato.
In proposito, ritiene opportuno segnalare che solo là dove la Corte costituzionale ha riconosciuto ad altri organi (Commissioni d'inchiesta, Commissione di vigilanza sulla Rai, Comitato sui servizi di cui alla abrogata legge n. 801 del 1977) la legittimazione ad elevare conflitto di attribuzione, in quanto organi competenti ad esprimere definitivamente la volontà del Parlamento nelle materie di competenza ed in considerazione della rilevanza costituzionale dei fini perseguiti, si è data attribuzione ad essi della competenza alla relativa deliberazione definitiva, senza, ovviamente, passaggi - neppure istruttori - in Ufficio di Presidenza. Una simile legittimazione non risulta invece assegnata dalla Corte all'Ufficio di Presidenza: ne consegue che, in nessun caso, una delibera dell'Ufficio di Presidenza contraria all'elevazione del conflitto, e non confortata da una pronuncia dell'Assemblea dello stesso tenore, possa precludere alla Camera stessa di agire a tutela delle proprie attribuzioni costituzionali.
Osserva poi come la necessità che sia consentito all'Assemblea di assumere una decisione sull'elevazione del conflitto emerga ancora più evidentemente nel caso di specie, considerando che la richiesta dei capigruppo di maggioranza consegue direttamente alla deliberazione dell'Assemblea del 3 febbraio 2011 quando - in ordine alla restituzione all'autorità giudiziaria degli atti relativi alla richiesta di autorizzazione all'esecuzione di una perquisizione domiciliare - la Camera ha giudicato che fosse dovuta la trasmissione degli atti dalla procura al Tribunale dei ministri, ritenendo ministeriale il reato. A suo avviso, ove si dovesse affermare che un'eventuale decisione negativa dell'Ufficio di Presidenza può escludere la sottoposizione della questione all'Assemblea, quest'ultima sarebbe privata della possibilità di assumere iniziative costituzionalmente ammissibili e giuridicamente e logicamente conseguenti ad una manifestazione di volontà già assunta, e volte a ristabilire l'equilibrio corretto nei rapporti fra poteri dello Stato. Al riguardo, ricorda di aver sempre assunto un approccio coerente volto ad assicurare con ogni strumento, in modo rigoroso e coerente, la difesa delle delibere (anche se assunte a maggioranza) della Camera - ad esempio in tema di costituzione in giudizio - a tutela delle prerogative parlamentari. Ritiene infatti che - in nome della autonomia costituzionale della Camera - la forza delle sue delibere debba essere sempre sostenuta da ogni conseguente iniziativa che si renda necessaria in presenza di altri poteri dello Stato che cerchino di restringerne la portata o annullarla.
Ricorda che la prassi, nei casi (non di elevazione ma) di resistenza in un conflitto sollevato da altro potere dello Stato nei confronti della Camera, rimette univocamente all'Ufficio di Presidenza una funzione solo referente nei confronti dell'Assemblea, che è chiamata in ogni caso a decidere se costituirsi in giudizio (anche cioè quando l'Ufficio di Presidenza sia di avviso negativo). Pur rilevando come in tal caso il giudizio costituzionale è già instaurato, mentre in caso di elevazione occorre assumere un'iniziativa per instaurarlo, a suo avviso, da un punto di vista del valore della pronuncia della Camera e del suo rilievo nei rapporti con altri poteri dello Stato, le due decisioni non differiscono


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molto fra loro e, crede, richiederebbero - per coerenza - un trattamento procedurale simile.
Da ultimo, intende soffermarsi su quello che, a suo avviso, rappresenta il punto più nevralgico e delicato, ancor più alla luce delle considerazioni giuridiche svolte: se si dovesse escludere la possibilità per l'Assemblea di deliberare su questo tema, si rimetterebbe ad un organo non proporzionalmente rappresentativo dei gruppi, ma anzi composto in modo quasi casuale (date le modalità di elezione e di integrazione, che prevedono sì la presenza di tutti i gruppi, ma a prescindere dalla loro consistenza numerica), una decisione a così forte rilevanza esterna, attinente appunto alla difesa delle prerogative della Camera ed ai confini della sua autonomia costituzionale nei confronti degli altri poteri dello Stato. Casualità nella composizione che ha portato in questa legislatura ad uno squilibrio nell'Ufficio di Presidenza nei rapporti complessivi fra maggioranza ed opposizioni. Precisando che non è sua intenzione mettere in discussione la legittimità della composizione dell'Ufficio di Presidenza, che dipende, come illustrato dal Presidente, da una peculiare disciplina di elezione, crede tuttavia che questa peculiarità - voluta appunto dal Regolamento - in tanto sia giustificata in quanto ci si attenga alle competenze specifiche che la legge o il Regolamento assegna a tale organo ed elencate in particolare all'articolo 12 e all'articolo 14: queste attengono principalmente a questioni di alta amministrazione, di ordine interno, di prerogative dei Gruppi, nonché all'esercizio di poteri normativi collegati a tali funzioni (i vari regolamenti cosiddetti minori). Il Regolamento elenca quindi le materie affidate all'Ufficio di Presidenza, che - almeno per la parte che vede una competenza decisoria esclusiva dell'organo - costituiscono a suo avviso un numero chiuso, da ancorare necessariamente ad un dato regolamentare testuale e non suscettibile di estensione analogica, proprio in quanto si tratta di un organo istituzionalmente non rappresentativo in modo proporzionale dei Gruppi. Nel caso di specie, ove si riconoscesse invece all'Ufficio di Presidenza una competenza decisoria finale - ancorché limitata ai soli casi negativi - si determinerebbe una surrettizia integrazione di tale elenco, al di fuori delle procedure previste per la modifica del Regolamento. Pur precisando che non intende affatto porre in discussione la competenza istruttoria dell'Ufficio di Presidenza in materia di conflitti (univocamente ricostruita dalla prassi), ritiene tuttavia doveroso che sia assicurata all'Assemblea, anche in presenza di una decisione contraria di tale organo, la possibilità di essere investita della decisione finale.
Quanto alla preoccupazione, emersa in alcuni degli interventi svolti, circa l'opportunità di assegnare all'Ufficio di Presidenza un ruolo di filtro al fine di scongiurare il rischio di decisioni illegittime dell'Assemblea, fa presente che l'ordinamento attribuisce tale essenziale funzione ad organi di garanzia, quale è la Presidenza della Camera (per l'ammissibilità degli atti parlamentari e per la decisione sui richiami al regolamento), che può avvalersi della consulenza della Giunta per il Regolamento. Osserva che, quando competenze di filtro sono assegnate ad altri organi, come la Commissione bilancio (citata dall'on. Lanzillotta), questi sono comunque composti sulla base della proporzione dei Gruppi.
Le considerazioni svolte devono, a suo avviso, indurre alla massima cautela nel valutare la fattispecie all'esame ed a prevedere la possibilità che una decisione così delicata e rilevante sia comunque assunta dall'Assemblea, in presenza di una richiesta in tal senso (nel caso di specie sostenuta dagli interi tre Gruppi di maggioranza), ed avendo la Giunta per le autorizzazioni (organo parlamentare competente nel merito della questione) espresso un orientamento conforme: ciò anche se l'Ufficio di Presidenza maturasse una decisione contraria sul merito. Diversamente si finirebbe per alterare gli equilibri complessivi che assistono il funzionamento della Camera, facendo prevalere un approccio formalistico di corto respiro sulle


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regole e sui principi costituzionali e regolamentari, ponendo in essere - questa volta sì - un grave precedente per il futuro.

Nicola MOLTENI, ringrazia preliminarmente il Presidente della Camera per aver ritenuto opportuno e doveroso - come peraltro era emerso nella riunione dell'Ufficio di Presidenza del 2 marzo scorso - sottoporre alla Giunta per il Regolamento la discussione sulla procedura per l'elevazione del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato: ciò in considerazione del fatto che ci si trova dinanzi ad una questione delicata, importante sotto l'aspetto politico-parlamentare in quanto investe la tutela delle prerogative dei parlamentari, ma soprattutto perché, come è stato affermato e sostenuto dallo stesso Presidente e dall'Ufficio di Presidenza, non può ricondursi sic et simpliciter alla prassi. Richiamando quanto detto dal Presidente della Camera nella sua relazione, sottolinea come il caso in esame non appaia riconducibile in maniera immediata ai precedenti e ciò, a suo avviso, confuterebbe già in parte quanto sostenuto nel corso del dibattito da alcuni componenti della Giunta appartenenti alle opposizioni. Si è di fronte ad una vicenda nuova rispetto ai precedenti ricordati, che pertanto non possono essere direttamente ed immediatamente invocati per il caso in esame.
Condivide sia personalmente, sia a nome del Gruppo della Lega Nord Padania, la posizione espressa dall'onorevole Calderisi nel dibattito; manifesta, inoltre, piena e convinta adesione alla lettera inviata al Presidente Fini dai capigruppo di maggioranza nella quale si richiede di individuare nell'Assemblea la sede ultima delle decisioni della Camera e, di conseguenza, di investire in ogni caso l'Assemblea dell'esame di una proposta deliberata dall'Ufficio di Presidenza, indipendentemente dalla circostanza che questa proposta sia favorevole o contraria all'elevazione del conflitto di attribuzione medesimo ed anche indipendentemente dall'orientamento della Giunta per il Regolamento: in proposito segnala che si tratta di organi dove attualmente i Gruppi di maggioranza sono sottorappresentati rispetto ai Gruppi di opposizione, circostanza questa sicuramente anomala che lo porta ad associarsi alla richiesta - già avanzata dall'onorevole Calderisi al Presidente della Camera - di un loro adeguato, doveroso riequilibrio nella composizione.
A favore della richiesta di investire comunque l'Assemblea della decisione militano numerosi elementi. Innanzitutto, in quanto appare pacifico e consolidato che nel nostro sistema costituzionale l'organo competente a dichiarare e a manifestare in via definitiva la volontà della Camera in ordine all'esercizio delle prerogative costituzionali (in particolare quando queste investano i rapporti con altri poteri dello Stato) è l'Assemblea, alla quale si riferisce la Carta costituzionale ogniqualvolta menziona la Camera; in secondo luogo in quanto vi è una manifestazione di volontà espressa in una lettera chiara ed inconfutabile indirizzata al Presidente dai capigruppo di maggioranza, volta ad investire l'Assemblea; in terzo luogo, perché la proposta di elevare conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato si pone in collegamento logico con la deliberazione assunta dall'Assemblea il 3 febbraio scorso in merito alla richiesta di autorizzazione alla perquisizione domiciliare; infine, in quanto in un parere adottato a maggioranza dalla Giunta per le autorizzazioni - parere non vincolante, ma certamente qualificato - si esprime il convincimento che la Camera debba elevare il conflitto nei confronti dell'autorità giudiziaria di Milano a tutela delle proprie prerogative costituzionali.
Evidenzia, infine, come nel più volte richiamato caso Faggiano-Sardelli - se è vero che l'Ufficio di Presidenza all'epoca deliberò di non proporre all'Assemblea l'elevazione del conflitto di attribuzioni - l'ipotesi di sottoporre comunque la questione all'Assemblea, secondo quanto riferito dallo stesso Presidente nella sua relazione introduttiva, fosse apparsa comunque percorribile, ancorché essa successivamente non abbia avuto seguito in


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mancanza di richieste in tal senso. A suo avviso, pertanto, anche questo caso non può essere considerato pertinente.
In conclusione, anche a nome del suo Gruppo, ritiene che, in base alla Costituzione ed indipendentemente dalla deliberazione dell'Ufficio di Presidenza, la competenza a pronunciarsi in merito all'elevazione del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato spetti all'Assemblea.

Antonio MILO ricorda che, a seguito dell'iniziativa assunta dai Presidenti dei Gruppi del Popolo della libertà, della Lega Nord Padania e di Iniziativa responsabile con la quale si chiedeva che la Camera accertasse la «sussistenza delle condizioni per sollevare un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato dinanzi alla Corte costituzionale a tutela delle prerogative della Camera lese dall'operato omissivo della magistratura procedente nei confronti dell'onorevole Silvio Berlusconi», la Giunta per le autorizzazioni ha espresso un orientamento favorevole all'elevazione del conflitto. Nel documento approvato dalla Giunta per le autorizzazioni si fa riferimento, sul piano della procedura, alla «necessità di una presa di posizione da parte della Assemblea della Camera». A suo avviso, appare dunque necessario investire della questione l'organo della Camera che ne è per definizione competente, ossia l'Assemblea, pur nella consapevolezza che un'eventuale delibera di tale organo favorevole all'elevazione del conflitto di attribuzioni, non potrà determinare una sospensione del processo in corso, essendo - a suo avviso - al giudice competente preclusa soltanto la possibilità di emettere una sentenza nelle more del procedimento pendente innanzi alla Corte Costituzionale.
Ritiene tuttavia che la questione all'esame rappresenti un'occasione per avviare una riflessione sulla portata applicativa dell'articolo 96 della Costituzione con particolare riferimento alle prerogative che tale disposizione attribuisce alle Camere. Di pari passo, considera opportuna l'adozione di ogni iniziativa di carattere legislativo volta a definire in modo organico le prerogative del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri anche in relazione all'eventuale commissione di reati extrafunzionali. A suo avviso, ai fini della disciplina della materia, non è peraltro di ausilio la recente giurisprudenza della Corte costituzionale che, nell'ottica del bilanciamento tra la tutela dell'esercizio della funzione giurisdizionale e la tutela delle funzioni di governo, non è giunta ad inquadrare compiutamente i contenuti delle funzioni medesime, non sempre definibili e mutevoli per oggettive circostanze.
L'incertezza del quadro normativo di riferimento, a suo avviso, rischia di determinare l'insorgere di sempre più numerosi conflitti di attribuzione tra organi titolari del potere politico e autorità giudiziaria, cui deve aggiungersi il ruolo sempre più centrale della Corte costituzionale in relazione all'individuazione del nesso funzionale ai fini della qualificazione di un reato come ministeriale. A ciò deve aggiungersi, a suo avviso, che la recente prassi parlamentare (casi Matteoli e Castelli), che ha visto l'approvazione di delibere con le quali le Camere hanno operato un'autonoma valutazione circa la «ministerialità» di reati, potrebbe esporre ancor di più la Corte costituzionale sul piano delle valutazioni connesse all'accertamento del nesso funzionale, con il rischio che le decisioni da questa assunte assumano carattere prettamente politico, a discapito del ruolo di garanzia che la Consulta è chiamata a svolgere.
Conclusivamente ritiene, nel merito, al fine di non sacrificare le prerogative parlamentari sottese al disposto dell'articolo 96 della Costituzione, che la richiesta di elevazione del conflitto di attribuzioni in esame sia pienamente condivisibile, e, nel metodo, che della questione debba essere investita in ogni caso l'Assemblea.

Marina SERENI, affidando le sue considerazioni ad un testo scritto che chiede possa essere pubblicato in allegato al resoconto della seduta, ritiene che gli aspetti procedurali della questione non debbano prevalere sulla sostanza: a suo avviso, è il


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presupposto stesso dell'iniziativa assunta dai Presidenti dei Gruppi di maggioranza ad essere irragionevole. Davvero può dirsi che la condotta tenuta dal Presidente del Consiglio nella notte tra il 27 e il 28 maggio 2010 rappresenti esercizio delle funzioni ministeriali ed in particolare di quelle attinenti alle relazioni diplomatiche? A suo avviso da quella vicenda deriva solo disdoro in ambito internazionale a danno del paese. Ove peraltro la condotta in oggetto dovesse essere considerata riconducibile all'esercizio di funzioni ministeriali, ritiene che il Governo, e non la Camera, dovrebbe assumere l'iniziativa di sollevare conflitto di attribuzioni: del resto, a suo avviso, anche ove l'Assemblea dovesse essere investita della questione e dovesse deliberare in senso favorevole all'elevazione del conflitto, il Governo presumibilmente solleverà in ogni caso conflitto innanzi alla Corte costituzionale.

Gianfranco FINI, Presidente, autorizza la pubblicazione in allegato al resoconto della seduta del testo integrale dell'intervento dell'onorevole Sereni (vedi allegato 1), nonché del testo dell'intervento dell'onorevole Favia (vedi allegato 2) e di considerazioni integrative dell'intervento dell'onorevole Calderisi (vedi allegato 3), svolti nella seduta del 24 marzo scorso.
Ringrazia i membri della Giunta per le considerazioni approfondite svolte nel dibattito che saranno, da parte sua, doverosamente oggetto di attenta ponderazione, in vista dell'assunzione - in seno all'Ufficio di Presidenza, convocato domani per esprimersi sulla richiesta di elevazione del conflitto - di una decisione che possa dirimere la questione affrontata, in assenza di inequivocabili precedenti. Ritiene comunque che, una volta conclusa questa vicenda, sia necessario pervenire ad una più esplicita e compiuta disciplina delle modalità procedurali con le quali la Camera assume le decisioni di propria competenza in tema di conflitti di attribuzioni, data anche la rilevanza di tali decisioni nei rapporti con gli altri poteri dello Stato. A tal fine incarica come relatori i deputati Bressa e Leone, cui affida il compito di presentare alla Giunta una loro proposta integrativa del Regolamento.
Questione diversa rispetto ai temi qui affrontati è quella che il Presidente del Gruppo dell'Italia dei valori gli ha segnalato con una lettera del 18 marzo scorso. In essa si constata non essere stato dato alcun seguito ad una precedente richiesta, avanzata assieme all'onorevole Evangelisti lo scorso 21 luglio, di sottoporre all'Ufficio di Presidenza la possibilità di elevare un conflitto di attribuzioni in merito ad una vicenda che ha interessato lo stesso onorevole Evangelisti ed il Ministro per la pubblica amministrazione Brunetta. Ho già fornito risposta all'onorevole Donadi lo scorso 25 marzo, ma - avendo l'onorevole Favia accennato alla questione nella precedente riunione - ritiene opportuno fornire una risposta anche alla Giunta.
Osserva che le due fattispecie - quella oggi in esame e quella richiamata dall'onorevole Donadi - sono profondamente diverse sul piano procedurale e chiarisce i motivi per i quali non ha ritenuto di dare corso alla richiesta. Il fatto oggetto di contestazione consisteva nel sostanziale diniego di risposta del Ministro Brunetta con riferimento ad un quesito posto in tre interrogazioni a risposta scritta, con le quali si chiedeva conto, tra l'altro, dell'asserito mancato assenso del suddetto Ministro alla proposta di scioglimento del comune di Fondi, avanzata dal Ministro dell'interno in sede di Consiglio dei Ministri, e delle relative motivazioni. Il Ministro, nelle risposte fatte pervenire, aveva motivato il diniego, oltre che con il fatto che non vi era stata alcuna deliberazione del Consiglio dei Ministri, con il rilievo che, secondo l'articolo 13 del regolamento interno del Consiglio dei Ministri, il verbale del Consiglio è atto riservato, esulando quindi l'attività svolta in tale sede dai limiti del sindacato ispettivo. A fronte di un invito rivolto dalla Presidenza della Camera, con lettera del 10 giugno 2010, a voler integrare la risposta fornita, sul presupposto che, una volta giudicato l'atto ammissibile dalla Presidenza, non compete al Ministro destinatario dell'atto svolgere rilievi, in sede di risposta, sui profili di


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ammissibilità, il Ministro, con lettera del 12 luglio 2010, dichiarava di non aver voluto in alcun modo interferire con «l'esclusivo potere del Presidente della Camera di giudicare dell'ammissibilità degli atti di sindacato ispettivo» e ribadiva la sua posizione negativa circa la possibilità che il sindacato ispettivo si estenda alle «opinioni espresse dai singoli Ministri nell'ambito del processo formativo della volontà collegiale», richiamando al riguardo il conforme avviso della Presidenza del Consiglio dei ministri, «che ha costantemente ritenuto le discussioni interne al Consiglio sottratte alla responsabilità e alla disponibilità del singolo Ministro e, per questa via, al sindacato ispettivo». Tale risposta è stata dagli onorevoli Donadi e Evangelisti considerata in contrasto con gli articoli del Regolamento della Camera che prevedono il potere di controllo ispettivo nei confronti dell'Esecutivo e, in definitiva, con gli articoli 64 e 94 della Costituzione.
Ricorda che - se in linea generale non vi è dubbio che il Governo è tenuto a dare risposta agli atti di sindacato ispettivo - l'articolo 131 del Regolamento, con espresso riferimento alle interrogazioni, prevede la possibilità che il Governo dichiari di non poter rispondere, indicandone il motivo. È evidente che l'esercizio di una prerogativa prevista dal Regolamento non può essere considerato lesivo delle attribuzioni parlamentari. La citata norma, inoltre, non individua i motivi che possono giustificare tale decisione del Governo, né prevede una sede di sindacato sulle motivazioni addotte dal Governo, diversa da quella della censura sul piano politico - attraverso gli strumenti procedurali idonei a farla valere - dovendosi escludere, invece, che la decisione del Governo possa dar luogo agli effetti giuridici ipotizzati dai colleghi del Gruppo dell'Italia dei valori.
È questa dunque la ragione per la quale non ha ritenuto di dare corso alla richiesta di rimettere all'Ufficio di Presidenza la questione posta, rientrando la stessa negli schemi della dialettica tra Governo e Parlamento definiti a livello dei Regolamenti parlamentari.
Infine, risponde alla questione - posta il 24 marzo dall'on. Calderisi e ripresa oggi dall'on. Molteni - dello squilibrio nei rapporti fra maggioranza ed opposizioni nella Giunta per il Regolamento, squilibrio insorto nel corso della legislatura a seguito delle variazioni nella composizione dei Gruppi. Ricorda che l'articolo 16, comma 1, del Regolamento prevede che «la Giunta per il Regolamento della Camera è composta di dieci deputati nominati dal Presidente non appena costituiti i Gruppi parlamentari. Essa è presieduta dallo stesso Presidente della Camera, il quale, udito il parere della stessa Giunta, può integrarne la composizione ai fini di una più adeguata rappresentatività tenendo presenti, per quanto possibile, criteri di proporzionalità tra i vari Gruppi».
All'inizio della legislatura, la Giunta è stata nominata tenendo conto del criterio di proporzionalità, compatibilmente con il ridottissimo numero di componenti dell'organo: ne risultava escluso il solo Gruppo Misto. La composizione è stata quindi integrata, previo parere favorevole della Giunta medesima (21 maggio 2008), con un rappresentante di tale formazione, ritenendosi, anche alla luce del limitato numero di gruppi costituiti nella legislatura, di consentire la rappresentanza nell'organo di tutti i Gruppi.
La situazione attuale vede tuttora rappresentati tutti i Gruppi, compresi quelli formatisi in corso di legislatura; ma risultano sottorappresentati quelli del Popolo della libertà e del Partito democratico. Quindi, se si volesse intervenire ora sulla composizione della Giunta, al fine di una maggiore aderenza della sua composizione alla proporzione fra i Gruppi, occorrerebbe assegnare un seggio in più al Popolo della libertà ed al Partito democratico. Non sarebbe invece possibile un ulteriore incremento numerico della rappresentanza dei Gruppi di maggioranza (al fine di giungere ad una prevalenza numerica rispetto alle opposizioni), poiché ciò altererebbe considerevolmente la proporzionalità,


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ossia un requisito che, sia pure tendenzialmente, il Regolamento e la prassi prevedono espressamente.
Conclusa la trattazione del punto all'ordine del giorno, desidera affrontare brevemente un'ultima questione, relativa alla seduta dell'Assemblea del 24 marzo scorso: in sede di comunicazioni del Governo sulla crisi libica, al momento dell'annuncio della presentazione delle risoluzioni aveva ritenuto opportuno svolgere alcune precisazioni, essendo sorto un fraintendimento fra gli uffici della Presidenza ed il Gruppo del Partito Democratico circa il momento a partire dal quale si possono presentare le risoluzioni e circa il loro ordine di votazione. Ritiene opportuno - al fine di evitare per il futuro ulteriori equivoci o incertezze - confermare anche in questa sede quanto detto in Assemblea.
L'articolo 118 del Regolamento prevede che, «in occasione di dibattiti su comunicazioni del Governo o su mozioni, ciascun deputato può presentare una proposta di risoluzione, che è votata al termine della discussione». La prassi applicativa di tale norma è nel senso che sia possibile presentare proposte di risoluzione dal momento in cui il Governo prende la parola per rendere le comunicazioni stesse e fino all'intervento con il quale il rappresentante del Governo rende il parere. Non è invece possibile presentarle prima. Si tratta, infatti, di strumenti che «accedono» al dibattito e non di strumenti che lo «introducono» (come le mozioni) e che, come tali, sono iscritti all'ordine del giorno della seduta.
L'ordine di presentazione delle risoluzioni - in base all'univoca e consolidata prassi parlamentare - rileva ai fini del loro ordine di votazione, fatto salvo ovviamente il caso in cui il Governo ponga la questione di fiducia. Allo stato si tratta, del resto, dell'unico criterio oggettivo che è a tal fine possibile utilizzare, non essendo evidentemente applicabili i criteri che presiedono all'ordine di votazione degli emendamenti (fondati sulla maggiore o minore distanza dal testo di riferimento), né quelli previsti dal Regolamento per gli atti di indirizzo riferiti al documento di programmazione economico-finanziaria (articolo 118-bis, comma 2) e alla relazione sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo dell'Unione europea (articolo 126-ter, comma 7), in base ai quali si vota per primo lo strumento accettato dal Governo.
Se questa è la prassi applicativa sinora seguita, il caso verificatosi ha comunque posto l'esigenza di una verifica della medesima. Ritiene quindi che la Giunta per il Regolamento debba valutare l'opportunità di una più puntuale precisazione del significato dell'espressione regolamentare «in occasione di dibattiti su comunicazioni del Governo», in modo da individuare termini e modalità per la presentazione delle risoluzioni - così come criteri da seguire per il relativo ordine di votazione - che si sottraggano a qualsivoglia margine di incertezza applicativa.
Incarica gli onorevoli Calderisi e Sereni di effettuare una riflessione complessiva su questi temi e di riferire in una prossima riunione, che si riserva di convocare quando sarà ultimato il loro lavoro istruttorio.

La seduta termina alle 17.35.

Giunta per il regolamento - Martedì 29 marzo 2011


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ALLEGATO 1

INTERVENTO ON. MARINA SERENI

1. Perché cambiare la prassi?

Lei ci ha convocato, signor Presidente, perché ha ritenuto di renderci comunicazioni sulla procedura con cui la Camera eleva conflitto d'attribuzioni, ai sensi dell'articolo 134 della Costituzione.
Lei sa bene, tuttavia, che la prassi parlamentare su questo punto è ben consolidata.
Quando un altro potere eleva conflitto e chiama in causa un atto della Camera, l'Ufficio di Presidenza deve avanzare una proposta all'Assemblea.
Quanto taluno avanza l'ipotesi che sia la Camera a elevare conflitto nei confronti di un altro potere, l'Ufficio di Presidenza può avanzare una proposta all'Assemblea.
È dunque assodato che l'Ufficio di Presidenza non solo è l'organo referente ma ha anche il potere esclusivo di proporre all'Assemblea la levata del conflitto. Si tratta di un potere che deve essere esercitato entro il termine che la Corte costituzionale assegna alla Camera per resistere al conflitto, quando - ripeto - è un altro potere che ricorre alla Corte costituzionale medesima.
È - viceversa - un potere che l'Ufficio di Presidenza ha facoltà di esercitare o non, se non pende alcun giudizio e se manca ogni termine entro cui costituirsi parte.
La prassi ha un valore di fonte normativa. Non ripeto quel che ha appena detto il collega Bressa. E la prassi dunque è quella che ho esposto.
Perché cambiarla? C'è un evento eccezionale, inedito, cui non sappiamo far fronte con le regole attuali e con i precedenti che abbiamo disponibili? Direi di no.
Nuove prassi e nuove regole si fanno strada e s'impongono via via che la vita parlamentare si evolve e presenta esigenze nuove. Ma nel nostro caso, quale sarebbe la novità? Qual è il fatto nuovo e inedito che ci costringe a confrontarci con la necessità di nuove soluzioni normative?
Ricordo, per esempio, che il c.d. lodo Iotti, che consentì nel 1978 di modificare la procedura d'esame dei disegni legge di conversione dei decreti legge, fu emanato dal Presidente della Camera nell'incandescenza del caso Moro e per l'ostruzionismo di una parte assai minoritaria del Parlamento e con il consenso del più grande partito d'opposizione; altre prassi furono introdotte o mutate per specifiche e condivise scelte, in relazione a esigenze di fatto ben individuate.

2. Che fatto è, quello per cui si domanda di cambiare la prassi?

La maggioranza implicitamente domanda di cambiare la prassi per cui è esclusiva dell'Ufficio di Presidenza avanzare proposte di conflitto, perché in questo organo essa non è più maggioranza (scusate il bisticcio).
Per la verità, è un classico di questa maggioranza di centro-destra. Le regole vanno bene purché si debbano applicare solo agli altri. Se invece sono regole che vanno contro i suoi interessi, allora devono essere cambiate. Di qui l'infinita serie di leges ad personam.
Ecco: la maggioranza oggi vuole costringerci a elaborare una prassi ad personam.
Siccome con le regole attuali non si potrebbe elevare un conflitto sul caso Ruby, si vuole la prassi ad hoc per il Presidente del Consiglio.
Dietro a questa prassi ad personam che si vorrebbe introdurre, per cui l'Ufficio di


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Presidenza deve comunque portare una proposta all'Assemblea, anche se non pende alcun conflitto, che fatto c'è?
Lo sa il mondo intero, signor Presidente. C'è quella sciagurata notte tra il 27 e il 28 maggio dell'anno scorso, in cui la Presidenza del Consiglio fa pressioni sulla questura di Milano per far sì che una giovinetta, minorenne e spregiudicata, venga consegnata anziché a una comunità di tutela e di recupero alla consigliera Minetti, la quale, a sua volta, la riaccompagna presso una signora che non ha credenziali da diplomatica e non esercita la professione di istitutrice.
La maggioranza di centro-destra ha avuto il coraggio di sostenere che questo sarebbe un atto pertinente all'esercizio delle funzioni ministeriali; e che l'autorità giudiziaria avrebbe dovuto accorgersene; e che non averne preso atto lede le prerogative della Camera; e che non si può impedire alla Camera di dolersene; e che quindi - oggi - bisogna cambiare la prassi.
Come ognuno vede, si tratta di una catena di sillogismi assolutamente assurda.

3. Si può cambiare la prassi per una bugia?

La sequenza di telefonate dall'on. Berlusconi verso il dott. Ostuni della questura di Milano e da questi verso la funzionaria di turno, Giorgia Iafrate, non può dirsi rientrare nelle funzioni del Presidente del Consiglio.
Essa, fosse stata fatta dal ministro dell'interno, avrebbe avuto più appigli per essere considerata una condotta funzionale. Ma effettuata dal Presidente del Consiglio non ha alcun legame con l'esercizio dei poteri ministeriali.
Nella relazione del collega Leone si dice che le funzioni del Capo del Governo non sono tipiche, spaziano in lungo e in largo per mantenere l'unità dell'indirizzo politico e amministrativo dello Stato. E qui, siccome Ruby era la nipote di Mubarak, l'on. Berlusconi stava salvando le relazioni internazionali.
Già il collega Bressa ha chiarito quando è che un Presidente del Consiglio esercita i suoi poteri in politica estera: lo fa quando convoca il ministro degli esteri e della difesa in una crisi come quella dell'ACHILLE LAURO.
Nello sviluppo della nottata sul 28 maggio 2010 Frattini e La Russa non vengono informati; Maroni nemmeno. Il consolato egiziano non sa alcunché. Sanno tutto invece la Minetti e le altre persone dell'equivoco entourage di Mora e Fede.
Mi domando dove starebbe l'esercizio delle funzioni ministeriali di cui all'articolo 96 della Costituzione.
Vedete, signor Presidente e colleghi: risulta agli atti della Giunta per le autorizzazioni che l'on. Leone - relatore sulla vicenda - avesse avanzato l'ipotesi che, forse, la concussione poteva essere ascritta a quelle funzioni. Ma poi si era prudentemente attestato su una risposta negativa alla domanda di perquisizione avanzata dai giudici di Milano.
Invece è stato l'intervento dell'on. Paniz che ha avanzato il concetto, tanto fantasioso quanto francamente ridicolo, che la ministerialità del reato non stesse tanto nell'interlocuzione in sé del Capo del Governo con un ufficio di pubblica sicurezza quale è la questura, ma nel fatto che davvero si doveva pensare che Karima el Marough fosse imparentata con Mubarak.
Credo che sia grottesco rimproverare - attraverso un conflitto d'attribuzioni - alla magistratura milanese di non aver creduto a questa pura invenzione.
Mi si obietterà: infatti la lettera dei colleghi Cicchitto e altri non sostiene apertamente questo. Si limita a rivendicare che la valutazione sull'inerenza dei reati alle funzioni ministeriali spetta alle Camere e che la Camera, nella sua delibera dello scorso 3 febbraio sulla perquisizione, aveva stabilito quell'inerenza.
Ma si tratta di un'obiezione destituita di ogni fondamento.
La Corte di cassazione ha - a più riprese - stabilito che fissare la natura ministeriale o meno del reato è potere dell'autorità giudiziaria. Da ultimo, questo


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concetto è stato riaffermato dalla Corte di cassazione nella sentenza del 3 marzo 2011, n. 10130.
Mi si permetta di leggerne alcuni tratti.
Scrive il giudice Fidelbo, della VI sezione: «L'ordinanza oggetto del presente ricorso per cassazione è stata emanata nel corso dell'udienza preliminare, disposta a seguito della richiesta di rinvio a giudizio di Mario Clemente Mastella per i reati di abuso d'ufficio e di concussione, sull'eccezione di incompetenza funzionale avanzata dai difensori dell'imputato, secondo i quali la competenza a conoscere di tali reati sarebbe dell'apposito collegio previsto dall'articolo 7 delle legge cost. n. 1 del 1989 (c.d. tribunale dei ministri).
Le attribuzioni al collegio previsto dall'articolo 7 legge cost. cit. hanno come presupposto la natura ministeriale del reato e qualora tale presupposto manchi l'accertamento del reato, seppure commesso da un ministro, segue le ordinarie procedure. I problemi che possono sorgere in ordine all'individuazione di quale «giudice» deve procedere, anche in relazione alla qualifica del reato, danno luogo a questioni che investono la «competenza» funzionale dei diversi organi giudiziari interessati, questioni che devono essere risolte con i mezzi che l'ordinamento processuale in questi casi mette a disposizione.
Nella specie, i ricorrenti hanno sollevato un'eccezione di incompetenza che però non è stata accolta dal GUP., il quale ha motivato le ragioni della sua scelta con un'ordinanza, rispetto alla quale il nostro sistema processuale, ispirato al principio di tassatività delle impugnazioni, non prevede alcun mezzo tipico di gravame, se non quello dell'impugnazione della sentenza riguardante la responsabilità dell'imputato, momento in cui potrà proporsi nuovamente l'eccezione davanti a nuovi giudici.
D'altra parte non è previsto un mezzo per regolare la competenza, in maniera da assicurare un intervento immediato della Cassazione, come invece accade nel processo civile. Nella Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale del 1988 il mancato inserimento di un meccanismo preventivo che verifichi la corretta attribuzione della competenza è stato giustificato con la preoccupazione che «deduzioni defatigatorie di incompetenza potessero ritardare l'inizio del dibattimento»: scelta del tutto condivisibile in un sistema processuale - come quello riferibile al modello originario - che ha «assoluta urgenza di pervenire all'acquisizione delle prove», ma che oggi, dinanzi alla constatata dilatazione di fatto dei tempi del processo, meriterebbe di essere riconsiderata, in funzione di assicurare immediata certezza alle situazioni giuridiche processuali collegate alle questioni di competenza, anche in considerazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo.
In realtà, il legislatore ha attribuito alla Cassazione il ruolo di unica autorità deputata alla verifica della legittimità dei provvedimenti del giudice di merito sulla propria competenza, ma attraverso la predisposizione della disciplina sui conflitti di cui agli artt. 28 e seg. c.p.p., differenziandola nettamente dalla categoria delle impugnazioni. Ma perché possa aversi un conflitto di competenza è necessario che almeno due giudici contemporaneamente prendano o ricusino di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla persona, situazione che nella specie non ricorre.
In conclusione, il provvedimento con cui il GUP del tribunale di Napoli ha deciso sull'eccezione di incompetenza sollevata dall'imputato non è autonomamente impugnabile.
Tuttavia, una deroga al principio di tassatività dei provvedimenti impugnabili e dei mezzi di impugnazione è prevista dall'articolo 568 comma 2 c.p.p., che riconosce la generale ricorribilità per cassazione delle sentenze - ad eccezione di quelle sulla competenza che possono dare luogo a conflitto - e in questa deroga sono ricompresi anche gli atti abnormi. Infatti, «se per il principio di tassatività, dovrebbe essere esclusa ogni impugnazione non prevista, è vero pure che il generale rimedio del ricorso per cassazione consente comunque


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l'esperimento di un gravame atto a rimuovere un provvedimento non inquadrabile nel sistema processuale o adottato a fini diversi da quelli previsti dall'ordinamento» (Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale 1988).
Ed è con riferimento alla ritenuta abnormità dell'ordinanza emessa dal GUP del tribunale di Napoli che i ricorrenti hanno proposto ricorso immediato per cassazione, sicché questa Corte è chiamata, innanzitutto, a verificare la sussistenza di quei caratteri di eccezionalità e di singolarità denunciati dai ricorrenti che renderebbero comunque ammissibile il ricorso. [...].
Il ricorrente denuncia l'abnormità del provvedimento sotto differenti profili, tutti riconducibili alla ritenuta violazione della disciplina in materia, con riferimento, in particolare, all'obbligo di informare comunque la Camera di appartenenza dell'imputato, la cui omissione sarebbe lesiva delle attribuzioni costituzionalmente previste a favore del Parlamento, perché significherebbe riconoscere alla sola autorità giudiziaria procedente «la potestà esclusiva di qualificare la natura del reato», in contrasto con quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 241 del 2009, secondo cui all'organo parlamentare non può essere sottratta l'autonoma valutazione sulla natura ministeriale o non ministeriale dei reati. Sarebbero questi i sintomi dello sviamento di potere in cui sarebbe incorso il GUP ponendo in essere il provvedimento ritenuto, per questo, abnorme».
Osserva ancora la Corte che «con la riforma del 1989 il legislatore, nel modificare l'articolo 96 Cost., che originariamente prevedeva il sistema di messa in stato di accusa dei ministri da parte del Parlamento e il relativo giudizio affidato alla Corte costituzionale in composizione aggregata (artt. 134 e 135 Cost.) ha voluto valorizzare i meccanismi del «diritto processuale comune» (come ha stabilito la precedente Corte costituzionale, n. 134/2002), riconducendo l'accertamento della responsabilità penale dei ministri nell'ambito del «processo ordinario», sebbene differenziato per consentire alle Camere, attraverso l'autorizzazione a procedere, di valutare se la condotta oggetto dell'imputazione sia da porre in relazione con un «interesse dello Stato di rilievo costituzionale» ovvero con il perseguimento di un «preminente interesse pubblico».
Si è trattato, quindi, di una riforma certamente non funzionale alla creazione di una speciale guarentigia per i ministri e la riprova è che la competenza a giudicare dei «reati c.d. ministeriali» è stata attribuita all'autorità giudiziaria ordinaria, evitando l'istituzione di una giurisdizione speciale.
Ed infatti il collegio per i reati ministeriali è «organo specializzato del giudice ordinario», quindi tutto interno alla giurisdizione. Il preliminare compito che gli assegna la legge costituzionale è quello di svolgere le indagini, al termine delle quali, ove non ritenga di disporre l'archiviazione, deve trasmettere gli atti al procuratore della Repubblica per l'inoltro immediato alla Camera di appartenenza dell'interessato per le competenti valutazioni in merito all'autorizzazione a procedere e, in caso in cui l'autorizzazione venga concessa, sono attribuiti allo stesso organo specializzato anche poteri decisori in ordine al rinvio a giudizio all'esito della udienza preliminare. È una disciplina che, come ha affermato la Corte costituzionale, è volta a «contemperare la garanzia della funzione di governo e l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge», realizzando un ragionevole bilanciamento tra le due esigenze indicate».
La sentenza costituzionale n. 241 del 2009, richiamata con insistenza dalla lettera degli onorevoli Cicchitto e altri, si è preoccupata di garantire tale bilanciamento, chiarendo che in tutti i casi in cui il collegio per i reati ministeriali disponga l'archiviazione debba essere data comunicazione al Presidente della Camera competente.
Invero, nel risolvere il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato la Corte costituzionale, con la sentenza indicata, ha affermato che l'onere di dare comunicazione al Presidente della Camera competente,


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previsto dall'articolo 8 comma 4 legge cost. n. 1 del 1989 per i casi di archiviazione, sussiste anche qualora il collegio disponga la c.d. archiviazione «asistematica» o 'anomala'. Si tratta dell'archiviazione del solo fascicolo ministeriale, perché il reato è ritenuto comune e non ministeriale. Prosegue quindi il procedimento ordinario.
In quest'ultimo caso, l'articolo 2 della legge n. 219 del 1989 prevede che il collegio trasmetta gli atti all'autorità giudiziaria «competente a conoscere del diverso reato» e tale disposizione era stata interpretata dal collegio per i reati ministeriali presso il tribunale di Firenze, nella fattispecie oggetto del conflitto di attribuzione, come non implicante nessun obbligo informativo nei confronti delle Camere.
Ora: è evidente che la Corte di cassazione ha stabilito - e diversamente non poteva essere - che la comunicazione sull'archiviazione è dovuta alle Camere solo da parte del tribunale dei ministri e non da parte del giudice per le indagini preliminari. Ecco perché l'accusa che la maggioranza muove al giudice Di Censo è pretestuosa e infondata.
Ma, soprattutto, dai chiari passaggi della sentenza della Cassazione di pochi giorni fa traiamo conferma di quanto già sapevamo perché lo aveva stabilito la medesima Cassazione in molte altre sentenze del 1992 (caso Ferlin), del 1994 (caso De Lorenzo), del 1998 (caso De Michielis) e del 2008 (caso Amato).
Quel che traiamo è che la qualificazione di un reato, se ministeriale o non, spetta all'autorità giudiziaria. Ed è la logica che ci indica che non potrebbe essere diversamente. Se dicessimo che la qualificazione di un reato spetta alle Camere, perché allora non attribuire alle Camere anche la facoltà di dire su un certo fatto che è una corruzione anziché una concussione; oppure una mera molestia sessuale anziché una violenza sessuale; un furto anziché una rapina?
Veramente voi ritenete che noi parlamentari abbiamo la facoltà di dare ai fatti-reato la giusta qualificazione? Che siamo il tribunale, una corte d'appello o la Cassazione ?
E soprattutto, voi pensate che noi possiamo arrogarci il compito di qualificare un fatto-reato quando agli atti abbiamo documentazione certa che ci dice che la qualificazione del reato operata dal giudice di Milano è esattissima ?
La Giunta per le autorizzazioni ha accertato senza ombra di dubbio che la dottoressa Iafrate riferì a Ostuni che Karima non era egiziana e che non aveva parentele con Mubarak; non c'è ombra di dubbio che Fede avesse detto a Lele Mora che aveva notato Karima in un concorso di bellezza in Sicilia nell'estate del 2009 quando la ragazza aveva 16 anni.
Allora, signor Presidente, noi dovremmo ravvisare in questa situazione gli estremi per elevare conflitto e per giungere ad elevarlo dovremmo anche cambiare la prassi procedurale della Camera!!
Mi sembra francamente troppo!
E lo è sembrato, evidentemente, anche ai professori ascoltati in audizione dalla Giunta per le autorizzazioni indicati dal centro-destra, i quali non hanno avuto l'improntitudine di affermare che il caso Ruby costituisce un reato ministeriale. In particolare, la professoressa Ida Nicotra, nelle 6 pagine che ha depositato presso la Giunta, non è riuscita - comprensibilmente - ad affermare una simile tesi.
Mi sia consentito, peraltro, riportare un passaggio della deposizione del prof. Alessandro Pace presso la Giunta per le autorizzazioni, lo scorso 22 marzo: «Quando la Camera dei deputati, lo scorso 3 febbraio 2011, anziché limitarsi a respingere la richiesta ex articolo 68, comma 2, Cost. di autorizzazione domiciliare di alcuni locali, siti in Segrate, recanti la scritta 'Segreteria onorevole Silvio Berlusconi', ha addirittura assunto, a base della sua delibera, l'incompetenza funzionale della procura di Milano in quanto il reato contestato all'on. Berlusconi avrebbe 'natura ministeriale', ha esorbitato dalle sue attribuzioni costituzionali (pur senza adottare un provvedimento atto a menomare le attribuzioni della procura della Repubblica,


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che ha conseguentemente potuto continuare a svolgere le proprie funzioni)».
Quindi, non solo la magistratura non ha leso le attribuzioni della Camera ma è plausibilmente questa ad aver intaccato (sia pure in via astratta) quelle della magistratura.
Sulla stessa lunghezza d'onda si è posto il prof. Stelio Mangiameli, che ha fatto specifico riferimento all'articolo 37, comma 2, della l. n. 87 del 1953, il quale dispone che - a prescindere dalle disposizioni in materia di giudizio di legittimità costituzionale e di conflitto di attribuzione - restano ferme le norme vigenti per le questioni di giurisdizione. È quindi chiaro che non si può elevare conflitto per un asserito difetto di giurisdizione del giudice penale ordinario.

4. Quali sono le funzioni che la maggioranza ritiene violate?

Facciamo finta, per mero artifizio argomentativo, che il sostrato di fatto delle doglianze della maggioranza sia - non dico vero - ma meritevole di un qualche approfondimento.
Facciamo finta che davvero il Presidente del Consiglio fosse stato preso da un dubbio che meritasse di essere dissipato sulla parentela di Ruby. E che quindi fosse quella la motivazione delle telefonate in questura.
Sia chiaro: è tutto falso ed è dimostrato dagli atti che abbiamo a disposizione che è falso. Ma facciamo finta.
Quale sarebbe la funzione che Berlusconi avrebbe esercitato e che il giudice disconosce? Quella parlamentare? No di certo!
I colleghi Cicchitto e altri dicono che sarebbe quella governativa.
Fatemi leggere un passo della sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2004, quella sul Lodo Schifani.
«La situazione cui si riconnette la sospensione disposta dalla norma censurata - cioè, ribadisco, il c.d. Lodo Schifani - è costituita dalla coincidenza delle condizioni di imputato e di titolare di una delle cinque più alte cariche dello Stato ed il bene che la misura in esame vuol tutelare deve essere ravvisato nell'assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche.
Si tratta di un interesse apprezzabile che può essere tutelato in armonia con i principi fondamentali dello Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la protezione è strumentale. È un modo diverso, ma non opposto, di concepire i presupposti e gli scopi della norma la tesi secondo la quale il legislatore, considerando che l'interesse pubblico allo svolgimento delle attività connesse alle alte cariche comporti nel contempo un legittimo impedimento a comparire, abbia voluto stabilire una presunzione assoluta di legittimo impedimento. Anche sotto questo aspetto la misura appare diretta alla protezione della funzione».
Insomma, dice la Corte costituzionale che la serenità nello svolgimento delle funzioni è un interesse apprezzabile. A tutelarlo sta anche l'articolo 96 della Costituzione che prevede - per i reati compiuti nell'esercizio delle funzioni ministeriali - un procedimento penale ordinario corretto da alcune garanzie procedurali.
Ma allora apprezzabili, a questi fini, sono le funzioni del Governo! Non sono quelle del Parlamento nel suo complesso.
E infatti, quando è stato emanato il c.d. Lodo Alfano, la relazione del medesimo ministro Alfano al disegno di legge si poggiava proprio sull'assunto che «la ratio legis risiede, pertanto, nei princìpi di continuità e di regolarità nell'esercizio delle più alte funzioni pubbliche, nel pieno rispetto del principio di eguaglianza, che consente di prevedere un regime differenziato, anche riguardo all'esercizio della giurisdizione, purché risultino concretamente tutelati anche gli altri concorrenti valori costituzionali, secondo le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 24 del 2004».
Le alte funzioni pubbliche, cui si riferiva Alfano, erano quelle del Presidente del Consiglio e quelle del Presidente della Repubblica e dei Presidenti delle Camere.


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Dunque, le attribuzioni del Parlamento in quanto tale non c'entravano affatto.
La domanda allora sorge spontanea: perché questo conflitto non lo eleva il Presidente del Consiglio? Egli lo ha fatto serenamente nel caso Abu Omar, da cui è scaturita la sentenza n. 106 del 2009, sui poteri inerenti al segreto di Stato.
Che un membro del Governo possa stare in un giudizio costituzionale per conflitto tra poteri, nel quale siano in discussione le sue prerogative, è notorio: ricordo le sentenze della Corte costituzionale n. 7 del 1996 (caso Mancuso) e 200 del 2006 (caso Castelli, per la grazia a Bompressi).
Ecco che allora si profila un'altra assurdità della nostra discussione: siamo qui a domandarci se la Camera debba cambiare prassi per elevare un conflitto tra poteri che non è necessario elevare perché può tranquillamente elevarlo il Governo a tutela delle sue funzioni!
Lei, Presidente si sta facendo carico di un problema che la maggioranza le pone.
Ma la questione in fondo non è drammatica come i toni della maggioranza sembrano far pensare. Sono convinta inoltre di una cosa: che se la Camera dovesse sollevare il conflitto - come spero non accadrà - il Governo dispiegherà un intervento ad adiuvandum nel giudizio. Ma se vi sarà l'intervento ad adiuvandum tanto vale che il Governo faccia direttamente il ricorso principale.
Sicché credo che noi ci dobbiamo risparmiare il disdoro di elevare conflitto su una materia di questo genere e per di più modificando la prassi.

5. Un'ultima osservazione sui precedenti.

Mi consenta, Presidente, di tornare un attimo sulla procedura di approvazione del lodo Alfano.
Lei ricorda, signor Presidente, che nella seduta dell'Assemblea dell'8 luglio 2008 Ella lesse il contingentamento del disegno di legge n. 1442, che prevedeva - per l'appunto - la sospensione automatica dei processi in corso per il Presidente del Consiglio.
In quell'occasione, i miei colleghi Giachetti e Franceschini espressero dubbi sulla correttezza delle Sue decisioni in materia di contingentamento dei tempi.
In particolare, i colleghi ritenevano che - concernendo le disposizioni del lodo Alfano una materia soggetta a voto segreto - non si sarebbe potuto avere il contingentamento sin dal primo calendario.
Nondimeno, Ella confermò la Sua decisione che io oggi, ovviamente, non intendo in alcun modo contestare e su cui non recrimino. Sarebbe un esercizio sterile. Ricordo però che Ella in Assemblea difese con forza la sua determinazione e lo fece con il supporto di numerosi precedenti. Ella in sostanza si rifece alla prassi e alle precedenti occasioni nelle quali si era avuto un contingentamento su materie analoghe. Ella ebbe anche la sensibilità di convocare la Giunta per il regolamento per venire incontro alle perplessità che noi le manifestammo.
Tutto questo per dire quanto i precedenti e la prassi siano il senso stesso del Suo magistero e dell'affidabilità delle procedure della Camera dei deputati.
Già altri colleghi hanno sottolineato come la procedura per sollevare un conflitto d'attribuzioni sia tracciata nella prassi. L'ho ricordata all'inizio. Non credo che vi siano spazi per modificarla, soprattutto non ritengo che ci possiamo permettere di forgiare una prassi ad personam che sarebbe l'ennesimo tentativo di sottoporre il Parlamento alle esigenze personali del Presidente del Consiglio.


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ALLEGATO 2

INTERVENTO ON. DAVID FAVIA

Siamo chiamati a esprimerci su quale sia la procedura parlamentare per elevare un conflitto d'attribuzioni tra poteri dello Stato.
Si tratta all'evidenza di una situazione diversa da quella della resistenza a un conflitto che fosse elevato da un altro potere nei confronti della Camera. Quando questa è parte convenuta nel giudizio per conflitto, essa è chiamata in causa come Assemblea in quanto tale: è infatti impugnato un atto dell'Assemblea ed è pertanto questa che ha il dovere di decidere se costituirsi o meno in un giudizio già instaurato.
Quando viceversa si tratti di deliberare se elevare o meno un contenzioso costituzionale, la procedura è largamente nota: c'è una proposta dell'Ufficio di Presidenza e una deliberazione dell'Assemblea.
Se non c'è la proposta, manca un oggetto su cui la Camera nel suo plenum possa deliberare.
Mi sembra del tutto evidente. Ma siccome per taluni non lo è, allora vi citerò i precedenti:
2002, 18 dicembre, levata del conflitto sul domicilio del deputato Maroni: l'Ufficio di presidenza, dopo un'istruttoria della Giunta delle autorizzazioni, propose all'Assemblea di sollevare il conflitto. Sulla proposta il Presidente Casini diede la parola a un oratore a favore e a uno contro (nella circostanza Carboni dei DS contro e Cola, di Alleanza Nazionale, a favore. Peraltro, l'on. Cola disse espressamente che parlava a favore «della proposta dell'Ufficio di presidenza»). Nella circostanza, l'on. Bielli chiese all'Ufficio di Presidenza - sottolineo all'Ufficio di Presidenza, non alla maggioranza parlamentare - di ripensarci e di svolgere un supplemento d'istruttoria.
2007, 16 maggio, sul caso Matteoli: l'Ufficio di presidenza, dopo un'istruttoria della Giunta delle autorizzazioni, propose all'Assemblea di sollevare il conflitto. Sulla proposta il presidente di turno Castagnetti diede la parola a un oratore a favore e a uno contro (nella circostanza Vacca dei Comunisti italiani e Tenaglia del PD) e poi mise ai voti «la proposta dell'Ufficio di presidenza».
2008, 31 luglio sul caso Englaro: l'Ufficio di presidenza, senza l'istruttoria di alcun altro organo, propose all'Assemblea di sollevare il conflitto. Sulla proposta il presidente Fini diede la parola a un oratore per gruppo ai sensi dell'articolo 45 del Regolamento. Poi mise ai voti «la proposta dell'Ufficio di presidenza».

Non mi sembra quindi dubbio, sotto alcun profilo, che l'oggetto di un'eventuale pronunzia dell'Assemblea debba essere una proposta dell'Ufficio di Presidenza e che questo - non solo è organo referente ma - è soprattutto titolare del potere di proporre. In altre parole, per usare un linguaggio caro agli esperti di diritto pubblico e amministrativo, l'Ufficio di Presidenza in questo procedimento non ha solo il potere istruttorio ma ha anche l'esclusiva sull'iniziativa.
Non c'è dubbio che quest'iniziativa può essere sollecitata e arricchita da apporti di altri soggetti (singoli parlamentari, altri organi parlamentari, impulsi dello stesso presidente della Camera), ma l'iniziativa resta un potere dell'Ufficio di Presidenza.
D'altronde, lo stesso avviene per esempio per l'iniziativa legislativa del Governo. Essa è costituita da un sub-procedimento: v'è una proposta di un singolo ministro, poi c'è il pre-Consiglio e poi la riunione del Consiglio dei ministri. Infine c'è l'autorizzazione


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del Presidente della Repubblica alla presentazione del disegno di legge alle Camere.
Sostenere che l'Assemblea deve pronunziarsi comunque significa contemplare l'ipotesi che le Camere si debbano pronunziare anche se l'iniziativa legislativa del Governo non si compie, perché il relativo sub-procedimento non si è completato. Sarebbe una conclusione assurda.
La mia conclusione è dunque che - se l'Ufficio di Presidenza non perviene ad alcuna proposta - non c'è materia per una deliberazione dell'Assemblea.
D'altro canto, i precedenti sono esattamente in questo senso.
È stato già ricordato da più parti come il principale tra questi concerne i colleghi Faggiano-Sardelli del 21 ottobre 2003.
Era successo che - per uno scambio di totali elettorali, doloso o meno non si sa - era stato proclamato eletto il collega Sardelli (ironia della sorte, proprio colui che sottoscrive la lettera di cui stiamo parlando) che le elezioni le aveva perse e fu dichiarato sconfitto il deputato Faggiano, che le elezioni le aveva vinte.
Faggiano fece ricorso alla Giunta delle elezioni. Questa non si curò del suo ricorso: propose all'Assemblea di convalidare la sua elezione. L'Assemblea accolse la proposta.
Successivamente fu presentata una denunzia penale per falso in atto pubblico. Nell'ambito dell'inchiesta, il pubblico ministero contò le schede elettorali e accertò che lo scambio dei totali era effettivamente avvenuto. Non seppe però ascriverlo al dolo di alcuno e pertanto chiese l'archiviazione.
L'Ufficio di Presidenza discusse a lungo sull'ipotesi se elevare conflitto contro il PM perché questi aveva maneggiato le schede senza chiedere il permesso alla Camera stessa.
L'ipotesi di elevare conflitto si basava sul fatto che le schede sono a disposizione della Giunta a fini di verifica dei poteri, ai sensi dell'articolo 66 della Costituzione.
Che il PM avesse verificato i totali, secondo questa ipotesi, significava surrettiziamente che questi contestava l'esito della deliberazione della Camera del 20 giugno 2002 sulla convalida di Sardelli e, in definitiva, metteva a rischio il potere di verifica sui titoli di ammissione secondo il citato articolo 66 della Costituzione.
Ebbene: l'Ufficio di Presidenza respinse la proposta di proporre - si perdoni il bisticcio - all'Assemblea l'elevazione del conflitto e il Presidente Casini non portò la questione all'attenzione dell'Assemblea.
Ma tutto ciò ha ricevuto conferme nei casi - di cui pure si è già parlato - Mancini e D'Elia.
Si deve aggiungere il precedente ultimo in ordine di tempo. Esso riguarda il mio collega di gruppo, l'onorevole Evangelisti.
Egli aveva presentato alcune interrogazioni al ministro Brunetta, chiedendogli conto su come questi avesse votato in Consiglio dei ministri sullo scioglimento del comune di Fondi.
Brunetta avrebbe potuto rispondere che non intendeva dar conto all'interrogante su quel profilo, avrebbe potuto sostenere molti argomenti di tipo politico.
Invece egli scelse il più maldestro, quello per cui egli era impedito di rispondere per vincolo giuridico di segretezza delle riunioni del Consiglio dei ministri.
Si trattava di un abbaglio: punto sul vivo, il Ministro aveva reagito con stizza.
Evangelisti scrisse una lettera al Presidente della Camera chiedendo che si elevasse un conflitto d'attribuzioni nei confronti del Governo perché Brunetta si sottraeva illegittimamente - con inconsistenti argomenti ordinamentali - al potere ispettivo della Camera. L'on. Evangelisti prese anche la parola in Assemblea l'8 giugno 2010.
Il Presidente della Camera scrisse una nota al ministro Brunetta - devo dargliene atto - e gli contestò due profili, uno di sua stretta pertinenza e un altro più generale.
Quello di sua pertinenza era relativo al potere di vaglio di ammissibilità delle interrogazioni.
Opponendo un divieto giuridico alla possibilità di rispondere, il ministro Brunetta contestava implicitamente l'ammissibilità dell'interrogazione. (E qui - aggiungo


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io - il conflitto tra poteri avrebbe potuto elevarlo anche il solo Presidente, quale organo monocratico).
L'altro profilo invece riguarda tutta la Camera, cioè l'ambito del controllo parlamentare sull'Esecutivo. Sostenere che il Consiglio dei ministri abbia un regime di riunione segreta è incredibile e lede il potere di controllo sul Governo che tutti i parlamenti del mondo civile esercitano.
Nella lettera di risposta del Ministro Brunetta si riconobbe che in effetti non poteva essere messa in discussione la sua attribuzione di vagliare l'ammissibilità delle interrogazioni e delle interpellanze. Nondimeno, il ministro insistette, nella sua lettera dell'11 giugno 2010, che gli orientamenti espressi dai Ministri in Consiglio sono coperti da segreto. E qui v'era un'evidente lesione delle prerogative della Camera.
È per questo che il 20 luglio 2010 gli onorevoli Donadi ed Evangelisti le chiesero di portare in Ufficio di Presidenza la questione affinché fosse proposto all'Assemblea di sollevare conflitto. Ma in Ufficio di Presidenza quell'istanza non è mai arrivata né tanto meno in Assemblea.
Ne devo trarre che la procedura di elevazione di un conflitto è precisamente quella che da molti decenni conosciamo. O c'è un impulso sufficiente affinché vi sia una proposta dell'Ufficio di Presidenza per l'Assemblea oppure questa non si pronunzia affatto.
Si potrebbe sostenere che tutta questa è solo prassi: il Regolamento non dice alcunché sulla procedura e quindi la regola generale sarebbe che si pronunzia la Camera nel suo plenum.
Sarebbe però anche questo inesatto. L'Assemblea non si pronunzia se non su proposte. E qui di proposte potremmo non averne affatto.
D'altronde mi sembra significativo, visto che stiamo proprio nella Giunta per il Regolamento, che l'articolo 16 del Regolamento - per le proposte di modifica del suo testo - richiede che sia la Giunta del Regolamento ad adottare una proposta da sottoporre all'Assemblea. Non potrebbe approdare mai in Assemblea una proposta di modifica regolamentare che non sia istruita e approvata da questa Giunta: ripeto istruita e approvata.
L'esempio portato dal collega Calderisi nella seduta dello scorso giovedì 24 marzo non è per nulla calzante, giacché è relativo alle procedure di raccordo con le Istituzioni dell'Unione europee.
Le decisioni prese dalla Giunta del Regolamento a quel proposito erano interamente comprese nell'ambito della funzione legislativa della Camera (sia in chiave di partecipazione alla fase ascendente della legislazione comunitaria sia come denunzia della violazione della sussidiarietà legislativa), anche in raccordo con il Senato, come Calderisi stesso ha puntualizzato nella seduta del 1o luglio 2010.
Nel caso qui all'esame la funzione legislativa non è in discussione.
La prassi è dunque nel senso che ho detto. E la prassi è una fonte del diritto parlamentare.
Se prendiamo i manuali di diritto parlamentare troviamo dense pagine scritte sulla sua natura giuridica. Essa è costituita di un susseguirsi di comportamenti e precedenti che vengono ritenuti, da chi li assume, conformi a diritto e che disattendere sarebbe sintomo di un cattivo andamento dei lavori parlamentari, proprio laddove il Presidente della Camera e i presidenti di commissione devono assicurare il buon andamento dei lavori medesimi ai sensi dell'articolo 8 del Regolamento della Camera.
Nella mia personale esperienza, conferma indiscutibile di quanto precede si trova, per esempio, nelle sedute di questa Giunta dell'8 luglio 2008 e del 13 gennaio 2009.
In quelle occasioni, il Presidente non ha fatto altro che un lungo elenco di precedenti che giustificavano - a posteriori - il contingentamento del lodo Alfano; e la sostituzione d'ufficio del deputato Pionati da membro della Giunta per le autorizzazioni.
Mi voglio sforzare, però, e concedere che una procedura di sicurezza, per consentire


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alla Camera di reagire a delle enormità, a dei casi eccezionali, deve esservi.
Ma allora andiamo a vedere il fumus di questa proposta di conflitto.
Si dice - molto genericamente, per la verità, e mai esplicitamente agli atti parlamentari - che le cospicue e ripetute pressioni telefoniche del Presidente del Consiglio sulla questura di Milano nella notte tra il 27 e il 28 maggio siano state fatte nel nome della tutela della politica estera italiana, perché Karima el Marough era considerata, fino alla smentita successiva, la nipote di Moubarak. Vi sarebbe stato dunque l'esercizio di funzioni ministeriali e dunque si sarebbe dovuta radicare la procedura dei reati ministeriali prevista dall'articolo 96 della Costituzione e dagli articoli 6, 7 e 8 della legge costituzionale n. 1 del 1989.
A parte le facili ironie sulla rilevanza e la capacità d'incidere della politica estera italiana nelle vicende di queste settimane, risulta inequivocabilmente dagli atti che la Camera aveva ed ha a disposizione che - mai - nessun pubblico ufficiale coinvolto nella vicenda potesse anche dubitare per un istante dell'identità di quella ragazza.
C'è una legge che porta anche il nome del Presidente della Camera (la Bossi-Fini) che prevede le impronte digitali per gli immigrati. Ebbene, quando Ruby venne portata in questura quella notte fu identificata con le impronte digitali e si seppe subito chi fosse, dove era nata, quanti anni avesse, chi fossero i suoi genitori. Si poté escludere immediatamente che era la nipote di Mubarak.
E infatti, Karima non fu consegnata al consolato egiziano a Milano ma alla consigliera regionale Minetti la quale, tra breve tempo, potrebbe essere rinviata a giudizio per induzione e favoreggiamento della prostituzione insieme a Emilio Fede e Lele Mora. Occorre aggiungere, signor Presidente e colleghi, che nessuno degli illustri professori che sono stati escussi in audizione il 22 marzo 2011 presso la Giunta per le autorizzazioni ha affermato che si tratta di un reato ministeriale.
Quindi - dal punto di vista fattuale - la proposta di elevare conflitto è totalmente priva di ogni fumus boni iuris e quindi impegnare la Camera in una deliberazione palesemente infondata sarebbe del tutto ridicolo.
Mi si dirà che questo è il merito della questione e non ha impatto sul quesito procedurale.
Ma occorre ribattere che il merito ha un suo spessore se si invoca la necessità di ribaltare la prassi consolidata. Che bisogno ci sarebbe di analizzare e verificare la tenuta di una prassi se non vi fosse l'urgenza di un fatto nuovo? Ecco perché ho illustrato il fatto. E questo fatto non è certamente idoneo a indurre il rovesciamento della prassi. Si consideri inoltre che la giurisprudenza costante della Corte costituzionale è nel senso che il conflitto d'attribuzione è inammissibile quando si risolve in un surrettizio espediente per un'impugnazione processuale.
Cito le ordinanze, tra le tante, nn. 27 del 1999 e 117 del 2006. Il senso che se ne trae è che la giurisdizione civile, penale e amministrativa non può subire turbative improprie con lo strumento del conflitto. Tanto più che l'articolo 37 della legge n. 87 del 1953 - che disciplina l'attività della Corte costituzionale - mantiene ferme le disposizioni in materia di giurisdizione.
Ho poi sentito dire che non sarebbe giusto che un organo, l'Ufficio di Presidenza, che ha casualmente una maggioranza difforme da quella dell'Assemblea, sottragga a quest'ultima il potere dell'ultima parola. Anche questo è un argomento privo di consistenza.
Anzitutto - come ho poc'anzi rammentato - la Giunta del Regolamento ha il potere di non sottoporre all'Assemblea una deliberazione sulle proposte avanzate da singoli deputati di modifiche regolamentari e, attualmente, mi sembra che la maggioranza in seno al nostro organo è più o meno analoga a quella dell'Ufficio di Presidenza e quindi, anche qui, ci si potrebbe rimproverare di esercitare abusivamente il ruolo che l'articolo 16 del Regolamento ci assegna. Ma sarebbe, come


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potete vedere, un rimprovero chiaramente errato. Anche perché qualche volta si usa l'espressione «non si può sottrarre all'Aula il potere di deliberare». Ma la sottrazione è un concetto sbagliato: si sottrae qualcosa a un altro quando qualche cosa c'è. Qui il potere dell'Assemblea non c'è senza la proposta dell'Ufficio di Presidenza e quindi non c'è alcuna sottrazione di cui discorrere.
In secondo luogo, l'obiezione muove da un'idea populistica e totalitaria del Parlamento.
Dire che le Commissioni e gli organi referenti devono avere la stessa composizione e maggioranza dell'Assemblea, altrimenti il loro ruolo è illegittimo, significa negare il senso stesso della rappresentanza parlamentare e del divieto di mandato imperativo. Se i deputati sono liberi di cambiare orientamento e di cambiare gruppo d'appartenenza, perché mai dobbiamo imporre agli organi parlamentari di esprimere la stessa composizione e la stessa volontà politica della maggioranza dell'Assemblea?
Si negherebbe il senso dell'articolo 67 della Costituzione, il cui valore a questo proposito è stato richiamato dal Presidente della Camera nella seduta, che torno a ricordare, del 13 gennaio 2009.
Per quanto riguarda poi il criterio di proporzionalità nella composizione degli organi parlamentari, nel caso del deputato Pionati, che rifiutava di dimettersi dalla Giunta per le autorizzazioni, noi stessi - qui in Giunta per il Regolamento, nella citata seduta del 13 gennaio 2009 - abbiamo concluso che non v'è un rigido criterio proporzionale nella composizione di quegli organi. Abbiamo ritenuto che solo l'esclusione totale da un organo di un gruppo parlamentare (che invece abbia i requisiti numerici per esservi rappresentato) giustificasse un intervento riequilibratore del Presidente della Camera. E proprio su questa circoscritta applicazione del principio di proporzionalità concordò con una qualche enfasi il collega Leone.
L'Ufficio di Presidenza della Camera, che peraltro non è un organo legislativo (e quindi non può essere richiamato l'articolo 72 della Costituzione), è - viepiù - costituito non da membri designati dai gruppi ma da personalità elette dalla Camera stessa. Sicché la loro libertà di mandato deve considerarsi ancor più accentuata.
Ricordo inoltre che nella scorsa legislatura, al Senato, fu eletto presidente della Commissione Difesa il senatore De Gregorio, che era stato eletto senatore con il centro-sinistra ma che poi cambiò casacca e la Commissione finì in mano al centro-destra. La maggioranza di quella commissione era dunque diversa dalla maggioranza del plenum del Senato.
A chi mi obiettasse che però la Commissione permanente non ha il potere di bloccare un disegno di legge e di impedire all'Assemblea di esprimersi si può rispondere che essa ha altri poteri - per esempio, sulle nomine militari - che esercita a prescindere dal rapporto con l'Assemblea e che quindi potrebbe esplicare in difformità dalla volontà presunta del plenum.
Insomma, l'argomento della casuale difformità delle maggioranze tra Ufficio di Presidenza e Assemblea mi sembra un argomento finto.
Concludo pertanto, signor Presidente, nel senso che l'Assemblea può pronunziarsi solo se l'Ufficio di Presidenza avanza una proposta in senso favorevole all'elevazione del conflitto. Altrimenti la procedura non potrà che arrestarsi come è accaduto in tutti gli altri precedenti.

On. David Favia


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ALLEGATO 3

CONSIDERAZIONI INTEGRATIVE DELL'INTERVENTO SVOLTO DALL'ONOREVOLE CALDERISI
NELLA SEDUTA DEL 24 MARZO 2011

Pur ribadendo che la Giunta non è chiamata a pronunciarsi sul merito del conflitto di attribuzione, ma solo sugli aspetti procedurali, ritiene opportuno ricordare la sentenza n. 241 del 2009 della Corte Costituzionale sul caso Matteoli nella quale si afferma, tra l'altro che: «All'organo parlamentare, infatti, non può essere sottratta una propria, autonoma valutazione sulla natura ministeriale o non ministeriale dei reati oggetto di indagine giudiziaria, né tantomeno - ove non condivida la conclusione negativa espressa dal tribunale dei ministri - la possibilità di sollevare un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale, assumendo di essere stata menomata, per effetto della decisione giudiziaria, della potestà riconosciutale dall'articolo 96 della Costituzione».
Dalla mancata comunicazione alla Camera degli atti del procedimento - afferma ancora la Corte - «deriva la menomazione della sfera di competenza costituzionalmente garantita della Camera dei deputati, che, se del caso, potrebbe sollevare conflitto di attribuzione davanti a questa Corte, ritenendo, in ipotesi, che l'asserita indebita qualificazione come non ministeriale del reato contestato abbia precluso alla Camera competente la possibilità di far valere la guarentigia di cui all'articolo 96 della Costituzione».

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