Sulla pubblicità dei lavori:
Pianetta Enrico, Presidente ... 3
INDAGINE CONOSCITIVA SUGLI OBIETTIVI DI SVILUPPO DEL MILLENNIO DELLE NAZIONI UNITE
Seguito dell'audizione di rappresentanti del Centro studi di politica internazionale (CESPI):
Pianetta Enrico, Presidente ... 3 4 9 10
Barbi Mario (PD) ... 4
Rhi-Sausi José Luis, Direttore del CESPI ... 3 7
Zupi Marco, Direttore scientifico del CESPI ... 4 9
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: (Misto-RRP).
Resoconto stenografico
INDAGINE CONOSCITIVA
La seduta comincia alle 13,20.
(Il Comitato approva il processo verbale della seduta precedente).
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sugli obiettivi di sviluppo del Millennio delle Nazioni Unite, il seguito dell'audizione di rappresentanti del Centro studi di politica internazionale (CESPI).
Come voi ricorderete i rappresentanti sono stati sentiti il 20 maggio scorso e per questioni di tempo non abbiamo potuto concludere l'audizione. Ricordo ai colleghi che è in distribuzione il resoconto dei lavori della scorsa seduta a cui sono state allegate le slide utilizzate in quella occasione.
Do ora parola agli auditi, con la preghiera di sintetizzare o comunque di riprendere il loro intervento e di completare la loro audizione.
JOSÉ LUIS RHI-SAUSI, Direttore del CESPI. Vorrei richiamare molto brevemente alcuni elementi del rapporto che abbiamo presentato a questo Comitato, con l'idea di analizzare più approfonditamente il quadro concettuale e operativo degli Obiettivi del millennio. Noi abbiamo tentato di fare una analisi critica di questo quadro perché riteniamo che porre obiettivi quantificabili - quali quelli indicati negli MDG - rappresenti sicuramente un pregio, ma possa costituire anche un elemento problematico. In particolare perché, come abbiamo indicato nel rapporto, non è la prima volta che la comunità internazionale si propone di raggiungere quegli obiettivi, tanto che sorge spontanea la domanda: cosa succederà questa volta, quando è già noto che essi non saranno raggiunti?
La domanda che poniamo è se non sarebbe il caso di cercare di inquadrare in maniera migliore i collegamenti tra gli obiettivi perseguiti e gli scenari internazionali. Quindi, il rapporto compie una disamina dettagliata di tutti gli elementi, le contraddizioni e le tensioni esistenti all'interno della proposta degli Obiettivi del millennio.
In particolare, con l'intervento di oggi vogliamo mettere in luce come con l'approccio degli Obiettivi del millennio non si riesca ad incrociare le grandi tematiche dello scenario internazionale. Ci riferiamo soprattutto ai limiti dell'approccio degli Obiettivi del millennio nell'affrontare i problemi della vulnerabilità: oggi, soprattutto, che ci troviamo davanti ad una profonda crisi economica mondiale in cui aumenta il numero dei poveri, ci lamentiamo che gli Obiettivi del millennio avrebbero magari potuto essere sostanzialmente raggiunti se non fosse sopraggiunta la
crisi. In realtà, non credo che questo sia vero: il problema è la politica che è stata seguita, non è la crisi, che è una componente degli scenari internazionali. Serve quindi uno sforzo per seguire strade magari un po' più complesse, che affrontino però i nodi principali.
Per questo il rapporto indica due terreni di possibili incroci. Il primo è quello della sicurezza energetica, come problema non esclusivamente europeo bensì mondiale, che ha molto a che vedere con il tema di come fare fronte alla povertà nel mondo. Il secondo esempio che viene trattato nel rapporto è quello dei cambiamenti climatici. Voglio dire in questa sede che per noi è stato motivo di soddisfazione avere contributo alla Presidenza italiana del G8, che ha inserito la tematica dei cambiamenti climatici e della mobilità umana in Africa nell'agenda che è stata discussa qualche giorno fa a Roma. Noi riteniamo che questo tipo di approccio debba essere collegato con gli Obiettivi del millennio.
In sintesi, dunque, naturalmente noi non riteniamo sbagliati gli Obiettivi del millennio ma indichiamo, soprattutto ad un gruppo di lavoro parlamentare come il vostro, la necessità di ampliare l'orizzonte agli scenari internazionali e in particolare alla tematica della vulnerabilità alla crisi economica.
PRESIDENTE. Chiedo ai colleghi se vogliono fare qualche considerazione in merito, riprendendo per esempio le ultime considerazioni che sono state fatte circa la questione energetica e i cambiamenti climatici che possono indubbiamente rappresentare un elemento che si interseca con la crisi e con implicazioni circa il raggiungimento degli Obiettivi del millennio.
MARIO BARBI. Purtroppo ho perso «la puntata precedente» è posso quindi intervenire solo con informazioni insufficienti. Approfitterei comunque dell'occasione che abbiamo per fare una riflessione e qualche domanda. Ho colto, dalle cose che dite e dal materiale che ho rapidamente esaminato, una vostra posizione piuttosto critica rispetto a questo grande scenario degli Obiettivi del millennio, pur se essi si presentano come un veicolo per rendere accessibile e comprensibile ad una opinione pubblica allargata un impegno ed una prospettiva che, in quanto tali, non possono che essere condivisibili. Vi chiederei quindi di approfondire in che cosa consista questa vostra opinione piuttosto critica.
L'altro aspetto su cui vorrei conoscere la vostra opinione è la situazione della cooperazione italiana, che in questo momento è soggetta ad una situazione di crisi di risorse, di missione, di insufficienza di coordinamento e di prospettive.
MARCO ZUPI, Direttore scientifico del CESPI. Rispetto agli elementi critici degli Obiettivi di sviluppo del millennio c'è innanzitutto l'insegnamento che ci viene dalle esperienze già vissute. Gli obiettivi centrali, a cominciare dal primo, erano già stati fissati in precedenza: quello di eliminare la povertà fu fissato nel 1973 e doveva essere raggiunto nel 1990; il che non è avvenuto e nulla è successo.
È sicuramente un elemento incoraggiante il fatto che si fissino degli obiettivi concreti da raggiungere nell'arco di alcuni anni, sulla base di una tempistica chiara; tuttavia, un problema spesso legato a obiettivi che impegnano tutti contemporaneamente e indistintamente è che nessuno di fatto si impegna a perseguirli fortemente e individualmente. Anche perché spesso l'alibi è quello dei fattori esterni e imprevisti che sopraggiungono inaspettatamente e impediscono il raggiungimento di quegli obiettivi, malgrado in realtà questi fattori abbiano un carattere di permanenza negli anni.
Ricordiamo come circa un anno fa il Segretario generale delle Nazioni Unite, prima dell'esplodere su scala internazionale della crisi finanziaria ed economica, si lamentasse dell'emergenza per gli Obiettivi di sviluppo del millennio, causata dall'aumento del prezzo del petrolio e prima ancora dei prodotti alimentari. Quella che oggi definiamo una nuova emergenza, cioè la crisi economica, in
realtà rientra purtroppo in una serie piuttosto ricorrente di ostacoli esterni al raggiungimento degli Obiettivi del millennio.
L'altro elemento critico, che sta proprio al cuore della concettualizzazione di quegli Obiettivi e anche delle strategie di cooperazione allo sviluppo, sta nel porre al centro l'obiettivo della riduzione della povertà. Il fatto in qualche modo paradossale che emerge guardando i dati sugli Obiettivi di sviluppo del millennio è che i maggiori successi si registrano in aree emergenti - Cina, India, Indonesia e Vietnam - che non sono oggi al centro della politica di cooperazione allo sviluppo.
Assistiamo quindi a questo paradosso delle due tragedie: la tragedia dei 30 mila bambini che muoiono ogni giorno a causa della povertà e, dall'altra parte, i 2.600 miliardi di dollari spesi finora negli scorsi decenni per la cooperazione allo sviluppo, con l'obiettivo centrale della riduzione della povertà. Il quale obiettivo, dove è stato raggiunto, non deve troppo alla cooperazione allo sviluppo.
C'è un altro elemento centrale che la crisi economica fa esplodere oggi con chiara evidenza. Gli Obiettivi del millennio hanno posto al centro della sfida per sconfiggere la povertà una visione semplificata della realtà, dando l'illusione che il mondo sia diviso nettamente tra poveri e non poveri, sulla base di una dicotomia per cui quelli che hanno bisogno degli aiuti sono le persone che hanno meno di un dollaro al giorno, mentre chi è immediatamente sopra quella soglia non è povero.
Il dramma che ci mostra la crisi economica attuale, invece, è che c'è un elemento di vulnerabilità, di precarietà, molto più generalizzato e che interessa fortemente anche quel segmento di popolazione appena al di sopra del dollaro, popolazione che non è centrale nelle strategie di cooperazione allo sviluppo se queste sono concentrate su chi guadagna meno di un dollaro al giorno, ma che rischia di precipitare in questi anni, a causa degli effetti dirompenti della crisi economica e finanziaria, nella povertà.
Quindi c'è un aumento di poveri anche perché - semplificando molto - si è erroneamente pensato che si potesse distinguere in modo netto tra poveri e non poveri. Questo ha a che vedere con i rapporti tra il tema centrale della povertà e le strategie più complessive di sviluppo. Non c'è una scorciatoia che ci possa illudere che siano sufficienti le politiche della cooperazione allo sviluppo - al di là delle scarse risorse italiane o internazionali - per affrontare i nodi del modello di sviluppo complessivo. La cooperazione allo sviluppo può fare la sua piccola parte, ma prefiggersi di farne il perno per la riduzione della povertà può avere un effetto negativo di boomerang per la credibilità di quelle stesse politiche: la povertà si è ridotta in Cina non grazie anzitutto agli aiuti internazionali, che anzi si misurano da anni con la necessità di una strategia di
uscita, mentre non si riduce in Africa sub-sahariana, che viene ripetutamente posta al centro degli interessi della cooperazione allo sviluppo.
Al tempo stesso, proprio questa strategia degli Obiettivi di sviluppo del millennio - basata sull'impegno a misurarsi con il raggiungimento degli obiettivi a distanza di anni - tende ad orientare l'azione internazionale verso strategie più «facili», che cioè permettano di raggiungere risultati da presentare alla comunità internazionale a dimostrazione della bontà del nostro impegno e della operatività della cooperazione allo sviluppo. In altri termini, dovere dimostrare di sapere raggiungere degli obiettivi e di essere quindi efficaci, crea incentivi a favore di obiettivi più facilmente raggiungibili, anche se non centrali per lo sviluppo di lungo periodo.
Pensiamo al secondo Obiettivo, relativo all'iscrizione alle scuole elementari. Questo è sicuramente un obiettivo importante da raggiungere, ma non dimentichiamoci che in termini di sviluppo l'obiettivo dell'iscrizione universale è solo un input, un elemento iniziale che deve consentire innanzitutto l'acquisizione di conoscenze. I dati purtroppo ci dicono che, ad esempio, in Ghana ed in Kenya l'aumento delle
iscrizioni è stato notevole, ma all'uscita della scuola elementare le bambine non sanno né leggere né scrivere.
Quello che è un obiettivo di sviluppo, cioè l'educazione, è importante perché deve permettere di acquisire conoscenza. Alcuni degli Obiettivi di sviluppo del millennio sono discutibili proprio in quanto obiettivi, mentre forse si tratta di input, mezzi per raggiungere quegli obiettivi; ma di certo nella attuale formulazione sono più facili da raggiungere. È più facile, cioè, fare in modo che si raggiunga l'obiettivo dell'iscrizione scolastica di base universale piuttosto che assicurare che tutti i bambini siano istruiti. Non che l'iscrizione non serva, ma l'obiettivo dell'istruzione richiede anche la presenza di docenti qualificati che non vivano nel precariato, infrastrutture scolastiche minime quali la possibilità di avere i libri, lavagne e gesso, incentivi perché le famiglie, oltre a iscrivere i bambini, si impegnino a farli andare a scuola per l'intero anno e così via. È
evidente che un obiettivo apparentemente settoriale come l'educazione richiede il concorso di interventi differenziati.
Un caso emblematico della tendenza invece a settorializzare la pratica degli interventi per combattere la povertà è il documento strategico di programmazione della cooperazione allo sviluppo della Germania, presentato a inizio degli anni Duemila, in cui si legge che l'obiettivo della cooperazione allo sviluppo è la riduzione della povertà, che la povertà è un fenomeno multidimensionale, ma in termini operativi ci si concentrerà su alcuni settori specifici.
È emblematica, cioè, la difficoltà di fare i conti con l'appello alla multidimensionalità dello sviluppo e della povertà, dovendo poi operare concretamente in modo settoriale, limite che ritroviamo anche nell'impostazione degli Obiettivi di sviluppo del millennio: abbiamo l'Obiettivo salute e l'Obiettivo istruzione che tra loro in realtà interagiscono, in maniera peraltro complessa, il che rende tutto ancora più difficile.
Alcuni obiettivi come quello dell'istruzione non a caso sono più facilmente raggiungibili e hanno registrato parziali successi; tuttavia la crisi economica, che colpirà soprattutto le fasce più vulnerabili della popolazione, a cominciare dalle bambine, avrà effetti negativi anche su di essi. In questo caso è chiara l'interazione fra la dimensione di genere, l'obiettivo specifico dell'istruzione e quello della salute.
Un altro punto nodale: asse portante per il discorso sullo sviluppo, soprattutto in Europa, è il lavoro. Lo sviluppo e la coesione sociale passano attraverso il diritto al lavoro: la costruzione del modello sociale europeo e più recentemente l'agenda di Lisbona lo formalizzano chiaramente. Inizialmente, nel 2000, il tema del lavoro dignitoso non era stato inserito come obiettivo centrale di sviluppo del millennio, poi è stato recuperato per rispondere a una richiesta che veniva esplicitamente dall'Organizzazione internazionale del lavoro, che su quello basa la sua strategia. Ma questa, all'opposto dell'istruzione universale e dell'iscrizione scolastica, è un'ambizione molto importante, che però è difficile misurare concretamente. Se vogliamo sapere quali e quanti sono i risultati in termini di lavoro dignitoso conseguiti oggi, non abbiamo dati. Dobbiamo cioè fare i conti anche con obiettivi strategici importanti che faticano
a trovare una misurabilità che ci possa consentire di valutare i risultati.
C'è poi un elemento trasversale importante che rimane fuori da tutto il discorso degli Obiettivi di sviluppo del Millennio e che la crisi economica riporta al centro, ed è quello del nesso tra povertà e disuguaglianza.
Quello che dicevo prima rispetto al limite di porre la povertà come un fenomeno dicotomico - distinguendo chi sta sotto e chi sta sopra la soglia del dollaro giornaliero - indica la necessità di considerare come fondamentale il rapporto che la povertà ha con la stratificazione sociale, cioè con la disuguaglianza. L'effetto della crisi economica - che, combinandosi con gli aumenti dei prezzi alimentari e del petrolio, produrrà secondo le previsioni 200 milioni di nuovi poveri - è legato proprio al problema della vulnerabilità di
larghe fasce di popolazione mondiale, al di là di chi ha meno di un dollaro, cioè dei non poveri in senso assoluto che rischiano di precipitare al di sotto della fatidica soglia, il che riporta alla centralità del nesso tra povertà e disuguaglianza.
Tanto è che un rebus correlato dello sviluppo, su cui si cimenta molta letteratura, è quello del rapporto tra crescita economica e riduzione della povertà. La domanda è quanto la crescita economica, che è il motore dello sviluppo così come lo concepiamo, determini effetti positivi, benefici diretti in termini di riduzione della povertà. I fatti degli ultimi anni ci indicano che esiste una relazione asimmetrica: laddove non c'è crescita economica, fase che stiamo vivendo in questi ultimi mesi, c'è un effetto particolarmente negativo sulle fasce più povere, che sono quelle più vulnerabili. Esiste quindi una relazione diretta: se non c'è crescita pagheranno molto di più i poveri; la decrescita economica si accompagna a un peggioramento delle loro condizioni.
In senso inverso, invece, se c'è maggiore crescita non c'è necessariamente una maggiore riduzione della povertà. Ci sono casi in cui ad un aumento della crescita economica corrisponde una riduzione della povertà, ma non sempre. Il fattore decisivo che fa la differenza è proprio il quadro della disuguaglianza, della stratificazione economica, del modello di inclusione nel mercato del lavoro, tutti elementi che invece non rientrano negli Obiettivi di sviluppo del millennio. Laddove la disuguaglianza è minore e ci sono politiche particolarmente attente a questo aspetto, la crescita economica riesce a produrre maggiori effetti in termini di riduzione della povertà.
JOSÉ LUIS RHI-SAUSI, Direttore del CESPI. Prima di rispondere alla seconda questione che l'onorevole Barbi ha posto vorrei illustrare che cosa in positivo potrebbe essere aggiunto agli Obiettivi del millennio. Nelle politiche contro la povertà vanno inseriti alcuni elementi dinamici. In particolare ne vorrei indicare tre: politiche che creino mobilità sociale, politiche che creino opportunità e politiche che creino sostenibilità.
Noi riteniamo che una politica contro la povertà che non affronti, o consideri secondario, il problema dell'eguaglianza abbia ben poche possibilità di successo. Il punto non è solo come affrontiamo il problema di quelli che vivono con un dollaro al giorno, ma come permettiamo che le persone con un dollaro possano avere una mobilità che gli consenta di arrivare a 1,3 dollari, che abbiano spazi di opportunità per arrivare magari a 2 dollari, e soprattutto come impedire che una volta arrivati a 2 non tornino a 1 dollaro. Tutto questo elemento dinamico nell'approccio degli Obiettivi di millennio non è molto presente e in alcuni casi si manifesta in modo molto contraddittorio; la via seguita dagli Obiettivi è dunque apparentemente facile ma nega la complessità che esiste nella realtà.
Tornando alla politica di cooperazione italiana, vorrei soffermarmi brevemente solo su alcuni spunti. È chiaro che, nella breve storia della cooperazione italiana, il taglio operato agli aiuti pubblici allo sviluppo è l'elemento che richiama di più l'attenzione perché si tratta di una percentuale di riduzione molto consistente. In prospettiva, però, riscontriamo una parabola abbastanza chiara degli aiuti pubblici allo sviluppo italiani, che iniziano in misura consistente negli anni Ottanta, raggiungono un picco a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta e poi cominciano a diminuire.
Allora ovviamente la domanda è perché l'Italia abbia inizialmente deciso di fare la cooperazione è perché questa non sia successivamente diventata uno strumento importante della politica estera italiana, fino ad arrivare alla situazione attuale, in cui il messaggio che si legge tra le righe è che l'Italia può fare politica estera senza politica di cooperazione allo sviluppo. Questo è il messaggio che noi riceviamo, dato che la legge dice che la cooperazione è parte fondamentale della politica estera; quindi anche senza quello strumento noi possiamo fare politica estera.
Se noi osserviamo la fase di crescita della cooperazione italiana ci sono alcuni fattori da tenere presenti. L'Italia è uno dei paesi che sono entrati tardi nel mercato della cooperazione internazionale, non è tra i fondatori di quel sistema. La fase espansiva della cooperazione italiana è molto legata alla partecipazione del paese al club delle potenze della comunità internazionale.
Io credo che sia difficile separare la partecipazione italiana alla cooperazione internazionale dall'ingresso del paese nel G7. È chiaro che entrare nel «club dei ricchi» aveva dei costi politici, e uno di questi era la cooperazione internazionale. Nel momento in cui l'Italia è entrata a fare parte del G7 e successivamente del G8, questo elemento sembra non essere stato più così pressante. In quale altro momento noi registriamo una cooperazione quantitativamente significativa? Quando essa è stata in maniera diretta o indiretta parte della politica economica estera dell'Italia. Nel momento in cui le imprese italiane sono state attori importanti della cooperazione allo sviluppo, osserviamo una loro presenza quantitativamente significativa nella cooperazione internazionale. Quindi se noi vogliamo individuare i due principali fattori che spiegano la crescita della cooperazione internazionale, uno sono gli interessi diplomatici, di
prestigio internazionale, e l'altro sono gli interessi economici. In una fase in cui questi due fattori non risultano rilevanti, osserviamo che non ci sono altri fattori sufficientemente forti da alimentare la cooperazione internazionale dell'Italia. Va detto, inoltre, che non abbiamo un movimento di opinione pubblica a favore della cooperazione internazionale.
Nelle legislature passate il dibattito parlamentare è stato molto vasto, ma ha riguardato soprattutto la riforma del sistema della cooperazione. Credo che noi ci troviamo di fronte ad una specie di bivio. La domanda di fondo è: la cooperazione allo sviluppo è necessaria per la politica estera italiana? La risposta, a mio parere personale, è ovviamente sì, però occorre individuare i fattori che permettano alla cooperazione di riscuotere un consenso sufficiente, perché si tratta di risorse del contribuente e quindi questo consenso è importantissimo. In secondo luogo, sappiamo gestire le risorse della cooperazione allo sviluppo? Abbiamo un problema di gestione della cooperazione e in Parlamento per varie legislature si è cercata una soluzione a questo problema, senza trovarla.
Però i problemi restano sul tappeto. Quali elementi dovrebbero essere considerati? Io credo che un elemento che non è sufficientemente considerato è il contributo che l'Italia può dare alla cooperazione internazionale ai fini della lotta alla povertà. In questo ambito, esistono almeno due terreni in cui l'Italia è particolarmente adatta a dare un contributo. Il primo sono i programmi socio-sanitari, nei quali il paese vanta una grande tradizione e precedenti molto positivi. Il secondo terreno è lo sviluppo territoriale: un approccio italiano particolarmente efficace, nel cui ambito è possibile affrontare in modo integrale i temi che negli Obiettivi del millennio appaiono settorializzati.
Nell'approccio territoriale, infatti, la sanità non può essere separata dal lavoro, né dall'educazione. Da questo punto di vista, vorrei richiamare la vostra attenzione sulla cooperazione decentrata: un campo da seguire con grande attenzione perché mi pare che nell'arco degli ultimi 10-15 anni l'unico elemento innovativo positivo espresso dalla cooperazione italiana sia la cooperazione decentrata. Infine, un ultimo tema che mi sembra un fattore di spinta importante per la cooperazione è il problema della mobilità umana.
La mobilità umana è un tema più vasto dell'immigrazione. Il problema della mobilità umana, o delle migrazioni interne, è a volte più significativo e più grave nei Paesi d'origine dei flussi migratori. Un collegamento tra la cooperazione internazionale e la mobilità umana o l'emigrazione internazionale può rappresentare un complemento fondamentale alle politiche migratorie. E credo che questo in particolare in Italia potrebbe essere un grande
tema che offrirebbe spazi per interventi preventivi da parte della cooperazione internazionale. Grazie.
PRESIDENTE. Vi chiederei, prima di concludere questa audizione, di esprimere una vostra considerazione per quanto riguarda la cooperazione. Sappiamo che la crisi sta riducendo le disponibilità e sappiamo anche che un tema molto dibattuto è l'efficienza della cooperazione. Da questo punto di vista qual è la vostra considerazione?
MARCO ZUPI, Direttore scientifico del CESPI. Negli ultimi anni la necessità di motivare e giustificare un maggiore impegno finanziario per gli aiuti ha fatto emergere l'efficacia degli aiuti come tema centrale. Il processo internazionale sull'efficacia degli aiuti - le conferenze di Roma, Parigi, Accra - ha definito un quadro e un consenso, tra i donatori «tradizionali», in termini di principi e strumenti di lavoro. Il problema dell'efficacia degli aiuti è sicuramente importante, ma anche in questo caso il problema è capire e intendersi bene su cosa si discute. Se noi parliamo di processi di sviluppo che devono in qualche modo essere sostenuti dall'esterno con l'aiuto pubblico allo sviluppo, allora l'orizzonte temporale dei processi di sviluppo è piuttosto di lungo periodo.
L'efficacia, concettualmente, di per sé rimanderebbe proprio alla questione dell'impatto di lungo periodo. Allo stesso tempo, quello che chiede la comunità internazionale, anche per rispondere ai cittadini contribuenti, è di avere un'immediata dimostrazione dei risultati conseguiti. Questa è però una tensione irrisolta: per un verso ci si prefigge di accompagnare i processi di sviluppo nel lungo periodo, ma allo stesso tempo quella efficacia la vogliamo immediatamente. Questa è una tensione che rischia di risolversi sempre a favore delle soluzioni facili, del quick impact e dell'emergenza. Quando si dice che in ragione dei fallimenti della cooperazione allo sviluppo il nuovo sistema degli aiuti si deve basare sui risultati, ciò comporta che un'agenzia di cooperazione allo sviluppo avrebbe molta difficoltà e scarsi incentivi ad avventurarsi su terreni nuovi, non esplorati, ma che probabilmente sono al centro
delle sfide attuali e future, preferendo ripercorrere sentieri già noti e, tra le varie opzioni, le strade più battute e facili.
Se non vogliamo che la cooperazione allo sviluppo resti confinata in una nicchia residuale della realtà, in cui aiutare i più poveri e fare emergenza, bisogna rischiare e accettare fallimenti e non essere guidati unicamente dalla logica dei risultati come misura dell'efficacia.
Quindi, per esempio, le campagne di vaccinazione sono vitali, sono fondamentali per salvare bambini, ma sono anche più facili come strade rispetto a promuovere lo sviluppo nel lungo periodo.
Su questo pesa molto anche un aspetto culturale importante che riguarda la cooperazione italiana allo sviluppo. Non dimentichiamoci che in Italia c'è una forte sensibilità dell'opinione pubblica, dei cittadini, rispetto agli aspetti emergenziali. Come saprete, in Italia le associazioni che fanno adozione a distanza raccolgono molte più risorse rispetto a quella che è la dotazione del Ministero degli Esteri per la cooperazione bilaterale allo sviluppo.
Oltre un milione di persone nel nostro paese sostengono, attraverso più di 130 organizzazioni non-profit, più di 2 milioni e mezzo di bambini in 110 paesi in via di sviluppo, con oltre 250 milioni di euro all'anno. Pensiamo alle principali organizzazioni, che hanno un bilancio annuale di 40 milioni di euro, di cui quasi 35 milioni (l'82 per cento) per l'adozione a distanza. C'è una sensibilità importante rispetto a questi temi, ma stiamo parlando di assistenza, carità ed emergenza, non di cooperazione e partenariato rispetto alle grandi sfide mondiali dello sviluppo. L'efficacia degli aiuti, se è schiacciata unicamente sui risultati immediati, rischia di essere penalizzante per il processo di sviluppo nel lungo termine.
È importante, invece, riconsiderare l'interazione tra i settori, quindi misurare l'efficacia anche in termini di rafforzamento delle capacità istituzionali di collegare
i temi e le politiche, cioè aspetti che non sono solitamente misurati nel quadro degli indicatori sull'efficacia degli interventi, e misurare il grado di sostenibilità istituzionale, in termini anzitutto di capacità di reagire alle crisi. Un altro paradosso della cooperazione allo sviluppo è proprio questo: nella programmazione degli interventi, dovendosi prefiggere l'obiettivo dell'efficacia, si pensa di potere in qualche modo controllare tutti i fattori del processo dello sviluppo. Poi arriva la crisi economica, che è un fattore esterno. Un elemento di reale efficacia è, piuttosto, quello di riuscire a produrre effetti di resilienza nelle popolazioni deboli rispetto a crisi che non sono previste. Cioè la capacità di adattarsi e reagire in modo sostenibile all'imprevisto. Quello è un elemento di efficacia essenziale nei processi di sviluppo, spesso guidati dall'interazione con l'imprevisto, che invece
nella logica progettuale non è contemplato. L'efficacia è indubbiamente un elemento di fondamentale importanza, in ragione se non altro del fatto che ci sono stati decenni di fallimenti nella cooperazione allo sviluppo. Tuttavia, anche questo dovrebbe probabilmente essere letto in maniera diversa e rapportato direttamente alla durezza delle sfide dello sviluppo.
PRESIDENTE. Giudico molto interessante questa seconda parte dell'audizione che ha completato quanto detto nella seduta del 20 maggio scorso. Ringrazio quindi i nostri ospiti e dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 13,55.