Sulla pubblicità dei lavori:
Bruno Donato, Presidente ... 3
INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME DEL DISEGNO DI LEGGE C. 4275 COST. GOVERNO, RECANTE «RIFORMA DEL TITOLO IV DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE» E DELLE ABBINATE PROPOSTE DI LEGGE C. 199 COST. CIRIELLI, C. 250 COST. BERNARDINI, C. 1039 COST. VILLECCO CALIPARI, C. 1407 COST. NUCARA, C. 1745 COST. PECORELLA, C. 2053 COST. CALDERISI, C. 2088 COST. MANTINI, C. 2161 COST. VITALI, C. 3122 COST. SANTELLI, C. 3278 COST. VERSACE E C. 3829 COST. CONTENTO
Audizione dell'Avvocato generale dello Stato, avvocato Ignazio Francesco Caramazza:
Bruno Donato, Presidente ... 3 6 10 12
Bernardini Rita (PD) ... 7
Bressa Gianclaudio (PD) ... 8 11
Calderisi Giuseppe (PdL) ... 9
Capano Cinzia (PD) ... 8
Caramazza Ignazio Francesco, Avvocato generale dello Stato ... 3 10 11 12
Ferranti Donatella (PD) ... 7
Mantini Pierluigi (UdCpTP) ... 9 12
Palomba Federico (IDV) ... 6
Audizione di rappresentanti dell'Associazione nazionale giudici di pace (ANGDP), dell'Unione nazionale giudici di pace (UNAGIPA) e della Federazione nazionale magistrati onorari di tribunale (FEDERMOT):
Bruno Donato, Presidente ... 12 19 21 22
Crasto Vincenzo, Presidente dell'Associazione nazionale giudici di pace (ANGDP) ... 12
Longo Gabriele, Presidente dell'Unione nazionale giudici di pace (UNAGIPA) ... 14 21
Mantini Pierluigi (UdCpTP) ... 19
Melis Guido (PD) ... 19
Palomba Federico (IDV) ... 20
Valerio Paolo, Presidente della Federazione nazionale magistrati onorari di tribunale (FEDERMOT) ... 16 22
Audizione del Presidente del Consiglio di Stato, dottor Pasquale de Lise:
Bruno Donato, Presidente ... 22 28 33 35
Bernardini Rita (PD) ... 32
Bressa Gianclaudio (PD) ... 28
Capano Cinzia (PD) ... 32
Contento Manlio (PdL) ... 31
de Lise Pasquale, Presidente del Consiglio di Stato
23, 32, 33, 35 Ferranti Donatella (PD) ... 30
Giachetti Roberto (PD) ... 28 35
Palomba Federico (IdV) ... 29 35
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Iniziativa Responsabile (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): IR; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.
Resoconto stenografico
INDAGINE CONOSCITIVA
La seduta comincia alle 10,15.
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva in relazione al disegno di legge C. 4275 cost. Governo, recante «Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione» e delle abbinate proposte di legge C. 199 cost. Cirielli, C. 250 cost. Bernardini, C. 1039 cost. Villecco Calipari, C. 1407 cost. Nucara, C. 1745 cost. Pecorella, C. 2053 cost. Calderisi, C. 2088 cost. Mantini, C. 2161 cost. Vitali, C. 3122 cost. Santelli, C. 3278 cost. Versace e C. 3829 cost. Contento, l'audizione dell'Avvocato generale dello Stato, Ignazio Francesco Caramazza.
Ringrazio della presenza l'Avvocato generale dello Stato Caramazza, che è accompagnato dall'avvocato Francesco Sclafani.
Con quest'audizione iniziamo un tour de force cui abbiamo deciso di dedicarci volontariamente, proprio perché è interesse delle due Commissioni riunite comprendere quale sia la posizione dei diversi soggetti interessati sulla materia in oggetto.
Prima di dare la parola al nostro ospite, comunico che il Capo della polizia, d'intesa con il Comandante generale dell'Arma dei carabinieri e con il Comandante generale della Guardia di finanza, ha scritto alle presidenze per comunicare che le tre forze dell'ordine invieranno un documento unitario e condiviso nei primi giorni della prossima settimana. Pertanto, gli stessi non interverranno nella giornata odierna.
Ringrazio il ministro Alfano per la sua presenza e do la parola all'Avvocato generale dello Stato, dottor Caramazza, per lo svolgimento della relazione.
IGNAZIO FRANCESCO CARAMAZZA, Avvocato generale dello Stato. Signor presidente, innanzitutto le devo due scuse: una per non aver potuto presentare la memoria scritta che lei mi aveva richiesto nella lettera, ma il tempo, purtroppo, è stato tiranno; l'altra per non aver potuto approfondire, sempre per la brevità del tempo, l'argomento come l'importanza dello stesso avrebbe meritato, dunque le mie saranno considerazioni a prima lettura. Chiedo scusa, dunque, per l'approssimazione, ma sono ovviamente a disposizione sia per farvi avere in futuro una nota scritta sia per ritornare qui dinanzi a voi a fornirvi tutti i chiarimenti che riterrete opportuno chiedere.
Un primo rilievo riguarda il fatto che la norma - faccio riferimento al disegno governativo - prevede una dequotazione di una serie di garanzie dal livello costituzionale al livello di legge ordinaria. La prima dequotazione riguarda la inamovibilità,
e qui abbiamo una riserva di legge rinforzata, perché soltanto in caso di eccezionali esigenze attinenti all'organizzazione e al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia ci può essere una deroga al principio di inamovibilità.
Abbiamo, però, tre altre fattispecie che sono assistite da una garanzia non rinforzata, quindi in questi casi la legge ordinaria è praticamente libera di operare. Mi riferisco innanzitutto all'articolo 10, relativo alla disponibilità della polizia giudiziaria, della quale giudice e pubblico ministero dispongono secondo le modalità stabilite dalla legge.
Inoltre, cito l'articolo 12, relativo alla inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, che «sono appellabili soltanto nei casi previsti dalla legge». Al riguardo, segnalo una dissimmetria tra le sentenze di proscioglimento, appellabili soltanto nei casi previsti dalla legge, e le sentenze di condanna, per le quali «è sempre ammesso l'appello, salvo che la legge disponga diversamente», però in relazione a parametri precisi, quali la «natura del reato, delle pene e della decisione». Ora, a parte la dequotazione, c'è una singolarità: questa norma sembrerebbe applicabile immediatamente, una volta entrata in vigore la legge costituzionale, anche in carenza di legge ordinaria che provveda; dunque, la norma di legge costituzionale immediatamente applicata riprodurrebbe una situazione di inappellabilità delle sole sentenze di proscioglimento, e l'appellabilità delle sentenze di condanna,
con le conseguenze che la Corte costituzionale ha considerato nelle recenti sentenze che sono ben note alle Commissioni.
La terza dequotazione riguarda l'articolo 13, relativo all'obbligatorietà dell'azione penale: «L'ufficio del pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge».
Naturalmente il problema è più di carattere politico, quindi non mi permetto di interferire con un campo che non è il mio. Tuttavia, faccio presente che, in una situazione di alternanza bipolare, come è attualmente nel nostro Stato, quindi con un fisiologico alternarsi di maggioranze e di Governi diversi, questa cedevolezza della regolamentazione di un settore così importante nella vita di uno Stato e del suo equilibrio costituzionale come la giustizia, determinerebbe una sorta di giustizia a geometria variabile. Questo mi sembra un elemento da tenere in considerazione, che rimetto ovviamente alla saggezza del Parlamento.
La seconda considerazione muove da una domanda: il giudiziario è ancora un potere dello Stato sulla base di questa normativa? La disposizione vigente stabilisce che l'ordine giudiziario è autonomo e indipendente da ogni altro potere, quindi implicitamente riconosceva all'ordine giudiziario, sia pure qualificato con una sfumatura di degradazione rispetto agli altri poteri, la natura di potere dello Stato. Nel testo del disegno di legge del Governo l'aggettivo «altro» è scomparso e il giudiziario rimane indipendente da «ogni» potere. Pertanto, a giudicare dall'interpretazione letterale della legge, il giudiziario è un ordine e potrebbe non essere più considerato un potere dello Stato. L'argomentazione vale, ovviamente, a fortiori per il pubblico ministero, in quanto si parla, a un certo punto, di giudici e non di magistrati, mentre il pubblico ministero, nel nuovo ordinamento, è magistrato ma non
giudice.
Mi domando, allora, se la Corte costituzionale potrebbe ritenere che, nonostante la diversità terminologica, il giudiziario sia ancora un potere dello Stato; potrebbe, invece, accettare la regola principe dell'ermeneutica, ossia che l'interpretazione che conta è quella letterale, quindi non considerare più il giudiziario potere dello Stato e quindi escluderlo dai conflitti di attribuzione.
Quando il potere giudiziario, oggi, è attore nei conflitti di attribuzione, il venir meno della sua qualifica di potere gli toglierebbe questa facoltà. Pensiamo, però, anche ai casi in cui il potere giudiziario è soggetto passivo del conflitto di attribuzione e, in quel caso, il conflitto di attribuzione rappresenta una garanzia per il potere esecutivo.
Cito il caso del segreto di Stato, risolto con una recente sentenza, in merito ai fatti di Milano relativi al sequestro Abu Omar. In quel caso, c'era stata un'attività dei pubblici ministeri che, secondo il Governo, costituiva violazione di numerosi segreti di Stato. Ci fu una reazione in sede giurisdizionale, una denuncia, e i pubblici ministeri di Milano furono accusati del gravissimo reato di violazione del segreto di Stato. Il caso, però, finì archiviato.
Un caso analogo, della fine del secolo scorso, riguarda la procura di Bologna, laddove furono necessari ben quattro conflitti di attribuzione per far espungere da un fascicolo dei documenti coperti dal segreto di Stato perché, nonostante le sentenze della Corte costituzionale, quel pubblico ministero continuava a utilizzare quei documenti. Non ci fu nessuna reazione di carattere giurisdizionale. In casi di questo tipo - si tratta di casi limite, ma si potrebbero ripetere anche in circostanze meno drammatiche - la perdita della garanzia del conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale diventerebbe un grosso limite per il potere esecutivo, il quale avrebbe come unica risorsa quella di ricorrere alla giustizia, cioè a quel potere giurisdizionale che potere più non è, ma che sarebbe l'unico in grado di valutare certi comportamenti dei suoi componenti.
Un'altra considerazione riguarda il giusto processo. All'articolo 7 del testo del disegno di legge del Governo, che introduce nella Costituzione l'articolo 105-bis, l'ottavo comma recita: «La legge assicura l'autonomia e l'indipendenza della Corte di disciplina e l'attuazione del principio del giusto processo nello svolgimento della sua attività». Forse l'ultimo periodo è superfluo, perché l'articolo 111 già garantisce il giusto processo. Al riguardo, esprimo una perplessità, che è solo, appunto, una perplessità: la diversa proporzionalità nella composizione della Corte di disciplina rispetto ai due Consigli superiori della magistratura.
Nei due Consigli superiori della magistratura c'è una maggioranza di membri togati, perché il primo presidente della Corte di cassazione da un lato e il procuratore generale della Corte di cassazione dall'altro assicurano tale maggioranza. Nel Consiglio di disciplina, invece, non solo sussiste una perfetta parità fra membri togati e non togati, ma la presidenza e la vicepresidenza sono comunque affidate a membri non togati.
Ora, mi pare un po' singolare che laddove si discute della carriera dei magistrati, della loro sede, dei loro trasferimenti, ci sia una composizione meno garantistica; laddove, invece, si discute di diritto punitivo - il giudizio disciplinare appartiene al diritto punitivo - c'è una composizione meno garantistica per il magistrato. Lo ripeto, è soltanto una perplessità, ma ritengo doveroso rappresentarla alle Commissioni.
Affronto l'ultimo punto, quello della responsabilità dei magistrati. L'articolo 14 del testo del disegno di legge governativo prevede: «I magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione di diritti al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato». Il legislatore italiano si trova di fronte a due paletti: il primo è rappresentato dal diritto europeo, dalla sentenza Traghetti del Mediterraneo, che rende assolutamente necessaria una rivisitazione e una modifica della legge sulla responsabilità dei magistrati del 1988. Ora, quella sentenza ha affermato che non è conforme al diritto europeo il fatto che sia esente da responsabilità un errore giudiziario derivante da interpretazione di norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate dall'organo giurisdizionale, e comunque è contrario al diritto europeo che possa essere esente da responsabilità una decisione
commessa in violazione manifesta del diritto vigente. Questo, ovviamente, riguarda il diritto europeo, ma per principio di ragionevolezza e di parità di trattamento di situazioni analoghe la previsione dovrebbe essere estesa anche al diritto nazionale.
Attualmente è in corso un giudizio dinanzi alla Corte di Lussemburgo in cui la nostra difesa dello Stato italiano non può che svolgersi affermando che, se comunitariamente
interpretate, le norme attuali consentono di dire che sono conformi al diritto europeo. Ed è una tesi abbastanza ardita.
Questo primo paletto, dunque, sarebbe pienamente rispettato dalla nuova norma. Vi è però un secondo paletto, d'altra parte ricordato, sia pure molto brevemente, nella relazione al disegno di legge, che è quello relativo alle precedenti decisioni della nostra Corte costituzionale. Questa, a più riprese, a partire addirittura dal 1968 fino ad arrivare al 1987, ha sancito che il magistrato, attese le sue garanzie di autonomia e di indipendenza, che sono tuttora vigenti anche nel nuovo testo di legge, non può essere equiparato, ai fini della responsabilità, al pubblico dipendente, perché l'applicazione delle stesse regole comporterebbe un vulnus all'autonomia e all'indipendenza e, comunque, comporterebbe un rischio di attenuare il coraggio decisionale del magistrato.
Il fatto di una piena equiparazione della responsabilità del magistrato a quella del pubblico funzionario creerebbe, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, una situazione di conflitto fra due norme all'interno dello stesso corpo normativo, vale a dire della Costituzione novellata: da un lato, la norma che prevede l'autonomia e l'indipendenza, dall'altro quella che prevede una responsabilità del magistrato perfettamente analoga a quella del pubblico dipendente che, secondo la Corte costituzionale, confligge con il primo principio.
Ovviamente non posso permettermi di immaginare come la Corte potrebbe risolvere questo conflitto. Una delle ipotesi potrebbe essere quella di ritenere che uno dei due princìpi appartenga allo zoccolo duro della Costituzione, quello che non tollera neanche una legge di riforma costituzionale, e l'altro no. Tuttavia, lo ripeto, non voglio azzardare pronostici che vanno al di là di quelle che sono le mie competenze.
Sono a vostra disposizione per eventuali domande.
PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
FEDERICO PALOMBA. Desidero ringraziare l'avvocato generale dello Stato Caramazza per il suo intervento lucidissimo. Mi pare che la brevità del tempo a disposizione non gli abbia impedito di esercitare una critica naturalmente oggettiva - non politica ma giuridica - al testo del disegno di legge del Governo.
Noi ci riconosciamo pressoché integralmente nelle considerazioni che l'avvocato Caramazza ha espresso, lo ripeto, sotto un profilo esclusivamente giuridico. Ci riconosciamo nell'osservazione relativa alla dequotazione di garanzia, che riguarda quattro aspetti fondamentali, oggi assistiti da una garanzia costituzionale che verrebbe meno, in quanto tali aspetti verrebbero affidati alla legge ordinaria.
In secondo luogo, è stata sollevata la questione se l'ordine giudiziario, come noi abbiamo ritenuto finora, continuerebbe a essere un potere oppure no (come l'eliminazione dell'aggettivo «altro» sembrerebbe lasciare intendere). La modifica dell'articolo 101 sembrerebbe far capire che la maggioranza che ha presentato questa proposta voglia dequalificare la magistratura da potere a ordine.
A questo riguardo, vorrei porre una prima domanda: ritiene l'avvocato Caramazza che, alla luce dei princìpi fondamentali degli ordinamenti giuridici moderni e occidentali, alla luce della tripartizione dei poteri dello Stato, che oramai è un dato scontato in tutte le democrazie occidentali, questo sarebbe un principio vulnerabile con una normativa diversa, sia pure costituzionale, oppure sarebbe uno dei princìpi che non possono essere modificati neppure con legge costituzionale perché sono intrinseci all'ordinamento giuridico democratico dei Paesi occidentali?
Il secondo punto riguarda una delle ricadute che da ciò deriverebbe, ossia la possibilità di elevare conflitti di attribuzione, come oggi accade. Chi lavora nella Giunta per le autorizzazioni sa che costantemente
esiste un flusso comunicativo tra atti dell'autorità giudiziaria, atti del Parlamento, che poi vengono definiti dalla Corte costituzionale (il 90 per cento in difformità rispetto alle decisioni del potere legislativo). Noi siamo molto preoccupati di questo aspetto. Nell'ipotesi in cui la Corte costituzionale dovesse affermare che la magistratura non è più un potere dello Stato, ma esclusivamente un ordine, identico a quello di altri ordinamenti giuridici professionali, siamo molto preoccupati della possibilità di elevare conflitti di attribuzione, da una parte, e delle conseguenze in relazione alla responsabilità disciplinare dei magistrati, che verrebbe qualificata alla stregua della responsabilità degli altri ordinamenti dello Stato, con la criticità connessa con l'affermazione della Corte costituzionale per cui la responsabilità dei magistrati è diversa dalla responsabilità degli altri
ordinamenti dello Stato perché è connessa con una indipendenza della magistratura che potrebbe essere vulnerata.
Fermo restando che condivido tutti i rilievi giuridici sollevati dall'avvocato Caramazza, mi sembra che questi siano i punti più importanti sui quali pregherei l'avvocato di svolgere alcune ulteriori considerazioni.
RITA BERNARDINI. L'avvocato Caramazza, fra i tanti dubbi espressi, ha posto in particolare quello relativo al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale. Trovandoci in una democrazia - e meno male, dico io, anche se la nostra sia una piena democrazia è tutto da dimostrare, e noi radicali non ne siamo convinti - bipolare, la giustizia praticamente sarebbe a geometria variabile (mi pare che lei abbia usato questa espressione).
A parte autorevoli pronunciamenti del passato, come quello di Giovanni Falcone, attualmente sappiamo tutti che l'obbligatorietà dell'azione penale è un principio inattuabile, tant'è vero che è difficile trovare un altro Paese in cui tale principio esiste. La scelta della politica - perché si tratta di politica - viene fatta direttamente dalle procure. Allora, come è possibile, a suo avviso, superare questo scoglio, che non mi sembra secondario in una democrazia? A meno che lei ritenga che sia possibile perseguire tutti i reati.
DONATELLA FERRANTI. Anch'io ringrazio l'avvocato Caramazza per la lucidità, il garbo e al tempo stesso la fermezza con cui ha rappresentato alcune lacune e criticità importanti del disegno di legge del Governo.
Non spetta a me rispondere, ma dico che forse Falcone non ha mai messo in discussione l'obbligatorietà dell'azione penale. Mi pare che, da ultimo, gli sia stata attribuita anche la questione della separazione delle carriere, a cui non si è mai riferito, peraltro.
RITA BERNARDINI. Basta informarsi.
DONATELLA FERRANTI. La cosa è reciproca. L'obbligatorietà dell'azione penale, avvocato Caramazza, è uno dei punti che anche noi mettiamo in discussione relativamente a questo disegno di legge, perché tra l'altro la proposta governativa non fissa alcun criterio, ma rimanda a criteri che saranno determinati dalla legge.
A parte la sua affermazione molto sintetica, ma molto significativa, con la quale lei ha voluto parlare di giustizia a geometria variabile, richiamata peraltro dalla collega Bernardini, vorrei capire se il rinvio alla legge ordinaria previsto nel disegno di legge del Governo non solo per l'obbligatorietà dell'azione penale, ma anche per altri aspetti fondamentali, in realtà è privo di qualsiasi criterio verificabile in sede di Costituzione. Inoltre mi richiamo alla sua professionalità per avere una sua valutazione sul fatto che, guardando altre norme costituzionali, laddove si affermano princìpi che riguardano ad esempio la proprietà e la famiglia, esistono poi princìpi guida che vengono estrinsecati da parte del legislatore costituzionale, mentre qui, sostanzialmente, c'è una delega in bianco.
Le chiedo, altresì, se ha avuto modo di evidenziare che in realtà la prevista Corte di disciplina è fatta solo per la magistratura
ordinaria e se le risulta quali siano gli altri regimi di disciplina per le altre magistrature.
Veniamo alla responsabilità diretta dei magistrati. Lei è già stato audito in Commissione giustizia sulla necessità di riforma della legge ordinaria in materia di responsabilità civile. Il suo fu un apporto molto costruttivo, perché già allora rappresentò la necessità di modifica della legge ordinaria.
Alla luce dei princìpi comunitari, lei ha affermato che da un lato questa norma sembra essere in attuazione di quanto stabilito dalla Corte di Lussemburgo. Per quanto a me è noto, però, la Corte di Lussemburgo non ha mai parlato di responsabilità diretta dei magistrati, ma di responsabilità dello Stato per fatti connessi a violazione anche manifesta del diritto vigente, mentre adesso nel nostro ordinamento i magistrati rispondono per colpa grave e dolo, quindi si tratta di verificare l'adeguamento delle norme.
Le chiedo, però, un ulteriore chiarimento. Mi pare di ricordare che la Corte di Lussemburgo, nella sentenza Traghetti del Mediterraneo, faccia riferimento alle decisioni definitive. Il suo chiarimento potrà essere utile anche per altri fini, considerato che abbiamo incontrato il problema anche con un emendamento presentato in sede di esame della legge comunitaria.
Poiché, invece, qui si dice che ciascun magistrato è direttamente responsabile degli atti compiuti, vorrei un chiarimento su questo, anche rispetto a quello che viene riferito come l'orientamento della Corte di Lussemburgo e ad alcune decisioni che sono state assunte da parte del Consiglio d'Europa in materia di responsabilità civile dei magistrati.
GIANCLAUDIO BRESSA. Sulla questione dell'obbligatorietà dell'azione penale hanno interloquito altri colleghi, dunque non aggiungo nulla.
Vorrei rivolgere una domanda precisa. L'avvocato Caramazza ci ha posto una domanda in modo molto secco: il giudiziario è ancora un potere dello Stato? Inoltre, ha articolato questo suo dubbio con riferimento alla possibilità di sollevare il conflitto di attribuzione, facendo esplicito riferimento al caso Abu Omar.
La sua domanda e le sue perplessità nascono solo in relazione a questa fattispecie o lei ritiene che nel progetto del Governo l'indebolimento del potere giudiziario abbia anche altre caratteristiche?
CINZIA CAPANO. Pongo brevemente alcune questioni, la prima di carattere generale. Lei ritiene, avvocato, che il complesso di questa riforma sia idoneo a intervenire sulla giurisdizione nel senso dell'efficienza del servizio? In altre parole, l'impianto della riforma - o una sua singola norma - è idoneo a riscrivere i tempi e l'efficienza della giustizia?
In secondo luogo, a proposito della responsabilità dei magistrati, non ritiene che la modifica prevista operi su un piano del tutto diverso da quello della cosiddetta sentenza Traghetti? In questo caso, la norma si preoccupa di stabilire una responsabilità diretta, quindi anche la possibilità di un'azione diretta nei confronti del magistrato, mentre nella sentenza Traghetti, come lei ci ha ricordato prima, si richiama quanto segue: «il diritto comunitario osta una legislazione nazionale che escluda la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli». Al diritto comunitario interessa la responsabilità dello Stato, non di un suo specifico organo.
Inoltre, sempre nella sentenza Traghetti si afferma che la violazione deve risultare da un'interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da un organo giurisdizionale evidentemente in violazione della interpretazione delle norme giuridiche del diritto comunitario. Ma nell'ambito del diritto comunitario c'è un rimedio che non esiste nella giurisdizione interna, cioè la possibilità di rimettere in via pregiudiziale la questione in ordine all'interpretazione della norma comunitaria prima di emettere la decisione nel merito.
Si tratta di uno strumento che non esiste nella giurisdizione interna: quando
un giudice decide sulla norma interna, decide in quel momento senza un sussidio precedente alla sua decisione. Nell'ambito del diritto comunitario esiste questa possibilità tanto che la stessa sentenza Traghetti affronta la questione in cui il giudice, pur avendo rimesso la questione alla Corte per ottenere un'interpretazione, l'ha nei fatti disattesa.
PIERLUIGI MANTINI. Anche io mi unisco ai ringraziamenti all'avvocato Caramazza per la relazione. Mi sembra che sia emerso un generale rilievo circa il depotenziamento di alcuni princìpi costituzionali, che vengono qui svolti con rinvio alla legislazione ordinaria. Insomma, mi riferisco a quel fenomeno che da qualcuno è stato definito di decostituzionalizzazione di alcuni princìpi essenziali del nostro ordinamento giudiziario.
La mia domanda, in linea con quelle di altri colleghi, riguarda la norma sulla responsabilità della magistratura. Innanzitutto pregherei l'avvocato Caramazza di interpretare queste mie poche parole alla luce del testo del disegno di legge presentato dal Governo (ci sono anche altre proposte, ma quella mi sembra essere prevalente).
Vorrei inoltre dire una cosa molto precisa. Si è fatta una grande confusione, in relazione all'emendamento richiamato dall'onorevole Ferranti, alla legge comunitaria, in ordine al tema della responsabilità civile. Mi riferisco alla sentenza Traghetti. Sul punto, però, almeno in questa sede dovremmo essere piuttosto chiari.
Non c'è nessuna confusione con il tema della violazione del diritto comunitario da parte di un funzionario italiano, qualunque esso sia, anche il giudice, anche togato, che dal punto di vista del diritto comunitario è un pubblico ufficiale, è un funzionario dello Stato. Se c'è violazione del diritto comunitario con un atto che ha efficacia giuridica, quindi una sentenza di ultimo grado, la violazione, per quella forma di gerarchia delle fonti che si è andata formando negli ultimi decenni, è sanzionata: lo Stato risponde della violazione, che questa avvenga da parte del comune, del sindaco o anche del magistrato. Questo è un principio non nuovo. Sebbene qui l'abbiamo interpretato con grande sorpresa, non c'era nulla da sorprendersi.
Resta il punto del tipo di responsabilità civile della responsabilità del magistrato. Noi escludiamo nettamente che questa responsabilità possa derivare da interpretazione della legge, per i motivi che conosciamo, salvo che per effetto della violazione comunitaria. Non c'è nessun caso di equiparazione tra la violazione del diritto comunitario e la violazione del diritto interno, nel senso che le due fattispecie non sono comparabili: le violazioni del diritto comunitario sono una cosa rispetto ai richiami fatti, la «difettosa» interpretazione del diritto interno viene rimediata con i gradi di giudizio.
Un altro punto riguarda, nel testo del Governo, la confusione in merito alla violazione di diritti derivante da attività dei magistrati, ma senza citare per colpa grave o dolo. Essendo anche primo firmatario di una proposta di legge che tende a rendere più efficiente la legge n. 117 del 1988, vale a dire a migliorare il sistema di responsabilità civile della magistratura, eliminando il filtro, direi che si dovrebbe proseguire su quella strada, ossia quella di una buona legge sulla responsabilità civile della magistratura di rango ordinario, perché non abbiamo bisogno di toccare la Costituzione, e soprattutto abbiamo bisogno di non fare confusione.
Non c'è nessuna violazione di diritti che derivi, come è scritto invece nel testo del Governo, dall'attività giurisdizionale (e se esiste, si rimedia nel processo); solo se dipende da colpa grave e dolo può dar vita a una diversa forma di responsabilità cui partecipa lo Stato, ai sensi del principio generale dell'articolo 28, e il magistrato in via sussidiaria secondo il principio del danno erariale. Almeno su questo punto mi permetto di chiedere un approfondimento.
GIUSEPPE CALDERISI. In merito alla formulazione dell'articolo 101 della Costituzione nel testo del disegno di legge del
Governo: «I giudici costituiscono un ordine autonomo e indipendente da ogni potere e sono soggetti soltanto alla legge» è stato osservato che la stessa potrebbe far sorgere il dubbio che il giudice non possa essere soggetto attivo e passivo di conflitti di attribuzione. Sinceramente questa preoccupazione mi sembra un po' eccessiva, se si considera che addirittura anche il comitato promotore del referendum è stato riconosciuto dalla Corte costituzionale, nel 1978, soggetto abilitato a sollevare conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato. Non mi sembra, dunque, che questa formulazione sia per il giudice sia per l'ufficio del pubblico ministero possa minimamente far sorgere dubbi circa la loro titolarità a essere soggetti attivi e passivi di conflitti di attribuzione. Il richiamo al comitato promotore mi sembra un elemento tale da poter dissolvere dubbi in proposito.
PRESIDENTE. Do la parola all'avvocato Caramazza per la replica.
IGNAZIO FRANCESCO CARAMAZZA, Avvocato generale dello Stato. Rispondo brevemente, riservandomi naturalmente di farvi avere una relazione più completa.
L'onorevole Palomba ha posto la seguente domanda: è possibile rinunciare o no al fatto che il giudiziario sia un potere dello Stato, che è una conquista della Rivoluzione francese e che è venuta sviluppandosi fino ai giorni nostri? Mi permetto di ricordare che da quando i tre poteri indistinti nelle mani del sovrano assoluto acquisirono ciascuno autonomia nacque egemone il potere legislativo. Era l'epoca delle grandi codificazioni. Napoleone disse: «Waterloo sarà dimenticata, ma il mio codice civile vivrà per sempre». Il potere esecutivo era ristretto nell'area di attività, perché praticamente faceva il guardiano dei confini all'esterno e dell'ordine pubblico all'interno, però era fortissimo. Il giudiziario era figlio di un dio minore, quindi nasce debole, tant'è vero che gli era inibito di giudicare la pubblica amministrazione.
Bisogna arrivare in Francia al 1872 e in Italia al 1889 perché ci possano essere i primi timidi sindacati dell'attività dell'esecutivo da parte del giudiziario. Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti e direi che il giudiziario è venuto crescendo, acquistando spazio, tant'è vero che una trentina d'anni fa Mario Nigro definì lo Stato di allora come Stato di giurisdizione, in cui il potere giudiziario stava acquistando poteri di supplenza nei confronti degli altri due.
Naturalmente nella storia dell'umanità nulla è immutabile. Direi che, allo stato attuale, sarebbe considerato come fare un passo indietro non riconoscere al giudiziario il rango di potere dello Stato. Questo, però, non significa che il pubblico ministero possa essere considerato come non appartenente al potere giudiziario. Ciò avviene in moltissimi Stati di avanzata democrazia e non sarebbe uno scandalo se avvenisse anche nel nostro.
Sulla criticità dei conflitti, debbo ripetere quello che ho detto: se si dovesse ritenere che il giudiziario non è potere dello Stato, quindi sono inibiti i conflitti di attribuzione da esso o nei suoi confronti proposti, credo che sarebbe un grosso problema e molte delle attuali situazioni che vengono regolate attraverso questo strumento andrebbero riviste.
Passo alla domanda dell'onorevole Bernardini. Non è che l'obbligatorietà dell'azione penale sia un principio che non può essere rivisto. È giusto quello che dice l'onorevole Bernardini che l'obbligatorietà è un principio astratto perché, data la mole di fascicoli che si accumulano sui tavoli dei pubblici ministeri, essa diventa praticamente una scelta del capo dell'ufficio o del singolo sostituto. Quello che intendevo dire e che confermo è che sarebbe opportuno che l'eliminazione dell'obbligatorietà dell'azione penale venisse accompagnata da una garanzia di riserva di legge rinforzata, vale a dire con indicazione da parte del costituente di criteri precisi. Diversamente, nell'attuale formula, il legislatore ordinario potrebbe per esempio limitare l'obbligatorietà dell'azione penale ai reati punibili con una pena nel minimo di dieci anni oppure limitarla a tutti i delitti ed escluderla per le
contravvenzioni
oppure, se diventasse matto, potrebbe dire che l'azione penale è obbligatoria per tutti i reati previsti da articoli del codice che cominciano con il numero 3. Ci sarebbe quindi una libertà del legislatore ordinario che non mi sembrerebbe opportuna.
L'onorevole Ferranti chiede quali siano i giudici della responsabilità disciplinare delle magistrature diversa dalla ordinaria. Sono gli organi di autogoverno che esercitano il potere disciplinare, così come avviene adesso per il Consiglio superiore della magistratura. Ovviamente, nel testo del disegno di legge del Governo non ci sono previsioni in proposito.
Un'altra domanda riguarda la responsabilità diretta di cui non si parla nella sentenza della Corte dell'Unione europea e il riferimento alle decisioni definitive delle autorità giudiziarie italiane. Mi pare che si debba fugare un equivoco. La Corte di giustizia dell'Unione europea non giudica individui, giudica Stati. Pertanto, quando afferma che non rispetta le regole comunitarie uno Stato che secondo le sue regole di giurisdizione non è stato dichiarato responsabile per l'errore di un magistrato - in quanto la legge interna dello Stato italiano limita quell'errore ai casi di dolo o colpa grave, non prevede che si possano sindacare valutazioni di prove, non prevede che si possano sindacare valutazioni di norme giuridiche - fa sì che lo Stato nel giudizio davanti alle autorità italiane sia stato assolto dal giudizio di responsabilità promosso dalla vittima di un errore giudiziario e questo osta alle regole comunitarie che,
ovviamente, si applicano nei confronti dello Stato, non del singolo.
Che cosa significa decisioni definitive? Mentre il giudice italiano non di ultimo grado può, ma non deve, rimettere alla Corte di giustizia quelle norme italiane che non ritenga conformi al diritto comunitario, il giudice di ultimo grado deve rimetterle. Allora, la Corte giudica, nella sua ottica, lo Stato italiano e giudica in relazione alla sentenza di ultimo grado perché quel giudice è l'unico che deve rimettere alla Corte di giustizia.
Mi chiede l'onorevole Bressa se oltre all'indebolimento del potere giudiziario io ravvisi altre caratteristiche contrarie a norme della Costituzione. Non mi pare.
GIANCLAUDIO BRESSA. Avvocato, non era questa la domanda.
Chiedo se, oltre alla questione del conflitto di attribuzione, lei rilevi nella proposta altri elementi che possano portare a un indebolimento del potere giudiziario. Oltre alla questione che lei ha sollevato - il potere giudiziario è indebolito dalla negazione della possibilità di sollevare conflitti di attribuzione - ci sono altre norme, all'interno della proposta di legge, che a suo avviso tendono ad affievolire il potere giudiziario come tale?
IGNAZIO FRANCESCO CARAMAZZA, Avvocato generale dello Stato. Quella sulla responsabilità dei giudici, ovviamente, della quale parlerò tra poco.
Mi domanda l'onorevole Capano se questo complesso di norme è idoneo a interferire sull'efficienza della magistratura. Onestamente non lo so, non sono in grado di rispondere.
Ancora l'onorevole Capano ha citato la sentenza Traghetti che parla di responsabilità dello Stato e non del magistrato, ma su questo credo di avere risposto, come anche sullo strumento della pregiudiziale.
Sulla responsabilità dello Stato, mentre nella normativa si parla di una responsabilità dello Stato conseguente a una responsabilità del giudice, l'articolo 28 della Costituzione parla di una responsabilità diretta del pubblico funzionario. Direi che questo ai fini della regolamentazione ha un'influenza relativa. Quello che rileva è il criterio di individuazione della responsabilità del magistrato che poi si riflette sullo Stato.
Come ricordava l'onorevole Calderisi, una volta erano previsti il dolo e la colpa grave, mentre l'attuale testo non prevede questa limitazione. Al riguardo, mi pare di aver già riferito la mia opinione.
Sulla responsabilità vorrei aggiungere alcune considerazioni. Mi pare che siano stati dimenticati gli interessi legittimi, che
non erano previsti al tempo dell'articolo 28 della Costituzione, ma perché all'epoca esisteva una convinzione pietrificata che la lesione di interesse legittimo non fosse mai causa di danno risarcibile. Oggi, come vi è noto, il principio è stato capovolto, quindi nel momento in cui si parla di lesioni di diritti bisognerebbe parlare anche di lesione di interessi legittimi.
PIERLUIGI MANTINI. Risarcimento dal soccombente, non dal giudice.
IGNAZIO FRANCESCO CARAMAZZA, Avvocato generale dello Stato. Se vengono lesi degli interessi legittimi a opera di una sentenza e quella sentenza è affetta da vizi gravissimi (errore di diritto inescusabile, dolo o colpa grave) non sarà responsabile quel giudice e lo Stato per il danno recato dalla lesione degli interessi legittimi del ricorrente?
Inoltre, nel momento in cui si mette mano alla legge del 1988 sulla responsabilità dei magistrati, va considerato un altro profilo. C'è una norma da salvare, che in quella legge è in deroga ai princìpi generali del nostro ordinamento; un articolo, reca che quando l'errore giudiziario è stato causato da un reato del giudice lo Stato risponde. Ciò va in deroga al principio generale che il dolo del pubblico funzionario rompe il nesso di immedesimazione organica, quindi non comporta responsabilità dello Stato. Si pensi al famoso caso della Uno bianca, dei poliziotti che si erano trasformati in rapinatori, che oltre alle rapine causarono numerosi morti. In quel caso, la Corte d'appello aveva detto che rispondeva lo Stato, ma la Corte di cassazione rettificò il tiro dicendo che i poliziotti che si trasformano in delinquenti in quel momento rompono il nesso di immedesimazione organica con lo Stato, quindi non risponde
quest'ultimo. Ebbene, se l'errore è del magistrato, ai sensi della legge del 1988, anche se c'è dolo del magistrato lo Stato risponde. Quella norma, a mio avviso, andrebbe mantenuta.
PRESIDENTE. Ringrazio l'avvocato Caramazza per quello che siamo riusciti a chiarire, sebbene in un lasso di tempo breve e dichiaro conclusa l'audizione.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva in relazione al disegno di legge C. 4275 Cost. Governo, recante «Riforma del Titolo IV della parte II della Costituzione» e delle abbinate proposte di legge C. 199 Cost. Cirielli, C. 250 Cost. Bernardini, C. 1039 Cost. Villecco Calipari, C. 1407 Cost. Nucara, C. 1745 Cost. Pecorella, C. 2053 Cost. Calderisi, C. 2088 Cost. Mantini, C. 2161 Cost. Vitali, C. 3122 Cost. Santelli, C. 3278 Cost. Versace e C. 3829 Cost. Contento, l'audizione di rappresentanti dell'Associazione nazionale giudici di pace (ANGDP), dell'Unione nazionale giudici di pace (UNAGIPA) e della Federazione nazionale magistrati onorari di tribunale (FEDERMOT).
Comunico che tutte le associazioni presenti hanno trasmesso alla presidenza un documento che è in distribuzione.
Do la parola ai nostri ospiti, ad iniziare da Vincenzo Crasto, presidente dell'Associazione nazionale giudici di pace (ANGDP).
VINCENZO CRASTO, Presidente dell'Associazione nazionale giudici di pace (ANGDP). Ringraziamo le Commissioni per l'invito rivolto. Ringrazio sinceramente lei, presidente Bruno, la presidente Bongiorno e gli onorevoli presenti.
Credo che la questione della magistratura di pace sia ben nota ai componenti delle Commissioni e, quindi, vorrei contenere il mio intervento in alcune brevi puntualizzazioni, rese necessarie dall'oggetto dell'audizione, vale a dire la riforma costituzionale.
Il giudice di pace è attualmente previsto in Costituzione, nello specifico all'articolo
116. In questa sede abbiamo evidenziato una lacuna della riforma che riguarda la previsione di una partecipazione al CSM da parte della magistratura di pace.
Noi non abbiamo mai ipotizzato un CSM separato. Nessuno di noi, nessuna associazione rappresentativa ha mai neppure pensato a un CSM separato, però una possibilità di elettorato attivo e passivo, una forma di presenza all'interno del Consiglio superiore della magistratura deve, a nostro avviso, essere prevista anche in Costituzione.
Nel mio intervento indicavo come vi siano alcune violazioni della Costituzione per quanto riguarda proprio la disciplina della magistratura di pace, a cui si deve porre rimedio. Innanzitutto noi rivendichiamo la nostra autonomia e indipendenza e, in tale ambito, evidenziamo come a un massimo di stabilità, in quanto siamo previsti dall'articolo 116 della Costituzione per quanto riguarda l'istituzione della magistratura di pace, fa da contraltare, però, un massimo di precarietà: attualmente, con le proroghe governative, siamo arrivati a una proroga addirittura trimestrale.
Ciò lede gravemente, a nostro avviso, l'autonomia e l'indipendenza della stessa magistratura. Se è vero, come è vero, che la maggior parte di noi ritiene che il magistrato del pubblico ministero non debba essere sottoposto all'esecutivo, a maggior ragione un magistrato giudicante, quale il giudice di pace, che è un magistrato di primo grado appartenente all'ordine giudiziario, a nostro avviso non dovrebbe essere sottoposto alla verifica meramente governativa.
Noi richiediamo il superamento della proroga semestrale governativa e un provvedimento sulla continuità, che non significa stabilità, come è stato per altri magistrati onorari, quali i giudici onorari minorili e i giudici tributari, ma semplicemente un rinnovo del mandato quadriennale, previa verifica quadriennale della laboriosità in base a una griglia con criteri predefiniti di laboriosità, produttività, tempestività nel deposito delle sentenze e altri criteri predeterminati in base ai quali il magistrato di pace potrà essere confermato nelle funzioni oppure, laddove il CSM ritenesse di non doverlo confermare, non verrebbe riconfermato.
Mi sembra una proposta seria da parte nostra, che prevede un profilo eminentemente meritocratico, forse l'unico nel nostro Paese o comunque raramente riscontrabile in altre categorie. Si eviterebbe che i magistrati che in realtà sono ancora residuali e che non sono in grado di svolgere il loro lavoro - saranno pochissimi, ma vi possono essere - vengano sottratti al vaglio del CSM. La proroga governativa comporterebbe, infatti, il mancato vaglio proprio del magistrato di pace.
Noi avanziamo quindi una proposta seria: chiediamo di essere valutati e non di essere meramente riconfermati.
Un ulteriore aspetto di violazione dei diritti costituzionali - mi dispiace rilevarlo - per la nostra categoria riguarda poi addirittura la mancata previsione, forse caso unico in Italia per dei lavoratori, di una copertura previdenziale e assistenziale.
Noi non godiamo di previdenza. Chi, come me e come altri colleghi, esercita funzioni da quindici o vent'anni non ha maturato neppure un giorno di previdenza. Ciò probabilmente più che a noi non fa bene al Paese e, con l'aumento delle nostre competenze, ha ovviamente determinato anche l'impossibilità materiale di esercitare altre funzioni.
La maggior parte di noi esercita ormai quasi esclusivamente funzioni giurisdizionali, avendo abbandonato il proprio studio. Noi abbiamo competenze civili, penali e di immigrazione ed è normale che di fatto tali competenze ci impediscano l'esercizio dell'attività forense, il che si riverbera proprio sulla previdenza, perché anche i pochissimi che esercitano l'attività forense, non realizzando i minimi reddituali, non godono di una pensione.
Si è creato un sistema che funziona, perché quello del giudice di pace è un esperimento riuscito. Si tratta di un magistrato che definisce in media un giudizio in un anno, secondo dati del Ministero
della giustizia. A questo proposito, approfitto per ringraziare il Ministro Alfano della sua presenza.
Richiamiamo dunque gli aspetti positivi, che sono la definizione di un giudizio in un anno, quindi nel rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata del giudizio, e costi molto inferiori a quelli che normalmente occorrono.
Inoltre, vorrei sottolineare che la nostra non è una giustizia residuale, perché sul magistrato di pace grava oltre il 50 per cento del contenzioso in materia civile.
Noi ci rendiamo disponibili in una futura riforma del sistema della giustizia anche a ulteriori competenze, ove il ministero e il Governo ritengano che possiamo essere ulteriormente utili al Paese. Noi non poniamo limiti. Abbiamo anche presentato al Governo e al Parlamento una riforma in cui prevediamo aumenti per blocchi di materie, in modo da attribuire materie specifiche alla magistratura di pace da sgravare di oneri i tribunali che, come sappiamo, hanno problemi in ordine alla lunghezza del processo, evitando all'Italia un gravissimo rischio, ossia quello della legge Pinto.
La Commissione tecnica per la finanza pubblica presso il Ministero dell'economia e delle finanze ha stabilito, infatti, che negli anni futuri con questo trend l'Italia rischia di pagare 500 milioni di euro per gli effetti della legge Pinto.
Mi permetto di suggerire anche al Ministro che, invece di ipotizzare soluzioni tampone o emergenziali, la soluzione della magistratura di pace può essere una soluzione strutturale. È un sistema che ha funzionato in questi sedici anni di attività e si tratta quindi di una soluzione che potrebbe veramente rappresentare il primo passo per la risoluzione dei problemi della giustizia.
Un ulteriore punto che vorrei affrontare riguarda in particolare la condizione della donna.
La donna non gode, nel momento in cui deve partorire, di alcuna tutela e rischia addirittura di perdere l'esercizio delle sue funzioni.
Questo, ancora una volta, non è un sistema degno. Lo stesso CSM nel 2006 ha affermato che questo è un serio vulnus al principio costituzionale di tutela della salute e della maternità. Si parla tanto di tutela della maternità e anche questa è un'occasione per affermare tale tutela.
Riguardo all'elettività, che è l'ultimo punto che volevo trattare, l'articolo 106 della Costituzione, come novellato dal testo del disegno di legge del Governo, amplia le possibilità di reclutamento elettivo.
Dal momento che l'articolo 106 della Costituzione riguarda la magistratura onoraria, noi sottolineiamo ancora una volta il rischio di compromettere in questo modo l'autonomia e l'indipendenza della magistratura. Se non si è mai proceduto all'elezione dei magistrati, ciò è forse perché il nostro Paese è diverso, per esempio, dagli Stati Uniti o dai Paesi anglosassoni, e vi si è sempre avvertito il rischio di compromissione dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura.
Vi ringrazio per l'ascolto. Grazie presidente, deputati e signor Ministro.
GABRIELE LONGO, Presidente dell'Unione nazionale giudici di pace (UNAGIPA). Anch'io ringrazio il presidente Bongiorno e il presidente Bruno, nonché il Ministro per la sua presenza, per questa occasione, che si aggiunge a una lunga serie di contatti con le forze politiche e con le forze governative.
La relazione del collega dell'Associazione nazionale giudici di pace mi consente di non dover ripetere considerazioni comuni sugli obiettivi fondamentali e irrinunciabili dei giudici di pace. Mi vorrei soffermare semplicemente, data anche la natura dell'audizione, riferita in particolare al disegno di legge governativo sui profili costituzionali della giustizia, sull'articolo 106 della Costituzione.
Tale articolo rappresenta il punto di riferimento costituzionale per giustificare la presenza di una giustizia di pace, intervenuta con la legge n. 374 del 1991. Poiché anche il disegno di legge governativo tocca questo aspetto, anche se in
modo marginale e insufficiente, vorrei muovere alcune osservazioni, perché in passato la vigente formulazione di questo articolo è stata, secondo me, di ostacolo alla riforma o ha comunque posto alcuni problemi.
Il secondo comma tratta la legge sull'ordinamento giudiziario. La nostra legge, quella che riguarda il giudice di pace, non ha previsto la nascita del giudice di pace nell'ambito della legge sull'ordinamento giudiziario, ragion per cui mi sembra che potrebbe essere opportuno eliminare questo riferimento.
La questione più importante è quella sulla quale abbiamo dibattuto tante volte e che ancora una volta vorrei riproporre, ossia il problema dell'onorarietà.
Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso e la legge eccezionalmente può ammettere anche la nomina - un altro tema che poi tratterò - di magistrati onorari. Giustamente, e lo condividiamo, il disegno di legge del Governo elimina l'ultima limitazione, relativa a tutte le funzioni attribuite ai singoli, concedendo una maggiore possibilità di operatività in materia.
Al riguardo, nella realtà legislativa, oltre che fattuale, il giudice di pace non è un giudice onorario. Se guardiamo le definizioni e l'esperienza del diritto amministrativo sulla figura del funzionario onorario, ossia la figura generale che è stata studiata dal diritto romano in poi, vediamo che il funzionario onorario è in genere un professionista che ha una sua autonomia economica e che viene utilizzato dallo Stato in modo parziale e limitato nella sua attività a favore dello Stato stesso.
Questa è la concezione: è una persona autonoma che ha una sua professionalità, che viene chiamata in una Commissione urbanistica o edilizia e che vi esplica, in quanto architetto o ingegnere, la sua attività. Questa è la figura che noi conosciamo dell'onorarietà.
Posta a confronto come filtro e contrapposizione alla realtà del giudice di pace, tale qualifica è indubbiamente inadeguata. Si tratta di un fatto fondamentale, perché nel 2001 è stata costituita dal Ministro Fassino ed è stata poi confermata dal Ministro Castelli la Commissione per la riforma della magistratura onoraria, vale a dire dei giudici di pace e di altre figure.
Da tale occasione sono passati dieci anni e non è un caso che la riforma non sia stata compiuta. Non si è compiuta per via di alcuni problemi insoluti anche da un punto di vista teorico. La questione che spesso ritornava nella Commissione di cui ho avuto l'onore di fare parte - ho stilato una relazione di minoranza, purtroppo, senza riuscire a coagulare una maggioranza dei consensi di tale Commissione - è stata incentrata su questa concezione dell'onorarietà, sul ritornare al discorso per cui onorarietà equivale a temporaneità.
Di fronte a una delle esigenze di cui parlava il collega, cioè a quella di far fronte a una funzione permanente del giudice di pace che il legislatore ci ha attribuito - non è una pretesa della categoria - noi non possiamo pensare a una limitazione di rinnovi e a una temporaneità, che veniva giustificata dal riferimento del secondo comma dell'articolo 106 della Costituzione all'onorarietà.
Secondo noi sarebbe meglio modificare il secondo comma dell'articolo 106 - è una proposta che possiamo mettere per iscritto - stabilendo che la legge determina i criteri di selezione, di nomina e di status dei giudici di pace e, quindi, costituzionalizzarla, nel senso di dare alla legge la possibilità per cui, mentre da una parte c'è un accesso per concorso per determinate attività giudiziarie, perché la funzione giudiziaria è unica per tutti i cittadini, e per alcune materie e per alcune fasi il primo grado di giudizio viene attribuito al giudice di pace, per altre materie e per altri valori essa viene attribuita al tribunale.
Questa è la conclusione. Non esiste più una qualifica del giudice di pace come giudice di prossimità, come giudice della conciliazione, come giudice dei procedimenti di equità. Sono tutte definizioni del
passato superate dal legislatore, il quale ha attribuito alcune attività di giurisdizione ordinaria.
Il riferimento costituzionale, effettuato ovviamente quando è stata redatta la Costituzione, che non poteva immaginare tali esigenze, cioè quelle della giustizia minore, che poi il legislatore del 1991 ha risolto con la legge n. 374, trova un ostacolo a questa definizione, salvo poi sostenere che quello di onorarietà è un concetto improprio. Queste forzature, francamente, rappresentano un ostacolo.
La proposta che avanzerei è quella, fermo restando ciò che il Governo ha proposto, di essere molto chiari su un punto: prevedere la possibilità di giudici onorari, ma dare una specificità proprio al legislatore, ossia una riserva legislativa, per la selezione, la nomina e lo status dei giudici di pace, senza ulteriori limitazioni e senza comprendere i giudici di pace in tale categoria, che poi categoria non è, come ci mostra la dottrina, sia nel nostro ordinamento, sia nell'ordinamento comparato.
La figura del giudice di pace italiano non ha nulla a che vedere, infatti, con quella del giudice di pace inglese, quello del Paese in cui tale istituto da ben 650 anni è stato sperimentato e ha avuto una grande diffusione. Sono 30.000 i giudici di pace che esplicano la loro attività in Inghilterra, ma sono tutt'altra questione rispetto alla nostra, che, lo ribadisco, si configura come un attività giurisdizionale di primo grado tout court in materie che mi sembrano piuttosto importanti, senza citare numeri o percentuali.
La conseguenza non può essere che quella di un'attenzione a una riforma, come affermava il collega, che tenga conto dei punti fondamentali. Vorrei ribadire anch'io che si tratta di assicurare al cittadino e non ai giudici di pace, che sono servitori dello Stato, un giudice professionale e motivato, che, essendo chiamato a un'attività permanente, possa avere un sistema non di ostacoli alla continuità, ma di possibile rinnovabilità.
Lo stesso vale per il discorso della previdenza e, infine, per quello importantissimo delle garanzie di autonomia e indipendenza. Per tutti i giudici del nostro ordinamento giustamente, ai diversi livelli - occorre sottolinearlo - la discriminante tra il pubblico dipendente e il giudice è la garanzia di autonomia.
Nel pubblico impiego, invece, esiste il principio della gerarchia e della direzione. Il pubblico dipendente giudice ha un ordinamento imperniato proprio sulle garanzie di indipendenza e di autonomia.
Queste condizioni, al di là della eventuale presenza dei giudici di pace nel Consiglio superiore della magistratura e nei Consigli giudiziari, nei quali già operiamo, sono fondamentali e vanno assicurate in diversi momenti, tra cui il procedimento disciplinare e i giudizi di conferma. Speriamo che l'attuale legislazione, una legislazione in itinere che si è formata attraverso diversi contributi, come ci ha assicurato il Ministro e come anche tutte le forze politiche si sono impegnate ad assicurare, possa entro quest'anno avere una conclusione che faccia chiarezza. Ribadisco, in ogni caso, la nostra esigenza di un chiarimento interpretativo e di una modifica del secondo comma dell'articolo 106 della Costituzione.
PAOLO VALERIO, Presidente della Federazione nazionale magistrati onorari di tribunale (FEDERMOT). Presidente, ringrazio lei e l'onorevole presidente Bongiorno, nonché l'onorevole Ministro per la sua presenza, e gli onorevoli deputati per l'opportunità che ci è stata offerta di contribuire all'indagine conoscitiva in atto sulle proposte di riforma del Titolo IV della Costituzione. Lo facciamo nella consapevolezza che nulla è per sempre e che, benché possa suonare come un'affermazione forte, non lo è neppure la nostra Costituzione, che, ormai ultra sessantenne, reca peraltro princìpi sempre attuali, che costituiscono un faro per noi magistrati, onorari e non, che ogni giorno traiamo da essa il senso profondo della nostra missione e dello Stato di cui siamo leali servitori.
Tuttavia, l'inquadramento costituzionale e ordinamentale della magistratura
onoraria è un significativo esempio di come la nostra legge fondamentale possa talvolta, non sempre, anzi invero raramente, essere obsoleta o disancorata da quella realtà, che ha avuto una propria evoluzione negli anni che ci separano dalla data della sua promulgazione.
L'attuale articolo 106, comma secondo, della Costituzione vigente, per lo meno per come esso è interpretato nella giurisprudenza della Corte costituzionale, ma anche nelle magistrature superiori e nella Corte di cassazione in primis, descrive infatti una magistratura onoraria che nel mondo reale non è più esistente da tempo.
Negli ultimi due decenni, sotto la spinta del crescente arretrato giudiziario, si è assistito alla progressiva devoluzione al magistrato onorario di sempre più consistenti porzioni di giurisdizione. Prescindendo dall'aspetto qualitativo, parliamo ormai sotto il profilo della quantità di oltre il 50 per cento dei procedimenti definiti, il che prescinde evidentemente da un discorso sulla qualità. Nonostante la comune tendenza ad assumere una funzione deflattiva rispetto all'arretrato giudiziario, le singole magistrature onorarie, segnatamente giudice di pace, giudice onorario di tribunale e viceprocuratore onorario, restano disciplinate da normative distinte, risalenti a epoche differenti, spesso ispirate a finalità e modelli organizzativi non più attuali, cui persistentemente si cerca di dare un'interpretazione adeguatrice.
Pertanto, in attesa di una riforma organica che lo stesso legislatore ordinario sollecita a se stesso nel decreto legislativo n. 51 del 1998, allorché va prefigurandola come prossima e imminente, fissando un termine per il riordino della magistratura onoraria più volte prorogato, l'interprete è chiamato a confrontarsi con una normativa piuttosto lacunosa e frammentaria. Il magistrato onorario compare, in effetti, nell'ordinamento italiano quale retaggio di quegli ordinamenti monarchici secenteschi, nei quali il sovrano assoluto, avvalendosi di dignitari di corte da gratificare, usava delegare a costoro specifiche funzioni amministrative o, nel caso che ci riguarda, giudiziarie in deroga a quegli ordinari criteri di attribuzione e di riparto delle competenze giurisdizionali che rappresentano una delle più grandi conquiste di un moderno Stato di diritto.
Tali elementi caratterizzavano il rapporto tra sovrano e magistrato onorario quale legame di natura strettamente fiduciaria. Vi era quindi una diretta interferenza della Corona sull'attività del magistrato onorario, poiché tale rapporto si definiva non in base a un sinallagma connotato da rispettivi obblighi economici e da una precisa disciplina giuridica, ma in base all'assoluta discrezionalità della nomina del soggetto incaricato e della sua eventuale revoca. La risoluzione del rapporto onorario, pertanto, non presupponeva necessariamente l'accertamento di specifiche violazioni; era sufficiente l'affievolimento del legame fiduciario con la Corona.
Nella prima metà del secolo XX, con il rafforzamento dello Stato apparato, le funzioni giudiziarie sono definitivamente devolute a magistrati stabilmente impiegati alle dipendenze dell'amministrazione statale, ma di fatto la figura del magistrato onorario permane nell'ordinamento giudiziario.
Il Guardasigilli Grandi, nella relazione all'ordinamento giudiziario del 1941, si premura quasi di giustificarsi affermando: «Ho meglio specificato da quali persone sia composto l'ordine giudiziario, chiarendo a chi esclusivamente spetti la qualifica di magistrato, e ho riservato questo titolo a coloro che dedicano tutte le loro attività all'amministrazione della giustizia, il che non esclude naturalmente la qualità dei magistrati onorari e delle altre benemerite persone rivestite di giurisdizione durante il periodo di esercizio effettivo di essa.» Appare evidente che si tratta di una formula di compromesso, che viene poi rieditata dal legislatore costituente, allorché all'articolo 106, comma secondo della Costituzione, nuovamente si prevede l'esistenza del magistrato onorario, senza meglio chiarire, però, come la sua presenza si inquadri nell'impianto complessivo del Titolo IV, al quale oggi il Parlamento, nella
riassunta veste di legislatore costituente, intende nuovamente porre mano, sollecitato dal Governo e da altri presentatori di analoghe proposte di riforma del Titolo IV.
Può essere opportuno mettere in debita evidenza questa criticità che non fu risolta né dal Guardasigilli Grandi, come attesta la sopracitata relazione al Re d'Italia, né dai padri costituenti affinché l'odierno legislatore costituente presti attenzione a tale vulnus presente nella nostra Costituzione, perlomeno nell'interpretazione di essa affermatasi nella prassi giurisprudenziale. Esso apre, infatti, la strada all'affermazione, a nostro avviso erronea, che tutte le guarentigie e i diritti previsti per la magistratura tout court non si applichino al magistrato onorario.
Si tratta di un'interpretazione assai insidiosa, presidente, perché spiana la strada, ove il legislatore ordinario volesse addentrarsi in più ardite ipotesi di leggi ordinarie e di disciplina dell'ordinamento giudiziario, a una indifferenziata devoluzione alla magistratura onoraria, non assistita da debite guarentigie, di un consistente novero di funzioni e materie oggi devolute alla magistratura di ruolo.
Tale pericolo, già attuale diviene vieppiù concreto nel momento in cui, nella prospettata riforma presentata dal Governo, si vanno a elidere le parole di cui all'articolo 106, comma secondo, della Costituzione «per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli». L'attuale formulazione, letta per intero, prevede, infatti, che possano essere nominati i magistrati onorari anche elettivamente, ma solo per funzioni che però siano quelle attribuite a giudici singoli.
Ebbene, la vigente formulazione non risulta coerente con l'istituzione del magistrato onorario requirente, surrettiziamente introdotto dal legislatore ordinario, sebbene la Costituzione non lo prevedesse, mentre il criterio delle funzioni monocratiche, individuato per limitare la nomina di magistrati onorari non può essere ritenuto ancora attuale. Per esempio, della proposta del Governo la FEDERMOT condivide il conseguente principio, ossia che un magistrato onorario possa essere addetto a comporre collegi di tribunale, perché tale opportunità può determinare un'osmosi tra magistrati di ruolo e onorari nel medesimo collegio, purché tale opportunità non divenga il modo per consentire un domani l'istituzione con legge ordinaria di collegi composti interamente da magistrati onorari che decidano eventualmente proprio nelle materie più complesse. Tale problematica non deve peraltro essere confusa con quella della composizione dei
collegi di corte d'assise, ove la presenza dei giudici popolari, non assimilabili ai giudici onorari, chiama in causa il diverso istituto della partecipazione popolare all'amministrazione della giustizia attraverso soggetti sorteggiati all'interno del corpo elettorale.
Sull'esercizio delle funzioni collegiali da parte di giudici onorari, occorrerebbero alcune specificazioni, da inserire nella riforma costituzionale che possono essere sintetizzate come segue. Innanzitutto occorrerebbe prevedere che sia valutata positivamente la possibilità di eliminare il riferimento alle sole funzioni attribuite a giudici singoli, purché la presenza di magistrati onorari nei collegi giudicanti sia finalizzata a favorire l'osmosi con la magistratura di ruolo e non a sostituire interamente i magistrati di ruolo nei collegi con magistrati onorari. Anzi, forse sarebbe opportuno presidiare con norma costituzionale il principio secondo il quale i presidenti dei collegi giudicanti, specialmente penali, devono essere magistrati di ruolo, così come la maggioranza dei componenti togati dei collegi.
Un'altra questione su cui richiamiamo l'attenzione della Costituzione è il fatto, già segnalato dai precedenti interventi, che la magistratura onoraria non dispone di propri meccanismi di designazione dei rappresentanti presso gli organi di autogoverno. La magistratura onoraria è oggi, pertanto, un corpo giudiziario eterogovernato.
Anche questa situazione sembra non più al passo con i tempi, dal momento che oggi i magistrati onorari definiscono oltre metà del contenzioso civile e penale. Essi sono solo 5.889 in tutto tra giudici di pace, giudici onorari presso i tribunali ordinari e vice procuratori onorari, a fronte di
8.873 magistrati ordinari di ruolo, ma realizzano una percentuale di definizione dei procedimenti molto elevata, pur impegnando soltanto un decimo delle risorse finanziarie destinate ai magistrati di ruolo per le retribuzioni.
Infine, la Costituzione dovrebbe, a nostro avviso, contenere espressamente una clausola di salvaguardia che ingiunga al legislatore ordinario di garantire l'indipendenza dei magistrati onorari in quanto appartenenti all'unica magistratura ordinaria, contemplata in quel Titolo IV che il Parlamento si appresta eventualmente a modificare. In particolare occorrerebbe esplicitare l'obbligo della Repubblica, invero già desumibile dal disapplicato articolo 3 della Costituzione, di estendere ai magistrati onorari diritti e doveri previsti per i magistrati di ruolo a fronte dello svolgimento di eguali funzioni. Tra tali diritti dovrebbero essere espressamente contemplati quelli riferibili al magistrato onorario quale lavoratore. Il riferimento è evidentemente agli articoli 36 e seguenti della Costituzione.
Concludo, presidente, affermando che l'accesso alla magistratura onoraria non può, a nostro avviso, che essere regolato per concorso, ove non si preveda un accesso tramite meccanismi di nomina elettiva. Tale concorso non potrà non tenere conto di profili curriculari diversi da quelli previsti per il magistrato di ruolo e potrà contemplare, per esempio, un esame per titoli comparativi, come già avviene, o un corso-concorso che accerti qualità professionali del candidato, come già avviene per i giudici di pace.
Riguardo all'accesso per nomina elettiva esprimiamo perplessità non per un pregiudizio precostituito, ma in quanto ipotesi che attinge più a esperienze anglosassoni che non alla storia del nostro ordinamento di stampo continentale. I padri costituenti vollero prevedere anche tale possibilità, ma la storia recente ci insegna che nel nostro modello continentale un magistrato elettivo potrebbe essere espressione della partitocrazia anziché della comunità nazionale. Grazie.
PRESIDENTE. Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
GUIDO MELIS. Ho ascoltato con molto interesse, perché si tratta di tre audizioni che, pur nella loro diversità e nella loro peculiarità, perseguono un filo comune, il che è già interessante dal punto di vista generale, anche pensando al passato della vostra vita associativa proteiforme e alle diversificazioni interne al settore.
Mi sembra che emergano, e vi chiedo su questo punto un riscontro, da una parte una presa d'atto della realtà, cioè del fatto che la magistratura onoraria ormai non è più un dato nel sistema italiano né provvisorio, né surrettizio, né temporaneo, ma stabile e, dall'altra, che bisogna cominciare a ragionare tenendo conto di una trasformazione che deve prevedere anche la consapevolezza di tale dato.
Inoltre, mi sembra interessante che tutti abbiate sostanzialmente mosso una richiesta di garanzie - reiterabilità, prosecuzione e indipendenza della funzione - e che avete accompagnato tale richiesta di garanzie a una disponibilità dichiarata ad accettare regole più tassative e severe, sia nel campo della selezione, e della formulazione dei concorsi, sia in quello della verifica del prodotto giurisprudenziale e, in generale, dell'attività che svolgete.
Da queste audizioni si configura una domanda. Vorrei chiedere, lo chiedo al dottor Longo a nome di tutti, se, a vostro avviso, il progetto del Governo contiene questa tematica, risponde a questa tematica tanto importante per il sistema giudiziario italiano in questo momento, in quali punti non lo fa e se, a vostro avviso, andrebbe emendato profondamente.
Chiederei su questo tema uno sforzo di precisazione ancora più puntuale di quello che già avete cominciato a compiere.
PIERLUIGI MANTINI. Nell'ultima risposta dell'avvocato generale dello Stato Caramazza ho colto finalmente l'idea, espressa con la dovuta cautela, che non occorra modificare la Costituzione per pervenire a un miglior sistema di responsabilità civile.
Dalle audizioni svolte ora colgo la stessa impressione. I problemi esposti - trascuro per ragioni di economia quelli che definirò più strettamente sindacali, ma non in tono dispregiativo, perché sono problemi ben noti e consistenti - sotto il profilo del riflesso costituzionale a me pare che non trovino proprio risposta nella proposta di modifica dell'articolo 106 della Costituzione. Mi riferisco alla proposta avanzata dal Governo.
Noi abbiamo due figure di magistrati onorari, una ormai diventata stabile, un giudice basic della giurisdizione e un'altra che è esattamente la funzione onoraria integrativa di funzioni specifiche, non tanto forse nelle Commissioni edilizie, dove non si compie giurisdizione, quanto nei tribunali dei minorenni, nelle sezioni tributarie e in altri settori.
La Costituzione, nella sua saggezza, prevedeva solo questa seconda figura, quella del magistrato occasionalmente magistrato, una funzione integrativa di altre specifiche funzioni attribuite ai giudici. Non a caso, tale giudice poteva essere scelto per nomina o anche in via elettiva, cioè con una procedura derogatoria rispetto al principio costituzionale del concorso, che garantisce, di conseguenza, autonomia e indipendenza.
Il Governo propone di eliminare proprio questa parte, cioè quella dell'integrazione di specifiche funzioni attribuite ai giudici. Non mi pare una grande soluzione, perché noi abbiamo bisogno di queste risorse, che nascono da un'accentuata professionalità e che, in via occasionale, diventano magistrati «di complemento» usati ad hoc per l'integrazione.
Nel frattempo è nata un'altra figura, che si è stabilizzata, quella del giudice di pace e anche del vice procuratore onorario (VPO), che sono giudici a tutti gli effetti. Non dobbiamo cambiare alcuna Costituzione. Dobbiamo solo integrare nell'ordinamento giudiziario, naturalmente tenendo conto delle risicate casse pubbliche - per carità, nessuno pretende e credo neppure i nostri amici magistrati di fare tutto e subito - il ruolo di ormai magistrato a tutti gli effetti, senza toccare la Costituzione, perché non è un problema di Costituzione, e lasciando la figura del magistrato onorario integrativo su singole specifiche funzioni di giudice, esattamente come dispone l'articolo 106 della Costituzione.
Dovremo quindi attuare questa benedetta riforma in via ordinaria; la modifica della Costituzione è un rimedio peggiore del problema e ci porta fuori strada, ma naturalmente su questo punto chiedo un piccolo supplemento di riflessione ai nostri auditi.
FEDERICO PALOMBA. Abbiamo spesso seguito le problematiche della magistratura onoraria e abbiamo anche sollecitato nei modi possibili un intervento del Ministro della giustizia. È inutile che i gruppi politici presentino proposte di legge, se poi il Governo e la maggioranza non sono disposti ad accettare o a proporre le linee generali di soluzione del problema.
Le audizioni delle diverse associazioni ci hanno dimostrato intanto quanto sia importante ed essenziale la magistratura di pace per l'efficienza che realizza, per il numero di cause che definisce, per la celerità con la quale elabora i propri giudizi.
Ci hanno prospettato anche la loro esigenza di muoversi in un quadro generale di unità della giurisdizione a garanzia dell'autonomia e dell'indipendenza anche dei loro giudizi, garanzia che passa attraverso guarentigie di ordine diverso, lo status, la selezione, la conferma, la non precarietà.
Noi riteniamo che questi siano elementi essenziali, anche se non immaginiamo che sia necessaria una specifica modifica della Costituzione. Riteniamo, però, che non sia ulteriormente eludibile la soluzione di questi problemi e di questi aspetti. Le questioni sono due: o noi vogliamo una magistratura onoraria, una magistratura di pace, che operi con gli stessi criteri, sia pure in casi di rilevanza inferiore, rispetto alla magistratura ordinaria, e allora dobbiamo darle anche i mezzi e gli strumenti, oppure riteniamo che questa sia una magistratura
di rilievo infimo e la lasciamo andare a un mero calcolo matematico di risoluzione dei problemi.
Noi non siamo ovviamente d'accordo su quest'ultima soluzione ed è per questo motivo che a noi sembrano importanti le considerazioni svolte e soprattutto la richiesta di una definizione della questione.
Chiediamo che il Ministro, che ringraziamo della sua presenza, porti alla considerazione della Commissione e del Parlamento le linee che intende proporre su questo tema. Noi daremo come sempre il nostro contributo. Mi sembra un punto ineludibile ed è importante averlo posto in questa discussione sulla modifica della Costituzione.
PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospiti per la replica.
GABRIELE LONGO, Presidente dell'Unione nazionale giudici di pace (UNAGIPA). Ho considerato il progetto governativo - questa era la prima domanda dell'onorevole Melis - nel mio intervento nel solo suo articolo 8, quello che fa riferimento a una leggera modifica del secondo comma dell'articolo 106 della Costituzione.
Su questo tema ho avanzato una proposta, asserendo che, rispetto proprio alle osservazioni che ha svolto l'onorevole Mantini, secondo noi si pone il problema per cui, visto che è opportuno toccare la Costituzione, si può procedere da parte del legislatore in questo modo: dopo il primo comma, che parla del concorso, stabilire che la legge determina i criteri di selezione e di nomina e le competenze dei magistrati di pace. Questo punto mi sembra opportuno.
Mi riferivo al dibattito che si è svolto nella Commissione per la riforma della magistratura onoraria e a tanti altri dibattiti. Ci siamo sempre trovati di fronte a tali ostacoli. Ci è stato comunicato che ciò che noi sosteniamo, come rappresentanti della categoria, va bene ed è legittimo, ma che esiste la Costituzione.
Questo è il problema che abbiamo incontrato e che, in realtà, era molto semplice. Nel primo caso, la nostra figura rientra nel primo comma, considerando la natura concorsuale - è una mia opinione, ma non tutti sono s'accordo - e il fatto che noi siamo regolati, secondo la legge ultima, quella del 1999, senza parlare della legge originaria, da un sistema di selezione che prevede un concorso, ma per titoli.
La Cassazione a volte ha affermato che anche il concorso per titoli è un concorso.
Accanto a questa prima selezione per titoli ce n'è un'altra di verifica sul campo, ossia l'esito del tirocinio, che viene a essere un ulteriore elemento di giudizio per la nomina definitiva a giudice. Questa è una prima soluzione. Per quanto riguarda il giudice di pace si potrebbe fare riferimento al primo comma e il secondo potrebbe essere riferito alle altre soluzioni.
Rispondendo all'onorevole Mantini, chiarisco che ho fatto riferimento alla figura del funzionario onorario perché la dottrina si è interessata allo studio di tale categoria generale senza distinzione tra giudici e non. Per questo motivo facevo riferimento alle Commissioni edilizie.
Rispetto al disegno di legge del Governo, in particolare l'articolo 8, secondo comma, ho sollevato l'opportunità di eliminare il riferimento alla legge sull'ordinamento giudiziario. La legge sui giudici speciali potrebbe rimanere una legge speciale autonoma rispetto a quella sull'ordinamento giudiziario e, cosa ancora più importante, dovrebbe essere eliminato il riferimento all'appartenenza alle categorie degli onorari per quanto più volte ribadito.
Il primo elemento condizionante della riforma è la previsione di un concorso e può essere superato chiarendo cosa si intende per contenuto del concorso.
Il secondo elemento condizionante è l'onorarietà. Se eliminiamo questa definizione generica affermiamo che il legislatore determina i criteri di selezione, che saranno rigorosissimi, inserendo elementi di determinazione, penso che ciò sia sufficiente per la cosa pubblica, per dare una risposta non solo ai giudici di pace che noi rappresentiamo oggi, ma anche ai cittadini.
La nostra giustizia è certamente al servizio di tutti i cittadini, e non fa distinzione tra cittadino comune o speciale.
PAOLO VALERIO, Presidente della Federazione nazionale magistrati onorari di tribunale (FEDERMOT). Svolgo solo una precisazione, onorevole presidente. Quando l'onorevole Mantini afferma che la Costituzione consente già attualmente di realizzare le aspettative che oggi le categorie interessate hanno rappresentato, compie, a mio avviso, un salto logico: ciò è vero, ma è parimenti vero che oggi la Costituzione, sia nel testo vigente, sia in quello di cui il Governo si fa proponente, introduce la possibilità, per esempio, che il Governo proponga con legge ordinaria l'istituzione di 10.000 giudici onorari, ossia una quarta categoria di magistrati onorari che, dovrebbero definire il contenzioso civile e penale arretrati; quindi dei giudici extra ordinem, i quali non conoscono le parti del processo e che costerebbero, a conti fatti, un miliardo di euro, una cifra
importante, che secondo noi può essere altrimenti devoluta.
L'attuale Costituzione, ma anche quella che il Governo si propone di riformulare, all'articolo 106, comma secondo, consente, per esempio, che oggi la Cassazione sostenga, e le fa eco la Corte costituzionale con maggiore titubanza, che un magistrato onorario, sprovvisto delle ordinarie garanzie previste dalla Costituzione per gli altri lavoratori e dipendenti pubblici sia compatibile con l'attuale assetto costituzionale.
La Costituzione, a nostro avviso, nel momento in cui viene modificata, potrebbe, invece, recepire la raccomandazione (2010)12 emanata dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, che si converrà essere forse per l'ordinamento italiano l'organismo internazionale più eminentemente deputato a fornire raccomandazioni allo Stato italiano.
Il Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, infatti formula agli Stati membri l'invito ad adottare le misure per assicurare che siano attuate nelle loro legislazioni, nelle loro politiche e nelle loro prassi puntuali disposizioni, ossia quelle allegate alla predetta raccomandazione, la (2010)12 che sostituisce la n. 94(12) del 1994. In particolare, tra i princìpi e i criteri che l'organismo internazionale fornisce agli Stati membri vi è quello secondo il quale «La certezza di permanenza nelle funzioni e l'inamovibilità sono elementi chiave dell'indipendenza dei giudici. Di conseguenza, ai giudici deve essere garantita la permanenza nelle funzioni fino al raggiungimento dell'età di pensionamento obbligatorio, se essa esiste».
Se tali principi fossero stati attuati con legge ordinaria, forse oggi noi non avremmo l'ardire di chiedere una tutela di tipo costituzionale. Poiché ciò non è avvenuto, abbiamo tale ardire.
PRESIDENTE. Ringrazio gli auditi e auguro loro un buon lavoro. Avete anche giustamente approfittato della presenza del Ministro, il quale ha potuto un'ulteriore volta ascoltare le rivendicazioni che, con molta discrezione, sono state poste e che sono all'attenzione di tutti, ivi compresa la Commissione giustizia.
Dichiaro conclusa l'audizione.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva in relazione al disegno di legge C. 4275 Cost. Governo, recante «Riforma del Titolo IV della parte II della Costituzione» e delle abbinate proposte di legge C. 199 Cost. Cirielli, C. 250 Cost. Bernardini, C. 1039 Cost. Villecco Calipari, C. 1407 Cost. Nucara, C. 1745 Cost. Pecorella, C. 2053 Cost. Calderisi, C. 2088 Cost. Mantini, C. 2161 Cost. Vitali, C. 3122 Cost. Santelli, C. 3278 Cost. Versace e C. 3829 Cost. Contento, l'audizione del Presidente del Consiglio di Stato, dottor Pasquale de Lise.
Ringrazio a nome mio, del presidente Bongiorno e di tutti i componenti delle due Commissioni il dottor Pasquale de Lise, il quale è accompagnato dal dottor Vincenzo Russo.
Do la parola al presidente de Lise.
PASQUALE DE LISE, Presidente del Consiglio di Stato. Vorrei innanzitutto ringraziare gli onorevoli presidenti e gli onorevoli componenti delle Commissioni I e II per avermi invitato a partecipare all'indagine conoscitiva deliberata in riferimento al disegno di legge costituzionale recante la riforma del Titolo IV della parte II della Costituzione e alle proposte di legge a esso collegate.
Premetto che le brevi considerazioni che esporrò non riguarderanno la parte del progettato intervento normativo che si propone l'introduzione di una diversificazione delle funzioni giudiziarie con conseguente separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e magistrati requirenti. Si tratta di problematiche molto delicate e importanti ma, con ogni evidenza, estranee alla giurisdizione amministrativa.
Vorrei, invece, soffermare l'attenzione su alcuni profili di interesse, che l'occasione rappresentata dal progetto di riforma del Titolo IV consente di sviluppare, al fine di verificare la possibilità di ulteriori linee di intervento, suscettibili di accrescere la coerenza sistemica del complessivo ordinamento della giustizia.
La mia non è un'autocelebrazione, ma sento di dover svolgere un accenno alla rilevanza che ha assunto nell'ordinamento la giurisdizione amministrativa. Ad essa è affidata, con rilievo ed intensità crescenti negli ultimi anni, la cognizione delle controversie concernenti i nuovi diritti civili e sociali, le privatizzazioni e le liberalizzazioni, l'organizzazione dei servizi e la qualità delle prestazioni, le attività di regolazione e i provvedimenti delle Autorità indipendenti. Il giudice amministrativo è ormai qualificato «il giudice naturale dell'interesse pubblico nell'economia», che interviene nei settori più diversi, che vanno dall'energia ai trasporti, dalle comunicazioni alle infrastrutture, in uno scenario sempre più aperto alle regole della concorrenza. In merito a tempi e modi del nostro giudizio, quello della ragionevole durata è un problema importante e fondamentale, considerata
la ricaduta sociale ed economica delle decisioni giurisdizionali amministrative, che rappresentano un elemento di sviluppo e di competitività, di crescita e di modernizzazione del Paese.
Negli ultimi anni è stata avvertita l'esigenza di un aumento della tutela fornita dal giudice amministrativo, con una conseguente, profonda, mutazione della fisionomia del processo e delle tecniche connesse, l'arricchimento e l'affinamento delle quali sono stati promossi da una costante, attenta ed evolutiva opera della giurisprudenza amministrativa. In precedenza noi eravamo i giudici dell'annullamento, mentre ora siamo i giudici del risarcimento e dell'accertamento della ragione sostanziale. Cerchiamo di fornire alla domanda di giustizia una risposta in termini di celerità, di effettività e di satisfattività. Gli interventi legislativi hanno nel tempo consentito di coordinare la crescita del servizio-giustizia con la ragionevole durata del giudizio, con l'economia e la concentrazione processuale e con il rafforzamento dei rimedi d'urgenza. La sempre maggiore attenzione agli aspetti concreti dell'attività amministrativa, con prevalenza
della legalità sostanziale rispetto a quella meramente formale - e, con essa, l'adeguamento del ruolo del giudice amministrativo ai mutamenti intervenuti nel sistema istituzionale - è stata costantemente accompagnata dalla doverosa consapevolezza di evitare inappropriate «invasioni di campo» rispetto alla sfera riservata al potere discrezionale dell'amministrazione.
Il fondamentale criterio orientativo della giustizia amministrativa è stato, infatti, sempre rappresentato - alla stregua dei princìpi ispiratori della nostra Carta costituzionale - dalla divisione dei poteri, dal principio di legalità e dall'indipendenza del giudice, la cui attività deve muoversi nel rigoroso rispetto dei confini assegnati nello Stato di diritto alla funzione del magistrato, con esclusione di ogni forma di ingerenza o di inappropriata supplenza nei riguardi delle prerogative di altre autorità pubbliche.
Nell'ambito della descritta tendenza, che ha condotto la giurisdizione amministrativa
ad accrescere gli strumenti e le modalità di tutela offerti a fronte della domanda di giustizia dei cittadini, non posso non ricordare che dal settembre del 2010 il processo amministrativo è regolato da un proprio Codice. Il Governo ha ritenuto di esercitare una delega contenuta nella legge n. 69 del 2009, quella legge che - questa è una sintonia importante - per noi prevedeva la delega e per il processo civile conteneva, invece, disposizioni puntuali, nell'ottica di una rilevante riforma di tale processo.
Chi parla ha avuto l'onore di essere audito dalla Commissione Giustizia in sede di espressione dei pareri parlamentari, sulla base dei quali è stato emanato il decreto legislativo. Le riforme vere, però, si attuano anche con strumenti e con risorse materiali e umane. Non basta scrivere, con tutto il rispetto per il Parlamento, un'ottima legge per rendere immediatamente celere il processo amministrativo. Quindi la scarsità di strumenti e risorse ha causato taluni problemi nell'attuazione del Codice.
L'introduzione di un'unitaria disciplina processuale è stata il risultato di un'operazione importante, complessa e al tempo stesso ambiziosa, già in precedenza tentata e mai portata a compimento, che ha conferito organicità e sistematicità ad un frammentato e lacunoso quadro normativo - in gran parte risalente - permettendo al nostro ordinamento di allinearsi ai sistemi codificati di altri Paesi europei, in particolare Francia, Germania e Spagna.
Il Codice ha consentito, inoltre, il necessario adeguamento della disciplina del processo amministrativo ai princìpi del giusto processo sanciti dall'articolo 111 della Costituzione sulla base anche delle indicazioni contenute nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. La piena attuazione dei princìpi del giusto processo - ed è questo l'aspetto più importante del nostro Codice - ha trovato espressione nella condizione di effettiva e sostanziale parità delle parti dinanzi a un giudice terzo e imparziale; condizione di parità che è connaturata agli ordinamenti processuali e in tutti dovrebbe trovare concreta applicazione. Se le considerazioni in precedenza svolte mi consentono, con orgoglio, di rivendicare la centralità ordinamentale che caratterizza la giurisdizione amministrativa nei rapporti fra cittadino e potere pubblico, non posso omettere di
rammentare come, nel vigente ordinamento costituzionale, la risposta di giustizia sia demandata a diverse giurisdizioni. La presenza di distinti plessi organizzativi nel medesimo sistema-giustizia impone lo svolgimento di riflessioni volte ad individuare ipotizzabili linee di azione per la definizione dei rispettivi ambiti di cognizione. E ciò, segnatamente, in una fase, quale quella attuale, contrassegnata da ipotesi di intervento dirette ad adeguare l'assetto costituzionale alle mutate esigenze della società.
Va in primo luogo affermata con chiarezza la persistente opportunità della presenza di un sistema fondato su due giurisdizioni, entrambe generali. La giurisdizione è unica sotto il profilo funzionale, ma non sotto quello organico-organizzativo. Vi sono tre plessi principali, ivi compresa la Corte dei conti, ma noi dialoghiamo, quanto al riparto di competenze, con la giurisdizione ordinaria.
La presenza della doppia giurisdizione, a mio avviso - non lo affermo corporativisticamente - è un fattore di arricchimento del sistema-giustizia, che consente una tutela più pregnante, più incisiva, più ampia e più specializzata rispetto alle manifestazioni del potere pubblico e che riposa sugli attuali articoli 103 e 113 della Costituzione, i quali non sono toccati dal disegno di legge governativo.
Nell'evoluzione che vi è stata dal 1948 a oggi, anche a seguito di importanti interventi della Corte costituzionale - ricordo, in particolare, la sentenza n. 204 del 2004 dopo la legge n. 205 del 2000 che aveva introdotto alcuni rilevanti cambiamenti - i due plessi giurisdizionali hanno entrambi carattere di generalità nell'ambito delle competenze ad essi rispettivamente assegnate, in funzione della natura delle posizioni soggettive. La Cassazione è
il giudice ordinario delle controversie che attengono ai diritti soggettivi, mentre noi siamo il giudice ordinario, generale delle controversie che attengono a interessi legittimi, salvo i casi di giurisdizione esclusiva così come prevista dall'articolo 103 della Costituzione. Forse questi casi sono troppi, ma ci sono stati attribuiti dalla legge.
Questo criterio di riparto di giurisdizione fondato sulla natura delle situazioni soggettive che vengono in rilievo dà luogo inevitabilmente ad alcuni problemi. È stato tentato alla fine degli anni novanta un riparto di giurisdizione fondato sui cosiddetti blocchi omogenei di materie. I conflitti dinanzi alla Corte di Cassazione, però, sono aumentati anziché ridursi e, quindi, ritengo opportuno ricorrere al criterio tradizionale, che esiste dal 1889. La giustizia amministrativa ha sempre cercato di far sì che il confronto dialettico con la Cassazione si svolgesse in maniera costruttiva. A volte, però, sono insorti contrasti dai quali sono derivate conseguenze negative, poiché hanno sicuramente ritardato la tutela.
Questo è un punto che non è trattato nel disegno di legge costituzionale di iniziativa governativa. Attualmente questi conflitti sono decisi dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione. L'articolo 111 della Costituzione, all'ultimo comma, prevede che le decisioni del Consiglio di Stato, come quelle della Corte dei conti, siano impugnabili soltanto per motivi inerenti alla giurisdizione.
Tali decisioni in materia di giurisdizione vedono come giudice una delle parti del conflitto, la Cassazione; quindi, far decidere il conflitto da una delle parti dello stesso non mi sembra del tutto condivisibile.
Esiste in Francia, da quasi due secoli, il Tribunale dei conflitti, a composizione mista, paritaria, presieduto dal Ministro. Tale modello non può essere automaticamente trasferito nel nostro ordinamento, quanto alla presidenza del Tribunale, ma tale organo potrebbe essere presieduto dal primo Presidente della Cassazione, che è il primo magistrato d'Italia.
Anche la presenza, in questo organo giudicante, di competenze diverse potrebbe provocare una sintesi sinergica di sensibilità e di culture giuridiche differenziate che sarebbe positiva. Ricordo che fino al 1877 i conflitti erano decisi dal Consiglio di Stato, ma esistevano allora diverse Corti di cassazione. Questo è, comunque, un aspetto non trattato dal disegno di legge del Governo.
Un altro aspetto che, invece, è affrontato dal testo oggi in esame è quello disciplinare, che però non riguarda la giustizia amministrativa. Seppure non tutti i miei colleghi giudici amministrativi non sono d'accordo, vorrei esporre la mia riflessione sul punto.
Ho letto la relazione al disegno di legge del Governo e ritengo che il fondamento della creazione della Corte disciplinare sia condivisibile. L'istituzione di tale Corte deriva, infatti, dall'esigenza di evitare commistioni che possano risultare inappropriate tra esercizio delle funzioni inerenti allo status dei magistrati e l'accertamento della responsabilità disciplinare. Tenerle distinte, anche in capo ad organi diversi, sarebbe opportuno.
Del resto, si tratta di un dibattito antico, che risale, anche se con diverse sfaccettature, alla Costituente. Se non sbaglio, Togliatti svolse un intervento in questa materia. Il tema è stato ripreso dal progetto di riforma di cui alla legge costituzionale n. 1 del 1997. Anche in quel caso si prevedeva una Corte disciplinare, che è prevista nel disegno di legge governativo in esame.
Io sono sostanzialmente favorevole, anche prescindendo dalle recenti polemiche che hanno avuto anche risvolti mediatici sgradevoli e unilaterali in cui si è parlato di giurisdizione domestica. E ciò sia per le ragioni prima indicate, di tenere separate le due funzioni, sia perché in tal modo riguarderebbe tutte le magistrature, attuando un rapporto più intenso tra le giurisdizioni. Infatti si tratterebbe di un organismo attributario della funzione disciplinare nei confronti di magistrati appartenenti a ogni ordine, in particolare degli ordinari, degli amministrativi e dei
contabili, nel rispetto dei necessari caratteri di indipendenza, imparzialità e terzietà.
Personalmente ho vissuto un'esperienza felice dell'Organo di autogoverno della giustizia amministrativa, che è a composizione mista e comprende quattro laici, la cui attività in materia disciplinare è stata sempre preordinata al mantenimento del prestigio e dell'autorevolezza dell'Istituzione. Colgo, anzi, l'occasione per sottoporre a codeste Commissioni la possibilità di un riconoscimento costituzionale del nostro Organo di autogoverno.
La proposta di istituzione di una Corte di disciplina, prevista dalla prospettata introduzione dell'articolo 105-bis della Costituzione, si muove nella condivisibile direzione di sollevare l'organismo di autogoverno dalla promiscua attribuzione di funzioni «amministrative in senso proprio» e di funzioni disciplinari. La composizione della Corte, a mio avviso, dovrebbe essere completamente svincolata dagli organi di autogoverno. Non so come sia previsto espressamente, se si disponga che i membri siano nominati dal CSM oppure estratti a sorte, ma, in ogni caso, dovrebbero essere soggetti diversi e di alto profilo istituzionale.
L'istituzione della Corte disciplinare non costituisce, comunque, una idea nuova . Alcuni anni fa abbiamo tenuto un convegno al Consiglio di Stato, con la presenza di un giudice costituzionale, nel corso del quale convegno si è ipotizzata la presenza di componenti di «diritto» (eventualmente individuati tra i presidenti emeriti della Corte costituzionale e delle altre magistrature supreme), accanto ai quali potrebbero essere previsti ulteriori componenti, la cui designazione - all'interno di predeterminate categorie - potrebbe essere rimessa al Presidente della Repubblica. Tale organismo dovrebbe avere natura giurisdizionale secondo quanto oggi previsto per il procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari. Tale caratterizzazione non assiste, secondo la normativa vigente, il procedimento nei confronti dei magistrati amministrativi e contabili.
La complessiva rimeditazione in ordine alle attribuzioni della Corte di disciplina - con funzioni estese nei confronti dei componenti di tutti gli ordini giudiziari - impone di valutare se mantenere la reclamabilità delle relative pronunzie dinanzi alla Corte di Cassazione, prevista nel disegno di legge costituzionale all'esame. Escluso il fondamento costituzionale del principio di garanzia del doppio grado di giurisdizione, l'ampliato novero di attribuzioni da rimettere, in chiave unitaria, alla Corte di disciplina potrebbe, infatti, sconsigliare di demandare l'appellabilità delle decisioni da questa assunte all'organo di vertice della sola magistratura ordinaria.
Va inoltre rimarcata l'esigenza di riconoscere alla Corte stessa un'ampia autonomia in ordine alla propria organizzazione ed alle «regole» del procedimento disciplinare con particolare attenzione all'individuazione dei soggetti chiamati ad esercitare l'azione disciplinare.
Passo all'ultimo aspetto: quello della della responsabilità dei magistrati. Si tratta di un argomento estremamente delicato, su cui la mia presa di posizione potrebbe apparire corporativa o addirittura personale. Non è personale, perché l'anno prossimo cesserò dal mio incarico. Non è nemmeno corporativa, perché penso di avere una discreta autonomia intellettuale.
Ritengo che il primo comma del nuovo articolo 113-bis della Costituzione, allorché prevede l'equiparazione, ai fini della responsabilità, dei magistrati ai funzionari e ai dipendenti dello Stato, non sia opportuno e, nel testo scritto consegnato alla presidenza, ho evidenziato in maniera più compiuta le ragioni di tale inopportunità.
Vorrei, qui, solo ricordare che la Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 18 del 1989, ha dato atto che la disciplina di cui alla legge Vassalli, caratterizzata da dolo o colpa grave - in sintesi - è dettata dall'intento di salvaguardare l'indipendenza dei magistrati, nonché l'autonomia e la pienezza dell'esercizio della funzione giudiziaria, precisando, ulteriormente, che il principio di responsabilità stabilito dall'articolo 28 della Costituzione
nei confronti dei pubblici dipendenti va necessariamente regolato con la previsione di condizioni e di limiti a tutela dell'indipendenza e dell'imparzialità del giudice.
È pendente dinanzi alla Corte di giustizia una controversia in questa materia, ma se si esamina con attenzione tale controversia, essa attiene alle violazioni del diritto comunitario, mentre per altri tipi di violazione la Corte ha affermato espressamente che «spetta a ciascuno Stato membro definire il regime delle responsabilità dei giudici, sempre che ciò - leggo testualmente - non attenti alla salvaguardia delle situazioni giuridiche soggettive a base comunitaria». Questo giudizio è ora in corso e vedremo come si concluderà.
In questa controversia - mi sento di dover far rilevare anche questo - la posizione della Commissione europea che ha provocato il giudizio e che praticamente, parlando atecnicamente, ha impugnato la legge n. 117 dinanzi alla Corte di giustizia, è stata fortemente contestata dallo Stato italiano.
Erano state chieste notizie anche alle altre magistrature. Il Consiglio di Stato ha preparato una memoria a difesa della legge n. 117 e lo stesso ha fatto la Corte di cassazione. La memoria ufficiale del nostro agente alla Corte di giustizia va, dunque, nel senso della difesa della legge n. 117 e così pure la controreplica. Devo anche segnalare la raccomandazione del Comitato dei ministri dell'Unione europea del 17 novembre 2010, paragrafo 86, secondo cui «l'interpretazione della legge, l'apprezzamento dei fatti e la valutazione delle prove effettuate dai giudici per deliberare su affari giudiziari non deve fondare responsabilità disciplinare o civile tranne che nei casi di dolo o di colpa grave».
Rilevo, inoltre, che la Corte costituzionale in un'altra sentenza, la n. 289 del 1992, in materia di applicabilità della riabilitazione da procedimento disciplinare prevista per gli impiegati anche ai magistrati, affermò che essa non era estensibile, proprio ponendo in rilievo le peculiarità costituzionali della magistratura.
Ritengo, inoltre, che la modifica della disciplina della responsabilità dei magistrati costituisca una vera e propria spada di Damocle che altererebbe il libero convincimento da parte del giudice che, come è noto, rappresenta un carattere indefettibile della giurisdizione. In sostanza si tratterebbe di un elemento di suggestione e di pressione sul giudice che finirebbe per condizionare la stessa interpretazione della legge.
Abbiamo avuto la vicenda di un ricorso che valeva molte decine di milioni di euro in cui noi abbiamo respinto l'appello della parte, la quale ora ha iniziato un giudizio contro lo Stato ai sensi della legge n. 117, in cui sono stati chiamati in causa i colleghi, che avevano emesso tale decisione. Mi si riferisce che essi sono impauriti o perplessi. Non è una questione che si solleva per adoperare un argomento emozionale, ma è una situazione che esiste realmente.
Queste considerazioni corrispondono al mio personale convincimento; non so se esso sia condiviso da tutti, ma è maturato in cinquant'anni di attività magistratuale. Io sono stato magistrato ordinario, magistrato contabile e da quarant'anni sono magistrato amministrativo. Le mie considerazioni non sono dettate da corporativismo, ma basate sull'esperienza e forse valgono ancora di più per la giustizia amministrativa, in cui le questioni sono spesso di grande difficoltà tecnica e vengono trattate costantemente problematiche nuove, senza punti di riferimento e con parti processuali spesso asimmetriche.
Con tutto il rispetto dell'Avvocato generale dello Stato Ignazio Francesco Caramazza, che è stato audito in precedenza, debbo rilevare che talvolta il modo in cui viene difesa l'amministrazione può dar luogo a problemi, senza dover aggiungere anche la suggestione di essere citati in giudizio.
Occorre, inoltre, considerare che si verrebbe, sostanzialmente, a creare un ulteriore
grado di giudizio, perché l'ultima parola sul piano risarcitorio spetterebbe al tribunale, alla Corte d'appello o alla Cassazione.
Peraltro, se si ritenesse inadeguata la legge n. 117 del 1988, l'intervento normativo dovrebbe tenere presente due aspetti.
Di uno di essi ho già parlato ed è quello del rispetto dei princìpi affermati dalla Corte di giustizia, che, lo ripeto, si riferiscono al diritto dell'Unione europea e lasciano in un certo senso più libero lo Stato per quanto riguarda le questioni disciplinate dal diritto interno.
Vi è poi un altro aspetto che forse dovrebbe essere considerato, perché noi oggi viviamo in un mondo globalizzato e quindi dobbiamo aver ben presente anche ciò che avviene fuori dal nostro Paese. Seppure non sono un cultore di diritto comparato, devo registrare che, almeno presso i Paesi dell'Unione più vicini a noi, vi è una disciplina fortemente differenziata che va dal sistema spagnolo, che presenta qualche similitudine con la disciplina che si andrebbe a varare, a quello del Regno Unito, ove è previsto un assoluto regime di judicial immunity per garantirne la piena indipendenza dei giudici.
Mi sia conclusivamente consentito di rinnovare l'auspicio che il progettato intervento di riforma possa comunque promuovere il perfezionamento di misure che, con riferimento all'intero assetto della funzione giurisdizionale, valgano a consentire una più adeguata risposta alla domanda di giustizia in termini di efficienza, di celerità e di imparzialità. Credo fermamente che recuperare credibilità e fiducia nel sistema giudiziario italiano, unitariamente inteso, sia una questione vitale per la democrazia, un vero e proprio imperativo categorico per tutte le istituzioni.
Vi ringrazio.
PRESIDENTE. Grazie a lei, presidente. Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
GIANCLAUDIO BRESSA. Ringrazio il presidente De Lise per la relazione che ha svolto. Vorrei porgli due domande, una un po' più di sostanza e una più di merito, più puntuale.
La proposta del Governo di riforma della giustizia, che, non a caso, è stata definita epocale, presenta certezze assolute, ma anche timidezze assolute, nel senso che ha eluso alcune questioni.
Una delle questioni che è stata chiaramente elusa, perché non viene minimamente toccata, è l'annoso problema che ci portiamo dietro dai tempi della discussione dell'Assemblea costituente, dal confronto tra Mortati e Calamandrei, sull'unità sostanziale della giurisdizione.
È del tutto evidente dalle considerazioni che lei ha svolto quale sia la sua opinione al riguardo, però sarebbe utile che lei elaborasse una delle questioni che, a mio modo di vedere un po' apoditticamente, ha dato per scontato.
A un dato punto lei ha sostenuto che la presenza della doppia giurisdizione è un arricchimento della tutela da parte del cittadino. Se è ben chiaro perché la doppia giurisdizione possa essere una scelta chiaramente definibile da parte degli operatori della giustizia, sarebbe interessante argomentare anche perché sia un arricchimento della tutela dalla parte del cittadino. Questa è la prima domanda.
La seconda domanda è anch'essa relativa a una delle omissioni della riforma epocale da parte del Governo. Lei ritiene ancora di attualità che ci sia la commistione in capo al Consiglio di Stato tra funzione giurisdizionale e funzione consultiva?
ROBERTO GIACHETTI. Anch'io la ringrazio e le chiedo in premessa di scusarmi. Non sono un giurista e ragiono sulla base di ciò che comprendo, come un qualunque cittadino che ascolta, ovviamente interessato.
Mi concentro su un punto che a me sta a cuore capire, anche perché l'argomentazione riguarda il tema della responsabilità civile dei magistrati, che io ho sentito menzionare più volte, sia per la Commissione nella quale risiedo, sia per il mio interesse rispetto a tali materie.
Lei sa perfettamente, presidente, che la legge Vassalli fa seguito a un referendum popolare, sul quale si sono espressi alcuni milioni di persone e che aveva un obiettivo chiaro. Lei mi insegna che i referendum hanno solo possibilità abrogativa. Se il referendum avesse avuto la possibilità propositiva, sarebbe stato molto interessante comprendere che cosa i cittadini italiani volessero in materia di responsabilità civile dei magistrati.
In quel caso, però, il referendum aveva un obiettivo, quello di abrogare alcune norme che proteggevano complessivamente il magistrato. La campagna elettorale e il movimento che ci fu in quel contesto - i proponenti erano i radicali - chiedevano chiaramente una responsabilità civile dei magistrati che avesse una natura piuttosto definita e che traducesse in maniera naturale che chi si rendeva responsabile di determinati fatti - lei ricorderà perfettamente tutta la vicenda Tortora e sa quale tipo di responsabilità fu pagata dai magistrati che indagarono; credo che alcuni ci governino ancora all'interno del Consiglio superiore della magistratura - dovesse subire alcune conseguenze.
Si è verificata una situazione nella quale il popolo italiano, a mio avviso, sulla base di un'indicazione politica che arrivava dai proponenti, indicò chiaramente quale fosse il punto di caduta. La legge che fu emanata, ovviamente, e lei sa anche questo, assume il risultato del referendum, ma non so se traduca effettivamente lo spirito e la volontà del popolo italiano.
Ciò premesso, facciamo riferimento alla legge Vassalli, una legge che interviene su una domanda, ma non necessariamente sullo spirito alla radice di tale domanda. Lei nella sua relazione faceva riferimento al fatto che quanto stabilito dalla giustizia europea era in riferimento alla violazione del diritto comunitario.
La mia domanda è se - mi perdoni perché sono ignorante in materia - a suo avviso cambia molto dal punto di vista dello sbaglio, cioè della ragione per la quale il giudice sbaglia; in sostanza cambia molto se il giudice sbaglia in ragione del diritto comunitario ovvero del diritto italiano? Non si dovrebbe colpire il fatto che il giudice, oltre che per dolo e colpa grave, sbagli nell'applicazione della norma? A quel punto credo che la distinzione tra diritto comunitario e diritto penale probabilmente - è la mia personalissima opinione - verrebbe meno.
Passo a un'altra domanda. Lei giustamente sostiene, e io lo comprendo, che potrebbe avvertirsi nel magistrato la pressione del fatto che il dover pagare direttamente l'errore commesso potrebbe condizionare il suo agire in fase di giudizio. È molto diverso da ciò che può accadere, per esempio - glielo domando con interesse reale, perché l'argomento è importante - a un medico che si trova a dover operare e che sa che nell'operazione esiste il rischio che la persona potrebbe arrivare al decesso? Non potrebbe esserci allora anche in quel caso una ragione per evitare un'operazione che magari potrebbe rendersi necessaria per non correre il rischio che nel corso dell'operazione stessa avvenga un decesso?
Quando mettiamo in campo ragioni di questo tipo, che io comprendo perfettamente e che non ritengo minimamente irrilevanti, l'argomento si dovrebbe estendere anche ad altri settori i cui rappresentanti hanno una pressione addosso che magari non è relativa alla propria vicenda professionale, ma a quella delle persone coinvolte.
FEDERICO PALOMBA. Vorrei ringraziare il presidente de Lise per la sua testimonianza. Essendo stato magistrato ordinario, magistrato contabile e magistrato amministrativo, mi pare che il presidente de Lise possa parlare da un osservatorio privilegiato.
Vorrei porle una domanda e svolgere una riflessione. Il Titolo IV della Costituzione, attualmente, ma anche nella riforma, riguarda tutte le magistrature, sia pure con differenziazioni, perché, per esempio, il CSM riguarda soltanto la magistratura ordinaria. Per altri ci sono leggi
ordinarie che istituiscono i Consigli di presidenza, peraltro modificati anche recentemente nella loro composizione.
La prima domanda è questa: in vista o meno dell'unità delle giurisdizioni, alla quale forse si potrebbe anche pensare in funzione della specializzazione, verrebbe modificato l'articolo 101 della Costituzione, nel cui secondo comma sarebbe previsto che i giudici sono un ordine indipendente dai poteri dello Stato.
Attualmente l'articolo 104 della Costituzione dispone che la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere dello Stato. In che misura la modificazione che si vuole proporre inciderebbe su tutte le magistrature, depotenziando, dequalificando, dequotando, come affermava l'avvocato Caramazza, o ancora derubricando le magistrature da potere a ordine? In che modo inciderebbe anche sulla giustizia amministrativa e - io penso - anche su quella contabile? Come inciderebbe - questo punto non riguarda direttamente la magistratura amministrativa, in cui non c'è un prosecutor, non c'è un pubblico ministero che inizia le cause, ma riguarda però la giustizia contabile, perché nella giurisdizione contabile esiste una procura della Corte dei conti, regionale o generale, che inizia le cause - così come viene prospettata nella riforma, una differenziazione per cui il pubblico ministero sia quello ordinario, ma penso
anche quello contabile, che non godrebbe delle guarentigie della magistratura, sarebbe diverso dai giudici, non rientrerebbe all'interno dell'ordinamento giudiziario che riguarda i giudici, ma verrebbe collocato in una dimensione diversa? Ritengo che tale previsione valga anche per la giustizia contabile.
La prima domanda è, dunque, quella esposta. Alla luce della sua plurima esperienza, questo ordinamento, così modificato, per cui la magistratura e quindi le magistrature e addirittura i giudici, non i pubblici ministeri, costituirebbero un ordine e non più un potere, a suo avviso in che modo può incidere sull'indipendenza e sull'autonomia di tutte le giurisdizioni?
Passo alla seconda domanda. Lei ha, a mio avviso giustamente, preso le distanze dalla nuova disciplina che risulterebbe sulle responsabilità dei magistrati, in questo caso di tutti i magistrati, in termini di responsabilità sia disciplinare, sia civile.
Mi pare che abbia affermato, in primo luogo, che questa parte vada espunta dalla Costituzione, perché non è necessario ricorrere a una normativa costituzionale e, in secondo luogo, che vada rispettato pienamente il principio della legge n. 117 che riguarda la responsabilità dello Stato, con una responsabilità indiretta in sede di rivalsa per i singoli magistrati, proprio in funzione della garanzia della difesa dell'autonomia e dell'indipendenza. Lei stesso ha sostenuto che la formazione del giudicato non deve essere influenzata né dalla minaccia, né dalla promessa, né dalla pressione, ma deve potersi formare in piena autonomia, in piena indipendenza e in piena terzietà.
Mentre la prima è una domanda, la seconda è una manifestazione di piena adesione alla sua posizione per quanto riguarda la disciplina della responsabilità civile e disciplinare, che non andrebbero disciplinate nel modo in cui, invece, viene proposto nel disegno di legge del Governo.
DONATELLA FERRANTI. Alcune considerazioni che volevo svolgere fanno parte dei quesiti che hanno posto i colleghi e, quindi, evito di farle.
Mi sembra, invece, interessante il rilievo che ha voluto svolgere il presidente de Lise con riferimento all'Alta Corte, alla Corte di giustizia disciplinare che il disegno di legge governativo, come io avevo già evidenziato nella precedente audizione, prevede solo per i magistrati ordinari.
Il presidente, da quanto ho capito, ha evidenziato l'assoluta irragionevolezza di un organismo costituzionale diretto solo e soltanto nei confronti dei giudici ordinari. Su questo vorrei un approfondimento da parte sua, perché lei è anche presidente del Consiglio della giustizia amministrativa e vorrei che risultasse qual è la situazione disciplinare, cioè la regolamentazione disciplinare, sia come organo che la effettua,
sia se esistono tipizzazioni obbligatorie, come avviene per l'ordinamento della magistratura ordinaria, introdotta dalla recente riforma - ormai non più tanto recente, ma comunque avvenuta nella scorsa legislatura - dell'ordinamento giudiziario in cui per i magistrati ordinari si è premessa l'obbligatorietà dell'esercizio dell'azione disciplinare. Si prevede la tipizzazione e esiste una sezione apposita del CSM che svolge tale funzione, tanto che vi sono anche periodiche pubblicazioni da parte del CSM stesso delle sue massime e dei suoi procedimenti. Potrà sembrare insufficiente e sicuramente perfettibile, però esiste per la magistratura ordinaria un sistema che ha un suo corpo.
Volevo sapere se per la legislatura amministrativa esistono tipizzazioni di illeciti disciplinari, se esiste il principio dell'obbligatorietà dell'azione disciplinare e - mi sembra che sia così, ma è una mia conoscenza personale e vorrei che lei ci rendesse nota l'effettiva situazione - se all'interno del Consiglio della giustizia amministrativa non vi sia una sezione che svolge la funzione di sezione disciplinare dei giudici amministrativi. Mi risulta che lo stesso organismo eserciti insieme alle funzioni dell'organo di autogoverno anche quelle di disciplina.
Paleso subito il tema sottostante la mia domanda, che non è soltanto tesa a chiederle una risposta per farla risultare agli atti, che è quello di evidenziare come il disegno governativo non abbia a cuore la rivisitazione della Costituzione e delle magistrature, ma abbia un preciso intento, un obiettivo, ossia la magistratura ordinaria.
Ho apprezzato molto il suo intervento di oggi, perché, laddove la questione era proprio palese, ci è stato rilevato perché, quando si crea un organismo che si deve occupare della responsabilità dei magistrati, non si tira fuori invece un organismo che si occupi di tutti i magistrati, ivi compresi quelli contabili e amministrativi.
Le chiederei anche un altro approfondimento, se possibile. Lei su questo punto ha affermato che non condivide tanto i criteri di nomina previsti per la Corte di giustizia e che li elaborerebbe in maniera completamente diversa. Vorrei che lei si esprimesse, presidente, per la sua complessa professionalità e per il suo percorso, sul fatto se ritiene opportuno, ragionevole e congruo prevedere sistemi di nomina di questi organismi - il CSM e la magistratura ordinaria, ma anche la Corte di giustizia -, in modo tale che prevedano per la rappresentanza dei togati l'estrazione a sorte e poi successivamente l'elezione su una rosa di estratti a sorte. Vorrei il suo giudizio equilibrato, in forza della sua esperienza plurima.
MANLIO CONTENTO. Cercherò di essere brevissimo. La prima questione, presidente, è riferita proprio alla stesura, nel testo attuale del disegno di legge del Governo, dell'articolo 113-bis sulla responsabilità dei magistrati. In relazione a ciò, lei ritiene che comunque un'affermazione costituzionale del principio della responsabilità possa trovare naturalmente ospitalità all'interno della Carta costituzionale riformata e, in caso affermativo, quale, secondo lei, potrebbe essere una formulazione rispettosa anche dei princìpi della Carta costituzionale che ha richiamato nelle sentenze?
Con particolare riferimento a quanto ci è stato comunicato anche dall'avvocato generale dello Stato, si tratta solo di diritti soggettivi o anche di interessi legittimi?
Vengo alla seconda questione. Dal momento che i conflitti di giurisdizione non sono riferiti soltanto a comparti tra amministrazione e diritti soggettivi o interessi legittimi, ma spesso riguardano anche la Corte dei conti, per quanto concerne aspetti delicati di responsabilità contabile, come immaginerebbe lei la possibilità di fare in modo che competenze diverse possano concorrere attraverso, a mio avviso, una sezione apposita della Corte di cassazione, magari mista, o come altro immagina che possa avere una risposta l'aspetto che ha sollevato?
Passo alla terza e ultima questione. Per quanto riguarda la cosiddetta Corte di disciplina lei si è espresso, a mio giudizio, chiaramente in relazione alla preferenza di un'unica Corte e, immagino, a questo
punto anche a una tipizzazione attraverso la legge ordinaria o attraverso una riconduzione unica all'ordinamento giudiziario di tutte le violazioni che possono essere contestate ai magistrati.
Sulla composizione lei ritiene comunque che sia corretto mantenere attraverso i criteri di designazione anche il riferimento al Parlamento, così come avviene in molte altre democrazie europee?
CINZIA CAPANO. Grazie, presidente de Lise, per aver chiarito la differenza in ordine alla responsabilità dei magistrati sull'interpretazione della norma di diritto interno e della norma comunitaria.
Le chiedo se una delle differenze non stia anche nel fatto che, nell'interpretazione della norma comunitaria, il giudice possa, e nell'ultimo grado debba, rimettere la questione alla Corte di giustizia, quindi alla possibilità di avere un'interpretazione da un soggetto terzo deputato, con un margine molto più ridotto rispetto all'errore nell'interpretazione della legge che ha normalmente un giudice nell'applicare il diritto interno.
Ho letto la relazione scritta che ha consegnato alla presidenza, anche se un po' affrettatamente, e mi pare che essa tenda verso un rapporto organico sempre più forte tra le giurisdizioni, verso una relazione tra le due giurisdizioni, rispetto alla quale mi pare che lei privilegi la scelta di un organismo disciplinare congiunto.
In merito le pongo due domande. Rispetto a questa relazione non le pare che si configuri meglio un'unicità di giurisdizione piuttosto che una doppia giurisdizione? Inoltre, ho visto che lei nutre dubbi sull'impugnabilità delle sentenze alla Corte di cassazione. Non mi è chiaro se lei ritiene che non debbano essere impugnate alla Corte di cassazione perché a quel punto, essendo una giurisdizione che riguarda anche magistrati non ordinari, debba essere, per esempio, ricorribile, se il magistrato è amministrativo, al Consiglio di Stato, oppure se ritenga che non debbano essere proprio ricorribili, vale a dire che si pronunci questa Corte di giustizia in un unico grado. Se è così, come mi pare che lei ipotizzi, mi domando se lasciare a essa anche la possibilità di definire le regole del proprio funzionamento non sia un margine di discrezionalità troppo ampio che si attribuisce a questa Corte, la quale non
troverebbe neanche nella rappresentanza una propria legittimazione ad agire.
Stando a quanto ho capito, lei propone infatti che i suoi componenti siano eletti o comunque nominati tra personalità, e che non ci sia, quindi, un criterio di rappresentanza.
RITA BERNARDINI. Presidente de Lise, lei ha fatto una difesa strenua della legge sulla responsabilità civile dei magistrati vigente in Italia, la legge Vassalli varata...
PASQUALE DE LISE, Presidente del Consiglio di Stato. Una strenua difesa? No.
RITA BERNARDINI. Avevo compreso questo ma, se non è così, molto meglio.
PASQUALE DE LISE, Presidente del Consiglio di Stato. Credo che non esista un prodotto perfetto.
RITA BERNARDINI. Questo sicuramente non lo è.
PASQUALE DE LISE, Presidente del Consiglio di Stato. Se si dovesse ritenere inadeguata la legge n. 117 del 1988, la si potrebbe modificare, ma avendo presenti alcuni punti.
RITA BERNARDINI. Il problema - almeno dal punto di vista della mia parte politica - non è che si ritenga inadeguata questa legge, ma la si considera piuttosto come un'offesa fatta al popolo italiano all'indomani della votazione del referendum del 1987. Lo stesso Vassalli, a distanza di qualche anno, dichiarò che quella legge non assicurava nemmeno lontanamente il principio della responsabilità civile dei magistrati.
Basta guardare i risultati di questi 23 anni di applicazione: da una ricerca fatta
recentemente è emerso che sono stati solamente sei i magistrati ai quali è stato riconosciuto questo tipo di responsabilità per i giudizi dati.
Visto che non avevo compreso bene - ne sono molto contenta - le chiedo se lei magari sia in grado di dirci se va fatta una riforma radicale di questa legge. Mi consenta anche di dire, presidente, che ho trovato un po' singolare la sua espressione quando ha parlato del ruolo importante svolto dalla giustizia amministrativa, che in tutti questi anni ha svolto una grande opera, riferendosi a una legalità sostanziale piuttosto che a una legalità formale.
Anche da questo punto di vista sarei molto cauta perché con la legalità sostanziale si possono far fuori molti princìpi che invece dovrebbero essere rispettati. Se qualcuno, per esempio, si presentasse alle elezioni con delle firme false e vincesse quelle elezioni, secondo i princìpi della giustizia sostanziale il risultato sarebbe valido nonostante la falsità delle firme.
Da questo punto di vista farei attenzione perché il principio di legalità rischia di essere completamente compromesso. Parliamo, perciò, di legalità senza aggiungere aggettivi.
PRESIDENTE. Do la parola al presidente de Lise per la replica.
PASQUALE DE LISE, Presidente del Consiglio di Stato. Non ho fatto in tempo ad accorpare tutte le domande, quindi vi può essere qualche ripetizione o qualche omissione.
Per quanto riguarda la domanda dell'onorevole Bressa, sul principio di unità o pluralità della giurisdizione non sono purtroppo in grado di rievocare il dibattito intenso che vi fu in Assemblea costituente su questo argomento.
Avere un giudice deputato al controllo dell'esercizio della funzione pubblica - non un giudice speciale, ma un giudice specializzato per questa parte, o anche organicamente distinto dal resto della magistratura - a mio avviso è una risorsa, un arricchimento per il cittadino.
Credo che questo sia difficilmente contestabile. Dal punto di vista operativo, considero con orgoglio la giustizia amministrativa come un'isola felice nel panorama giudiziario italiano quanto ad efficienza, quanto ai tempi della giustizia, nonostante tutte le grandi carenze che noi stessi presentiamo e che non nego.
Storicamente, il nostro modello, il Conseil d'État francese, è molto più forte del nostro organismo.
Quest'anno celebriamo il centottantesimo anniversario dell'istituzione del Consiglio di Stato e siamo molto fieri di questo.
Se, invece, si ritiene opportuno mutare la Costituzione e creare quindi una giurisdizione unica, lo si faccia pure.
Della questione della funzione giurisdizionale e delle funzioni consultive si è occupata la Corte di giustizia - come lei mi insegna - e anche la CEDU (Corte europea dei diritti dell'uomo): queste preoccupazioni sono state, quindi, superate.
Noi, da quando mi occupo - anche se non da presidente - delle funzioni di vertice del Consiglio di Stato, teniamo nettamente distinte le due funzioni.
Quando sono entrato nel Consiglio di Stato, quarant'anni fa, dopo aver vinto il concorso di referendario, eravamo applicati contemporaneamente a due sezioni: una consultiva e una giurisdizionale. Si tenevano ogni settimana, dunque, un'adunanza in sede consultiva e un'udienza in giurisdizionale.
Oggi, invece, le teniamo distinte. L'unico luogo di confluenza di tutti i magistrati del Consiglio di Stato è l'adunanza generale, che, però, emette dei pareri su questioni di carattere generale che non sono suscettibili di essere oggetto di ricorsi giurisdizionali.
Vi è, quindi, una netta separazione tra le due funzioni che, peraltro, sono svolte con lo stesso stile. La funzione di controllo di legalità preventivo, quale si può definire la funzione consultiva, è complementare alla funzione giurisdizionale, che è il controllo di legalità successivo.
Noi cerchiamo di deflazionare la giurisdizione dando dei pareri quando ci vengono richiesti. Soprattutto negli ultimi
tempi, dopo le leggi Bassanini della fine degli anni Novanta, la funzione consultiva ha cambiato anche fisionomia. Essa non si limita alla consulenza sull'attività di gestione dell'amministrazione, ma vola un po' più in alto, considerato che si snoda su due direttrici: la sezione consultiva per gli atti normativi - che ho avuto l'onore di presiedere per diversi anni - che dà pareri sugli schemi di regolamento degli atti normativi del Governo; i pareri sui ricorsi giurisdizionali che, in virtù di precise disposizioni legislative, quindi date da voi, sono sempre più equiparati a un'attività giurisdizionale.
Il parere, inoltre, è divenuto vincolante; è stata prevista la possibilità di sollevare in sede di parere la questione di costituzionalità, quindi vi è stata una quasi totale assimilazione del rimedio amministrativo a quello giurisdizionale.
A mio avviso - così rispondo anche sulla questione dell'unicità della giurisdizione - le giurisdizioni debbono essere due; ciò non toglie, però, che vi siano dei punti di contatto.
Non credo che siano in contraddizione la mia tesi circa la duplicità organica dei plessi giurisdizionali e il fatto che il Tribunale dei conflitti debba essere misto. A questo punto, dovrebbe essere a tre.
La Corte dei conti è un po' recessiva rispetto alla giurisdizione. Nel momento in cui si crea il Tribunale dei conflitti, bisognerebbe inserire anche la Corte dei conti - questo è inevitabile - ferma, sempre, la presidenza del primo presidente della Cassazione.
A questo punto la Corte disciplinare dovrebbe essere l'unico grado, ma non solo per non renderla impugnabile in Cassazione. Se si ha la capacità, la forza, la volontà di creare un organo che sia veramente imparziale, che sia terzo, esso potrà giudicare in materia disciplinare in unico grado.
Molte volte è stato affermato dalla Corte costituzionale che non esiste, ai sensi della Costituzione vigente, una garanzia costituzionale del doppio grado. Vi può essere invece una disparità.
L'argomento della responsabilità è stato toccato con rilievi molto interessanti. Non intendo fare la difesa d'ufficio, e soprattutto strenua, di nessuno.
Ritengo che la responsabilità del magistrato debba essere affermata e disciplinata. Ho detto anche che la responsabilità va saggiata in concreto. Non si possono prevedere le condanne all'ergastolo e pensare che facciano diminuire gli omicidi e i delinquenti.
Quello che, in particolare, ho criticato del disegno di legge governativo è l'equiparazione ai funzionari. La Corte costituzionale stessa ha detto che si tratta di un'altro piano. I magistrati non si possono sentire minacciati se sbagliano una sentenza.
Il discorso è diverso per il penale, che è più delicato. Ho visto che diverse proposte di legge abbinate e di cui si discute - anche se ci soffermiamo sul disegno di legge del Governo che è il più completo, il più ampio, il più importante - sono formate da un articolo unico che riguarda la responsabilità penale del magistrato (si richiamano il caso Tortora ed altri casi).
Non pretendo assolutamente, non chiedo, non prospetto che al magistrato si debba riservare un trattamento di favore, ma un trattamento congruo - questo, però, non compete a me, è di competenza del legislatore - ossia un trattamento di responsabilità che sia serio e che produca una maggiore diligenza e una maggiore attenzione.
Non penso solo al magistrato che arresta inutilmente qualcuno, ma anche a quello che impiega tre anni per emettere una sentenza, che consente che io finisca sui giornali, e si chiede chi ne abbia parlato. Vogliamo discutere anche di queste cose? Vogliamo parlare della responsabilità dei magistrati?
Ci sono passato anche io, allorché, alla vigilia del mio insediamento come presidente del Consiglio di Stato - era prevista anche la presenza del Presidente della Repubblica - sono finito su tutti i giornali. Quando mi sono presentato spontaneamente a Perugia hanno negato di aver parlato con i giornalisti. Spiegatemi, allora,
chi ha mandato quei dieci fotografi che ho trovato alle otto del mattino fuori dalla procura di Perugia.
Non è vero, dunque, che difendo a spada tratta qualcuno. Dovete, però, cercare come legislatori un sistema congruo.
ROBERTO GIACHETTI. Il fatto che dovremmo trovare un sistema congruo potrebbe significare che lei intende dire che quello attuale non è del tutto congruo?
PASQUALE DE LISE, Presidente del Consiglio di Stato. No, ho solo detto che se - dico «se» perché non sta a me giudicare, ognuno si prenda le sue responsabilità, - si considera inadeguata la legge Vassalli, allora va modificata.
Noi siamo degli attuatori, non voglio dire a bouche de lois, perché pare che ormai sia superato. Noi cerchiamo di essere, anzi dobbiamo essere degli esecutori delle cose che ci dite voi. Non invertiamo i ruoli. Ho detto che ognuno deve essere rispettoso dei ruoli.
Non ho capito bene questa modifica dell'articolo 101 della Costituzione che si riflette nell'articolo 104 della Costituzione. L'articolo 104 attuale reca che la magistratura costituisce un ordine indipendente eccetera. Ugualmente il nuovo articolo 101, che però si riferisce ai giudici piuttosto che alla magistratura.
Mentre attendevo di essere audito, ho sentito che l'avvocato Caramazza ha posto il problema del conflitto di attribuzione. Oramai, la Corte costituzionale su questo - giustamente, a mio avviso - ha esteso il conflitto. Anche i capitani di porto possono sollevare il conflitto di attribuzione.
Noi, come Consiglio di Stato, non lo abbiamo mai fatto, ma saremmo legittimati a farlo perché è, appunto, l'organo di vertice di un potere inteso in senso ampio, che può essere anche ordine. Attualmente si parla di ordine e nessuno ha contestato questo.
FEDERICO PALOMBA. Attualmente l'articolo 104 della Costituzione recita: «costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere dello Stato». Nel testo del disegno di legge del Governo non c'è più la parola: «altro».
PRESIDENTE. Non è il presidente de Lise che può risolvere questo problema.
FEDERICO PALOMBA. C'è un declassamento della magistratura.
PASQUALE DE LISE, Presidente del Consiglio di Stato. «Un ordine autonomo e indipendente da ogni potere»: lo dice il nuovo articolo.
La questione di «altro» non mi ha mai appassionato; viene portata avanti dai magistrati ordinari, ma è una forma quasi di diminutio.
Non è necessario essere definito «potere» per svolgere determinate azioni; deve essere possibile svolgerle anche in qualità di ordine.
Riguardo al fatto che non si parli del procuratore della Corte dei conti non saprei dire. Il disegno di legge è rivolto prevalentemente alla magistratura ordinaria. Ho compiuto un pascolo abusivo quando ho consigliato di creare il Tribunale dei conflitti o la Corte disciplinare che comprenda anche noi. In effetti, non è previsto. Noi siamo inclusi solo formalmente nel nuovo articolo 113 bis, proposto dal disegno di legge del Governo.
Dei conflitti a tre ho già parlato. Per la Corte disciplinare ritengo che bisogna inventare un meccanismo veramente obiettivo. Perché onestamente il sorteggio non è la soluzione ideale.
PRESIDENTE. Ringraziamo il presidente de Lise e gli auguriamo un buon lavoro.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 13,30.