Sulla pubblicità dei lavori:
Bruno Donato, Presidente ... 3
INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME DELLE PROPOSTE DI LEGGE C. 244 MAURIZIO TURCO, C. 506 CASTAGNETTI, C. 853 PISICCHIO, C. 1722 BRIGUGLIO, C. 3809 SPOSETTI, C. 3962 PISICCHIO, C. 4194 VELTRONI, C. 4955 GOZI E C. 4956 CASINI, IN MATERIA DI ATTUAZIONE DELL'ARTICOLO 49 DELLA COSTITUZIONE
Audizione di esperti della materia:
Bruno Donato, Presidente ... 3 21 28
Zaccaria Roberto, Presidente ... 25
Bressa Gianclaudio (PD) ... 24
Calderisi Giuseppe (PdL) ... 21
Cheli Enzo, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Firenze ... 6
D'Onofrio Francesco, Professore emerito di diritto pubblico presso l'Università La Sapienza di Roma ... 3
Frosini Tommaso, Professore ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli ... 9
Lanchester Fulco, Professore ordinario di diritto costituzionale italiano e comparato e direttore del Master in Istituzioni parlamentari europee per consulenti d'Assemblea presso l'Università La Sapienza di Roma ... 11 26
Lippolis Vincenzo, Professore ordinario di diritto pubblico comparato presso la Libera Università degli Studi per l'Innovazione e le Organizzazioni di Roma ... 5
Massari Oreste, Professore ordinario di scienza politica presso l'Università La Sapienza di Roma ... 13 15 27
Merlini Stefano, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Firenze ... 16 25
Pepe Mario (Misto-R-A) ... 24
Pinelli Cesare, Professore ordinario di diritto pubblico presso l'Università La Sapienza di Roma ... 8
Pollastrini Barbara (PD) ... 15
Ridola Paolo, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università La Sapienza di Roma ... 19 28
Tassone Mario (UdCpTP) ... 24
Turco Maurizio (PD) ... 21 25
Vassallo Salvatore (PD) ... 22
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A; Misto-Noi per il Partito del Sud Lega Sud Ausonia: Misto-NPSud; Misto-Fareitalia per la Costituente Popolare: Misto-FCP; Misto-Liberali per l'Italia-PLI: Misto-LI-PLI; Misto-Grande Sud-PPA: Misto-G.Sud-PPA.
Resoconto stenografico
INDAGINE CONOSCITIVA
La seduta comincia alle 14,45.
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nel quadro dell'indagine conoscitiva nell'ambito dell'esame delle proposte di legge C. 244 Maurizio Turco, C. 506 Castagnetti, C. 853 Pisicchio, C. 1722 Briguglio, C. 3809 Sposetti, C. 3962 Pisicchio, C. 4194 Veltroni, C. 4955 Gozi e C. 4956 Casini, in materia di attuazione dell'articolo 49 della Costituzione, l'audizione di esperti della materia.
Sono presenti il professor Enzo Cheli, il professor Francesco D'Onofrio, il professor Tommaso Frosini, il professor Fulco Lanchester, il professor Vincenzo Lippolis, il professor Oreste Massari, il professor Stefano Merlini, il professor Cesare Pinelli e il professor Paolo Ridola. Avverto che il professor Carlo Fusaro ha comunicato la sua impossibilità a partecipare alle audizioni anche nella prossima settimana e ha inviato una memoria da lasciare agli atti della Commissione. Tale memoria, unitamente a quelle dei professori Frosini e Massari, presenti all'audizione, sono in distribuzione.
Do la parola al professor D'Onofrio, quindi al professor Lippolis, al professor Cheli e al professor Pinelli, che hanno chiesto di intervenire nella prima parte della seduta dovendosi poi assentare per concomitanti impegni.
FRANCESCO D'ONOFRIO, Professore emerito di diritto pubblico presso l'Università La Sapienza di Roma. Ho letto con molta attenzione gli atti che ci sono stati inviati. Ritengo che la relazione sui vari progetti di legge sia stata particolarmente illuminante. Ritengo che non sia casuale, dal punto di vista anche dell'opinione che sto per esprimere, che il dibattito in Commissione si sia svolto con molta intensità nel contesto degli scorsi maggio, giugno e luglio, con un periodo abbastanza lungo di qualche silenzio e che sia ripreso da qualche tempo a questa parte.
Dal punto di vista strettamente costituzionale, non abbiamo dubbi che si possa procedere con una legge attuativa dell'articolo 49 della Costituzione. La questione è: si deve fare o no? Se si fa, deve essere una legge fino a che punto limitatrice dei potenziali diritti dei singoli partiti e fino a che punto, invece, può contemplare contenuti vincolanti per tutti i partiti? Questi mi sembrano i punti rilevanti di ordine costituzionale.
La mia opinione in sintesi è la seguente. È necessaria una legge concernente i partiti, ma occorre prevederne con estrema attenzione i limiti perché ci troviamo in una situazione in cui la discrezionalità del dar vita ai partiti comprende, ovviamente, anche l'indirizzo politico, che per sua natura può non essere costretto in una disciplina giuridica identica per tutti i
partiti. Lo do per scontato. Non vedrei il motivo per il quale ci si associ in partiti per fare in modo di ottenere lo stesso risultato da parte di tutti.
Da questo punto di vista, quindi, mi sembra evidente che la disciplina sia necessaria, mai come in questo momento e come in questa fase, nella quale ho letto, in qualche intervento, che si ritiene che la legge sia necessaria per contrastare tentazioni antipolitiche presenti nel nostro Paese. È probabile che queste tentazioni possano avere, nell'ambito di una disciplina dei partiti, un fattore di contenimento, ma certamente questo riguarda molto di più il problema del finanziamento, che attiene alla natura dei soggetti politici.
Abbiamo alle spalle una Costituzione che aveva partiti politici organizzati in modo molto numeroso per ragioni varie, un referendum per il quale, invece, non occorre alcun finanziamento per i partiti politici, una legge successiva che parla di un finanziamento delle campagne elettorali con qualche dose di ipocrisia. Ovviamente, infatti, le campagne elettorali non si restringono esclusivamente ai giorni in cui si procede al voto, ma attengono anche, per quanto riguarda i partiti politici, a un'attività che si svolge tra un'elezione e l'altra, a maggior ragione se il finanziamento è previsto per le elezioni regionali, nazionali, europee e per il referendum, che si svolgono in tempi diversi. È di tutta evidenza, quindi, che il problema è che racchiudere questi tempi tra un'elezione e l'altra fa parte anche della normale attività dei partiti, per cui credo che una disciplina dei partiti sia necessaria.
Qualcuno dei progetti di legge si pone la domanda nel contesto europeo. Mi sembra opportuno far presente che questo, ossia il contesto europeo dei partiti che fanno capo al Parlamento europeo, prevede espressamente la disciplina legislativa dei partiti come persone giuridiche; si può prevedere anche come facoltà dei diversi Paesi, ma come fatto naturale dell'appartenenza a partiti politici presenti nel Parlamento europeo. Faccio questa precisazione per evitare l'ipotesi che si possa ritenere che la vicenda dei partiti politici abbia una sua totale specificità, anche costituzionale, italiana rispetto ai diversi Paesi europei.
Conclusivamente la legge è necessaria per ragioni normalmente costituzionali ma, mai come in questo caso, legate alla vicenda della presenza di opinioni largamente diffuse cosiddette antiparlamentari e antipolitiche. Sono, infatti opinioni che trovano anche nella mancata disciplina legislativa dei partiti e, soprattutto, nel mancato rendiconto delle spese dei partiti uno dei motivi per la propria accentuazione al di là di indicazioni genericamente antiparlamentari, che non troverebbero in una disciplina legislativa dei partiti alcuna regola rispetto alla propria indicazione.
È necessaria un'estrema delicatezza per quanto riguarda i contenuti di questa disciplina. Ritengo che occorra andare alla ricerca del minimo comune denominatore tra tutti i soggetti che possono dare vita ai partiti politici, sapendo che, se siamo molto più specifici nell'indicare i limiti, corriamo il rischio di essere sconfessati nel contesto delle specifiche elezioni, come mi sembra un parlamentare nel corso del dibattito abbia detto espressamente. Nel contesto delle elezioni, infatti, è possibile che si proceda a un'attività politica libera, come la Costituzione prevede, anche in contrasto con le discipline rigide previste per altri partiti, per cui occorre, dal mio punto di vista, non operare con una delega al Governo, che particolarmente adesso non può essere un suo soggetto, né un Governo espressione della maggioranza parlamentare né, come nel caso attuale, di un Governo che ha una legittimazione parlamentare senza
essere espressione di una maggioranza parlamentare.
Ritengo, quindi, che, mai come in questo caso, il Governo non possa avere deleghe legislative che attengono ai contenuti degli statuti, che la delega è sostanzialmente un modo proprio per dire che è opportuno rimettere alla discrezionalità dei partiti nel proprio Statuto le modalità del modello organizzativo. Lo dico anche
in riferimento all'ipotesi, che ho visto ripetutamente indicata, delle primarie.
È ovvio che l'opinione sulle primarie può essere molto varia, ma tendo a ritenere che la vicenda che le coinvolge debba essere oggetto di una disciplina legislativa distinta perché, come tale, la disciplina legislativa riguarda le candidature, non la natura dei partiti. Va bene che ci siano partiti che preferiscano primarie conformi alla legge e va bene che chi non le vuole non le abbia; sarei contrario a prevedere una qualunque forma di indicazione delle candidature regionali nazionali o europee da parte degli statuti imposta per legge.
Riassuntivamente, c'è necessità della legge, serve attenzione estrema ai limiti - soltanto un minimo comun denominatore di tutte le parti politiche presenti in Parlamento - e, ragionevolmente, immaginando che al di fuori del Parlamento esistono pulsioni che tendono a dar vita a partiti politici anche diversi da quelli presenti in Parlamento e che, ovviamente, non potrebbero essere discriminati dal punto di vista legislativo in modo totale, quasi a far ritenere una chiusura nei confronti di coloro che fossero portatori di interessi politici diversi.
La mia opinione, quindi, rimane nella convinzione che sono venute meno le ragioni ideologiche iniziali della mancata applicazione dell'articolo 49 della Costituzione e, soprattutto, la diversa opinione circa il veto democratico interno, fermo restando che della democrazia si possono avere opinioni molto diverse. Da questo punto di vista, quindi, è di tutta evidenza che la legge è necessaria, è indispensabile per i finanziamenti, deve contenere limiti estremamente limitanti e avere un comune denominatore da parte di tutte le forze politiche.
VINCENZO LIPPOLIS, Professore ordinario di diritto pubblico comparato presso la Libera Università degli Studi per l'Innovazione e le Organizzazioni di Roma. Penso che non si potrebbe negare l'evidenza di un fatto: il tema della disciplina dell'attività dei partiti si lega oggi a quella del finanziamento. Anche se in astratto le due questioni potrebbero essere separate e nulla impedirebbe una legge che disciplini la democrazia interna dei partiti separatamente dal finanziamento, dal punto di vista politico, oggi le due questioni sono strettamente connesse.
Condivido quindi l'impostazione delle proposte di legge che condizionano il finanziamento ai partiti all'attuazione da parte loro delle disposizioni che si intendono varare per garantire la democraticità della loro attività, ritengo cioè che sia opportuno legare le due cose. Dovrebbe essere questo il punto di partenza della nuova disciplina.
Per quanto riguarda gli aspetti di democrazia interna mi pare che sia opportuno non eccedere in dettagli e dar vita a una regolamentazione piuttosto snella. Per essere franchi, mi pare che un eccesso di dettaglio possa essere fonte di contenziosi di fronte alla magistratura; potrebbe, di conseguenza, provocare una invadenza di questa nell'attività dei partiti e sospetti di condizionamenti. Credo che su questa questione si debba riflettere serenamente e con chiarezza.
Un altro aspetto che sulla democrazia interna dei partiti voglio toccare è quello delle primarie. Personalmente, da sempre sono molto scettico sull'utilizzazione delle primarie in Italia. Sono, in generale, molto scettico sui trapianti di istituti che nascono in contesti politici istituzionali completamente diversi dal nostro - basta guardare la realizzazione del question-time qui in Italia rispetto al question-time inglese - e questo scetticismo mi accompagna anche nella valutazione dell'utilizzazione del sistema delle primarie. Mi pare che, in questi anni di sperimentazione, esse siano state avvolte da un alone di confusione. D'altra parte, ci sono analisi molto serie, secondo le quali le primarie hanno svuotato completamente i partiti statunitensi, riducendoli a contenitori vuoti che attendono solo un personaggio popolare che li riempia.
Per altro verso, se un partito politico non è in grado di elaborare una linea politica e di individuare i candidati adatti a portarla avanti, non vedo che funzione
possa svolgere. A mio modesto avviso, è giusto che ricada sul partito politico l'onere e la responsabilità di scegliere gli uomini idonei a portare avanti la propria linea politica.
Detto questo, però, ritengo che una disciplina legislativa delle primarie per evitare l'attuale stato di confusione in cui si svolgono possa costituire un fatto positivo. Si tratterebbe di dettare alcune norme di carattere generale per la trasparenza del procedimento a garanzia dei cittadini che partecipano e degli stessi candidati. Le primarie devono però restare una libera scelta dei partiti e non sono favorevole a condizionare il finanziamento pubblico al loro svolgimento.
Mi pare poi necessario che, in un clima politico nel quale si sono avute scissioni, fusioni di partiti, in un panorama in cui i nomi, i simboli e le identità dei partiti sono in costante cambiamento, si fissino punti certi circa l'identità del partito e del suo simbolo in maniera anche da evitare i contenziosi successivi.
Sono d'accordo, dunque, con quelle proposte di legge che prevedono la personalità giuridica dei partiti, deposito dello Statuto e del simbolo. Dedicherei anche un'attenzione particolare all'aspetto delle fusioni, sia sotto il profilo dell'identità sia sotto quello del patrimonio, che è un altro problema emerso in questa fase politica. Che fine fa, infatti, il patrimonio del partito nel momento in cui questo si fonde con un altro partito?
Mi pare quindi apprezzabile, nella proposta di legge del gruppo dell'UdCpTP, la preoccupazione di individuare il momento della cessazione dell'attività. Probabilmente, la soluzione indicata è un po' troppo elastica, ma se un partito ha accumulato un patrimonio considerevole, se cessa l'attività, mi pare giusto, come è scritto nella proposta dell'UdCpTP, che questo ritorni allo Stato.
Mi parrebbe inoltre il caso di riconsiderare la questione della soglia della percentuale minima di voti necessaria per ottenere i rimborsi elettorali e di elevarla.
Ultimo punto, le fondazioni. Ho perplessità su un finanziamento delle fondazioni. Si possono finanziare i partiti, i quali, se vogliono, con i fondi del finanziamento possono costituire le fondazioni; anzi, se c'è un flusso di danaro dai partiti alle fondazioni, è giusto che a quel punto scatti un controllo sull'attività delle fondazioni.
L'ultima questione è quella di prevedere controlli più severi e più analitici sulla gestione del danaro pubblico affidato ai partiti. Le scelte possono essere diverse: innanzi tutto la certificazione dei bilanci da parte di soggetti di riconosciuta professionalità; l'affidamento del controllo successivo alla Corte dei conti, oppure ad un'autorità composta di persone competenti, anche magistrati amministrativi e contabili. L'importante, però, è che questi controlli siano stringenti e verifichino che il flusso del finanziamento pubblico sia destinato alle finalità della politica, le finalità dell'attività dei partiti e non si perda in altri rivoli.
ENZO CHELI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Firenze. Mi limiterò solo a due osservazioni, rinviando, per un'esposizione più diffusa, a una successiva memoria scritta.
La prima osservazione riguarda l'interpretazione dell'articolo 49 della Costituzione, a cui si collegano tutti i progetti di legge oggi all'esame di questa Commissione. Come sappiamo, per molto tempo e fino agli anni più recenti l'interpretazione di questa norma, prevalsa sia in sede politica sia in sede scientifica, era stata sempre nel senso di ritenere che il metodo democratico richiamato dall'articolo 49 della Costituzione dovesse riferirsi soltanto all'azione esterna, ossia all'azione non violenta dei partiti, e non all'organizzazione e alla vita interna dei partiti. Questa convinzione nasceva da due elementi: uno di comparazione con l'articolo 39 della Costituzione, che per i sindacati, ai fini della registrazione, prevede la necessità di uno Statuto con un'ordinamento interno a base democratica; un altro elemento si traeva dai lavori preparatori dell'Assemblea costituente, dal momento che in Assemblea
l'emendamento presentato dagli onorevoli Mortati e Ruggiero per affermare esplicitamente l'applicazione del metodo democratico all'organizzazione interna dei partiti fu ritirato dallo stesso Mortati, e riproposto in votazione dall'onorevole Bellavista, fu bocciato. Da questo si traeva la convinzione che la volontà costituente fosse stata nel senso di escludere la possibilità di riferire il metodo democratico alla vita interna del partito.
Tuttavia, una lettura più attenta degli atti della Costituente che la dottrina ha fatto in tempi più recenti porta a superare questa visione, come ricordato dal professor D'Onofrio, perché, se si rivedono tutti i passaggi della discussione, quando votarono questa norma i costituenti non assunsero alcuna posizione precisa sul livello di applicazione del metodo democratico, rinviando la decisione di quest'applicazione agli sviluppi della vita politica e alle successive interpretazioni dottrinali.
Questo risulta con molta evidenza dalla presa di posizione di Mortati che, nel momento in cui ritirava il suo emendamento, diceva di farlo perché lo riteneva superfluo dal momento che la norma, così come formulata, implicitamente prevedeva il ricorso al metodo democratico anche per la vita interna dei partiti. Mortati lo deduceva, come l'avevano già dedotto Moro e Dossetti in precedenza, dal fatto che la norma si riferisce ai cittadini. Il concorso alla determinazione della politica nazionale non è riferito direttamente ai partiti, ma ai cittadini rispetto a cui i partiti sono strumenti. Allora, affinché i cittadini possano concorrere a determinare la politica nazionale, lo strumento deve avere carattere di fruibilità interna, di democraticità interna.
Tutto questo porta a dire, come già è stato detto, che una disciplina quale quella che si sta esaminando non solo è compatibile con la norma costituzionale ma, per quanto tardiva, si presenta come un adempimento necessario sulla linea di scelte che già altri ordinamenti hanno fatto da tempo, si pensi alla Germania, alla Spagna e all'Austria.
La seconda osservazione riguarda il complesso dei progetti che state esaminando. Si tratta di nove progetti, che presentano alcune parti comuni e alcune, invece, differenziate. Le parti comuni che si presentano in tutti i progetti (salvo in uno, che riguarda solo le fondazioni), comprendono l'attribuzione della personalità giuridica ai partiti attraverso la loro registrazione nell'albo delle associazioni riconosciute e la condizione ai fini della registrazione di una denominazione e di un contrassegno riconoscibile nonché di uno statuto ispirato a una serie di princìpi. Tutti i progetti descrivono quali sono i princìpi attraverso cui si realizza il metodo democratico all'interno dei partiti. Lo statuto deve avere il massimo di pubblicità con la pubblicazione, al pari di una norma di legge, in Gazzetta Ufficiale.
Si prevedono, inoltre, come norme comuni: procedure e organi di controllo interni ed esterni ai partiti, diretti a garantire il rispetto della legge e degli statuti nonché la correttezza e la trasparenza dei bilanci. Tutti i progetti, infine, prevedono la sanzione della perdita delle risorse pubbliche e dei contributi a carico della finanza pubblica ove queste norme non siano attuate e rispettate dai partiti con i loro statuti.
Gli elementi, invece, di differenziazione riguardano tre punti: alcuni progetti introducono norme nuove sul finanziamento dei partiti, alcuni parlano delle fondazioni, prevedendo la loro istituzione, e alcuni parlano delle primarie, di cui si è parlato anche adesso.
Nel complesso, direi che, nonostante queste diversità, tutti questi progetti sono ispirati a una stessa visione di politica costituzionale, e perciò non dovrebbe essere difficile tra loro un coordinamento e un assemblaggio. Non ci sono, infatti, logiche che li contrappongono, ma solo differenziazioni di dettaglio.
Penso, però, che, proprio per la complessità di questa materia e per il suo rilievo politico, in questa fase converrebbe - qui ho sentito opinioni diverse in coloro che sono intervenuti prima - circoscrivere l'intervento solo sui profili comuni contenuti
nei vari progetti, centrando l'attenzione sul profilo degli statuti, perno della questione, con riferimento, in particolare, all'investitura nelle funzioni direzionali interne dei partiti da parte degli iscritti, alla scelta delle candidature esterne, alla gestione tra centro e periferia anche delle risorse finanziarie.
Per quel che riguarda, invece, la materia del finanziamento, sono portato a pensare che questa materia oggi presenti profili così complessi e particolari anche per la successione che si è avuta delle norme nel tempo, per cui converrebbe trattare questa materia in una disciplina distinta, eventualmente collegata al tema della stampa di partito e dell'accesso ai media e inserendo nella legge sul finanziamento anche la disciplina relativa alle fondazioni in quanto strumento di acquisizione di risorse dal settore privato.
Ultimo punto è quello della materia delle primarie: penso che, in attesa della futura riforma elettorale, che può, a seconda delle scelte che saranno fatte, spostare sensibilmente il tema delle primarie, anche su questo tema convenga per il momento una battuta di attesa. Bisogna riconoscere sì l'utilità delle primarie, ma come strumento affidato alla libera scelta dei partiti attraverso i loro statuti e non come una forma di imposizione dall'esterno mediante la legge.
CESARE PINELLI, Professore ordinario di diritto pubblico presso l'Università La Sapienza di Roma. Il professor Cheli ha già chiarito in un modo nel quale mi riconosco completamente i punti comuni dei progetti di legge all'esame. Questo mi esime dal richiamarli e mi consente, invece, di concentrarmi sulle questioni ulteriori rispetto a cui tanti punti in comune non ci sono.
Quanto alle primarie e al finanziamento, vorrei fare un accenno a un progetto di legge che richiama il codice di autoregolamentazione approvato dalla Commissione antimafia nel 2007. Ci sono, inoltre, le regole sullo scioglimento dei partiti e sulla fusione con altri partiti.
Per quanto riguarda le primarie, non credo che il problema sia quello dei trapianti da un ordinamento straniero al nostro quanto il modo con cui le parole perdono il loro significato originario nel momento in cui lo utilizziamo nel discorso pubblico italiano. L'espressione «sistema delle spoglie», così come il termine «primarie» hanno subìto un evidente slittamento di significato nel momento in cui sono venuti a far parte della nostra esperienza.
Se è così, cerchiamo di capirci: cosa vuol dire primarie? Se per primarie intendiamo designazione democratica dei candidati alle elezioni, perlomeno alle elezioni politiche, regionali e locali, allora dobbiamo scegliere. Se, infatti, non introduciamo alcuna regola a proposito della designazione dei candidati alle elezioni, mi chiedo a cosa serva questa legge, visto che stiamo parlando di una legge di attuazione dell'articolo 49 della Costituzione.
Delle regole, a mio giudizio, sono dunque necessarie. Il problema è, però, che queste regole debbono tenere conto dell'autonomia degli statuti dal punto di vista giuridico-costituzionale, dal momento che la scelta di tutti i progetti è, appunto, quella di prevedere sì l'iscrizione al registro delle persone giuridiche dei partiti, ma non quello della trasformazione dei partiti in organi pubblici, e dunque evidentemente questo problema del rispetto degli statuti rimane.
La seconda è una ragione di opportunità, tuttavia non semplice, ma politico-costituzionale. I modelli di partito presenti sulla scena italiana sono estremamente diversificati: immaginare che per legge sia imposto un modello di primarie unico per tutti i partiti sarebbe, a mio giudizio, estremamente sbagliato.
Questi due elementi mi fanno, quindi, propendere per una regolamentazione soft di questa materia. Il vero problema è che sia garantito il voto segreto nella designazione dei candidati alle elezioni: voto segreto da parte di chi? La scelta tra far votare, ad esempio, gli iscritti e far votare coloro che abbiano dichiarato di scegliere un partito alle elezioni, quindi la scelta tra
partito di iscritti e partito di elettori, a mio giudizio va lasciato ai partiti. Non si può imporre per legge a tutti i partiti di adottare l'uno o l'altro di questi modelli perché sono diversi e ritengo di aver già esposto le ragioni per le quali giudico un errore procedere in questa direzione.
Sul finanziamento il discorso sarebbe molto lungo. Sommessamente, mi limito ad affermare che, sinceramente, non vedo molto di buon occhio prevedere un passaggio a un sistema in cui le fondazioni prendono un posto di rilievo nel sistema di finanziamento in Italia per ragioni molto diverse da quelle che ho detto adesso a proposito dei trapianti - in questo caso parliamo della Germania, soprattutto, dove il sistema delle fondazioni è più radicato - perché esiste un equilibrio molto delicato tra il diaframma nella trasmissione del rifinanziamento dalle fondazioni ai partiti e le esigenze che queste fondazioni servano a rinnovare la formazione dei giovani, la conoscenza della politica e via dicendo. In questo momento in Italia non mi avventurerei su questo terreno, soprattutto alla luce di che cosa significa oggi parlare dei partiti con riferimento alla società italiana, per cui onestamente lo escluderei per questa ragione.
Per il resto, mi limito a dire che, anche se in alcuni progetti di legge si parla di una disciplina nuova del finanziamento, francamente vedo pochi passi nuovi. Mi pare che spostare da un euro a 0,90 euro il contributo per il rimborso non sia molto significativo. Più significativo è prevedere che questo rimborso sia riferito ai votanti, però siamo ancora lontani da una disciplina effettivamente organica e significativa.
Per quanto riguarda il terzo punto, il richiamo presente in uno dei progetti di legge al codice di autoregolamentazione approvato dalla Commissione antimafia, esiste un problema di rispetto dell'articolo 51 della Costituzione. Tuttavia, a mio avviso, la formulazione in cui quel progetto di legge richiama il codice di autoregolamentazione, cioè il divieto di elettorato passivo per soggetti condannati per reati di corruzione, concussione e appartenenza ad associazioni di stampo mafioso o contro la pubblica amministrazione, individua buone ragioni per ritenere che sia, invece, una disciplina da adottare.
Infine, sullo scioglimento dei partiti, sulla fusione con altri partiti e sulle conseguenti vicende patrimoniali, è abbastanza evidente il rapporto con vicende attuali. Le ragioni che hanno portato a inserire queste regole potrebbero essere anche qui utili per integrare una disciplina che, tuttavia, a mio giudizio ha senso se si introducono effettivamente regole per la democraticità interna dei partiti, per la garanzia dei diritti degli iscritti, con i limiti che ho cercato di sottolineare.
TOMMASO FROSINI, Professore ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Come lei ha ricordato, presidente, ho depositato una memoria presso la Commissione, e quindi sarò molto breve nel mio intervento, rimandando al testo che ho presentato. Vorrei, però, evidenziare alcuni aspetti, anche se in maniera sintetica.
Uno è che l'Italia rappresenta oggi un'anomalia per quanto riguarda la disciplina dei partiti nello scenario europeo: è uno dei pochi, e comunque uno dei pochi Paesi significativi, nella geografia europea che non ha provveduto a regolamentare con legge la disciplina dei partiti.
Anche questo è un dato di cui bisogna tenere conto. In una contestualizzazione europea, ricordo che anche il Trattato di Lisbona dedica alcuni articoli ai partiti politici europei e, a mio avviso, bisognerebbe proiettarsi anche in una dimensione europea, tenendo conto del fatto che siamo arretrati rispetto ad altri Paesi, laddove da tempo, in Germania, addirittura fin dagli anni Sessanta, hanno provveduto a dare una disciplina normativa ai partiti.
L'altro aspetto che vorrei evidenziare è quello che mi trova perfettamente concorde con quanto ha affermato dal professore Enzo Cheli, cioè l'idea che, tutto sommato, i progetti di legge in discussione presso questa Commissione sono facilmente
o, comunque, in maniera non particolarmente complessa semplificabili, assommabili. Credo che sia possibile presentare un testo unico senza dover ricorrere a particolari alchimie nell'elaborazione delle norme, un testo che non può che essere, ovviamente, sobrio, leggero, privo di un eccesso di dettaglio normativo.
Qual è in fondo, infatti, il motivo per cui la Commissione ha ripreso l'impegno a considerare l'approvazione di una legge che disciplini i partiti e che dia attuazione all'articolo 49 della Costituzione? Il punto è che i partiti si ritengono e sono in crisi. Una legge significherebbe, in qualche modo, la dimostrazione di una vitalità dei partiti, esprimere pubblicamente all'elettorato e alla cittadinanza che i partiti sono in grado di reagire e lo fanno attraverso una legge che disciplini la loro attività interna.
Sono un po', se mi è consentita la battuta, come il barone di Münchhausen, che prova a tirarsi su dalle sabbie mobili tirandosi dal codino. La situazione è questa: c'è un Governo che non è rappresentanza dei partiti. Questa è un'anomalia e i partiti debbano dimostrare di essere vivi. Possono farlo o con riforme costituzionali o modificando la legge elettorale - ma questo è un altro terreno e un altro discorso - o, piuttosto, provando a disciplinare con legge la loro attività per dare una dimostrazione alla cittadinanza che i partiti sono vivi e vegeti.
Un altro punto attiene al rapporto con i gruppi parlamentari. Anche in questo caso siamo in presenza di un grosso equivoco. È vero che un'altra fonte normativa sono i regolamenti parlamentari, ma qui il cittadino, il destinatario della politica - quella formula «tutti i cittadini» ricordata dal professore Cheli, rispetto al dibattito costituente con gli interventi dell'onorevole Costantino Mortati - fa confusione, non sa quali sono i partiti perché i partiti nascono anche in sede parlamentare, ma questi ultimi non si possono considerare tali.
Con tutto il rispetto per un gruppo parlamentare nutrito e rappresentato addirittura dal vertice di questa istituzione, Futuro e Libertà non è un partito poiché non ha avuto una legittimazione elettorale. Altra cosa sono i gruppi parlamentari, altra ancora i partiti.
A maggior ragione, a mio avviso, andrebbe fatta chiarezza anche sul punto, cioè laddove si disciplinasse con legge i partiti, bisognerebbe semmai intervenire in sede di regolamento anche per razionalizzare il sistema dei gruppi parlamentari. Credo, infatti, che sia fonte di equivoco e anche di disorganizzazione istituzionale pensare che possano esserci partiti che si presentano alle elezioni e hanno il consenso del corpo elettorale e gruppi che si dichiarano partiti senza essere stati legittimati attraverso il voto della sovranità popolare. Ritengo che questo sia il punto, che al momento non è materia di regolamentazione, ma sul quale è bene interrogarsi.
Accenno alle primarie, tema più volte sollecitato. Personalmente, sono favorevole nei termini di una facoltà, non di un obbligo. Si tratta anche in questo caso di una dimostrazione di quei partiti che intenderanno utilizzare il metodo delle primarie, di mostrare una maggiore partecipazione nei confronti dei loro iscritti, dei loro aderenti, dei loro simpatizzanti; quindi chi lo farà, probabilmente ne trarrà beneficio.
Inoltre, che piaccia o meno, il tema delle primarie si collega con la legge elettorale. Penso che, tendenzialmente, qualunque metodo delle primarie si regga e si conformi a qualunque sistema elettorale, a maggior ragione qualora dovesse rimanere in vigore quello attuale del 2005, la legge Calderoli, che sappiamo benissimo sottoposta a critica credo quasi unanime per il fatto che vi siano le liste bloccate. Allora, le primarie servirebbero a selezionare coloro i quali entrano nelle liste bloccate dei partiti, la partecipazione elettorale si concretizzerebbe nel momento in cui, attraverso le primarie, fossero selezionati coloro che andrebbero a comporre la lista bloccata. Le primarie potrebbero risollevare la questione fortemente critica delle liste bloccate laddove dovesse essere mantenuta questa legge elettorale.
Concludo sulla questione del finanziamento, naturalmente un problema, ahimè, sempre all'ordine del giorno. Si pensava che fosse riferito a vicende di vent'anni fa, invece è notizia di cronaca delle settimane scorse una vicenda poco chiara dell'uso dei rimborsi elettorali per conto di un partito e gruppo parlamentare.
Qui il problema, al solito, è che si finanziano i partiti senza riconoscerli anziché riconoscerli per finanziarli. Il finanziamento pubblico, proprio in quanto tale, dovrebbe prevedere come destinatario un soggetto pubblico riconosciuto dalla legge, quali i partiti politici.
FULCO LANCHESTER, Professore ordinario di diritto costituzionale italiano e comparato e direttore del Master in Istituzioni parlamentari europee per consulenti d'Assemblea presso l'Università La Sapienza di Roma. Ringrazio lei, presidente, la Commissione e i colleghi che hanno parlato in precedenza, perché molto ho imparato e potrò anche essere molto più breve. Articolerò questo intervento, che depositerò successivamente agli atti, con una premessa, una breve analisi del tema generale e qualche osservazione sui progetti di legge presentati.
La premessa, in sostanza, è questa: l'importanza di superare le remore e i vincoli alla regolazione del partito politico scaturisce dalla necessità di rilegittimare il sistema dei partiti e i partiti medesimi in una situazione in cui questi si stanno liquefacendo.
Questo è il dato principale. Dalla successione dei progetti che sono stati presentati, quelli del 2008 (direi il corpo maggiore), quelli del 2011 e gli ultimi due, si conferma come la situazione si sia modificata. Appare evidente, infatti, che la successione temporale dei progetti rifletta come la situazione del 2008 fosse sufficientemente stabile, quella del 2011 rivelasse degli scricchiolii, mentre l'attuale, che definirei liquida, determina le forti differenziazioni di contenuto.
In molti di questi progetti c'è, ancora, sulla base dell'apparente stabilità della situazione il tradizionale scivolamento dell'articolo 49 verso l'articolo 18 della Costituzione, cioè libertà di associazione, cosicché viene trascurata la specificità relativa alla regolazione del partito politico. Si tratta di una vecchia remora del sistema politico-costituzionale italiano, che contraddice il dato di fatto che i partiti politici sono coessenziali agli ordinamenti democratici rappresentativi e si connettono, in generale, al problema delle votazioni elettive, quindi della costituzione della rappresentanza, da un lato, e, dall'altro, della partecipazione.
Votare significa dividersi e ciò è coessenziale anche al concetto di partito. In origine «prendere partito» vuol dire, infatti, prendere una posizione e votare, ma anche il partem capere, il partecipare, significa prendere partito. Si tratta di un tema strettamente connesso con il tema generale della legislazione elettorale, poiché il problema dell'articolo 49 è strettamente connesso con quello del circuito democratico, articolo 1, articolo 3, articolo 48, articolo 49, e poi con il 56, il 57 e le altre parti relative alle votazioni elettive che abbiano un criterio di politicità.
In secondo luogo, lo Stato democratico di massa è stato caratterizzato dall'alternativa tra Stato dei partiti strutturato e regolato e plebiscitarismo sin dagli anni Cinquanta del secolo XIX. Non mi soffermo su questo, perché è un tema sufficientemente noto.
Mi soffermo, invece, sulla ragione per cui - sono stati ben sintetizzati da chi mi ha preceduto i lavori dell'Assemblea costituente - Basso, da un lato, e Mortati, dall'altro, hanno proposto una regolazione del partito politico secondo gli schemi derivanti dalla discussione sul Parteienstaat tedesco degli anni Venti e poi si siano ritrovati, durante i lavori, sia in Commissione, ma soprattutto in Assemblea, di fronte ad una riduzione dell'incidenza della proposta - è successo per altri argomenti - sempre più selvaggia e derivante dalla natura del nostro sistema politico costituzionale. L'impossibilità di operare una regolazione del partito politico e il conseguente slittamento dell'articolo 49
all'articolo 18 della Costituzione deriva, è vero, dalla grande frattura del 1947, ma è in realtà già precedente al maggio 1947, quando furono «sbarcate» le sinistre e i social-comunisti dal Governo. La regolazione del partito politico era vista come pericolosa. Ancora nel gennaio-febbraio 1948 Leopoldo Elia, che in quel periodo scriveva su Cronache sociali, collegato strettamente a Costantino Mortati e a Dossetti, nel suo primo articolo su Cronache sociali dedicato ai partiti politici ed ai loro statuti, si occupò del problema degli statuti dei partiti politici in Italia, ma soprattutto dei due problemi più importanti e più caratterizzanti, a suo avviso, ossia il problema dei diritti degli iscritti e della selezione delle candidature, che a me paiono essere fondamentali anche oggi in una regolazione di tipo pubblicistico del fenomeno partitico.
Dagli anni 1949 al 1959 il problema muta, tuttavia, completamente aspetto e gli stessi cattolici, che avevano a suo tempo proposto la regolazione del partito politico, la rinnegano.
Lo stesso Costantino Mortati al convegno sui partiti politici e lo Stato democratico, organizzato dall'Unione dei giuristi cattolici nel 1958, modificò completamente la sua posizione, asserendo che nella nuova atmosfera di contrasto radicale di interessi fra partiti, ogni tentativo di intervenire nella loro vita interna poteva tradursi in strumento di persecuzione contro quelli dell'opposizione. In sostanza, venne certificata la preminenza dell'articolo 18 della Costituzione sull'articolo 49, a causa della distanza esistente tra i partner.
Questa è la ragione per cui - l'ho già ricordato in altra sede - il professor Cheli, nel suo primo articolo scientifico del 1957 su «Studi senesi», sostenne una simile posizione contro quelle di D'Antonio, che cercava la regolazione del partito politico. Era quello il periodo in cui Luigi Sturzo proponeva la regolazione del partito politico con il progetto del 1958.
Dico per l'onorevole Vassallo e il professor Massari che non è un caso che un simile tema fosse fondamentale anche nel 1960, in occasione del convegno fiorentino del «Cesare Alfieri», in cui si scontrarono sul problema della regolazione del partito politico Crisafulli, da un lato, e Tesauro dall'altro, che addirittura richiese la regolazione del partito con interventi di tipo amministrativo. In quell'occasione Giuseppe Maranini sostenne senza speranza, invece, «Stato dei partiti sì, partitocrazia no».
Su questi dati di fatto la regolazione del partito politico nella situazione italiana è stata impossibile fino al 1993 e dopo è stato ancora peggio, perché dallo Stato dei partiti più pesante d'Europa si è passati alla «partitocrazia senza partiti», espressione introdotta da Rippa su «Quaderni radicali».
Se questo è vero, è anche incontrovertibile che siamo partiti dall'articolo 49, che era pur sempre la punta avanzata del costituzionalismo nella regolazione del partito politico alla Costituente, a una situazione di vera e totale arretratezza. Tutto il sistema della legislazione elettorale, in cui inserisco la regolazione del partito politico, è stata lasciata all'autonomia interessata dei soggetti politico-partitici, che ne hanno fatto, evidentemente, strame. I progetti di legge più recenti cominciano finalmente a parlare di che cosa sia un partito politico. Il progetto di legge di Maurizio Turco è molto concentrato sul tema del rimborso elettorale e dei controlli attraverso la Corte dei conti; la proposta di legge Sposetti del 2011 opera interessanti osservazioni sulle fondazioni; quella Veltroni interviene sulla democrazia infrapartitica attraverso le primarie. Nessuno di questi progetti definisce, però, in maniera corretta il
soggetto da regolare. Iniziano a evidenziarlo soltanto quelli dell'ultimo periodo, del 2012, per esempio quello di Gozi, che definisce con chiarezza che cosa è un partito politico: non è un'associazione ordinaria, ma un gruppo di cittadini che si associa per presentare candidati a cariche pubbliche e che ci riesce.
Saltando molti passaggi, si dà la necessità, quindi, di regolare le fasi pubblicisticamente rilevanti della vita infrapartitica:
chi sono gli iscritti, diritti e doveri, come sono selezionate le candidature, la legislazione elettorale di contorno, incapacità, ineleggibilità, rimborso, finanziamento delle spese elettorali, comunicazione politica. La Corte costituzionale, nell'ordinanza n. 79 del 2006, ha certificato che, laddove vi è una funzione pubblica, deve esserci una regolazione, per cui, quando c'è la selezione dei candidati, lì ci deve essere una regolazione.
La Corte evidenzia, infatti, per risolvere il problema se i cittadini o i partiti siano i soggetti dell'articolo 49, che i partiti politici vanno considerati come organizzazioni proprie della società civile a cui «sono attribuite dalle leggi ordinarie talune funzioni pubbliche e non come poteri dello Stato ai fini dell'articolo 134 della Costituzione».
Se questo è vero, come è vero, è evidente che devono essere regolate le funzioni pubbliche dei partiti politici, e quindi i diritti per lo meno degli iscritti, la selezione delle candidature e tutto ciò che sta a contorno. Non voglio sostenere la legislazione argentina delle primarie aperte e obbligatorie - certamente troppo strutturata - né il caso francese, ma sicuramente la «sregolazione» del caso italiano non è sopportabile.
Alcuni progetti coinvolgono la Corte dei conti, ma il problema è quello dei controlli incisivi e non solo cartolari che, come si è visto, lasciano il tempo che trovano.
Gli interventi sui rimborsi elettorali e il finanziamento sono utili per quanto riguarda sia la riduzione degli stessi sia la loro spalmatura nel tempo. In sostanza, sono d'accordo che gli esempi comparatistici non siano sempre rilevanti, che si debba tradurre sempre in italiano. A livello comparatistico, abbiamo, da un lato, uno Stato dei partiti strutturato come quello tedesco e, dall'altro, un sistema in cui sono regolate le funzioni pubblicistiche per i partiti come negli Stati Uniti: una via mediana deve essere percorsa.
C'è la necessità, quindi, nel riconsiderare il tema della regolazione del partito politico all'interno della complessiva legislazione elettorale e, in particolare, di quella definita come legislazione di contorno, bisogna definire con precisione che cosa è partito politico, prevedere regole interne democratiche con riferimenti articolati alle strutture nazionali e locali, con specifico riferimento ai diritti degli iscritti, regolare in maniera incisiva la selezione dei candidati alle elezioni ai vari livelli, prevedere regole per il rimborso delle spese elettorali.
ORESTE MASSARI, Professore ordinario di scienza politica presso l'Università La Sapienza di Roma. Ringrazio, presidente, per l'opportunità che mi è offerta.
Credo che la prima considerazione che ho fatto leggendo le varie proposte di legge sia che, finalmente, è terminata la storia della paura dell'interferenza sui partiti politici. Il fatto che la maggior parte delle proposte provenga proprio dall'area culturale che nel passato era stata contraria alla regolamentazione dimostra che questa vicenda della paura è completamente conclusa.
Faccio notare che nell'Assemblea costituente, però, ha contato non solo la paura dell'interferenza tra maggioranza e opposizione, come derivava dallo stato dei partiti dell'epoca, ma anche da considerazioni di tipo dottrinario, cioè dal fatto che la divisione era anche tra coloro che accentuavano la definizione del partito politico come fatto che sorge dal basso, dalla società e, dall'altra parte, come fatto che deve essere regolamentato dallo Stato sino a prospettarlo come un potere pubblico, come un organo dello Stato. Sarebbe però troppo lungo insistere su questa vicenda.
Concordo perfettamente con le ultime notazioni del professor Lanchester, quando accentuava la necessità di definire un partito politico. Se ho riscontrato una debolezza nelle varie proposte di legge, consiste nel fatto che non c'è lo sforzo di iniziare con la definizione di che cosa è un partito politico, che è l'elemento da cui partire.
Faccio presente che la legge tedesca sui partiti politici all'articolo 2 parla della nozione di partito politico; in questa
norma non c'è solo la registrazione dell'esistente, di che cosa sono i partiti politici, ma anche la prospettazione di che cosa devono essere i partiti politici. Non a caso, quindi, in questo articolo si legge che per partiti politici bisogna intendere le formazioni stabili, permanenti, serie, radicate nel territorio, rappresentative, ossia una serie di considerazioni che danno consistenza e strutturazione all'espressione «partito politico». Non si parla, dunque, di partiti effimeri, contingenti, privi di ancoraggi strutturali e così via.
Ritrovo questa considerazione, questo ancoraggio della legge tedesca a un'idea alta del partito politico anche nella riflessione dei classici che spesso citiamo e ai quali ho trovato, nelle relazioni introduttive alle varie proposte, molti riferimenti, come quello che si fa sempre all'opera di Bryce, quando si afferma che i partiti sono indispensabili alla democrazia.
Spesso, tuttavia, si dimentica il seguito dell'affermazione di Bryce, secondo la quale quelli necessari alla democrazia sono quei partiti politici che le si adattano, che si conformano allo spirito democratico e Bryce, nel solco dell'esperienza anglosassone, parla dei grandi partiti, delle grandi chiese, un po' il partito a vocazione maggioritaria di cui si parla in Italia, assegnando quindi una distinzione tra esperienza anglosassone ed esperienza dell'Europa continentale, che sono molto diverse.
In ogni caso, da varie vie si può arrivare all'idea comune, citata prima anche da Lanchester, che i partiti politici hanno una natura duplice, continuano a essere associazioni private e devono mantenere un'autonomia, ma comunque svolgono funzioni pubbliche. Negli Stati Uniti il concetto è stato formulato in termini di public utility: il partito è una public utility pur conservando tutta l'autonomia dell'associazione, e quindi va regolamentato nelle sue funzioni pubbliche.
La regolamentazione, naturalmente, è necessaria, ma dobbiamo tener sempre presente che è un tassello di un mosaico molto più vasto, costituito precedentemente alla legislazione elettorale di contorno, al sistema elettorale e così via, così come va anche tenuto presente - possiamo, infatti, disciplinare i partiti politici, ma al fondo resta un interrogativo - che dobbiamo chiarirci su quale sistema partitico vogliamo. Quali partiti politici vogliamo? Naturalmente, non possiamo determinarlo, ma sappiamo che con la legge elettorale, con le riforme istituzionali, con la legislazione elettorale di controllo possiamo influire quanto alla direzione.
Riporto un esempio: possiamo invocare le primarie, ma un conto è quando si svolgono all'interno di un sistema bipartitico, di partiti storici, consolidati, che hanno una memoria storica, che hanno dei confini; diverso è il caso di un sistema partitico frammentato. Un piccolo partito che prende il 3, il 4, il 5 per cento dei voti, non può permettersi delle primarie aperte perché non sono funzionali. Un grande partito, invece, può farlo.
Sono convinto che, tra gli elementi costitutivi di un partito politico, per esempio, si debba includere gli elettori. Nella tradizione europea ci sono i dirigenti, gli intermedi, i vertici e così via, mentre nella tradizione americana gli elettori sono parti costitutive del partito politico.
Credo che questa sia una conquista frutto di sperimentazioni in Italia e che non possiamo interrompere, ma anzi dobbiamo in qualche modo favorire, ma senza rigidità. È giusto, quindi, favorire le primarie aperte agli elettori, si può farlo in tanti modi, come prospettando una serie di servizi logistici, ma senza che l'uso di questo tipo di primarie da parte di un partito vada a scapito degli altri partiti che o non vogliono o non se le possono permettere per varie ragioni. Non deve trattarsi di un fatto punitivo.
Lo statuto dovrebbe contenere indicazioni molto precise e penetranti sulla democrazia interna: doveri e diritti degli iscritti, organismi dirigenti, procedure democratiche. Quello che mi preme sottolineare, però, è che il tipo di democrazia non può essere univoco, non possono essere solo le primarie aperte perché possono
configurarsi tanti altri metodi quali le assemblee degli iscritti, le assemblee dei delegati, i congressi e così via.
Peraltro, anche negli Stati Uniti le primarie non hanno quel senso di atto di democrazia immediato e plebiscitario che qualcuno vorrebbe che avessero: soprattutto quelle per il Presidente si svolgono in un arco temporale molto lungo, in più Stati, a più tappe, per cui non è solo un esercizio di democrazia diretta. Lo è anche, ovviamente, ma oserei dire che è anche un esercizio di democrazia deliberativa perché si discute, c'è il tempo di riflettere. Esistono, dunque, anche altri metodi di democrazia interna, in particolare per quanto riguarda il sistema elettorale, che dipende dal tipo di sistema elettorale.
Se ci sono i collegi uninominali, ovviamente la scelta è molto più facile, sono cariche monocratiche; quando si tratta del voto proporzionale di lista, il processo è più complicato ed è giusto che i partiti politici attraverso le loro sedi deputate discutano anche di come comporre una rappresentanza collettiva che non può essere frutto solo di vincitori alle primarie. Spesso, in una rappresentanza collegiale di questo tipo, i partiti inseriscono varie esigenze, tra cui quella delle quote delle donne.
BARBARA POLLASTRINI. Si possono inserire in altro modo.
ORESTE MASSARI, Professore ordinario di scienza politica presso l'Università La Sapienza di Roma. Certamente, si possono inserire in altro modo, ma un partito ha bisogno di una rappresentanza territoriale, di esperti, quindi la costruzione della rappresentanza politica non può essere demandata esclusivamente a un atto immediato.
Detto questo, sono per favorire al massimo la scelta dei partiti che vogliono utilizzare le primarie, favorendole e mettendo a disposizione una serie di servizi, tra cui quelli logistici e comunicativi. Tra l'altro, non credo, come qualcuno ha affermato, che le primarie abbiano svuotato i partiti americani, che invece si sono adattati alle primarie, convivono con esse e non hanno perso assolutamente il loro ruolo e il loro significato.
Viviamo in Italia una fase di sperimentazione, soprattutto a livello locale, che va accompagnata, ma da qui a prospettare una regolamentazione sul piano nazionale ce ne corre. Oltretutto, vista la previsione della proposta di legge n. 4194 dell'indicazione delle primarie per il Presidente del Consiglio, permettermi di dire che lo trovo assolutamente fuori luogo per motivi di costituzionalità. Noi non siamo un premierato elettivo. Un partito o una coalizione è padronissima di scegliere i modi di un candidato alla Presidenza del Consiglio, ma riversarli in una legge pubblica, in un atto pubblico, mi sembra che sia molto differente.
Quanto alla registrazione, dovrebbe includere non solo il deposito dello Statuto, ma anche quello del programma, per lo meno di un programma fondamentale, tra le indicazioni delle finalità di fondo. Il luogo in cui deporre lo Statuto, il simbolo e il programma, a mio avviso, non dovrebbe essere la prefettura, come nel caso delle associazioni riconosciute, ma il Ministero dell'interno, l'Ufficio elettorale della Cassazione, mentre lascerei da parte la Corte costituzionale come sede di deposito.
Per quanto riguarda il finanziamento, a me non preoccupa il suo ammontare complessivo che, se ben speso, è utile alla democrazia, anche se i fatti di cronaca recente ci inducono a pensare che forse c'è stato un eccesso di rimborsi elettorali, però mi sembra molto più importante stabilire, invece, un controllo penetrante del finanziamento, che non può essere affidato al circuito interno alla politica, ma a organismi esterni in grado di esercitare degnamente questo ruolo, come può essere la Corte dei conti o un'Authority ad hoc indipendente.
Infine, le fondazioni astrattamente sono una bella istituzione, ma faccio presente che in questi anni l'esperienza italiana di tutti i partiti, anche dei più grandi, è andata verso lo smantellamento di queste
fondazioni. Se dobbiamo adesso resuscitarle solo come un meccanismo solo per avere un finanziamento, non mi pare opportuno. Se, invece, vogliamo elevare la qualità culturale, vanno benissimo, ma per ora non c'è alcuna esperienza positiva in merito, solo un deserto di luoghi in cui un tempo, peraltro, si discuteva e oggi non si discute più.
STEFANO MERLINI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Firenze. Integrerò anch'io il mio intervento con una memoria scritta.
È costituzionalmente ammissibile una legge sui partiti ed è opportuna? Sono le due prime domande. Che sia costituzionalmente ammissibile non ci sono dubbi. Credo che tutti siamo d'accordo su questo punto, e quindi i progetti di legge presentati sono, a parte l'analisi di merito, assolutamente in linea con una piena costituzionalità dal punto di vista della possibile approvazione di una legge.
È, oltre che costituzionalmente ammissibile, in questo momento opportuna una legge sui partiti politici? Senz'altro lo è e non soltanto perché il modello di attuazione della democrazia è cambiato in Italia nel corso degli ultimi decenni, ma perché si è passati da un modello del farsi della politica e delle decisioni politiche originariamente assai vicino a quello che i costituenti avevano assunto nell'articolo 49 della Costituzione a uno diverso. La personalizzazione della politica ha, indubbiamente, messo in crisi non soltanto la struttura storica dei partiti politici, ma ha messo o rischia di mettere in crisi il modello di formazione e di attuazione delle decisioni politiche.
Da questo punto di vista, quindi, scegliere oggi di approvare una legge sui partiti politici significa un ritorno a quell'articolo 49 della Costituzione che prevedeva i partiti politici come soggetti collettivi portatori di progetti politici, che dovevano trasmettere sul fronte istituzionale.
L'articolo 49, nella sua sinteticità, è sufficiente per fornirci tutte le risposte che vorrei muovere in ordine alla regolamentazione dei partiti politici? Sì e no perché l'articolo 49 della Costituzione pone dei princìpi assolutamente granitici, fondamentali ma, d'altra parte e giustamente, non risolve per intero il problema dei partiti politici, a partire dalla sua prima affermazione, secondo la quale, come è noto, i cittadini hanno diritto di associarsi in partiti politici.
Perché si introduce subito, a mio avviso, un'opportuna ambiguità? Perché dire che i cittadini hanno diritto di associarsi in partiti politici significa dire che l'articolo 49 deve fare i conti con l'articolo 18 della Costituzione, quindi con il diritto di associazione, come sottolineava Fulco Lanchester.
Gli articoli 18 e 49 della Costituzione si riferiscono a un fenomeno univoco o a fenomeni diversi? Si riferiscono a un fenomeno univoco, che è quello dei partiti politici. Mentre, però, l'articolo 18 della Costituzione giustifica, anzi autorizza la costituzione di associazioni politiche che vogliono influire sulla democrazia con i mezzi i più vari, non necessariamente attraverso la partecipazione al procedimento elettorale, c'è una parte dell'articolo 49, quella per la quale i cittadini hanno diritto di associarsi in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, che invece si rivolge a quei partiti politici che scelgono di fare la politique politicienne, ossia quella che si fa partecipando alle competizioni elettorali.
A mio avviso i progetti di legge presentati, mentre affrontano in maniera molto matura tutti i problemi che si riferiscono ai partiti politici che partecipano alle elezioni, a quelli che vogliono determinare la politica nazionale in senso proprio, trascurano del tutto il fenomeno dei partiti politici che, invece, vogliono influire sulla democrazia, ma non partecipando necessariamente alle elezioni. Sono figli così minori del nostro sistema questi partiti da non essere regolamentati affatto? Secondo me, no.
Il finanziamento della politica deve riguardare soltanto i partiti che partecipano alle elezioni oppure deve o dovrebbe riguardare
anche quei partiti, associazioni politiche - chiamateli come preferite - che, invece, alle elezioni non vogliono o non intendono partecipare, ma che pure vogliono agire sul terreno della politica? La mia opinione è che un progetto di legge convincente dovrebbe, ad esempio, per ciò che riguarda non i rimborsi elettorali, ma i contributi ai partiti politici, tener conto anche di queste formazioni sociali. Sono formazioni sociali come i partiti, anche se meno strutturate.
Fondamentale è il problema del conferimento della personalità giuridica, della strutturazione dei partiti - adesso ci occupiamo solo di quelli - che, invece, scelgono la politique politicienne. Come si risolve qui il contrasto apparente tra la regolamentazione dall'esterno, la legge, e l'autonomia sottolineata dalla Costituzione? Attraverso gli statuti. I progetti di legge presentati vedono bene questo problema, sono gli statuti il punto che può rappresentare la congiunzione tra l'autonomia inevitabile della formazione politica, quindi dell'associazione - articolo 18 della Costituzione - e la regolamentazione dall'esterno.
La previsione che gli statuti debbono essere improntati al metodo democratico - si cerca di specificare nei vari progetti di legge in che cosa consiste questo metodo democratico - e che la condizione per l'esistenza di uno statuto sia la condizione per l'attribuzione della personalità giuridica e per accedere ai rimborsi elettorali, è giusto perché non si toglie, attraverso il grande rilievo che si dà agli statuti, autonomia alla formazione politica, ma nello stesso tempo la registrazione degli statuti e l'affermazione nella legge di certi princìpi generali che debbono rimanere tali e che riguardano il modello della democrazia interna, salva il possibile conflitto tra questi due aspetti dell'articolo 49 della Costituzione.
Bisogna però porre attenzione a una questione molto rilevante e che non affiora, invece, a mio avviso, in maniera convincente da quasi tutti i progetti di legge all'esame della Commissione. Lo statuto come modello della democrazia dei partiti è condizione in quasi tutti gli statuti per accedere ai finanziamenti pubblici, ma questo soddisfa l'articolo 49 in una delle possibili interpretazioni del principio del metodo democratico. Il metodo democratico è soltanto un principio che riguarda l'organizzazione della democrazia interna o, invece, metodo democratico significa anche finalità democratica dei partiti politici?
Mortati sosteneva all'inizio all'Assemblea costituente le due interpretazioni: metodo democratico significa necessità dell'esistenza di una democrazia interna ai partiti, ma significa anche partiti democratici, per quello che riguarda le finalità del loro agire. Da questo punto di vista si può pensare a una legge sui partiti politici che si occupi esclusivamente del metodo democratico inteso come procedura - la democrazia come procedura - trascurando del tutto la democrazia come finalità, come principio? È una questione che sollevo, ma non risolvo perché è delicatissima.
Ci sono Paesi - la Germania, il Portogallo -, c'è l'Unione europea che ha detto e dice che i partiti politici debbono depositare programmi e progetti in linea con le finalità democratiche segnate nella Costituzione e nei trattati europei. La tradizione italiana è contraria a questo indirizzo perché, come sapete, il metodo democratico è stato inteso non come necessaria coerenza delle finalità dei partiti politici ai princìpi della Costituzione, ma come rifiuto del metodo della violenza come metodo della lotta politica.
Se, tuttavia, è arrivato il momento di ripensare all'opportunità di una legge sui partiti politici per ciò che riguarda il metodo democratico, non si può pensare a un passo ulteriore e porre come condizione per la registrazione dei partiti politici - Massari lo diceva poco fa - anche l'esistenza nello statuto dei partiti finalità che i partiti vogliono perseguire?
La questione è delicatissima. Al momento della registrazione - anch'io penso da parte dell'Ufficio centrale della Corte di cassazione o del Ministero degli interni, come in altri Paesi, non certo da parte del
prefetto - degli statuti dei partiti politici potrà esserci chi vieta la registrazione di un partito politico, che così non avrà la personalità giuridica e non potrà partecipare alle elezioni perché nel suo statuto sono contenute finalità non democratiche? È un rischio da correre? Lo pongo alla vostra valutazione: a mio avviso sarebbe incoerente, forse superficiale, non porselo nemmeno. Se ricordo bene, solo il progetto di legge Sposetti fa un accenno in questa direzione a proposito del fatto che nello statuto debbono essere comprese le finalità dei partiti politici.
Quanto alla democrazia interna, a questo punto sarebbe solo metodo democratico, democrazia all'interno dei partiti come democrazia delle regole. Qui vorrei sottolineare con forza che la Costituzione parla di metodo democratico all'interno dei partiti, non di «un» metodo democratico. Il riferimento che la Costituzione fa alla necessità della democrazia all'interno dei partiti è interpretabile alla luce della parola «metodo», premessa al termine «democrazia».
Questo significa che sono sbagliate quelle soluzioni che nei progetti di legge tendono ad affermare l'univocità di un metodo democratico rispetto agli altri. In questo, ad esempio, il progetto di legge Casini e altri, il progetto di legge Veltroni e altri, sbagliano entrambi perché, mentre secondo il progetto di legge Casini, applicando il metodo democratico alla scelta dei candidati - una questione rilevantissima - debbono essere gli organi collegiali a scegliere con voto segreto, per il progetto di legge Veltroni, invece, salvo accettare la decurtazione del 50 per cento dei contributi pubblici, si deve scegliere non solo la strada delle primarie, ma addirittura delle primarie aperte.
Capite che posso ovviamente per scherzo riferirmi a loro come a opposti estremismi. Né l'una né l'altra posizione va bene alla luce del dettato costituzionale, che impone l'esistenza di un metodo democratico lasciando, però, pienamente liberi i partiti - qui risorge l'articolo 18 della Costituzione - di scegliere l'uno o l'altro metodo democratico. L'importante è che sia democratico il metodo, non che sia un metodo obbligato.
Un'altra questione riguarda la scelta dei candidati e la partecipazione al procedimento elettorale. Ho già affermato che la partecipazione al procedimento elettorale potrebbe - qui, a mio avviso, le ragioni, più che di costituzionalità, sono di opportunità - prevedere anche l'esistenza nello statuto dell'elenco delle finalità. Il finanziamento pubblico, inteso come rimborso alle spese elettorali, deve essere, come ho già detto, del tutto scisso dal metodo di scelta dei candidati che compare nell'uno o nell'altro statuto dei partiti politici.
Credo che, se non si pretendesse di imporre, anche da questo punto di vista, un'unica modellistica - scelta dei candidati da parte degli organi collegiali o primarie - si potrebbe fare un utile passo avanti anche nell'approfondimento delle condizioni generali di democraticità elencate dagli statuti.
Riporto un solo esempio, che però mi pare importante: se diciamo che le procedure per modificare lo statuto, il simbolo e il nome del partito, debbono essere indicate nello statuto - lo afferma il progetto Casini, ma anche il progetto Veltroni - dobbiamo ricordare che, se lo statuto contiene, ad esempio, anche le finalità generali del partito, quella per modificarlo dovrebbe essere una procedura che coinvolga tutti gli associati, non soltanto gli organi collegiali.
Qui risiede in parte il problema del modello complessivo di democrazia. Un tempo - quello dei partiti politici dell'articolo 49 - c'erano i congressi, le finalità generali dei partiti politici erano stabilite, come la scelta della classe dirigente - e forse questo era un male - dai congressi. È difficile adesso dire che le finalità debbono essere scelte nel primo statuto, quello registrato dagli associati. Sarebbe utile, ma capisco che sia difficile attuare questo principio. Bisognerebbe, tuttavia, stabilire almeno che, laddove lo statuto cambi, debba esserci una partecipazione degli associati, non semplicemente la loro
rappresentazione da parte degli organi collegiali. A me sembrerebbe opportuno.
Illustro due ultime osservazioni. Se i partiti politici sono direttamente collegati a chi li abita, cioè ai cittadini, e si esprimono attraverso gli statuti, questo significa che non sono e non possono essere considerati partiti politici quelli che nascono esclusivamente in Parlamento. In Parlamento non ci sono i cittadini, ci sono i parlamentari. Questo non significa che un partito non possa nascere in Parlamento come linea politica, ma vuol dire che, se vorrà esistere come partito, dovrà radicarsi nella società civile cercandovi gli associati, non può rimanere partito parlamentare. Se rimane tale, non può avere rimborsi, forse non può nemmeno partecipare alle successive elezioni, se è vero che statuto e finalità debbono essere approvati democraticamente.
Ho già detto che il finanziamento non deve consistere soltanto nel rimborso elettorale, ma è necessario prevedere nella legge anche l'esistenza o la possibilità almeno di esistenza di contributi che è opportuno, secondo me, garantire anche a quelle formazioni politiche che non partecipano alle elezioni.
Ho esaurito il mio intervento e per ulteriori approfondimenti, rinvio alla memoria che trasmetterò alla Commissione.
PAOLO RIDOLA, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università La Sapienza di Roma. Rinvierò a un appunto scritto lo sviluppo dei temi che tratterò nel mio breve intervento, in cui proporrò qualche considerazione a primissima lettura sulle proposte di legge in discussione, che hanno tratti comuni e differenze significative.
I tratti comuni sono stati già rilevati. Si intravede la fine della stagione del laissez faire intrapartitico, e quindi la consapevolezza che il tema della democrazia interna dei partiti ha acquisito una crescente centralità, che era stata largamente sconosciuta in passato. Mi riferisco, in particolare, a quelle impostazioni seguite anche molto dalla giurisprudenza negli anni Cinquanta che vedevano nel diritto privato comune la maggiore garanzia della libertà dei partiti.
In realtà, si è capito che quello costituzionale del partito politico è uno status complesso, in cui componenti di libertà coesistono con componenti di responsabilità e di trasparenza. Questo è un mutamento di prospettiva importante, i partiti come strumento di una democrazia che si alimenta dal basso, e quindi un processo politico democraticamente legittimato. Mi pare che sia l'idea che circola in tutte le proposte e muove anzitutto dalla democrazia interna dei partiti.
Su questa base, tuttavia, si impiantano, a mio avviso, alcune differenze che riguardano sia l'impostazione generale delle proposte di legge sia singoli aspetti della disciplina legislativa. Ne indico fondamentalmente tre anche per non ripetere cose che sono state già dette.
Il primo punto riguarda la definizione del partito politico, che manca in quasi tutte le proposte e, a mio avviso, non a caso. Qui ci sono soluzioni diverse, c'è il mero rinvio all'articolo 49 della Costituzione, che non risolve il problema perché è stato detto che è formulato come una specificazione del diritto individuale di associazione, oppure con riferimento al concorso nella competizione per conseguire dei mandati rappresentativi o ancora, andando più avanti, in relazione al conseguimento di mandati rappresentativi.
Sono, evidentemente, scelte di politica legislativa profondamente diverse e con implicazioni costituzionali anche estremamente differenti. Ricordo che sul paragrafo 2 del Parteiengesetz tedesco, Begriff der Partei, del 1967 si è sviluppato un dibattito assai serrato che ha visto, appunto, scontrarsi queste due concezioni diverse dell'eguaglianza delle chance nella competizione politica, sicuramente uno dei temi centrali dietro la questione della regolamentazione legislativa dei partiti, tra una prospettiva che ritiene che l'eguaglianza delle chance sia soddisfatta dalla stabilizzazione dei rapporti di forza già costituitisi e chi, invece, ritiene che il principio dell'eguaglianza delle chance sia un principio di promozione del ricambio,
delle dinamiche del processo politico, per favorire attori nuovi. Allora, la questione della definizione del partito in una legge sull'ordinamento interno dei partiti diventa, a mio avviso, un interrogativo centrale.
Il secondo punto riguarda il rapporto con l'autonomia statutaria. Anche qui ci troviamo di fronte a soluzioni molto diverse nelle proposte di legge in discussione. Alcune proposte in qualche modo individuano per legge uno statuto-tipo, quindi con una disciplina molto penetrante dell'istituzionalità interna, altre si limitano a fissare princìpi di carattere generale cui l'organizzazione interna, e quindi l'autonomia statutaria, deve rifarsi, quali trasparenza, pluralismo interno, tutela delle minoranze. Sono, anche in questo caso, strade diverse.
La terza questione riguarda la selezione delle candidature, presente solo in alcune delle proposte in discussione. Credo - lo dirò alla fine del mio intervento - che questa sia davvero la questione essenziale, non riducibile soltanto al problema dell'introduzione della disciplina delle primarie, anche qui con posizioni molto diverse nelle proposte: integrale disciplina legislativa delle primarie in alcune, rinvio in sostanza all'autonomia dei partiti in altre. Il problema delle primarie è un aspetto che - sono d'accordo, è stato già detto - si collega a una forte strutturazione del sistema dei partiti non solo dal punto di vista organizzativo, ma direi per quanto riguarda il tipo di insediamento del partito all'interno della società civile.
Questi sono i profili problematici emersi, per me, da una lettura di queste proposte, che hanno presenti due modelli stranieri diversi, che circolano in modo molto diffuso nelle proposte: la legge tedesca sui partiti del 1967 e la legge organica sui partiti spagnola del 2002. Sono due modelli che, però, spingono a indicazioni completamente diverse. La legge organica sui partiti del 2002 contiene una disciplina estremamente scarna dell'ordinamento interno dei partiti perché in Spagna il problema centrale era quello di introdurre delle procedure sulla illegalizacion dei partiti politici. Il modello tedesco è diverso: c'è una disciplina analitica dell'ordinamento interno, che si collega a un sistema molto diverso che ha perseguito una integrazione molto forte dei partiti negli apparati statali dell'indirizzo politico. Sono due le linee che circolano nelle proposte, ma non vanno, a mio avviso, nella stessa direzione.
Vorrei indicare, inoltre, due aspetti problematici. Credo anch'io che oggi occorra procedere in questa materia con una certa gradualità. In passato le proposte di una disciplina assorbente dell'istituzionalità interna dei partiti incontrarono delle obiezioni che riguardavano il rischio che potessero rientrare dalla finestra limiti di carattere ideologico che erano stati lasciati fuori dalla porta dal sistema costituzionale.
Oggi le ragioni sono diverse: dopo gli anni Novanta del secolo scorso il sistema dei partiti si è molto diversificato dal punto di vista strutturale e organizzativo, nel tipo di radicamento nella società civile. Dunque, credo che a una disciplina molto assorbente dell'istituzionalità interna dei partiti occorra pensare con molta cautela. Resta, però, quello che è, a mio avviso, un problema centrale: la necessità di disciplinare la democraticità delle procedure attraverso le quali i partiti politici concorrono alla formazione degli organi costituzionali.
Passo, molto sinteticamente, a un punto sollevato da Stefano Merlini e che riguarda l'indicazione di finalità programmatiche negli statuti come indice della democraticità del partito. Credo, però, che qui siamo su un terreno su cui grande cautela si impone. Proprio l'esperienza tedesca lo dimostra e pone, soprattutto, un interrogativo: chi esercita un controllo su queste finalità programmatiche indicate negli statuti?
Concludendo, ho colto con una certa sorpresa l'assenza in tutte le proposte di legge in discussione di riferimenti alla dimensione europea dei partiti e ai rapporti con i partiti politici europei. Alla luce della disciplina che il Trattato di Lisbona ha introdotto anche in materia
di partecipazione politica e di partiti politici europei, questa è una lacuna alla quale, personalmente, suggerirei di porre rimedio.
PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendono porre quesiti o formulare osservazioni.
MAURIZIO TURCO. Più che una domanda, presidente porrei una considerazione molto breve partendo da un'affermazione del professor Merlini. Parlando di queste proposte di legge, e quindi dell'attuazione dell'articolo 49 della Costituzione, il professor Cheli è stato chiarissimo: se un tempo si diceva «si può», a una più attenta lettura adesso si dice «si deve».
Il professor Merlini ha parlato, quindi, di ritorno alla Costituzione, ma c'è un piccolo problema: oltre a un ritorno alla Costituzione, vogliamo prevedere un ritorno all'esito referendario? È certo, infatti, che sul finanziamento pubblico il referendum c'è stato, i cittadini si sono espressi e il risultato è stato che il finanziamento pubblico si è quintuplicato in una forma che lo stesso professor D'Onofrio ha definito ipocrita.
Esiste, quindi, sicuramente la necessità - 60 anni mi paiono un tempo congruo per tornare alla Costituzione - e forse dopo 20 anni c'è anche il tempo per tornare all'esito referendario.
GIUSEPPE CALDERISI. Innanzitutto, ringrazio gli illustri ospiti per il contributo che hanno portato ai nostri lavori su un tema estremamente delicato e difficile. Ritengo che sia necessario e opportuno arrivare, finalmente, all'attuazione dell'articolo 49 della Costituzione e alla disciplina dei partiti politici. Ci arriviamo in un contesto quanto mai diverso. È in gioco, infatti, una questione di sovranità - non voglio introdurre questi temi -: è in gioco il fatto che prima i partiti politici distribuivano risorse e adesso devono sottrarle, cambia radicalmente un certo ruolo dei partiti, per cui sono cambiati completamente molti scenari e credo che di questo si debba, in qualche modo, tener conto.
Sono d'accordo con una tendenza - mi sembra che sia abbastanza generalizzata - a far sì che le regole siano piuttosto sobrie, limitate e circoscritte ad alcune funzioni di rilevanza pubblica che i partiti svolgono. Per quanto riguarda la questione dei finanziamenti, evidentemente i bilanci devono essere sottoposti a dei controlli, bilanci e così anche la loro funzione nel momento in cui scelgono le candidature.
In questo campo, però, bisogna stare molto attenti, non si possono imporre dei modelli. Si può imporre che il partito preveda delle regole, che dica come, ma non credo si possa andare oltre e addirittura imporre un modello piuttosto che un altro di primarie o altri metodi.
Anche su altri aspetti e altre regole mi sembra che ci sia nelle proposte un eccesso di regolamentazione. Credo che debba essere lasciata libertà al partito. Il partito è parte per definizione e, se è parte, non gli si può imporre un modello.
Sono particolarmente dell'idea che si debba cercare di definire meglio che cos'è il partito politico e, definendolo, cercare anche di escludere cosa non debba essere. Mi riferisco a un aspetto a mio avviso importante. Nonostante, infatti, quello che ho detto poco fa, il partito politico oggi ha ancora, a mio avviso, un ruolo che non dovrebbe avere: esiste una sfera eccessiva dell'economia intermediata dalla mano pubblica, e quindi inevitabilmente dal partito politico.
Arriviamo ancora oggi ad avere siti ufficiali di alcuni partiti - non vale, tuttavia, solo per quelli che lo prevedono nei siti ufficiali, ma anche per quelli che non lo scrivono nei siti - che prevedono addirittura, per gli esponenti del partito nominati in consigli di amministrazione di enti pubblici, l'obbligo di versare una quota degli emolumenti che percepiscono come membri del suddetto consiglio. Questo, evidentemente, deve farci riflettere.
Non so se e come questa questione possa trovare applicazione nell'ambito della disciplina dei partiti politici, ma penso che dobbiamo trovare qualcosa per
dire cosa deve fare un partito e forse anche nell'imporre delle regole su questo.
Ho in mente un intervento di Giuliano Amato del 21 aprile del 1993, quando era Presidente del Consiglio e si dimise alla Camera dopo i referendum sulla materia elettorale, sul finanziamento pubblico dei partiti, sulle partecipazioni statali: disse che quel voto aveva rappresentato il ripudio di un modello di partito parificato agli organi pubblici e segnava «un autentico cambiamento di regime che fa morire dopo settant'anni quel modello di partito-Stato che fu introdotto in Italia dal fascismo e che la Repubblica aveva finito per ereditare, limitandosi a trasformare un singolare in un plurale».
Certamente, non esiste più quel sistema dei partiti; non so se siamo, come sosteneva il professor Lanchester, a un sistema di partitocrazia senza partiti, ma senza dubbio c'è ancora un ruolo molto invasivo della politica nell'economia, soprattutto a livello locale. Grazie alla normativa europea, infatti, forse abbiamo sfoltito le partecipazioni statali, ma a livello municipale abbiamo forme di socialismo cosiddetto municipale che rappresentano, a mio avviso, il vero problema dell'eccessivo costo della politica, dell'eccessivo personale impiegato in politica. È in quest'ambito, infatti - non so se sono esatte le cifre di un milione di persone che vivono di politica - che sono soprattutto i costi della politica: non sono tanto negli organi elettivi, nelle assemblee comunali, provinciali e regionali o nel Parlamento, ma forse proprio qui.
Chiedo, quindi, ai nostri ospiti se e come questa problematica, che mi sembra essenziale, di definizione di quello che debba essere o non essere un partito possa trovare una disciplina in quest'attuazione che stiamo tentando adesso, che ritengo necessaria e opportuna. Non credo che possiamo sfuggire a questi nodi.
SALVATORE VASSALLO. Questa, naturalmente, per noi è anche un'occasione per cominciare a interloquire, almeno tra quelli più interessati alla materia, sollecitati dagli interventi degli studiosi che abbiamo udito. Ne approfitto per toccare due o tre punti, provando in certa misura a interloquire su quanto è stato detto, oltre che a porre qualche interrogativo.
Mi sembra abbastanza consolidato un ampio consenso tra gli studiosi intervenuti sul fatto che, semmai non fosse stato questo il contenuto originario dell'articolo 49 della Costituzione, in termini evolutivi oggi possiamo, se non addirittura dobbiamo, interpretarlo come un invito a garantire la democraticità anche dentro i partiti e non solo nel confronto tra essi.
Un problema non solo nominalistico è quello della definizione di che cosa sia il partito politico, e quindi quale sia l'oggetto che dovremmo disciplinare. Capisco le preoccupazioni espresse dal professor Merlini, però vedo in questo anche delle differenze di lettura che dipendono da consolidate tradizioni disciplinari.
Nella scienza politica non ci sono mai tanti dubbi su come si debba definire un partito perché si guarda alla funzione che queste associazioni svolgono rispetto ad altre, e quindi, per esempio, nella letteratura scientifica di scienza politica l'espressione «partiti che non partecipano alle elezioni» è quasi una contraddizione in termini.
Cerco di spiegarmi. In questa tradizione - il professor Massari, naturalmente, potrà, se ritiene, correggermi o integrare - il tentativo è proprio di capire qual è l'elemento differenziale discriminante tra le associazioni politiche che ha senso chiamare partiti e quelle che non ha senso definire tali, essendo chiaro che ci sono diversi tipi di associazioni politiche che tentano di influenzare il processo politico. Ce ne sono, però, alcune in particolare che lo fanno in maniera molto specifica, cioè partecipando alle elezioni.
Ho l'impressione, tuttavia, che questo elemento distintivo non solo sia appropriato dal punto di vista empirico, fenomenologico, ma anche dal punto di vista giuridico. In fondo, qual è la funzione pubblica specifica che l'articolo 49 rispetto
all'articolo 18 attribuisce propriamente ai partiti politici? Quella di concorrere alla determinazione della politica nazionale, che si può fare in tanti modi; può farlo un'associazione sindacale essendo udita in Parlamento o esercitando pressione sul processo politico, ma in maniera più diretta solo presentandosi alle elezioni.
Personalmente, dunque, tenderei a dare per scontato che ciò che distingue i partiti politici dalle altre associazioni politiche è esattamente il fatto che si presentano alle elezioni e, tutto sommato, è anche ragionevole che ci applichiamo alla disciplina di quei soggetti collettivi che partecipano alle elezioni perché questa è la funzione pubblica che l'articolo 49 della Costituzione lascia intravedere.
D'altro canto, questa definizione può essere solo indiretta, nel senso che non possiamo precisare nella legge che sono partiti politici solo quelli che si presentano alle elezioni perché possono esistere organizzazioni che hanno intenzione di presentarsi alle elezioni, ma non lo hanno ancora fatto e che dobbiamo preventivamente riconoscere. Per questa ragione nel progetto di legge Veltroni e altri, a cui ho contribuito, manca una definizione esplicita; è implicito, però, qual è l'idea che si ha del partito politico perché si definiscono dei soggetti politici in previsione del fatto che si presentino alle elezioni, e quindi si definiscono tutti gli elementi che questi soggetti devono soddisfare perché possano essere a pieno titolo parte del processo elettorale. Può, tuttavia, darsi che mi sbagli, ma volevo interloquire in questo senso. Ho l'impressione che la definizione che, implicitamente, dobbiamo assumere
è che i partiti politici siano quei soggetti politici collettivi che partecipano alle elezioni, ma non abbiamo bisogno, anzi non possiamo farlo esplicitamente nella legge, che deve definire le precondizioni perché questi soggetti possano essere a pieno titolo parte del processo elettorale.
La seconda questione è quella che attiene alla pervasività della disciplina sulla modalità di selezione delle candidature. È chiaro che, proprio se definiamo i partiti politici in quel modo e se assumiamo che una delle funzioni pubbliche principali dei partiti politici è quella di essere il veicolo attraverso cui ci si candida alle elezioni, la funzione di selezione delle candidature è l'elemento che più di ogni altro qualifica la funzione pubblica dei partiti, sulla quale è quindi ragionevole che ci sia una disciplina.
Devo sottolineare che alcuni degli interventi davano a intendere che ci siano progetti di legge che impongono ai partiti una certa soluzione. Correttamente, il professor Merlini ha ricordato che non è una vera e propria imposizione, ma c'è un incentivo sin troppo robusto - in effetti, questo lo riconosco - tanto che in un progetto di legge, a prima firma Bersani, che non è ancora all'esame della Commissione, ma che è stato depositato e che include anche una parte sulla disciplina delle primarie, quella condizione è stata attenuata, forse non abbastanza per essere accettabile, professor Merlini, ma è stato dimezzata.
Il quesito è questo: è vero che non si deve e non si può imporre una specifica modalità di selezione delle candidature e lasciare aperti anche i progetti che sono più accurati da questo punto di vista o più invasivi, a seconda di come la si vede. Questo consente ai partiti di scegliere il metodo che vogliono, purché lo dichiarino nel loro statuto e lo rendano, quindi, trasparente ai loro associati.
L'unico passo in più è nella proposta che, laddove i partiti decidono di cedere completamente la sovranità sulle scelte di alcune particolari candidature agli elettori, si devono sottoporre a una disciplina dettata dalla legge. Il punto è che, se si decide di disciplinare le primarie come aperte, è a nostro avviso opportuno che lo si faccia con il metodo nella legge. Questo è giustificato dal fatto che la selezione delle candidature è la più importante delle funzioni pubbliche, se non quella eminentemente distintiva dei partiti politici e, se devono essere primarie aperte disciplinate per legge, è difficile immaginare che non abbiano una modalità di svolgimento univoca.
D'altro canto, il fatto che la modalità di svolgimento sia univoca è uno dei fattori che tende a renderle più trasparenti. Infatti solo se si disciplina per legge in maniera univoca e le primarie di tutti i grandi partiti si tengono nello stesso giorno è possibile limitare i fenomeni che si ritengono particolarmente problematici di migrazioni opportunistiche degli elettorati.
Sottopongo questi ulteriori elementi per sapere se, per caso, questo non possa attenuare le criticità intraviste da quelli che sono un po' preoccupati dell'eccessiva invasività di alcuni progetti riguardo alla definizione della modalità di selezione delle candidature.
Passo ad un'ultima questione Ho trovato molto pertinente - mentre non condivido l'idea che non si possano trapiantare esperienze prese da altri Paesi posta dal professor Lippolis perché abbiamo trapiantato, per esempio, l'elezione diretta dei sindaci felicemente, almeno dal punto di vista di chi parla, così come discutiamo del trapianto della sfiducia costruttiva, non ci preoccupa, anzi pensiamo che imparare dagli altri sia una cosa positiva - la posizione di un problema delicato da parte dello stesso professor Lippolis, soprattutto oggi, che è quello della destinazione del patrimonio dei partiti.
Lo avrei chiesto a lui e, eventualmente, a chi volesse intervenire su questo punto perché mi sono persuaso, sentendo il professor Lippolis, che una delle questioni di cui dovremmo discutere è se sia ragionevole concepire una norma che, così come nel caso delle fondazioni che non hanno, naturalmente, fine di lucro, qualora sia cessata la funzione pubblica per la quale il partito politico era stato costituito, obblighi al trasferimento delle risorse a un altro soggetto che persegue medesimi fini.
MARIO PEPE (Misto-R-A). Mi riallaccio a quello che diceva il collega Maurizio Turco. Io sono un liberale che da giovane ascoltava i discorsi di Aldo Bozzi, che è stato costituente, secondo il quale ci sono due grandi assenti nella Costituzione, i partiti e i sindacati.
Allora si preferì non regolamentare i partiti per legge e dar loro, quindi, un carattere di libere associazioni, ma non c'era il finanziamento pubblico. Quando i partiti ricevono soldi dallo Stato, credo - per non cadere in situazioni della cronaca recente come quella che ha visto coinvolta la Margherita - che debba esserci almeno un comitato di garanti a vigilare sul danaro pubblico.
Si diceva che in passato esistevano i partiti ideologici, poi è esistito il partito-Stato che per 50 anni è stato al Governo e ha occupato le istituzioni, ma non vorrei che adesso - andate a vedere la disaffezione ai partiti - si passi dalla partitocrazia senza partiti alla democrazia senza popolo, come diceva Nenni. Tra poco, infatti, a votare non andrà nessuno perché i partiti oggi non sono strumenti nelle mani dei cittadini, ma sono i cittadini strumento nelle mani dei partiti.
GIANCLAUDIO BRESSA. Non rivolgo nessuna domanda, vorrei solo esprimere un ringraziamento sincero perché nella quasi totalità degli interventi c'è stata la capacità di inquadrare il tema nella sua attualità storico-costituzionale e la capacità di volare alti anche rispetto ad alcune vicende della cronaca attuale.
Di questo, davvero, sento il desiderio di ringraziarvi perché, come anche per gli scampoli di dibattito a cui avete assistito, questa Commissione ha bisogno di una visione lunga e non puntata sul proprio ombelico e sulle vicende di questi giorni.
MARIO TASSONE. Anch'io mi associo ai ringraziamenti ai nostri ospiti. Non so se potete rispondere a una questione, su cui forse vi siete già espressi, ma penso che possa essere inquadrata con un'attenzione più specifica e particolare.
Oggi si sente l'esigenza di dare attuazione all'articolo 49 della Costituzione e, quindi, di regolamentare anche i partiti rispetto a ieri; inoltre nei vostri interventi c'è stata una discussione rispetto ai lavori della Costituente. La vita democratica non è una concessione data ai partiti. Come avete ricordato, è uno strumento con cui
viene organizzato il consenso, sono organizzate tutte le fasi di elaborazione da parte dei cittadini e non può esserci uno stacco tra vita democratica dei partiti e vita democratica all'interno delle istituzioni nel nostro Paese, se si tratta di uno strumento che può essere considerato un filtro, quindi un dato importante.
Perciò, quando si fa riferimento al diritto dei cittadini, e quindi anche alla posizione di qualche costituente di rinviare a dopo, certamente questo credo che sia l'aspetto più significativo e importante perché non devono esserci una dicotomia e uno iato. I partiti non hanno un'extraterritorialità, fanno parte di un sistema complesso all'interno del nostro Paese.
I percorsi devono essere questi, ovviamente, per quanto riguarda sia le iscrizioni sia l'esercizio del voto all'interno. Credo che questo sia un dato importante e fondamentale. Se oggi si è avvertita l'esigenza di dare una regolamentazione, non si è data la regolamentazione del passato proprio per non condizionare, non ingabbiare tutta questa realtà.
Ritengo che questo sia forse il dato più importante, né si può procedere alla regolamentazione per quanto riguarda l'aspetto semplicemente contributivo o del finanziamento. Questo aspetto sarebbe un po' marginale, potremo rivederlo e inquadrarlo in un momento diverso, a latere, ma non recuperare da questo punto di vista tutto la legislazione sui partiti. Credo che questo ci fuorvierebbe rispetto al senso e al significato di un impegno anche di carattere legislativo.
PRESIDENTE. Siamo riuniti da oltre due ore per quest'importante audizione che, come sottolineato da alcuni, ha avviato anche un po' la discussione tra i colleghi. Adesso chiederei ai nostri ospiti delle risposte sobrie perché tutti si sono impegnati - qualora non lo abbiano ancora fatto - a trasmettere alla Commissione una memoria scritta, nella quale potranno essere anche sviluppate in misura più ampia le risposte, se lo si riterrà opportuno.
Do quindi la parola per una breve replica ai professori che me ne hanno fatto richiesta, ad iniziare dal professore Stefano Merlini.
STEFANO MERLINI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Firenze. Premetto un ringraziamento per la cortesia e l'attenzione con la quale ci avete ascoltato.
Ci sono due domande dirette da parte degli onorevoli Turco e Vassallo. Il referendum è il punto decisivo che sembra orientare quasi tutte queste proposte di legge. I partiti politici ottengono la personalità giuridica se hanno uno statuto conformato, così come dice la legge, e, se ottengono la personalità giuridica, possono partecipare ai rimborsi elettorali, magari in misura diversa, a seconda delle scelte che fanno.
Qui c'è, a mio avviso, una grande ipocrisia - non sono io a potermi permettere di parlare di errore politico perché, ovviamente, i politici siete voi - perché continuare, dopo decenni, a finanziare la politica quasi esclusivamente attraverso i rimborsi elettorali è un errore micidiale. Credo che nessun costituzionalista possa sostenere l'eternità delle pronunce referendarie. Non esiste l'eternità della legge, non esiste l'eternità delle pronunce referendarie. Sono passati decenni dal referendum che ha abolito il finanziamento pubblico ai partiti, ma sono mutate le condizioni politiche in maniera così profonda che oggi si regolamentano i partiti politici e ieri non erano regolamentati.
MAURIZIO TURCO. La Costituzione che prevedeva l'articolo 49 non è stata scritta ieri. Qualcuno in dottrina ha mai sollevato il problema della violazione del risultato referendario?
STEFANO MERLINI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Firenze. La violazione c'è quando si prevede un termine fino alla legislatura successiva, o per la legislatura vigente, quando c'è il referendum, nel caso che il Parlamento adotti una legge contraria
ai princìpi del referendum. Ma vent'anni dopo, però, come direbbe Dumas padre, ma anche cinque anni dopo, no. C'è l'ipocrisia di qualificare il contributo sacrosanto alla politica come rimborso.
Secondo me, i progetti di legge dovrebbero avere il coraggio, invece, di cambiare, di qualificare l'aiuto ai partiti politici non come rimborso elettorale, o perlomeno in parte come rimborso elettorale e in parte come contributo alla politica. Sarebbe importante anche perché dei contributi alla politica potrebbero usufruire anche quei partiti politici, dai marxisti-leninisti fino a chi si vuole, che non partecipano alle elezioni, ma dicono e pretendono di far politica con altri mezzi.
La questione è la seguente: il principio del metodo democratico, che deve essere un metodo, non è violato perché è così importante la scelta dei candidati da giustificare disparità tra chi adotta le primarie e chi non lo fa? A mio avviso, no perché è il principio che vale.
Ho letto la proposta del Partito Democratico, che riduce dal 50 al 25 per cento i contributi per chi non adotta le primarie, ma credo che rimanga una violazione dell'articolo 49 della Costituzione che, da questo punto di vista, interpreterei in maniera molto rigorosa. Se si impone, infatti, un modello di metodo democratico sopra gli altri, credo che non si faccia un buon servizio in prospettiva a quel pluralismo politico previsto anche dal termine del concorso. I partiti concorrono, quindi c'è un'apertura anche da questo punto di vista.
È vero, inoltre, che la selezione dei candidati è la funzione più importante dei partiti politici? Un tempo si diceva che la funzione più importante era quella di determinare i fini, il programma: io continuo a pensare che l'eccessiva enfasi che si dà alle primarie tende oggi a sminuire la partecipazione dei cittadini. Le primarie, infatti, incentivano la partecipazione dei cittadini, ma solo per la scelta del candidato, non per la scelta dei programmi, non per l'attivazione di una partecipazione continuativa dentro ai partiti politici, che invece è quella che soprattutto manca.
Con questo non voglio sostenere che le primarie siano uno strumento cattivo, dico però che debbono essere inquadrate in un contesto di rivitalizzazione dei partiti politici, che è poi la finalità principale alle quale debbono tendere le vostre riforme.
FULCO LANCHESTER, Professore ordinario di diritto costituzionale italiano e comparato e direttore del Master in Istituzioni parlamentari europee per consulenti d'Assemblea presso l'Università La Sapienza di Roma. Che cos' è un partito? Mi sembra essenziale che l'articolo 1 di una legge sull'attuazione dell'articolo 49 sciolga questo interrogativo. Io non sono sicuro, ma costituzionalisti e scienziati della politica non ottocenteschi e non del primo cinquantennio del Novecento hanno ben chiara la differenza tra partito come gruppo di pressione e lobby all'interno delle aule o dei corridoi parlamentari. La caratteristica fondamentale di un'associazione partitica è di presentare i candidati a cariche pubbliche e di riuscirci. Questa è la definizione un po' americanizzante, «sartoriana», ma anche tedesca.
Se ci riescono, hanno tutti i crismi del partito; se non ci riescono, si può ragionarci, ma l'elemento essenziale è individuare una definizione minimale di partito e, secondo me, questo è dirimente.
Inoltre, quando si definisce, non si è più un partito: all'articolo 2, comma 2, della legge sui partiti tedesca, un'associazione perde il suo status giuridico di partito qualora non abbia partecipato per un periodo di sei anni con proprie liste a un'elezione per il Parlamento federale tedesco o per una dieta di Land. A questo punto, c'è una serie di altre conseguenze.
I partiti zombie, quelli che ricevono il rimborso elettorale anche quando ormai non ci sono più, non debbono esistere perché non sono partiti. Io li definisco
partiti zombie perché sarebbe un bellissimo articolo di giornale, ma è vero, fanno orrore e poi si arriva ai tagliolini con il caviale. È questo un ulteriore elemento.
Inoltre, metodo democratico significa, nella sostanza, che vi è una proceduralizzazione in cui è sicuro che gli iscritti sono coinvolti con metodi che possono essere differenti, come le primarie, ma possono anche essere le elezioni dei candidati.
Visto che il professor Massari ha ricordato Bryce, ricordo che l'American Commonwealth contiene la descrizione di che cosa sono le primarie: nell'Ottocento erano viste come le consultazioni delle assemblee primarie dei partiti americani che eleggevano i delegati ai congressi e, successivamente, sono divenute consultazioni dirette. Anche gli americani, infatti, avevano un altro tipo di concezione e si riferivano all'élection primaire della Convenzione francese del 1791, in sostanza del periodo rivoluzionario, in cui vi erano vari tipi di elettorati. Evidentemente, il metodo può essere largo, ma poi ci sono differenziazioni molto chiare.
Per quanto riguarda la domanda dell'onorevole Tassone sul perché ci sia oggi l'esigenza di regolare i partiti e sul fatto che si ritorna al problema se debba essere possibile la delegittimazione, rispondo che deve esserlo perché, in teoria, questo è un sistema che si sta omogeneizzando: in pratica, non lo è completamente perché alcune formazioni che sono presenti all'interno di queste stesse aule parlamentari utilizzano ancora il meccanismo del centralismo democratico.
ORESTE MASSARI, Professore ordinario di scienza politica presso l'Università La Sapienza di Roma. Mi sembra che la questione dirimente sulla definizione di partito politico debba essere la partecipazione alle elezioni. Da questo non si scappa, altrimenti immaginate quante richieste di finanziamento delle più varie associazioni politiche avremmo, sarebbe un caos.
Del resto, lo statuto dei partiti a livello europeo impone un minimo di rappresentatività democratica, la presenza di rappresentanti eletti in certi Stati o nel Parlamento europeo. La necessità di regolamentare il partito nasce non solo dal finanziamento pubblico - anche questo è dirimente, nell'Assemblea costituente non era in questione il finanziamento, ma probabilmente, se lo fosse stato, ci sarebbe stata anche una regolamentazione - ma anche dal fatto che, nel frattempo, le strutture organizzative dei partiti politici o i modi della loro nascita sono cambiati.
Il percorso negli anni Quaranta dei partiti politici era chiaro, dalla società allo Stato, tant'è vero che, secondo la definizione di Mortati, i partiti politici erano la società che si fa Stato, ripresa da Togliatti e dal Partito Comunista. Questa era la democrazia organizzata dei partiti, e quindi i partiti venivano, innanzitutto, dalla società.
Oggi è cambiato qualcosa perché abbiamo partiti politici che non vengono più solo dalla società, dal basso. Anche nei grandi partiti tradizionali sono cambiati i rapporti interni, non contano più solo gli iscritti, ma molto di più gli eletti, che non è necessariamente - intendiamoci - un male perché può essere anche positivo per tante altre ragioni, però indubbiamente gli eletti, e quindi le funzioni pubbliche, contano assolutamente di più.
Inoltre, ci sono dei partiti che non vengono dalla società, ma dall'alto. Non ne abbiamo qui parlato molto perché non ce n'è stato il tempo, ma un aspetto della regolamentazione dei partiti politici è anche il mantenimento del loro carattere collettivo, collegiale. I partiti di una sola persona o i partiti personali, in qualche modo, vanno regolamentati, non per evitare il ruolo della personalità, che è indubbio anche nei partiti democratici con le leadership, ma perché la differenza tra forti leadership personali e partiti personali è che i partiti continuano a esistere anche quando il fondatore, il grande leader - ad esempio De Gaulle - va via.
C'è anche un altro aspetto: i partiti possono sorgere come opera di un'impresa, come attività imprenditoriale, mettendo soldi e risorse, e questa è una
tipologia degenerativa del partito politico che, in qualche modo, va affrontata con una legge di regolamentazione.
PAOLO RIDOLA, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università La Sapienza di Roma. Anch'io faccio delle notazioni assolutamente telegrafiche su una questione ritornata in discussione: il rapporto tra l'articolo 18 e l'articolo 49.
In realtà, a lungo si è detto che, poiché la Costituzione aveva posto i limiti all'azione dei partiti con riferimento al metodo democratico, e quindi con riferimento all'azione esterna del partito politico, i limiti dei partiti fossero sostanzialmente omogenei a quelli che l'articolo 18 poneva per la libertà di associazione in genere. Nell'articolo 18, peraltro, al secondo comma, c'è un riferimento ad associazioni che perseguono anche indirettamente un fine politico. Probabilmente, il quadro costituzionale era quello di una legittimazione molto ampia dei soggetti del pluralismo nel processo politico.
Naturalmente, questo non vuol dire che non si possa costruire, a mio avviso, sulle norme costituzionali una posizione peculiare del partito politico. Nasce, paradossalmente, proprio dall'articolo 49 della Costituzione che, nel momento in cui non fa riferimento ai partiti ma ai cittadini attraverso lo strumento dei partiti, pone un precetto importante, e cioè che il partito deve essere uno strumento della partecipazione politica dei cittadini e che la legittimazione del partito è proprio in ragione di questa posizione strumentale del partito rispetto alla partecipazione politica.
Ripeto che, delle proposte all'esame della Commissione, trovo molto interessante questo sforzo di individuare, anzitutto, dei princìpi di ordinamento interno dei partiti, princìpi che devono trovare una traduzione attraverso l'autonomia statutaria del partito, ma credo davvero che la soluzione sia quella di una legge sui principi dell'ordinamento interno dei partiti.
PRESIDENTE. Ringrazio tutti per il loro contributo e dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 17,10.