Sulla pubblicità dei lavori:
Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 3
INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME DELLA COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE - ANALISI ANNUALE DELLA CRESCITA PER IL 2012 E RELATIVI ALLEGATI (COM(2011)815 DEFINITIVO)
Audizione del Presidente della Corte dei conti, Luigi Giampaolino:
Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 3 11 16 20
Cambursano Renato (Misto) ... 14
Ciccanti Amedeo (UdCpTP) ... 12
D'Amico Natale Maria Alfonso, Consigliere della Corte dei conti ... 19
De Micheli Paola (PD) ... 15
Giampaolino Luigi, Presidente della Corte dei conti ... 3 16 18 20
La Malfa Giorgio (Misto-LD-MAIE) ... 16
Marchi Maino (PD) ... 11
Marsilio Marco (PdL) ... 13
Mazzillo Luigi, Presidente di sezione della Corte dei conti ... 17
Nannicini Rolando (PD) ... 14
Pala Maurizio, Consigliere della Corte dei conti ... 18
Rubinato Simonetta (PD) ... 16
Simonetti Roberto (LNP) ... 13
Vannucci Massimo (PD) ... 12
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A; Misto-Noi per il Partito del Sud Lega Sud Ausonia: Misto-NPSud; Misto-Fareitalia per la Costituente
Popolare: Misto-FCP; Misto-Liberali per l'Italia-PLI: Misto-LI-PLI; Misto-Grande Sud-PPA: Misto-G.Sud-PPA.
Resoconto stenografico
INDAGINE CONOSCITIVA
La seduta comincia alle 13.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nel quadro dell'indagine conoscitiva nell'ambito dell'esame della Comunicazione della Commissione - Analisi annuale della crescita per il 2012 e relativi allegati (COM(2011)815 definitivo), l'audizione del Presidente della Corte dei conti, Luigi Giampaolino.
Sono presenti anche il dottor Maurizio Meloni, il dottor Luigi Mazzillo, il dottor Maurizio Pala, il dottor Vincenzo Palomba, il dottor Natale Maria Alfonso D'Amico e il dottor Luigi Caso, che ringrazio per essere intervenuti.
Do la parola al presidente Giampaolino, ringraziandolo ancora per aver accettato, come sempre con la massima disponibilità, il nostro invito.
LUIGI GIAMPAOLINO, Presidente della Corte dei conti. Siamo noi a essere molto grati, signor presidente, per averci offerto l'occasione di esercitare una funzione alla quale noi diamo particolare rilievo, quella di poter essere - nei limiti delle nostre competenze, delle nostre attitudini e delle nostre funzioni - un apporto al Parlamento.
Il documento che leggerò s'intitola, nel suo primo capitolo, il quale si esplica poi in altri paragrafi, «Crescita e risanamento». Con questa endiadi, la Corte ha voluto ricapitolare le risposte che ha ritenuto di dover dare al questionario che ci è stato inviato.
Questo argomento di fondo si articolerà, in particolare, in un'attenzione peculiare alla spending review, alla politica fiscale e, inoltre, un paragrafo specifico riguarderà «Ritardi nei pagamenti e debiti pregressi», un argomento che si ritiene possa interessare la Commissione.
Crescita e risanamento: i quesiti posti dalla Commissione partono dal tema delle relazioni fra risanamento finanziario e crescita economica. La questione merita di essere considerata con attenzione: la linea interpretativa da tempo proposta dalla Corte dei conti è quella secondo la quale l'azione di risanamento finanziario non solo costituisce una precondizione affinché l'Italia possa riprendere il cammino della crescita economica ormai abbandonato da un decennio, ma è essa stessa fattore di crescita economica.
La ricostruzione dei fatti non lascia adito a dubbi. Un elevato debito pubblico, alimentato da persistenti deficit annuali di bilancio, determina prima o poi - come si è verificato a partire dalla scorsa estate - un rialzo del costo del debito sovrano.
Velocemente tale rialzo nel costo del debito pubblico si trasferisce sul costo del credito per le famiglie e per le imprese. Ne segue la caduta di quella parte della domanda più sensibile al tasso d'interesse e cioè, in primo luogo, degli investimenti e dei consumi durevoli. Particolarmente negativa è la caduta degli investimenti: infatti, è proprio attraverso gli investimenti che le imprese incorporano nei processi produttivi l'innovazione tecnologica; una caduta degli investimenti ha effetti di lungo periodo sull'efficienza del sistema produttivo e, con essa, sulle prospettive di crescita dell'economia.
Questa sequenza ha trovato palese conferma nelle vicende più recenti che hanno caratterizzato l'economia e la finanza pubblica nazionale. Da ultimo, la Banca d'Italia ha stimato che una riduzione di 200 punti base dello spread tra il rendimento dei nostri titoli di Stato e gli equivalenti titoli tedeschi determinerebbe, da qui all'anno prossimo, e a parità di altre circostanze, un PIL più elevato di oltre un punto percentuale, che da solo sarebbe sufficiente a determinare entrate fiscali aggiuntive d'importo pari a quelle attese dal previsto innalzamento di due punti dell'aliquota IVA ordinaria; risorse equivalenti a quelle necessarie per aumentare di circa un quarto la spesa per investimenti fissi delle amministrazioni pubbliche.
È opportuno ribadire che, negli impegni che il nostro Paese ha assunto, questo risanamento finanziario, tanto importante anche per le prospettive di crescita dell'economia, coincide con l'obiettivo del pareggio di bilancio delle amministrazioni pubbliche. Pareggio che, a seguito del nuovo trattato, definito fiscal compact, sarà iscritto negli obblighi internazionali liberamente contratti dal nostro Paese e che, a seguito del progetto di riforma in corso di approvazione, sarà statuito in Costituzione. Al pareggio di bilancio si affianca il vincolo relativo alla riduzione di un ventesimo all'anno della differenza fra il rapporto effettivo debito-PIL e il valore soglia del 60 per cento. Si può calcolare che, con un tasso di crescita medio reale della nostra economia dell'1 per cento all'anno, nei prossimi venti anni il pareggio di bilancio comporterebbe di per sé il rispetto di quel vincolo e condurrebbe, alla fine del periodo, a un
rapporto fra il debito e il prodotto di circa il 60 per cento.
Certamente, dal punto di vista della crescita, fa differenza a quale livello della pressione fiscale - e quindi della spesa pubblica - quel pareggio di bilancio verrà conseguito. Sulla spinta dell'emergenza, le ripetute manovre di aggiustamento finanziario condotte nel 2011 hanno operato soprattutto dal lato dell'aumento della pressione fiscale, piuttosto che - come sarebbe stato desiderabile - dal lato della riduzione della spesa. Il risultato è che ci avviamo verso una pressione superiore al 45 per cento del prodotto, un livello che ha pochi confronti nel mondo. Se a ciò si aggiunge che le stime più accreditate ipotizzano un livello dell'evasione fiscale dell'ordine del 10-12 per cento del prodotto, ne consegue che il nostro sistema è disegnato in modo tale da far gravare un carico tributario sui contribuenti fedeli sicuramente eccessivo.
Pertanto, una volta attenuatesi le condizioni di emergenza, per poter aprire lo spazio a una riduzione della pressione fiscale che aiuti il rilancio dell'economia ma non comprometta l'equilibrio di bilancio, è necessario lavorare con tenacia e determinazione alla riduzione della spesa, salvaguardando, per quanto possibile, quella sua parte che ha effetti benefici sulla propensione alla crescita del nostro sistema.
Ciò chiama in causa, in primo luogo, la spesa d'investimento che, al contrario di quanto sarebbe stato necessario, si è rivelata la parte di spesa più sacrificata negli ultimi anni, come la Corte ha documentato nel Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica dello scorso anno. In una prospettiva di risorse pubbliche scarse, occorrerà in primo luogo rimuovere i due principali ostacoli alla finanza di progetto, che rendono nel nostro Paese particolarmente esigua la parte di opere infrastrutturali finanziata con fondi privati:
la frammentazione delle stazioni appaltanti, che ostacola la formazione, fra l'altro, nella pubblica amministrazione, delle professionalità specifiche per la realizzazione di questo genere di progetto; la mutevolezza e, aggiungerei, la numerosità delle regole che sovraintendono alla fissazione delle tariffe, che rendono aleatorie le previsioni riguardo al rendimento degli investimenti realizzati.
L'altra componente della spesa pubblica particolarmente rilevante ai fini della promozione della crescita economica, è quella destinata alla formazione del capitale umano.
Come sappiamo, e come ci fa osservare l'OCSE ogni anno nei suoi rapporti sul tema, nel confronto internazionale, l'alta formazione garantita nel nostro Paese è scadente. La posizione delle nostre università nelle graduatorie qualitative internazionali, pur con tutti i caveat che devono essere tenuti presenti quando si guarda a questi confronti, è infatti tutt'altro che lusinghiera. Si tratta solo in parte di una questione di risorse; è, invece, principalmente una questione di meccanismi e incentivi. Se c'è un settore della pubblica amministrazione nel quale l'introduzione di efficaci meccanismi di valutazione dell'impegno di ciascuno, dei risultati individuali e dei risultati delle singole unità organizzative è assolutamente urgente, questo è il settore della scuola e dell'università. Negli ultimi anni alcune innovazioni in questa direzione sono state introdotte; si tratta, ora, di proseguire lungo
questa strada senza deflettere, sapendo che, nelle società moderne, in larga misura e sempre di più la ricchezza delle nazioni dipende dalla ricchezza del capitale umano.
Il processo d'investimento e la formazione di capitale umano potranno, inoltre, essere sostenuti anche attraverso una migliore utilizzazione delle risorse comunitarie. Anche in condizione di pareggio di bilancio e per quanto il risanamento faccia flettere lo spread, ancora a lungo avremo a che fare con elevati oneri per interessi del debito pubblico. Non si può, pertanto, rinunciare a ridurre lo stock del debito attraverso la cessione di quelle parti del patrimonio pubblico non funzionali allo svolgimento dei compiti essenziali delle amministrazioni e non oggetto di tutele artistiche e simili.
In via di principio, il metodo da seguire ci viene indicato dal primo precetto dell'asset and liabilities management: occorre cedere tutte le attività patrimoniali che offrono un rendimento inferiore al costo del debito. Ovviamente, alcune attività patrimoniali possono essere legittimamente oggetto di scelte politiche, in relazione ad esempio a partecipazioni in imprese ritenute strategiche rispetto al futuro del Paese; ma per una gran parte delle attività patrimoniali pubbliche l'ostacolo alla cessione non consiste affatto in eventuali considerazioni strategiche, bensì in difficoltà di procedure, in resistenze burocratiche e in ritardi operativi. Ciascuno di questi ostacoli dovrà essere oggetto di un attento esame affinché essi siano superati in tempi brevi, sempre nel pieno rispetto delle necessarie cautele che tali operazioni richiedono per evitare i rischi di svendita del patrimonio pubblico.
La spending review, volta alla riduzione selettiva della spesa attraverso l'eliminazione delle sue componenti improduttive, in luogo dei meri tagli lineari, è un tema su cui già da qualche anno è iniziata la riflessione nel nostro Paese. Tuttavia, da ultimo, sia con la prima manovra estiva del 2011, sia con la seconda, sono state approvate varie norme che si spingono fino alla quantificazione dei risparmi da conseguire.
Le analisi finora condotte evidenziano come a incidere negativamente siano, insieme con l'elevata rigidità della spesa e la pratica dei tagli lineari, specialmente a esercizio inoltrato, i blocchi temporanei negli impegni e nei pagamenti, con conseguente creazione delle premesse per la formazione di debito sommerso o per il semplice rinvio delle spese.
In relazione alla rigidità della spesa, le previsioni per il 2012 evidenziano una spesa non rimodulabile ancora superiore al 90 per cento. Alla luce delle modifiche normative che hanno ulteriormente circoscritto
l'ambito delle spese classificate come oneri inderogabili, appare pertanto contenuta la quota suscettibile di più immediata razionalizzazione, tenendo presente, altresì, che - fatta salva la possibilità di incidere temporaneamente sulle spese non rimodulabili - le amministrazioni centrali dello Stato possono significativamente incidere in via amministrativa solo su quella parte della spesa rimodulabile che comprende le spese per il funzionamento e per gli interventi realizzati direttamente, nonché per le risorse erogate al settore privato senza il tramite di altre amministrazioni pubbliche.
In linea generale, per la parte non rimodulabile della spesa, è chiaro che non si tratta solo di migliorarne la qualità, ma di operare una revisione dell'offerta da parte dell'operatore-Stato, che è un problema che investe la politica tout court e che passa per nuove leggi.
Per la quota di spesa più flessibile, invece, la riduzione delle inefficienze sembra legata a modifiche non tanto legislative, quanto della normativa attuativa o meramente organizzativa di ciascun comparto di spese, nonché alla revisione delle strutture organizzative e delle procedure.
In tale ambito appare ampiamente condivisibile la particolare attenzione posta, anche sotto il profilo contabile, all'organizzazione territoriale di quei ministeri che presentano un significativo decentramento di strutture, al fine di verificare la più idonea allocazione delle risorse in relazione agli effettivi livelli di domanda del territorio e delle funzioni ad esse affidate.
Potrebbero giovare, sul piano più generale, una migliore stima ex ante dell'entità delle spese in confronto ai fabbisogni effettivi, un intenso lavoro sul miglioramento degli indici di performance, una rivalutazione e un decisivo miglioramento dell'apparato delle note integrative a ciascuno stato di previsione, soprattutto in riferimento al rendiconto, in attuazione peraltro di quanto ampiamente previsto al riguardo dalla legge di contabilità. Va quindi rivalutata la logica del bottom-up, al di là delle pur indispensabili programmazioni macro di controllo della spesa (top-down).
Gli indicatori da predisporre dovrebbero essere in grado di offrire un quadro aggiornato non solo dell'attività dell'amministrazione, ma anche della domanda di servizi, della quantità e qualità di servizi effettivamente offerti, nonché dei fenomeni che si intende influenzare con l'attuazione delle politiche declinate nelle missioni e nei programmi.
Un ultimo aspetto, strettamente legato alle politiche di contenimento e di razionalizzazione della spesa, si riconduce al programma di modernizzazione della pubblica amministrazione diretto ad aumentare l'efficienza e la produttività del settore pubblico per contribuire al rilancio della crescita complessiva dell'economia. Tali finalità, ribadite in tutti i documenti di programmazione, si riconducono attualmente al Piano di e-government 2012 e all'Agenda digitale italiana.
Ora - a parte i limiti comunque riconducibili alla spending review delle amministrazioni centrali - va osservato che sul versante delle amministrazioni territoriali il contenimento della spesa resta prevalentemente affidato agli strumenti del Patto di stabilità interno e dei costi standard. In ogni caso, risultati significativi in termini di riduzione della spesa potrebbero essere ottenuti anche per le amministrazioni territoriali, da subito fissando obiettivi quantitativi nei provvedimenti collegati previsti dal citato decreto-legge n. 138 del 2011.
Naturalmente tale processo di revisione della spesa pubblica deve misurarsi anche con le modifiche del Titolo V della Parte II della Costituzione, che hanno attribuito alle amministrazioni locali una marcata autonomia di spesa e di entrata, e con gli altri problemi giuridici e istituzionali sui quali mi permetto di sorvolare, essendo peraltro già noti.
Passerei, quindi, al terzo paragrafo, a cui diamo una particolare rilevanza: «La politica fiscale». Nell'assegnare alla politica fiscale il duplice obiettivo di contribuire al riequilibrio dei conti pubblici e di
favorire la crescita del sistema economico, la Commissione europea ne lascia la combinazione alla valutazione di ciascun Paese. Nel caso dell'Italia, non sembrano esserci dubbi circa la scelta di uno dei tre percorsi schematizzati. Scartato, a causa dell'elevata pressione fiscale alla quale si è giunti e della quale si è già detto, l'aumento del livello del prelievo - a sistema invariato o attraverso l'introduzione di nuove norme impositive - ma essendo anche impraticabile, nell'immediato, la sua riduzione, resta la soluzione intermedia, quella in cui la tenuta dei conti pubblici e la finalizzazione alla crescita economica sono affidate a una redistribuzione del carico impositivo.
Il confronto con l'Europa segnala per l'Italia un'elevata pressione fiscale, una distribuzione del prelievo che penalizza i fattori produttivi rispetto alla tassazione dei consumi e dei patrimoni, una dimensione dell'evasione fiscale che colloca il nostro Paese ai vertici delle graduatorie europee.
Questo quadro, delineato nelle sue dimensioni quantitative nelle tavole e nei grafici allegati alla relazione scritta, che ho depositato, non tiene conto degli eventi che hanno caratterizzato il 2011, quando sono state poste le premesse per un'ulteriore decisa impennata della pressione fiscale, ma è stato anche avviato un «rimescolamento», per così dire, che dovrebbe aver ridotto le distanze che ci separano dall'Europa sul piano distributivo.
I 15,7 miliardi di euro di maggiori entrate a carico dei consumi - comprese le accise - comporteranno una significativa crescita dell'aliquota implicita di tassazione (dal 16,3 per cento al 17,9 per cento) e, in assenza di cambiamenti nella struttura degli altri Paesi dell'area dell'euro, ridurranno il gap dell'Italia a circa tre decimi di punto di PIL. Per quanto riguarda il carico sul patrimonio immobiliare e su quello mobiliare, si determina un allargamento della differenza che il nostro Paese già registrava rispetto alla media dell'area dell'Unione europea.
Piuttosto contenuta, e comunque insufficiente a farci perdere il non invidiabile primato nell'area dell'Unione europea, è la riduzione del prelievo sui redditi. Leggermente più significativo è l'impatto degli sgravi a favore delle imprese (essenzialmente ACE e deducibilità IRAP): in assenza di analoghi cambiamenti negli altri Paesi, il divario dalla media dell'Unione europea potrebbe ridursi di 1,5 punti, ma il livello assoluto del prelievo e la distanza dall'Europa continuerebbero a restare decisamente elevati.
In termini complessivi, se si assume che l'assetto fiscale «medio» europeo (Europa a 17) identifica il benchmark cui rapportare un'evoluzione virtuosa del sistema tributario italiano, gli sgravi necessari per riportare al livello europeo il prelievo sui redditi da lavoro e da impresa dovrebbero aggirarsi intorno ai 50 miliardi di euro: 32 per i redditi da lavoro, 18 per quelli d'impresa. Considerato che gli spazi per un ulteriore aumento del prelievo sui consumi non assicurerebbero più di un decimo del fabbisogno complessivo, se ne può concludere che la praticabilità di un'operazione di trasformazione del sistema per conferirgli un assetto europeo in grado di rilanciare competitività, efficienza e crescita economica resta subordinata, oltre che all'attuazione di una severa politica di contenimento e di riduzione della spesa, all'ampliamento strutturale della base imponibile soggetta a tassazione, affrontando in modo deciso le
due grandi questioni della politica fiscale del nostro Paese: l'erosione e l'evasione.
Il recupero di gettito atteso da una revisione dei regimi di agevolazione e di esenzione è stato ipotecato più volte in diverse direzioni. Da ultimo, tuttavia, ne è stata ridimensionata l'urgenza, avendo voluto eliminare, con l'aumento dell'aliquota ordinaria dell'IVA, ogni incertezza intorno al completamento della manovra estiva.
Il proposito di destinare a copertura degli equilibri di bilancio una quota crescente di gettito - dai 4 miliardi di euro del 2012 ai 16 miliardi del 2013, ai
20 miliardi del 2014 - da recuperare dalla riduzione delle agevolazioni non è stato tuttavia accantonato.
Gli elementi di valutazione a disposizione del decisore politico sono ora ampi e facilitati dalla classificazione adottata dalla Commissione Ceriani per sottolineare le diverse finalità associate alle misure agevolative e, dunque, la diversa stringenza dei vincoli condizionanti un intervento. Ciononostante, conservano piena attualità le osservazioni formulate da questa Corte in occasione dell'audizione sul decreto-legge n. 138 del 2011. Osservazioni connesse, da una parte, all'incertezza delle stime e, dall'altra, alla considerazione che va tenuto conto sia delle reazioni di comportamento dei contribuenti, sia della difficoltà di distinguere chiaramente tra forme d'intervento devianti rispetto alla struttura normale di un tributo e trattamenti tributari preferenziali che rappresentano, invece, un elemento strutturale dell'imposta.
Anche per questo è la lotta all'evasione che costituisce la leva più significativa a disposizione del policy maker, per consentire di combinare due obiettivi della politica fiscale: garantire gli equilibri del bilancio pubblico e ridistribuire l'onere del prelievo. Azionare tale leva richiede, tuttavia, la consapevolezza che i risultanti devono diventare strutturali e non vanno in ogni caso ipotecati a preventivo; così come postula un'adeguata conoscenza del fenomeno, un trasparente monitoraggio dei risultanti dell'azione di contrasto, la puntuale fissazione di priorità circa gli obiettivi e le modalità di impiego del gettito recuperato.
Ampi sono i risultati finanziari della lotta all'evasione previsti dalle recenti manovre di finanza pubblica: circa 73 miliardi di euro previsti per le manovre 2006-2011, con un'incidenza del 35,5 per cento sul totale delle maggiori entrate complessive nette. Queste previsioni, di cui occorre verificare la realizzazione a consuntivo, non esauriscono tuttavia gli spazi di possibile recupero, tenuto conto della, purtroppo, perdurante ampiezza del fenomeno che impone una rafforzata azione di contrasto.
Molti e incisivi sono gli interventi che più di recente sono stati in tal senso adottati, istituendo o ripristinando una serie di misure di contrasto, quali l'obbligo degli elenchi telematici clienti e fornitori, il pagamento tracciato dei compensi professionali e la comunicazione telematica dei corrispettivi, l'abbassamento della soglia di utilizzo del contante a 5.000 euro, il dimezzamento delle sanzioni previste in caso di definizione bonaria di verbali e accertamenti.
A decorrere dal 2010, sotto l'incalzare della crisi economica e dell'instabilità dei mercati finanziari, le strategie di contrasto all'evasione sono tornate a essere più incisive, in particolare con l'introduzione di misure per il contrasto delle frodi fiscali internazionali e nazionali, con l'adozione del cosiddetto «spesometro» per la comunicazione delle operazioni IVA superiori a 3.000 euro e con la prospettiva di un nuovo «redditometro» per l'accertamento sintetico IRPEF e, infine, con un parziale ritorno a livelli più elevati delle sanzioni amministrative.
Nel 2011 le strategie antievasione, pur con qualche evidente contraddizione, sono diventate più decise e hanno comportato, tra l'altro, un ampliamento delle informazioni concernenti i rapporti finanziari utilizzabili in sede programmatoria dei controlli e il drastico inasprimento della disciplina repressiva penale.
Con il decreto-legge n. 201 del 2011 l'azione di contrasto dell'evasione fiscale sembra aver ricevuto nuovo e sicuro impulso, con l'introduzione dell'obbligo per gli operatori finanziari di comunicare periodicamente i saldi risultanti dai rapporti intrattenuti con la clientela e l'ulteriore riduzione a 1.000 euro del limite per l'uso del contante. Infine, con il decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16, ora all'esame del Parlamento, si è pervenuti alla sostanziale reintroduzione degli elenchi telematici clienti e fornitori.
L'ampiezza delle dimensioni del fenomeno e la gravità delle distorsioni indotte
dall'evasione rendono, tuttavia, indispensabile ricercare ulteriori interventi necessari per un effettivo e duraturo miglioramento della tax compliance: primo, il completamento degli strumenti che, utilizzando le moderne tecnologie, possono contribuire alla naturale emersione delle basi imponibili, come il controllo telematico dei corrispettivi; secondo, l'introduzione dell'onere del pagamento tracciato, anche al di sotto dell'attuale soglia di 1.000 euro, quale requisito di ammissibilità fiscale della spesa sia nell'ambito delle attività di impresa e professionali, sia ai fini del riconoscimento di oneri deducibili e detraibili delle persone fisiche; terzo, l'evoluzione dell'impegno dell'amministrazione finanziaria, oggi essenzialmente focalizzato sul controllo repressivo, successivo all'adempimento, verso un ruolo persuasivo e proattivo già nella fase della dichiarazione. In tal modo, senza introdurre negative ipotesi di concordato preventivo
e lasciando comunque alla responsabilità del contribuente il contenuto della dichiarazione, sarebbe possibile confrontare la coerenza degli imponibili con le informazioni di cui oggi l'amministrazione dispone o può agevolmente disporre: dati degli studi di settore, manifestazioni di consumo e di agiatezza, incroci tra clienti e fornitori, rapporti finanziari, eccetera.
La Corte ha voluto riservare un'attenzione particolare a una delle domande del questionario, quella sui ritardi nei pagamenti e sui debiti pregressi. Il quesito sui ritardi dei pagamenti nelle transazioni tra pubblica amministrazione e imprese muove dalla constatazione dei riflessi negativi sulla crescita economica e sul sistema produttivo di una inadempienza amministrativa che ha assunto, in Italia, caratteri e dimensioni sconosciuti negli altri principali Paesi europei.
Si pongono, pertanto, due questioni correlate: come procedere a una progressiva eliminazione dello stock di debiti in essere delle amministrazioni centrali e periferiche dello Stato nei confronti delle imprese; come evitare in futuro il riprodursi di tali anomalie contabili e, soprattutto, come assicurare la tempestività dei pagamenti richiesta dalla direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio.
Non vi è dubbio che il ritardo nei pagamenti di forniture e appalti da parte di Stato ed enti locali abbia assunto, negli ultimi anni, carattere di vera e propria patologia, anche in conseguenza dei disallineamenti tra le misure di severo contenimento della spesa indotte dalla crisi economico-finanziaria e la programmazione dell'attività delle amministrazioni.
Di recente sono state avanzate valutazioni sull'ammontare complessivo dei debiti commerciali (come tali, esclusi dalle statistiche sul debito pubblico), senza che l'eterogeneità dei criteri adottati per le stime abbia consentito di pervenire a risultati puntuali. Non è, del resto, agevole identificare i soli crediti delle imprese per forniture, somministrazioni e appalti, all'interno di categorie di bilancio che incorporano capitoli di spesa molto differenziati. Neppure può essere trascurata la necessità di verificare con attenzione la qualità delle diverse passività, tra le quali si annidano posizioni non più corrispondenti a vere e proprie partite debitorie.
La complessità ma anche il rilievo di questi aspetti sono, del resto, confermati dalla scelta recentissima della Ragioneria generale dello Stato (circolare n. 6 del 27 febbraio 2012) di disporre innovativamente una sorta di due diligence diretta a una radicale revisione dello stock dei debiti dello Stato, al fine di eliminare le partite non più attive.
La quantificazione in doppia cifra (60-70 miliardi di euro, al netto dei crediti fiscali, secondo le stime più attendibili, ma anch'esse meritevoli, come si dirà, di ulteriori verifiche), espone al rischio di una lettura inappropriata e semplicistica del fenomeno dei debiti nei confronti di imprese fornitrici dell'amministrazione pubblica. Una lettura propensa a considerare l'intero ammontare dei debiti come perfettamente rappresentativo di risorse sottratte a imprese produttive e, quindi, direttamente e negativamente correlate alle
prospettive di crescita economica. Si tratta, ad avviso della Corte, di un assunto affrettato.
A un più attento esame, infatti, la massa dei debiti ingloba fattispecie molto diversificate e partite di dubbio fondamento, che richiedono maggiore prudenza nell'interpretazione. In ogni caso, anche prima di conoscere gli esiti della complessa e lunga operazione di revisione appena avviata dal Ministero dell'economia e delle finanze - e che, peraltro, è limitata ai soli rapporti tra amministrazioni centrali dello Stato e imprese -, si può sostenere, con fondamento, che un effetto analogo al credit crunch per le imprese produttive riguardi una quota minore dei debiti delle amministrazioni pubbliche. Non può, inoltre, essere sottovalutato che verosimilmente una parte significativa dei debiti è stata, nel tempo, ceduta agli intermediari finanziari. Ipotesi da verificare, ma che ridimensionerebbe in modo significativo la portata economica dell'inadempienza amministrativa.
Allo scopo di fornire qualche valutazione più puntuale della consistenza dei debiti commerciali verso le imprese, è opportuno muovere da una più precisa definizione del perimetro contabile del fenomeno.
Il riferimento generale è rappresentato dall'intero settore delle amministrazioni pubbliche (Stato, amministrazioni regionali e locali, enti previdenziali, eccetera) e dal complessivo fatturato delle imprese verso le stesse amministrazioni. Con una buona approssimazione, le categorie economiche dei bilanci pubblici che registrano il fatturato delle imprese fornitrici sono, nell'ambito della spesa corrente, i consumi intermedi e, per il conto capitale, gli investimenti fissi. Nelle definizioni di contabilità nazionale, ai consumi intermedi si affiancano le prestazioni sociali in natura, che incorporano gran parte delle forniture nel settore sanitario e farmaceutico.
Quanto ai momenti contabili rilevanti per la stima dei debiti commerciali, è necessario considerare le tre diverse tipologie di obbligazione dei residui passivi propri, dei residui perenti e dei debiti fuori bilancio.
Seguendo lo schema di analisi indicato, è possibile proporre una ricostruzione al 2010 della situazione dei debiti commerciali pregressi dello Stato che, in valori approssimati, dovrebbero essere complessivamente compresi entro i 7 miliardi di euro circa per i consumi intermedi, ed entro i 10 miliardi di euro circa per gli investimenti fissi.
Nel caso delle spese in conto capitale, l'incidenza dei residui propri è stabilmente superiore ai residui perenti, mentre non vi è evidenza di debiti fuori bilancio. Al contrario, per le spese di parte corrente, negli ultimi anni, a seguito dell'accorciamento dei tempi di permanenza in bilancio, l'ammontare dei residui propri si è ridotto, non discostandosi troppo da quello dei residui perenti, mentre è emersa la tendenza a ricorrenti «oneri latenti», debiti fuori bilancio, accertati con decreti del Ministro dell'economia e delle finanze con riferimento agli anni 2007-2010.
Il ricorso ripetuto a strumenti di accertamento e copertura di tali debiti pregressi appare, sotto questo profilo, come una vera e propria garanzia di sanatoria amministrativo-contabile, con effetti non dissimili da quelli prodotti dai ricorrenti condoni fiscali del passato.
Le stime proposte devono essere considerate una valutazione per eccesso, trattandosi di dati grezzi non ancora sottoposti a quella operazione straordinaria di revisione e «pulizia» che la Ragioneria generale dello Stato si propone di concludere in tempi utili per il rendiconto dello Stato 2012, pertanto non prima della primavera del 2013.
Per le amministrazioni degli enti locali, le verifiche necessarie per formulare valutazioni analoghe richiedono istruttorie più complesse. In particolare, la Corte dei conti sta prestando da tempo grande attenzione al tema dell'indebitamento degli enti sanitari regionali. In questo ambito, si è già avuto modo di porre in evidenza come l'esatta quantificazione del fenomeno
richieda una valutazione complessiva delle passività, quindi non solo dell'indebitamento a lungo termine tradizionalmente inteso, ma anche dell'esposizione debitoria verso i fornitori.
L'incremento delle passività a breve termine indica la difficoltà degli enti a far fronte ai proprio impegni commerciali per insufficiente liquidità. Poiché le aziende sanitarie si alimentano essenzialmente con la quota del fondo sanitario ad esse attribuita dalla regione di appartenenza, il problema è strettamente connesso al ritardo con cui le regioni trasferiscono le risorse. Ciò comporta un allungamento dei tempi di pagamento delle forniture, il frequente ricorso alle anticipazioni di tesoreria e, nel passato, a operazioni di cartolarizzazione dei debiti. Soluzioni che comportano tutte un aggravio di oneri, quanto meno in termini di interessi, e che, nel caso delle cartolarizzazioni, riversano sugli esercizi futuri le difficoltà attuali.
L'insolvenza degli enti, in talune realtà territoriali, determina poi un pesante contenzioso, con ulteriore aggravio dei costi.
Il problema delle passività nel settore sanitario è costantemente monitorato dalla Corte, sia attraverso le puntuali verifiche che le sue Sezioni regionali di controllo effettuano sui singoli enti del servizio sanitario pubblico, sia attraverso una ricostruzione degli andamenti generali.
Peraltro, determinare esattamente l'ammontare del debito degli enti sanitari verso i fornitori presenta ostacoli di non poco momento, che possono essere riferiti a difficoltà di lettura dei conti patrimoniali e ai limiti dei canali informativi disponibili; a inefficienze organizzative e dei sistemi informativi degli enti, che causano una non corretta o, addirittura, omessa contabilizzazione delle operazioni; alle ricorrenti rettifiche dei dati di bilancio conseguenti alle verifiche cui sono sottoposte le regioni con piani di rientro dal disavanzo sanitario; alle difficoltà di conciliare le posizioni delle varie aziende e delle aziende con la regione, con possibilità di duplicazioni od omissioni di componenti del passivo.
Con questa avvertenza di cautela, dai dati dello stato patrimoniale degli enti sanitari consolidati a livello regionale si rileva che il debito verso fornitori, così come rappresentato, ha un peso notevole sia in rapporto al totale dei debiti sia per i valori assoluti.
Nel 2010 i debiti verso i fornitori costituiscono la parte preponderante dell'intera massa debitoria: oltre il 60 per cento nel 2010, per un ammontare dell'ordine di 35 miliardi di euro. Oltre la metà dell'intero importo è riferibile alle regioni sottoposte a piani di rientro dai disavanzi sanitari.
Va ribadito che, oltre ai problemi legati alla corretta esposizione dei dati nei documenti contabili, non si tratta esclusivamente di debiti insoluti, in quanto è fisiologica la presenza di debiti non scaduti a fine anno, pertanto registrati nel passivo dello stato patrimoniale.
Va peraltro considerato che, con riguardo ai tempi di pagamento, la situazione delle regioni è fortemente diversificata.
La Corte resta impegnata a indagare per far maggiore luce su questo tema, che appare particolarmente rilevante e sensibile nel quadro generale della problematica della crescita economica del Paese. Grazie.
PRESIDENTE. Grazie, presidente Giampaolino. Do ora la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni, chiedendo loro di contenere la durata degli interventi, in ragione del limitato tempo a nostra disposizione.
MAINO MARCHI. Signor presidente, porrò alcune brevi domande.
Con riferimento alla politica fiscale, si dice a un certo punto nel testo scritto della sua relazione: «Per quanto riguarda il carico sul patrimonio immobiliare e su quello mobiliare, si determina un allargamento della differenza che il nostro Paese già registrava rispetto alla media dell'area dell'Unione europea». Sono incuriosito da questa affermazione poiché, nelle ultime
tre manovre, si sono compiuti interventi significativi - sia di aumento delle aliquote sulle rendite finanziarie, sia tramite l'introduzione dell'IMU - che pensavo producessero un effetto opposto a quanto indicato nel documento.
Chiederei, pertanto, un chiarimento su questa affermazione.
In un punto precedente, si afferma: «Si può calcolare che, con un tasso di crescita medio reale della nostra economia dell'1 per cento all'anno, nei prossimi venti anni il pareggio di bilancio comporterebbe di per sé il rispetto di quel vincolo (europeo), e condurrebbe alla fine del periodo a un rapporto fra il debito e il prodotto del 65 per cento circa». Se guardiamo all'ultimo decennio, tuttavia, l'1 per cento l'anno non lo abbiamo quasi mai raggiunto: di conseguenza, è già di per sé un obiettivo ambizioso.
Vorrei dunque chiedere se, oltre alle questioni che avete posto nel documento, non sia altrettanto fondamentale la politica industriale, vale a dire come lo Stato intervenga, ad esempio, sulle questioni di politica energetica e a sostegno dell'innovazione del sistema produttivo, sia con incentivi e interventi sulla ricerca, sia anche con detrazioni fiscali per i settori in cui si gioca l'innovazione sia, per quanto riguarda il sud, a sostegno degli investimenti attraverso il credito di imposta.
AMEDEO CICCANTI. Vorrei far presente che, se ben ricordo, la legge 14 gennaio 1994, n. 20, fa riferimento, nelle competenze della Corte dei conti, a un elemento aggiuntivo al tradizionale controllo, quello dei risultati dell'attività amministrativa.
Sia sul lato dei pagamenti dei debiti commerciali, sia sull'efficienza, sull'efficacia e sull'economicità della spesa, i controlli della Corte dei conti avrebbero potuto apportare un significativo contributo in termini di denunce alle rispettive Procure, nonché di recupero di una parte della mala gestio da parte dei pubblici dipendenti. Così come, nella sua relazione, chiede giustamente di allargare la base imponibile per recuperare l'evasione fiscale, a mia volta, chiedo alla Corte dei conti una più incisiva azione, se non c'è stata, per recuperare la mala gestio. Qual è la situazione su questo fronte? Quanta parte di questo debito pregresso deriva dal fatto che i funzionari sia degli enti territoriali sia dello Stato non pagano alla scadenza? E se questo è dovuto a una loro colpa - colpa grave - dal momento che potete intervenire solo su questo piano, quante persone avete messo sotto inchiesta?
MASSIMO VANNUCCI. Di fronte agli impegni che abbiamo assunto in Europa - pareggio di bilancio e fiscal compact - il presidente Giampaolino ci ha detto che per quanto riguarda il deficit abbiamo solo due azioni da porre in essere, ossia la rivisitazione della spesa e una maggiore lotta all'evasione fiscale, mentre per l'abbassamento del debito abbiamo l'obbligo di crescere e di razionalizzare il nostro patrimonio. Queste sono le condizioni che abbiamo dinanzi a noi per risolvere il problema.
Di fronte alle emergenze che abbiamo dovuto affrontare, ritengo, tuttavia, che l'altra parte, quella inerente la redistribuzione del prelievo fiscale, ce la siamo - per così dire - in parte giocata, poiché abbiamo tassato più le rendite, i consumi e i patrimoni, senza redistribuire invece il carico fiscale rispetto ai redditi - che siano quelli da lavoro o da profitto - che voi stimate in 50 miliardi di euro in più in Italia.
A un certo punto, il Governo ha pensato di istituire un fondo specifico con le maggiori entrate derivanti dalla lotta all'evasione fiscale, destinandolo alla redistribuzione del prelievo fiscale. Molto spesso, però, la Corte dei conti ci ha avvertito di non utilizzare fondi derivanti dalle entrate previste dalla lotta all'evasione fiscale.
La Corte dei conti come giudicherebbe la costruzione di un fondo come quello di cui si è parlato? Potrebbe funzionare o si risolverebbe in qualcosa di non strutturale, di sola facciata?
Vorrei svolgere un'ultima osservazione sui pagamenti della pubblica amministrazione. Il fenomeno è complesso, ma io mi riferisco solo a un aspetto e chiederei le azioni della Corte dei conti. Siamo di fronte a uno strano dibattito per il quale una parte di questo fenomeno è determinata dai vincoli del Patto di stabilità interno per comuni, province e regioni che, a furor di popolo, dicono a tutti che i soldi li hanno, ma il Patto non consente loro di pagare. C'è un problema, tuttavia: nel momento in cui questi enti assumono un impegno e richiedono a un fornitore un bene o un servizio, devono già sapere se possono pagarlo o meno. Il problema consiste, dunque, in un deficit di programmazione. Se un ente pubblico, una provincia o un comune appalta un lavoro o acquista un bene, dovrebbe dichiarare che, pur acquistandolo, sarà in grado di pagarlo a trentasei o quarantotto mesi, perché questo ente programma il Patto di
stabilità interno in questo modo. Pertanto, questi interventi della Corte dei conti su comuni, province e regioni sono necessari, perché non si può continuare a chiamare in causa il problema del Patto se, invece, manca una capacità di programmazione: se, nel momento in cui il fornitore partecipa a una gara, sa che il primo stato di avanzamento sarà retribuito dopo trentasei mesi, lo mette in conto e non giunge a gesti estremi se non viene pagato, perché lo sapeva prima.
MARCO MARSILIO. Per quel che concerne l'ultimo punto trattato, quello dei ritardi nei pagamenti, giustamente voi avete svolto un'analisi molto prudente. C'è, però, un passaggio che inviterei a rivalutare perché, quando dite che la cessione di una significativa parte dei debiti agli intermediari finanziari ridimensionerebbe la portata economica dell'inadempienza amministrativa, mi sembra proponiate una visione un po' tranquillizzante del problema.
Intanto, il fatto che questi crediti sono stati ceduti non significa che le amministrazioni pubbliche non siano comunque gravate da questo debito: prima o poi dovranno pur pagarlo a qualcuno. Anche se chi lo ha comprato ha magari le spalle più solide e può attendere più tempo, è un tempo che in ogni caso fa pagare, anche se non nell'immediato.
Vi inviterei, comunque, a valutare anche quanto beneficio per le casse pubbliche potrebbero apportare la tempestività e la regolarità dei pagamenti in termini di diminuzione dei costi delle prestazioni. Oggi, su un bene che costa 100, il 6 o 7 per cento è costituito da oneri finanziari dovuti ai ritardi nei pagamenti, e di conseguenza al fatto che le aziende devono scontare le fatture in banca o presso altri istituti di intermediazione.
Se questo meccanismo si sbloccasse, probabilmente nel corso del tempo le amministrazioni pubbliche potrebbero anche abbassare il costo di alcune prestazioni e far risparmiare alle casse dello Stato almeno una parte di questa intermediazione, che oggi si è resa necessaria e sposta i profitti non verso chi lavora o produce servizi, ma soltanto verso chi ha la disponibilità economica per poter fare finanza.
ROBERTO SIMONETTI. Ringrazio il presidente della Corte dei conti per la relazione e anche per aver sottolineato che si cerca sempre di raggiungere il pareggio del bilancio aumentando la pressione fiscale, piuttosto che tagliando le spese, come, invece, sarebbe più opportuno.
Il discorso del Patto di stabilità interno è quello che maggiormente appassiona gli amministratori locali: se da un lato è giusto utilizzarlo per frenare la spesa non virtuosa, dall'altro è anche chiaro che la mancata programmazione evidenzia una non virtuosità dell'ente. Tuttavia, riuscire a sbloccare alcune spese, per creare un volano di crescita attorno alle spese per investimenti di quegli enti virtuosi, a noi sembra una soluzione da proporre.
Vorremmo capire se la Corte dei conti ha un'idea di rinnovamento del Patto in modo tale da non considerarlo esclusivamente un limite alla spesa. Ovviamente, il raggiungimento del pareggio di bilancio è fondamentale ai fini del fiscal compact e
non solo, ma sarebbe auspicabile utilizzare delle vie di fuga, per poter considerare delle spese per gli enti virtuosi produttive ai fini del reddito complessivo e della produzione di PIL.
RENATO CAMBURSANO. A proposito della politica fiscale, viene detto giustamente, evidenziando la diversità tra il nostro Paese e la situazione dell'Europa, che un'elevata pressione fiscale, data soprattutto dalla distribuzione del prelievo, penalizza i fattori produttivi, rispetto invece alla tassazione dei consumi e dei patrimoni.
Ahimè, è di ieri la notizia che noi siamo tornati a trent'anni fa rispetto, per esempio, ai consumi. Presidente Giampaolino, la domanda è la stessa che le rivolgevo già durante un'altra audizione al Senato della Repubblica sul cosiddetto decreto «Salva Italia»: tra le due strade, ossia l'introduzione di un'imposta su tutti i patrimoni immobiliari - l'IMU, per intenderci - e una vera e propria imposta patrimoniale secca, forte, sui grandi patrimoni, quale sarebbe stata quella da seguire? Personalmente propendevo per la seconda ipotesi, viste le conseguenze. Mi riferisco al fatto che si incomincia a non spendere, giacché la «batosta» deve ancora arrivare, nonostante tutto quello che è già successo. Ha cambiato parere anche lei?
ROLANDO NANNICINI. Presidente Giampaolino, la ringrazio per la sua relazione ampia e giusta. Vorrei rivolgerle una domanda secca. Lei parla di patrimoni: lo Stato italiano ha un'entrata in termini di rendite e affitti del proprio patrimonio per circa 142 milioni di euro l'anno e paga circa 700 milioni di affitti passivi. Sarebbe opportuno che un bel giorno qualcuno riferisse a noi legislatori quali sono i ministeri con il maggior numero di affitti passivi e quali gli enti, perché senza cifre riusciamo poco a valutare questo fenomeno. Disponiamo della cifra aggregata, eseguiamo delle ricerche nei bilanci, ma non ne usciamo mai.
Sarebbe interessante se l'ISTAT, la Corte dei conti, e non solo la Ragioneria generale dello Stato, potessero fornire al Parlamento, al legislatore, qualche strumento.
Per deformazione professionale richiamo il fatto che durante la relazione lei ha detto che erano annunciati circa 73 miliardi di euro dalla lotta all'evasione, ma non sappiamo se tra il 2006 e il 2011 questi 73 miliardi di euro siano stati raggiunti.
Ora, ricordo a tutti che disponiamo di numerose agenzie: tra queste, l'Agenzia nazionale per lo sviluppo dell'autonomia scolastica, l'AGENAS, ossia l'Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, l'agenzia che promuove la digitalizzazione, quella che sovraintende un certo settore e così via. Consultando l'elenco Istat, dove sono riportate le amministrazioni centrali, le amministrazioni degli enti locali e gli enti di previdenza - secondo i criteri del SEC95 - ne troverà almeno 38 o 39 di agenzie. Ma che nessuno, attraverso ricerche, possa dire a questo Parlamento se le manovre per 73 miliardi di euro sull'evasione siano state effettive o meno, mi sembra denoti che siamo di nuovo al buio.
Vorrei ora trattare l'ultimo argomento, prima di concludere. Noi avevamo proposto un emendamento sul problema dei debiti pregressi - non ricordo in quale manovra, se nel 2008 o nel 2009 - che non fu poi approvato, che faceva perno essenzialmente sul fatto di voler sapere cosa si nasconde dietro questo fenomeno. A mio avviso - e condivido quella parte della sua relazione - non sugli investimenti ma sulla spesa corrente si nasconde molto del debito fuori bilancio. Peraltro, nessuno ha il coraggio di farlo, sebbene sia previsto dalle leggi, in quanto è possibile quantificare e verificare con consuntivi e via discorrendo. Si mascherano molte brutture dietro questo problema dei pagamenti.
Chiedo, dunque, perché non si procede a campione, tra gli 8.100 comuni, le 106 province, le 20 regioni, altri soggetti che rientrano nel calcolo degli enti locali, le università ed altri. Intendo un campione che rappresenti l'intera popolazione per scoprire come si configura questo fenomeno,
perché non è giusto parlarne sempre, senza ricercare la soluzione e senza che il Parlamento sappia cosa fare.
Condivido che non si debba parlare di debiti, ma del fatto che bisogna risolvere il problema, perché tutti sono onesti: i ritardati pagamenti sono conseguenza dell'intervento del Patto di stabilità interno sulla competenza e saldo dell'anno solare a cui sono riferiti i bilanci.
PAOLA DE MICHELI. Il passaggio sulla rigidità della spesa era riferito, se ho capito bene, alla spesa delle amministrazioni centrali. Siccome la rigidità della spesa è piuttosto elevata anche negli enti locali e l'attività di revisione dell'offerta - che lei suggerisce per le amministrazioni centrali - le amministrazione locali l'hanno già svolta a causa dei tagli lineari, segnalo che questa revisione dell'offerta sta generando un calo qualitativo e quantitativo dell'erogazione dei servizi, che incrementa quegli effetti di disuguaglianza che lei ha sottolineato molto bene nella parte sulla politica fiscale. Un effetto, quindi, che diventa inevitabilmente recessivo.
Probabilmente è necessario concentrarsi su questa questione della revisione dell'offerta e della spesa nazionale, per dare un po' di fiato alla qualità e alla quantità dei servizi erogati da parte degli enti locali.
La seconda questione, sempre legata agli enti locali, riguarda il Patto di stabilità interno. Sono d'accordo con alcuni colleghi che prima di me hanno parlato della necessità di intervenire su modelli realmente virtuosi. Sappiamo perfettamente che, pur giovando al complessivo contributo contro il deficit, l'attuale configurazione del Patto di stabilità interno da parte degli enti locali - in particolar modo province e comuni - poiché il saldo è positivo, comporta che all'interno di queste realtà si realizzino situazioni di grandissima sperequazione. Nel Patto rientrano, dunque, comuni estremamente indebitati, comuni che hanno problemi di ogni tipo, per esempio sui pagamenti, e, al contrario, non vi rientrano quelli che presentano caratteristiche sulle entrate proprie, sul debito e su meccanismi di deficit che sono invece in linea.
Si tratta, pertanto, di capire se altri meccanismi che valorizzino di più i realmente virtuosi possano rendere gli stessi saldi necessari al raggiungimento dell'obiettivo di pareggio di bilancio nel 2013.
Per ciò che concerne i pagamenti, credo sia auspicabile una valutazione più attenta sulla tipologia e sulla composizione dei ritardi nei pagamenti da parte della pubblica amministrazione; il Governo, almeno per le amministrazioni centrali, si sta muovendo in questa direzione.
Tuttavia, oltre a sottolineare e a rafforzare l'intervento del collega Marsilio sul fronte dell'incremento dei costi per il pubblico nell'acquisizione dei servizi, segnalo che l'eccesso di indebitamento da parte delle aziende nei confronti del sistema bancario - a causa dei ritardi nei pagamenti - genera anche in questo caso un problema di blocco della possibilità di crescita. Noi abbiamo l'obiettivo minimo dell'1 per cento di crescita, perché non vi è più la possibilità né di indebitarsi di nuovo - considerato che ciò si incrocia con l'attuale sistema del credit crunch - né tantomeno di attivare meccanismi di innovazione interni alle aziende. L'effetto, pertanto, è duplice: nella pubblica amministrazione e nell'economia reale.
Un'ultima questione riguarda l'imposta sui consumi. Per le mie conoscenze sulle questioni fiscali, l'incremento di imposte sui consumi ha senso e non genera riduzioni di domanda o effetti negativi e recessivi sull'economia nel momento in cui queste risorse vengono destinate quasi esclusivamente, o per la maggior parte, alla riduzione delle tasse sul reddito.
Nel caso di specie previsto dalla nostra manovra, in realtà, questo aumento delle imposte sui consumi contribuirebbe al raggiungimento dell'obiettivo del pareggio di bilancio. Quel rischio, che un collega - credo l'onorevole Cambursano - prima di me sottolineava, è quindi assolutamente presente: per questo motivo anche il Parlamento, forse, dovrà essere proattivo sulla
revisione delle deduzioni e delle detrazioni, per evitare l'incremento dell'IVA.
GIORGIO LA MALFA. Ringraziando la Corte dei conti per questa ampia relazione, vorrei svolgere una brevissima osservazione e porre una domanda.
Secondo le previsioni, l'Italia subirà una flessione del reddito nazionale dell'1,5 per cento quest'anno e realizzerà crescita zero nel prossimo anno. La domanda, per la quale credo siamo qui riuniti, è se si possa fare qualcosa per evitare questa catastrofe oppure dobbiamo considerarla inevitabile, con le conseguenze che conosciamo sull'occupazione e non solo su questa.
Vorrei sapere se la Corte dei conti ha qualcosa da dire su questo punto specifico.
In secondo luogo, come reagirebbe - in tale quadro - la Corte dei conti di fronte a un Governo che dicesse all'Europa o al Parlamento che, avendo sistemato strutturalmente i propri conti - perché ha messo a posto le pensioni e così via - intende prevedere delle una tantum di spesa per sostenere, ad esempio, un programma di investimenti o sgravare dal fisco degli investimenti che vengono accelerati e così via? Sarebbe considerata una violazione di quei princìpi di rigore finanziario su cui la Corte dei conti insiste, oppure la si considererebbe una possibilità nell'ambito di una manovra che ha risanato i conti o che sta risanando i conti?
Quale sarebbe il giudizio della Corte dei conti su un Governo che dicesse che i conti non si toccano dal punto di vista strutturale, ma, congiunturalmente, si sgrava a livello fiscale un programma di investimenti o coloro che assumono nuovi lavoratori e così via?
SIMONETTA RUBINATO. La riqualificazione della spesa pubblica è funzionale sia al risanamento dei conti pubblici sia all'aumento della competitività del sistema Paese.
La mia domanda va in questa direzione, dando per scontato il Patto di stabilità interno - che è un po' idiota e non aiuta a riqualificare la spesa pubblica - e il problema della sostenibilità anche dei bilanci degli enti locali in questa fase di anticipazione dell'IMU.
Dentro a questa partita c'è il tema che, mentre si allontanano all'orizzonte i cosiddetti costi standard, non abbiamo strumenti efficaci - almeno non mi risulta - di misurazione delle performance della macchina pubblica, che è il nodo fondamentale per la competitività del Paese.
Senza sistemi di misurazione di efficienza e produttività degli enti locali, senza misurazioni del rapporto tra entità delle risorse impiegate e numero e qualità dei servizi erogati, e anche degli investimenti in conto capitale effettuati, noi non siamo in grado di fare passi in avanti verso meccanismi di responsabilità, che significano poi premialità e sanzioni.
Come possiamo uscire dalla logica dei tagli lineari, la cui problematica voi avete sempre sottolineato, senza avere costi standard? Io avanzo la modesta proposta di piani coordinati di controllo negli enti locali. Non voglio usare la parola «blitz», ma cominciamo a misurare. Poiché una marea di carte viene girata dagli enti locali al Ministero dell'economia e delle finanze e alla Corte dei conti ed esaminata da questi, alla fine si deve verificare se si è rispettato o meno il Patto di stabilità interno.
Io propongo l'introduzione di qualche indicatore di misurazione delle performance che ci aiuti, in questa fase, a migliorare gli enti locali che finora - per così dire - a scuola non hanno fatto bene i compiti e a dare a quelli che sanno gestire con autonomia e responsabilità la possibilità di realizzare finalmente qualcosa di buono, perché possiamo crescere come Paese.
PRESIDENTE. Do la parola ai nostri auditi per la replica, chiedendo loro - per cortesia - di essere possibilmente concisi nelle risposte, in quanto stanno per riprendere i lavori dell'Assemblea.
LUIGI GIAMPAOLINO, Presidente della Corte dei conti. Riserverei a me, con un flash, la risposta all'onorevole Ciccanti,
essendo quella di carattere più istituzionale. L'onorevole Ciccanti dice che, in base alla legge n. 20 del 1994 è rimessa alla Corte dei conti la valutazione dell'efficienza e dell'economicità dell'azione pubblica. In un certo senso, anche l'ultima domanda dell'onorevole Rubinato riporta al problema del controllo della Corte.
Con la citata legge n. 20 del 1994, appunto, venne meno il controllo di legittimità, quindi un controllo formale. Peraltro, questo riguardò sostanzialmente le sole amministrazioni centrali; per gli enti locali un sistema, se così può dirsi, di controllo è stato introdotto solo nel 2003, per mezzo delle Sezioni regionali di controllo della Corte. Senza dubbio, un mutamento delle funzioni della Corte, senza arrivare - mi consenta, onorevole Ciccanti - all'estremo della sanzione dei giudizi di responsabilità, ma appunto un sistema di controllo che possa rifarsi a questi nuovi modelli, a queste nuove tecniche, è nei programmi e nelle prime attuazioni specie delle Sezioni regionali della Corte.
Anche per i ritardati pagamenti - lascerò poi la parola ai colleghi per l'aspetto fiscale, quindi anche per i pagamenti, e per il Patto di stabilità interno - vi è un problema a monte di come si formano questi debiti delle pubbliche amministrazioni, il momento dell'impegno delle pubbliche amministrazioni. Senza dubbio, in questo senso servirebbe un'azione più attenta della Corte, che peraltro nei confronti delle amministrazioni centrali, con il venir meno del controllo di legittimità, è molto scemata; peraltro, la citata legge n. 20 del 1994 ha un controllo a consuntivo di tutto questo. Nei confronti degli enti locali ogni forma di controllo è sostanzialmente venuta meno. Senza dubbio, quindi, bisogna trovare altre forme di controllo che la Corte sta sperimentando sin da adesso, specie nelle sue Sezioni regionali. Senza dubbio, una forma è questa dei cosiddetti costi standard e altre forme le avevamo indicate nello
studio che abbiamo fatto con riferimento all'attuazione del federalismo fiscale.
Questo mi sentirei di rispondere - dal punto di vista strettamente istituzionale - all'onorevole Ciccanti.
Per quanto riguarda i problemi che riguardano la politica fiscale, pregherei i colleghi di rispondere, a seconda delle materie di competenza.
LUIGI MAZZILLO, Presidente di sezione della Corte dei conti. Signor presidente, risponderò in termini globali alle domande che sono state poste per quanto riguarda la politica fiscale. In particolare, voglio precisare che abbiamo fatto un raffronto fra la situazione italiana e quella media degli altri Paesi europei al 2009 ed è venuto fuori un duplice ordine di distorsioni, uno per quanto riguarda il livello della pressione fiscale complessiva - che è più elevato rispetto a tutti questi altri Paesi, oltre che alla media - e uno relativamente alla distribuzione del prelievo, che grava più sui fattori produttivi e meno, invece, sui consumi e sul patrimonio. Ci sono dei grafici, nella documentazione depositata, che illustrano questa situazione: il grafico 1 evidenzia il livello e l'andamento della pressione fiscale (colgo l'occasione per segnalare un errore, in quanto la partenza è il 2000, non il 1990) e il grafico 2 mostra una visualizzazione della differenza tra Italia e Europa a 17 per ciò che attiene alla distribuzione del carico tributario sui fattori produttivi. Ci siamo posti il seguente interrogativo: se volessimo allinearci alla media europea, cosa significherebbe ciò? La risposta che abbiamo ricavato è che per poterci allineare - cioè per quanto riguarda la distribuzione del prelievo, non il livello dello stesso prelievo - dovremmo manovrare 50 miliardi di euro, nel senso che dovremmo ridurre di 32 miliardi il carico tributario sulle famiglie e di 18 miliardi quello sulle imprese. A che cosa attingere? Si può ancora attingere in minima parte all'aumento dell'imposizione sull'area dei consumi, perché siamo ancora al di sotto rispetto alla media europea, mentre per il resto dovremmo fare affidamento sulla riduzione dell'erosione, quindi riduzione delle agevolazioni e delle esenzioni fiscali,
con le qualificazioni delle difficoltà che abbiamo già avuto modo di illustrare, e, soprattutto, intensificando, potenziando e rendendo stabile e sistematica la lotta all'evasione fiscale.
Abbiamo evidenziato come già questa strada della lotta all'evasione fiscale sia stata intrapresa, tant'è che sono ingenti gli effetti che si attendono dalle manovre che sono state adottate. Sono stati ricordati i 73 miliardi di euro previsti nelle manovre 2006-2011, ma abbiamo anche evidenziato la necessità di una verifica a consuntivo di questi effetti, perché, allo stato attuale, i dati che vengono forniti dall'amministrazione finanziaria non riguardano i risultati dell'evoluzione dell'adesione da parte dei contribuenti, ma i risultati dell'azione di controllo, quindi dell'azione di repressione, in cui, peraltro, sono ricompresi anche i risultati del semplice controllo formale sulle dichiarazioni, che non rientrano naturalmente nel campo della lotta all'evasione. Questi sono gli indirizzi che noi abbiamo ritenuto di segnalare.
Per quanto riguarda più specificamente la tassazione patrimoniale, abbiamo cercato di verificare quale impatto hanno avuto su questo assetto, che avevamo definito per quanto attiene l'anno 2009, le manovre adottate nel 2011, e abbiamo evidenziato come dei correttivi siano stati introdotti (lo trovate nella tavola 1 della documentazione depositata), con aumenti del carico tributario - per il 2012 - che hanno riguardato l'area impositiva del patrimonio immobiliare e del patrimonio mobiliare, dei consumi e delle accise. Riduzioni del carico tributario - per l'anno 2012 - hanno riguardato, come auspicato, i redditi da lavoro, ma si tratta di un effetto molto limitato (895 milioni di euro rispetto ai 32 miliardi che sarebbe necessario realizzare), e i redditi d'impresa, con una riduzione di 2,5 miliardi circa.
Mi fermerei qui, per il momento.
LUIGI GIAMPAOLINO, Presidente della Corte dei conti. Chiederei al collega Pala se può rispondere in merito ai ritardati pagamenti.
MAURIZIO PALA, Consigliere della Corte dei conti. Sui ritardi dei pagamenti da parte della pubblica amministrazione, vorrei semplicemente mettere in evidenza che abbiamo tentato di offrire un primo quadro di stime, considerando che circolano in questi ultimi tempi valutazioni sui crediti commerciali delle imprese di dimensioni anche superiori ai 100 miliardi di euro e con riferimenti puntuali a presunti monitoraggi effettuati. Si parla di un monitoraggio recentissimo di Cassa depositi e prestiti e Consip, che in realtà non esiste. Quindi, il problema di trovare delle fonti di stima e di depurare i dati è un problema rilevante.
Vi sono due modi per fare stime sui crediti commerciali delle imprese. Uno è quello di partire dalle indagini sulle imprese, come fa la Banca d'Italia, che un paio di anni fa ha svolto una valutazione che raggiungeva, mi pare, i 60 miliardi di euro (il 4 per cento del PIL del 2009); l'altro è quello di partire dai dati di bilancio e patrimoniali delle amministrazioni pubbliche. Questo secondo approccio, che è quello che noi abbiamo sottomano, è molto complesso proprio per la dubbia qualità dei dati. Un dato molto significativo - vorrei dire quasi irrituale e sorprendente - è la circolare n. 6 del 27 febbraio 2012 della Ragioneria generale dello Stato, che, appunto, si propone una due diligence sullo stock dei debiti commerciali dello Stato, che è singolare, nel senso che, in realtà, tutte le carte dovrebbero essere formalmente ineccepibili, poiché si tratta di impegni assunti. Il fatto di
richiedere di verificare se quegli impegni siano davvero tali, è un'opera meritoria - nel senso che fa pulizia in uno stock - ma molto singolare.
Questo serve, come riportato nel documento che abbiamo consegnato, per ridimensionare la portata quantitativa del fenomeno, considerando appunto che si parte da un dato grezzo e lordo, sicuramente sovrastimato.
Per quanto riguarda la domanda posta con particolare riferimento alla spesa corrente, unirei sia amministrazioni centrali che amministrazioni locali per confermare
che, in effetti, la stringenza dei tagli lineari - nel caso delle amministrazioni centrali - e la stringenza anche un po' miope del Patto di stabilità interno, sta producendo queste distorsioni. Noi abbiamo esaminato, negli anni, la performance dei tagli lineari, con riguardo ai consumi intermedi, sostanzialmente derivanti dai fitti e dagli acquisti di beni e servizi. L'informazione che abbiamo ottenuto, anno per anno, si è rivelata ex post sbagliata, nel senso che vi erano debiti sommersi che sono poi emersi tutti insieme, a fine 2008, per esempio, con riferimento agli anni precedenti, che hanno comportato un peggioramento del nostro disavanzo pubblico e indebitamento netto solo in sede di rettifica delle serie storiche. È una circostanza molto curiosa.
Questo è stato determinato dal fatto che molte spese erano «sotto la linea» e sono emerse con atti di accertamento e di riconoscimento che nella relazione appena esposta ci permettiamo di paragonare ai condoni fiscali: l'amministratore è meno attento se sa che comunque arriverà un atto di «sanatoria», di accertamento e di copertura di quei debiti. Per quanto riguarda gli enti locali, avevamo provato a vedere i dati dei debiti verso i fornitori nel settore sanitario, che, ovviamente, costituiscono la dimensione più ampia all'interno dei debiti nei confronti dei fornitori delle amministrazioni pubbliche.
È necessaria un'istruttoria più fine, anche in tale caso, per il fatto che si tratta di dati molto grezzi. Il rischio è di leggere questi dati in una maniera distorta e fuorviante. Vedendo i 35 miliardi di euro di debiti verso i fornitori del sistema sanitario si potrebbe incorrere nell'errore di considerare che non funzionino i piani di rientro dei disavanzi sanitari. Al contrario, credo che il fenomeno, oltre a essere concentrato in alcune regioni, si sia essenzialmente trasformato in una difficoltà delle regioni di pagare il dovuto agli enti sanitari per la stringenza del Patto di stabilità interno, quindi è un fenomeno diverso.
Da ultimo, è stato posto il problema di che cosa può significare la cessione agli intermediari finanziari dei debiti. Non si vuole assolvere la pubblica amministrazione, poiché l'inadempienza resta piena, da questo punto di vista; si vuole solo mettere in evidenza che, rispetto agli effetti sulla crescita economica, sui livelli di occupazione e via dicendo, è una questione un po' diversa se si tratta di crediti esistenti direttamente presso le imprese oppure mediati attraverso il sistema bancario.
NATALE MARIA ALFONSO D'AMICO, Consigliere della Corte dei conti. L'onorevole La Malfa ci richiamava opportunamente alla durezza della congiuntura. È vero, siamo in una fase recessiva: i numeri citati dall'onorevole La Malfa riferiscono che nel 2013 avremo un prodotto dell'1,5 per cento inferiore a quello del 2011. La risposta presente nel testo depositato ci indica che se lo spread risale di 200 basis point il prodotto sarà di meno 2,5 per cento.
La prima cosa da fare è evitare che la situazione peggiori. In generale, l'ipotesi interpretativa è quella secondo la quale, almeno in questa fase, la spesa pubblica - via aumento del tasso di interesse - spiazza più spesa privata dell'effetto positivo della spesa pubblica stessa, poiché i tassi di interesse sono diventati molto reattivi all'andamento della finanza pubblica e c'è il rischio, quindi, che la spesa pubblica, anziché fornire un sostegno al reddito, faccia cadere in particolare la spesa di investimento, che è decisiva per la crescita nel lungo periodo.
Più in generale, sull'ipotesi di interventi una tantum sulla spesa, la Corte dei conti ha espresso, nell'audizione svolta alla Camera dei deputati sull'introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale, il proprio appassionato consenso a un recupero, da parte del Paese, di una cultura della stabilità finanziaria, in particolare della stabilità della finanza pubblica. Nel giudizio della Corte questo è un passo importante che il Paese deve compiere, il che non vuol dire che non esistono spazi per interventi della politica economica, ma che - per motivi di equilibrio e di
equità intergenerazionale e anche per il fatto che oggi i disavanzi rischiano di avere effetti sul tasso d'interesse spiazzando la spesa privata - è opportuno che il Paese si rimetta decisamente sulla strada dell'equilibrio di bilancio.
LUIGI GIAMPAOLINO, Presidente della Corte dei conti. Voglio solo dirle, presidente, che, specie con riguardo ad alcune domande che ci sono state poste, ci farebbe piacere rendere partecipe lei e la Commissione bilancio del fatto che proprio di recente abbiamo istituito una commissione, ai fini di modulare diversamente le forme di controllo della Corte. Vogliamo quindi offrire al Governo e al Parlamento un nostro documento anche per alcune delle esigenze che qui sono state rappresentate.
PRESIDENTE. Ringraziamo i nostri ospiti per l'importante contributo fornito all'indagine conoscitiva in corso.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 14,25.