Sulla pubblicità dei lavori:
Marinello Giuseppe Francesco Maria, Presidente ... 2
INDAGINE CONOSCITIVA SULLA FINANZA LOCALE
Audizione del dottor Giancarlo Verde, direttore della Direzione centrale della finanza locale del Ministero dell'interno:
Marinello Giuseppe Francesco Maria, Presidente ... 2 14 16 20 21 27
Ceroni Remigio (PdL) ... 14 26 27
Duilio Lino (PD) ... 16 26
Rubinato Simonetta (PD) ... 18
Verde Giancarlo, Direttore della Direzione centrale della finanza locale del Ministero dell'interno ... 2 21 26 27
ALLEGATO: Documentazione consegnata dal dottor Giancarlo Verde ... 28
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP.
Resoconto stenografico
INDAGINE CONOSCITIVA
La seduta comincia alle 18,15.
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla finanza locale, l'audizione del dottor Giancarlo Verde, direttore della Direzione centrale della finanza locale del Ministero dell'interno.
Il dottor Verde è accompagnato dal dottor Raffaele Sarnataro, capo ufficio consulenza e studi finanza locale.
Innanzitutto, dottor Verde, le chiedo scusa per un ritardo oltre i limiti del consentito, ma credo che questa sia la riprova, al di là di quello che molto spesso si ritiene al di fuori del Palazzo, che il Palazzo c'è e lavora. Molto spesso, la difficoltà dei provvedimenti e le legittime divergenze creano momenti di confronto che fanno dilatare in maniera abnorme i nostri tempi.
L'audizione del dottor Verde avrà ad oggetto il Patto di stabilità, relativamente alle competenze esercitate in materia dal Ministero dell'interno, nonché alcune problematiche inerenti all'indagine connessa con l'attuazione della legge n. 42 del 2009 in materia di federalismo fiscale, con particolare riferimento al tema dell'armonizzazione dei bilanci pubblici e dell'attuale sistema dei trasferimenti statali.
Do la parola al dottor Verde, ringraziandolo per la sua partecipazione.
GIANCARLO VERDE, Direttore della Direzione centrale della finanza locale del Ministero dell'interno. Signor presidente, sono qui con molto piacere, perché così il Ministero dell'interno può dare il proprio contributo ai vostri lavori. Ho predisposto una relazione, che ho consegnato e ho preparato anche una serie di diapositive che richiamano delle tabelle che mi permettono di sviluppare alcuni argomenti.
A seconda dei tempi che pensate di poter dedicare a questi temi, possiamo sunteggiare la relazione oppure metterla da parte e trattare gli argomenti «caldi» sui quali vorrete essere edotti.
PRESIDENTE. Autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna della documentazione consegnata dal dottor Verde (vedi allegato). Chi vorrà leggerla integralmente avrà la possibilità di farlo, per cui alla luce di questa considerazione suggerirei al dottor Verde di svolgere la sua relazione introduttiva nelle forme, nei tempi e nei modi dovuti e quindi di illustrare le tabelle. Alla sua illustrazione seguiranno le domande che sicuramente i colleghi vorranno porre.
GIANCARLO VERDE, Direttore della Direzione centrale della finanza locale del Ministero dell'interno. Siamo in un momento
della legislatura nel quale c'è una grossa attenzione sui trasferimenti statali verso gli enti locali. In linea di principio, credo che sia utile discutere del fatto che va fatta chiarezza su che cosa si intende per trasferimenti dello Stato, dal momento che, in questi anni, sulla loro natura si è creato qualche equivoco.
Vi presento adesso due tabelle che ho preparato, relative agli anni 2008 e 2009, sullo stato dei trasferimenti agli enti locali, che credo debbano essere commentate. Vi posso dire che parliamo di una massa di circa 16 miliardi di euro che transitano dal Ministero dell'interno a beneficio di comuni, province e comunità montane.
Le somme sono stabili, in questi ultimi anni, ma, innanzitutto, dobbiamo introdurre un elemento di chiarezza e cioè che bisogna comparare gli enti tra di loro. Leggendo queste tabelle, la prima cosa che viene da chiedersi è come si muovano sul territorio per abitante. Questi sono i trasferimenti, ma in realtà la trasformazione della finanza locale in questi ultimi anni ha fatto sì che affianco a questi ci sia una parte dei tributi che sono stati dati agli enti locali. Ad esempio, quando nel 1993 è stata introdotta l'ICI, in quel momento, la parte di ICI che non era responsabilità degli enti locali - ma era responsabilità dello Stato che al 4 per mille l'ha introdotta - venne contestualmente recuperata sui trasferimenti dello Stato. In realtà, quando consideriamo il trasferimento attuale dal Ministero dell'interno agli enti locali, se vogliamo fare un ragionamento completo dobbiamo inserire anche il 4 per mille di ICI
sulla prima casa - sterilizziamo per un attimo i problemi della prima casa - perché quell'importo, sostanzialmente, è un trasferimento dello Stato, in quanto non c'è stata una responsabilità del sindaco nell'acquisizione di questa risorsa.
Una prima chiave di lettura essenziale di queste tabelle è dunque quella di avere ben presente che esse non racchiudono l'entità generale dei trasferimenti dello Stato, perché vi sono anche altri trasferimenti.
La massa, come dicevo, è di circa 16 miliardi di euro e negli ultimi anni assistiamo a una stabilizzazione di questi trasferimenti. Sembrerà incredibile, ma noi ancora scontiamo gli effetti dei decreti Stammati del 1979: in quel periodo storico, infatti, si scelse di passare da un sistema a piè di lista a un sistema più mirato di assegnazione agli enti locali. Si scattò, allora, una fotografia della situazione, che era un po' particolare: fino a quegli anni, chi più spendeva andava in disavanzo e lo Stato rimborsava l'entità del mutuo che l'ente contraeva per chiudere il disavanzo del bilancio; quel contributo, però, è rimasto anche dopo la chiusura del mutuo.
Questo era noto, dal momento che il Ministero dell'interno non paga solamente nel mondo delle autonomie, ma ha come vocazione quella di seguire la realtà comunale, l'ordinamento, e curare il funzionamento degli enti locali. L'esistenza di un ufficio studi della finanza locale faceva sì che si studiassero i fenomeni e, dunque, a fronte dell'emersione di questa vicenda, si ipotizzarono i correttivi.
Proprio con il decreto legislativo n. 504 del 1992 istitutivo dell'ICI, si cercò di individuare una soluzione al problema del disallineamento dei trasferimenti agli enti locali. In quella sede i trasferimenti diminuivano; ci fu allora un primo taglio consistente, che fu compensato con l'attribuzione dell'ICI. Ciclicamente - in questo caso parliamo del 1992 - gli enti locali hanno sempre in qualche modo contribuito ai disavanzi dello Stato, all'equilibrio del bilancio statale. In quell'occasione, con la finanziaria del Governo Amato, poiché occorreva recuperare 90 mila miliardi di lire per andare in equilibrio, un contributo lo diedero anche gli enti locali, in quanto furono tagliati circa 12 mila miliardi dando l'ICI al 4 per mille.
Formalmente, quindi, da quell'anno cominciano i tagli ai trasferimenti degli enti locali. Dopo il 1992, abbiamo conservato nel tempo tassi programmati di inflazione; anno per anno, dunque, al sistema degli enti locali in linea di principio veniva conservato il tasso programmato di inflazione,
quindi c'era una modesta crescita, che certo non era tale in termini reali, per la differenza esistente tra tasso di inflazione programmato e reale e non tenendo sempre conto, ovviamente, delle diverse attribuzioni agli enti locali.
In anni più recenti, dal 2000 a oggi, non è stato più riconosciuto nemmeno il tasso programmato di inflazione, dunque i trasferimenti sono stati sostanzialmente stabili. In qualche occasione, si è riusciti a dare qualche risorsa in più, in molte altre ci sono stati dei tagli. Ricordo che, nel 1996, per tre anni fu operato un taglio - quello che noi definiamo «taglio Dini» perché relativo a un decreto-legge emanato durante il Governo Dini - dell'1 per cento - quindi del 3 per cento in totale - dei trasferimenti agli enti locali.
Infine, la finanziaria dell'anno scorso ha tagliato 200 milioni di euro ai comuni e 50 milioni di euro alle province. Di tagli, quindi, ne abbiamo avuti anche di recente.
Tuttavia, di fronte a una massa di 16 miliardi di euro - senza entrare nel merito di quali funzioni e compiti abbiano i comuni - possiamo dire che abbiamo un sistema sostanzialmente stabile a valori monetari. Se predisponiamo le tabelle deflazionando questi dati, con i tassi programmati di inflazione in 10-15 anni, la flessione è sotto gli occhi di tutti.
Le tabelle che il dottor Sarnataro, direttore dell'Ufficio consulenza e studi finanza locale del Ministero dell'interno, cortesemente mi aiuta a illustrare questa sera, partono dai seguenti dati: totale comuni, totale province, trasferimenti nell'anno 2008, trasferimenti nell'anno 2009, espressi per zona geografica, per regioni o anche per media per abitante.
Il valore assoluto serve a poco: che in Lombardia arrivi 1 miliardo di euro significa poco o niente. È interessante, invece, considerare i valori per abitante, perché in questo caso la vicenda cambia. Queste tabelle recano 2008 e 2009 perché questi sono i dati di oggi. Al riguardo, devo spiegare un altro aspetto molto importante circa il ruolo - che è mutato - del Ministero dell'interno e i problemi che, anche sotto questo aspetto, possono avere gli enti locali.
Per anni, noi abbiamo avuto la produzione di quella che, nel nostro gergo di funzionari statali, chiamiamo la spettanza, vale a dire l'individuazione del momento di diritto in cui formalizziamo l'importo che spetta a un ente locale. Questo «foglietto» era veramente sacro e il Comitato regionale di controllo (CORECO) allora pretendeva che fosse allegato alla delibera di bilancio.
Negli anni '90 usavamo la stampante del servizio elettorale, una stampante velocissima, che ci permetteva di stampare in 5-6 giorni queste carte che le prefetture distribuivano ai comuni. Questo avveniva a febbraio-marzo.
Mi vanto di appartenere a un ufficio, quello della finanza locale, che è sempre stato molto avanzato dal punto di vista tecnologico. Abbiamo sempre avuto una strumentazione adeguata, banche dati modernissime, prime nelle amministrazioni. Il primo sito Internet della pubblica amministrazione in senso ampio è stato quello della finanza locale - perché doveva divulgare le spettanze - ed è figlio del videotel, che fu introdotto con l'articolo 15-ter del decreto-legge 28 dicembre 1989, n. 415, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 38, in base al quale il Ministero dell'interno pagava a Telecom un videotel per ogni comune. Il videotel, in effetti, ha avuto la sua evoluzione tecnologica in Internet. Avevamo, insomma, gli strumenti per agire presto e bene in rapporto ai tempi.
Vi confesso, comunque, che il sistema era più semplice. Quella che io ho chiamato «spettanza», la somma promessa giuridicamente a ogni ente, che costituiva l'accertamento di entrata che garantiva il finanziamento dei bilanci degli enti locali, veniva calcolata a febbraio e, bene o male, da quella non ci si discostava. Certo, durante l'anno qualche cambiamento poteva intervenire, anche in virtù dell'approvazione di provvedimenti legislativi riguardanti la finanza locale, ma era episodico.
Il sistema, come immagino saprete voi che avete anche responsabilità a livello di enti locali, da sette-otto anni a questa parte è cambiato. Noi all'inizio dell'anno prepariamo le spettanze, ma sono diventate mobili. Non so se la tecnologia ci aiuta o se ha determinato questo, perché fortunatamente non dobbiamo più stamparle, ma abbiamo sistemi che ci permettono di divulgarle in tempo reale agli enti locali. Tuttavia, quelle che noi chiamiamo spettanze non dico che cambino una volta a settimana, ma hanno una mutevolezza notevole. Da un lato, infatti, applichiamo le norme e finché la norma non cambia la spettanza viene determinata in un certo modo.
Il problema è che il sistema del rapporto finanziario tra Stato ed enti locali è cambiato, non è più univoco. Non c'è più lo Stato che dà i soldi agli enti locali, ma c'è anche lo Stato che dà i soldi agli enti locali quando ha delle notizie dagli stessi (quindi, la legge stabilisce il criterio, ma lo Stato ha bisogno di sapere che cosa succede sul territorio, quindi ha bisogno della notizia, quelli che noi chiamiamo i certificati) o addirittura sono gli enti locali che devono dare soldi allo Stato, ossia devono rimborsare.
Da una parte, dunque, abbiamo visto l'introduzione dell'ICI, ma potremmo citare l'imposta provinciale di trascrizione (IPT) e l'imposta della responsabilità civile sulle auto (RC auto) devoluta alle province nell'anno 1997-1998, ma solo a valori di quell'anno. In quell'anno fu determinato quanto lo Stato incassava. La manovra doveva essere neutra, perché quello di attribuire un'imposta era un tentativo di federalismo fiscale. L'equivalente di quell'imposta è stato rimborsato allo Stato tramite minori trasferimenti alle province; ci sono state, però, province che in quegli anni riscuotevano dalla RC auto e dall'IPT più dei trasferimenti dovuti. Tale situazione comporta che le province devono restituire allo Stato delle risorse. Ogni anno, dunque, risorse - per la provincia di Milano addirittura si tratta di 20 milioni di euro - ritornano dal bilancio locale al bilancio statale per queste manovre compensative, oltre a quelle che già
conoscete, che potremo analizzare nel dettaglio. Parlo della famigerata ICI rurale e di altre situazioni.
Tutto questo fa sì che il sistema sia mobile. C'è, allora, una difficoltà nell'omogeneizzare i dati e nel fare raffronti corretti. Le tabelle le possiamo anche fare, e volentieri le ho portate, ma devono essere lette in un certo modo, perché c'è il rischio di non valutare compiutamente quei momenti di disomogeneità.
Se considerate i dati del 2009, per esempio, sembrerebbero contraddittori rispetto a quello che vi ho detto, perché il totale dei trasferimenti, che nel 2008 era di circa 14,4 miliardi, nel 2009 è di circa 13,6 miliardi (sembrerebbero di meno, dunque). Questo naturalmente si riverbera anche quando facciamo le medie per abitante, dalle quali sembrerebbe che quest'anno lo Stato abbia trasferito di meno. Queste tabelle, però, le ho fatte oggi, con dati di metà ottobre, ma la questione è ancora in movimento. Abbiamo ancora certificazioni aperte, sulla base delle quali daremo fondi agli enti locali. Per esempio, per l'ICI rurale si tratta di circa 700 milioni; se aggiungete questa cifra ai 13,4 miliardi dei comuni, oltre alle somme delle province e delle comunità montane, ritorniamo ai 16 miliardi complessivi.
La preghiera che vi faccio, pertanto, è di leggere questi dati alla luce delle spiegazioni che vi sto dando. Naturalmente, a margine di questa audizione, l'ufficio, nella persona mia e del collega, è disponibile a fornire qualunque chiarimento dovesse servire come integrazione.
Le tabelle, dunque, mostrano le assegnazioni. Come vedete, abbiamo distinto anche per zone geografiche, ma è una partizione abbastanza sintetica. La voce «altri contributi generali» è molto elevata e questa è una sconfitta, in un certo senso. Si lavorò parecchio, nella delega della legge n. 504 del 1992, per pervenire a una pulizia anche contabile, ma principalmente a un metodo ordinato verso gli enti locali, perché ci affacciavamo a quegli anni con tantissimi trasferimenti agli enti locali, a qualunque titolo. Peraltro, alcuni
erano soggetti anche a certificazioni annuali (ricordo, ad esempio, casi riguardanti la gente di mare e le vittime del delitto), che magari comportavano dei dare/avere verso enti locali per importi sproporzionati al lavoro che si doveva fare (anche 50 mila lire, ad esempio).
Nell'emanazione di quel provvedimento si riuscì a dare un ordine anche alle contribuzioni, cercando di individuare radici comuni - un contributo ordinario, un contributo perequativo e un contributo consolidato - e disegnando un sistema, nell'ottica di mantenere sempre lo stesso schema.
Queste tabelle dimostrano che il sistema ci ha sconfitti. Dal 1992 ad oggi, basta aprire anche su internet la banca dati della finanza locale per vedere che abbiamo nuovamente tantissimi pagamenti agli enti locali. Alcuni di questi sono a carattere generale, perché riguardano tutti gli enti, ma alcuni sono anche mirati.
Come dicevamo prima, il Ministero dell'interno ha una notevole organizzazione nel fare i pagamenti agli enti locali. Tempo fa, quando si disponeva un pagamento il comune lo riceveva anche 40-50 giorni dopo, perché quelli erano i tempi medi che servivano perché le risorse uscissero dalle casse dello Stato ed entrassero nelle casse dei comuni. In questi ultimi anni non siamo riusciti ad aumentare le risorse, ma possiamo dire di aver raggiunto l'obiettivo di darle prima possibile.
La legge statale e il decreto ministeriale attuativo prevedono che l'ultima rata dei contributi agli enti locali venga pagata entro il mese di ottobre. Ebbene, negli anni passati, il Ministero dell'interno preparava il provvedimento il 28-29 ottobre, ma i fondi arrivavano per le tredicesime, a metà dicembre.
Adesso - lo si può vedere, perché sono dati pubblici, consultabili da tutti gli enti locali - il pagamento lo abbiamo fatto il 6 ottobre, quindi non siamo arrivati a fine mese. Considerando i meccanismi attuali, che prevedono una firma elettronica, un passaggio in formato elettronico del mandato, la sua ricezione da parte della Banca d'Italia direttamente dall'ufficio della Tesoreria statale, possiamo dire che dopo cinque-sette giorni di valuta dal 6 ottobre l'ente locale entrerà in possesso di quel denaro. Questo è molto importante. Quest'anno, dunque, intorno al 12, 13, 15 ottobre i comuni hanno avuto la terza rata in «tasca», e non il 15 dicembre come accadeva altri anni. Le tecnologie esistono e noi fortunatamente riusciamo ad utilizzarle.
Se consideriamo il riparto per regioni possiamo valutare come siamo in una fase simile al passato, relativamente alla voce «altri contributi generali», dove, approfittando di quel sistema, troverete anche contributi - nella relazione ne cito alcuni - per la diga foranea di Molfetta, Pietrelcina, San Giovanni al Monte e via di seguito, oppure per le dismissioni delle basi Nato. Naturalmente si tratta di esigenze nate per singole situazioni veicolate attraverso il Ministero dell'interno. Per far arrivare quei fondi rapidamente, in assenza di previsioni specifiche nelle norme, viene adoperato il sistema di pagamento della finanza locale e queste risorse arrivano presto agli enti.
Si ha, dunque, un'applicazione scorrevole delle norme. Questo ci ha fatto convogliare tanti altri fondi specifici, che sommati hanno un certo peso.
Lo ripeto, guardando le tabelle si può vedere che il sistema sicuramente deve essere ancora adeguato. Ho accennato prima al decreto legislativo n. 504 del 1992, che rappresenta un momento di studio, come vi dicevo all'inizio. Già in quegli anni, infatti, si provò a tamponare gli effetti negativi dei decreti Stammati, che ancora nel 1992 si avvertivano drammaticamente. Vi fu un tentativo con il decreto legislativo n. 504, frutto della legge delega n. 421 del 1992. Lo definisco «tentativo» perché si trattò, in questo e in altri casi, di norme rimaste sulla carta. Addirittura, come nel caso del successivo decreto legislativo n. 244 del 1997, queste norme sono state «fermate» per precisa disposizione legislativa.
Noi abbiamo qualificato questi due provvedimenti per la loro tipologia e li abbiamo definiti i «decreti Robin Hood».
Robin Hood toglieva ai ricchi per dare ai poveri e il nome in questo caso derivava dal fatto che si trattava di riforme fatte a parità di stanziamento statale, quindi toglievano a qualcuno per dare a qualcun altro. Inevitabilmente, chi subiva il taglio non reggeva e, a quel punto, le disposizioni legislative bloccavano il sistema.
Oggi, dopo tanti anni nei quali è rimasto in piedi solamente l'articolo 9, comma 3, del decreto legislativo n. 244 del 1997, che impone di riequilibrare chi è sottodotato di risorse - per qualche anno, parte dell'incremento dovuto al tasso programmato di inflazione e la sua conferma negli anni è stato destinato a questa manovra - questo ha determinato un recupero, sotto questo aspetto. Tuttavia, nel 2009, a trent'anni dal decreto Stammati, abbiamo ancora 2935 comuni che sono al di sotto della loro media di fascia. Ci sono enti che sono sottodotati di risorse e ancora scontano quel problema.
Se volessimo accontentarli ed evitare il problema, sono necessari 975 milioni di euro. Chiaramente non possiamo togliere questa cifra agli altri comuni che sono sopra la media. Non è una qualificazione positiva quella di essere sopra la media: quando si fa una media, c'è sempre chi sta sotto e chi sopra. Non versa in condizioni ottimali chi è sopra la media, ma sicuramente sta male chi è sotto la media. Tuttavia, è dura trovare 975 milioni di euro. Continuando a raccogliere 90 milioni o 60 milioni l'anno, è difficile portare a casa il risultato in termini accettabili.
Ecco perché il sistema è fallito. Lo dico perché siamo alla vigilia del federalismo fiscale. Come Commissione parlamentare state affrontando con molta veemenza i problemi dell'armonizzazione. Secondo noi, l'occasione è utile per offrire momenti di riflessione, anche citando l'esperienza del passato.
Considerate che il meccanismo del 1997, che prevedeva una garanzia del 20 o 40 per cento almeno per ogni singolo ente, diventava intangibile, nell'ambito del recupero. Chi perdeva avrebbe perso, in 12 anni, il 5 per cento, nel senso che metteva in gioco il 5 per cento ogni anno, ma poteva non averlo indietro. È bastato applicare un anno questo meccanismo, ma il sistema è stato fermato, perché gli enti non riescono a reggere.
L'esperienza che si vuole portare in questa sede ci porta a dire che questi processi sono faticosi. Se sono a costo zero - e mi pare di leggere nelle norme che l'invarianza della pressione fiscale per il federalismo imporrebbe un costo zero anche di quella iniziativa - sono faticosi da introdurre e da gestire e necessitano di tempi lunghi, altrimenti sono sconvolgenti per le realtà locali. Ecco lo spunto di riflessione e il contributo che mi permetto di portare a voi parlamentari.
Abbiamo studiato i parametri di spesa, i determinanti di spesa, i costi standard. Ovviamente non sono dati inventati oggi, ma sono patrimonio del mondo degli enti locali da anni. Noi li abbiamo studiati in altro contesto e ad altro titolo, ma li conosciamo.
Considerato che sindaci e presidenti di provincia sono quasi 9 mila, incontrandone 400 all'anno, in cinque anni riesco a vederne buona parte. Ebbene, noi abbiamo una banca dati che ci permette di fare un'analisi del bilancio e del rendiconto dell'ente locale, con alcuni indicatori. Questa è la banca dati che non ho potuto portare stasera; questa è solo un'immagine per farvi capire che abbiamo degli indicatori e che sono evidenti.
Ho portato, comunque, alcune slide per parlarvi degli indicatori. L'attività del Ministero non è solo quella di erogare i fondi, ma anche di cercare di erogarli seguendo delle regole e valutandone l'impatto. Per capire questi elementi ci avvaliamo delle certificazioni. Dopo ritorneremo su quelle specifiche, ma adesso mi riferisco alle certificazioni del bilancio e del rendiconto. In base a questi due documenti essenziali, tutto il mondo pubblico che si rivolge agli enti locali fa le sue valutazioni. Annualmente gli enti locali sono tenuti a consegnare questo documento, che contiene un estratto del bilancio o del rendiconto, quindi è un riassunto dei dati principali. Noi adoperiamo questi dati per due motivi: innanzitutto, lo Stato
vuole conoscere la realtà degli enti locali per aiutare chi governa e chi legifera a prendere le decisioni, quindi ha bisogno del dato aggregato degli enti locali; in secondo luogo, ogni ente locale conosce i propri dati, ma non conosce i dati degli altri, i dati di riferimento, quindi è necessario che qualcuno li metta insieme e ne tragga gli indicatori.
Ad esempio, sapere che un dato comune riscuote, per ogni abitante, 200 euro di tributi, serve a poco se non si conosce quanto percepiscono gli enti che rientrano nella fascia demografica di quel comune. Naturalmente, questo è un dato che possiamo fornire noi, non è pensabile che l'ente chieda ai singoli comuni.
Il servizio svolto dal Ministero dell'interno è acquisire questi dati affinché lo Stato conosca la situazione, in modo che la decisione politica sia la migliore. Dall'altro lato, il Ministero restituisce questi dati con gli indicatori, in modo tale che ogni ente possa fare le proprie valutazioni in rapporto agli stessi.
Gli indicatori sono quelli riportati, per esempio la pressione finanziaria. Peraltro, senza compiere eccessivi sforzi di fantasia, nel decreto del Presidente della Repubblica n. 194 del 1996 sono stati approvati tutti i modelli del rendiconto e del bilancio e vengono riportati gli indicatori che gli enti locali possono elaborare. Dobbiamo riportare quel documento agli anni in cui non c'erano banche dati e via elencando e, dunque, gli enti dovevano essere aiutati nelle elaborazioni. Oggi, in presenza di bilanci informatizzati, si può calcolare qualunque indicatore senza alcun problema. Negli anni passati, la strada era già segnata, perché a quel tempo così doveva essere.
Specifico che gli otto indicatori riportati sono quelli che nel tempo abbiamo perfezionato, perché non era facile per gli enti locali compilarli. Ad esempio, l'indicatore della pressione finanziaria è quello che ricaviamo facendo la somma delle entrate tributarie ed extratributarie divisa per la popolazione. In questo modo il sindaco si rende conto del gettito per ogni abitante, insomma quanto ricava dal cittadino. Si calcolano, infatti, solo le entrate tributarie ed extratributarie, non quelle dei trasferimenti statali. Si ricavano dati interessanti: ragionando per fascia o per provincia ci si rende conto della differenza tra l'azione dei diversi sindaci o del contributo della popolazione.
Nella tabella bianca ho elaborato i valori che si ricavano per fascia demografica: quanti enti sono sopra la media e quanti sotto la media. Vedete, per esempio, che nei comuni piccoli da 0 a 500 abitanti mediamente il cittadino contribuisce per 733 euro, che scendono a 592 e a 529 euro, a seconda delle fasce, per arrivare - questa è una classica curva gaussiana - a 935 euro, 822 euro nelle fasce più alte. Gli enti di media dimensione sono quelli che chiedono meno ai propri cittadini, perché evidentemente riescono meglio a equilibrare il bilancio. Questo indicatore permette altresì - ma andrebbe combinato con altri indicatori che possiamo vedere dopo - di vedere quanti sono i contributi dello Stato.
L'indicatore 2 è la pressione tributaria. Sostanzialmente, nei comuni il grosso della pressione tributaria è (o era) dovuto all'ICI e all'addizionale IRPEF. Non è casuale che questi siano dati del 2007, quando c'era ancora l'ICI. Nel 2008 salta tutto per il fatto che l'ICI non c'è più. Questo dimostra che è sempre complicato fare queste elaborazioni, perché di anno in anno la situazione evolve, da un punto di vista legislativo, in modo molto particolare.
Nel caso della pressione tributaria, si tratta di un indicatore abbastanza semplice da apprezzare, perché è facile dire che nei comuni fino a 500 abitanti il cittadino paga da 385 euro a 623 euro l'anno. Naturalmente questi dati devono essere accompagnati da tante valutazioni. Ad esempio, nei comuni piccoli i valori catastali sono molto bassi, dunque è chiaro che il 4 per mille dell'ICI a Roma significa una certa somma, mentre la stessa percentuale in un comune di mille abitanti corrisponde a ben poco. Per questo cambiano le aliquote e cambiano i pesi.
L'indicatore 3 riguarda i trasferimenti erariali rapportati alla popolazione. Se mettessimo vicini i due indicatori, vedremmo come nei comuni dove è alta la pressione tributaria è basso il trasferimento statale, e viceversa. Il fatto di avere pochi trasferimenti genera la necessità di ricavare risorse attraverso i tributi; oppure, il fatto di avere altri tributi propri ha generato che, nell'attribuzione delle risorse, il comune abbia ricevuto minori trasferimenti.
I due elementi, comunque, devono essere considerati affiancati. I trasferimenti regionali fanno capire come a volte le regioni sostengano più o meno un ente. Non sempre il sindaco riesce ad attivare i trasferimenti regionali, che forse sono più a domanda, in un certo senso, o vanno seguiti maggiormente rispetto a quelli dello Stato.
Gli indicatori 5 e 6 sono finanziari, ma in qualche modo hanno degli sviluppi gestionali, perché riguardano la velocità di riscossione delle entrate proprie. In pratica, se si hanno accertamenti di tributi per 100 per l'anno 2007, quanti di quei tributi sono stati riscossi nello stesso anno? Questo permette di capire, da un lato, l'efficienza dell'ufficio che cura tali accertamenti, dall'altro la validità degli accertamenti. Nel caso di un tributo come l'ICI - mi dispiace di citare sempre questo esempio, che è delicato - che si riscuote comodamente e non dà problemi, se il comune riscuote l'80, il 70 per cento del previsto, è sintomatico del fatto che sono state fatte previsioni non corrette, trattandosi in quel caso di un tributo che si riscuote al 90-95 per cento. Certo, può darsi che ci sia un problema con le Poste, che magari accreditano l'anno successivo la rata del 10 dicembre, ma comunque c'è lo stimolo a fare
una riflessione per rivedere la propria organizzazione, perché evidentemente qualcosa non funziona.
Lo stesso si dica per l'indicatore della velocità di gestione delle spese correnti, ossia i pagamenti. Com'è possibile che impegno 100 e pago 40? È il mio ragioniere che non è capace oppure ci sono residui di stanziamento? Ad esempio, può essere accaduto che all'impegno di spesa non abbia fatto seguito il contratto, dunque quel residuo va cancellato. Questi sono stimoli notevolissimi per l'amministrazione, per chi gestisce, in direzione di una valutazione della capacità organizzativa.
Si tratta di indicatori consolidati, che esistono da anni. L'indicatore funziona benissimo. Certo, ci dobbiamo intendere sul contenuto, perché le modifiche normative che sono in corso potrebbero alterarne il significato. Sicuramente, comunque, questi indicatori sono una base di lavoro per il federalismo fiscale. Magari, qualche indicatore sarà diverso, ma rimane una base di lavoro e di esperienza in un campo nel quale gli enti locali sono «allenati».
Altri indicatori sono l'autonomia finanziaria e l'autonomia impositiva. In realtà, di indicatori ce ne sarebbero tanti altri: noi ci siamo anche esercitati su altri indicatori, ad esempio quelli di efficacia ed efficienza, che sono presenti nelle tabelle allegate al suddetto decreto del Presidente della Repubblica n. 194 del 1996.
Per un paio d'anni abbiamo provato a ricavare questi indicatori. Abbiamo studiato il servizio di mensa e il trasporto scolastico, per cercare di arrivare a conclusioni sul costo per bambino, domande soddisfatte, eccetera. Ebbene, si arriva a questi dati, ma vi assicuro che costa una fatica immane. Occorrono anni, tant'è vero che noi abbiamo sistemato solo i due ambiti che ho citato e ci siamo arenati quando si voleva passare ai servizi sportivi. Si è seminato il panico, perché si trattava di avviare un'interlocuzione con 4000 enti, il che è impossibile, perché servirebbero uffici e persone in quantità notevole.
Sebbene questa sia un'esperienza piuttosto negativa, ho comunque piacere di portarla a questo tavolo, dal momento che mi domando come faremo ad acquisire con certezza e in tempi rapidi tutti questi indicatori di efficacia ed efficienza che ci serviranno per il costo dei servizi standard. Mentre oggi questi sono elementi di sprone per l'ente locale, un domani diventeranno
l'elemento in base al quale noi daremo o non daremo i trasferimenti erariali, partecipazioni o compartecipazioni a tributi statali o tributi propri. In quel momento, il fatto che gli indicatori siano quadrati bene e sicuri, ente per ente, dovrà essere ben valutato. Peraltro, un conto è fare un lavoro a carattere generale, per cui l'errore di un singolo ente o anche di parecchi enti si affievolisce, perché le metodiche statistiche permettono di arrivare a un dato complessivo valido e di fare delle medie corrette. Diverso, invece, è arrivare al dato singolo: se lo Stato valuta che a un comune vada assegnata una certa quota delle imposte sui tabacchi - scusate l'improvvisazione dell'esempio - e poi si scopre che il comune si è sbagliato nel comunicare i dati, gli viene riconosciuta una compartecipazione che non gli compete (potrebbe essere sbagliata in difetto o in eccesso).
Nel guardare i dati degli enti locali, abbiamo un'altra missione, quella di verificare che siano validi ente per ente. Prima potevano anche essere validi complessivamente; oggi dovranno essere validi singolarmente. Questo lavoro che ci aspetta è veramente tremendo e necessita di tempi lunghissimi, perché parliamo di contenitori di dati che numericamente si possono quantificare anche in 1000, 1500, 2000, quindi veramente tanti.
In più, dovremmo fare delle serie storiche, per più anni. Se pensate che, in occasione del censimento, l'ISTAT impiega 2-3 anni per quadrare i dati e comunicare quelli giusti, potete capire che tipo di lavoro ci sta aspettando.
Prima di lasciare la parola ai commissari, che così potranno rivolgermi domande più dettagliate, vorrei parlare di un'altra particolarità che abbiamo avuto in anni recenti, quella delle certificazioni specifiche, quelle che in genere sono destinate a togliere fondi agli enti locali o ad assegnarli. Abbiamo fatto un modesto esordio negli anni 2000. Per quanto riguarda l'ICI del 4 per mille del 1993 e l'IPT, l'APIET, addizionale provinciale all'imposta erariale di trascrizione, e la RC auto delle province il lavoro è stato svolto, in base alla legge, sui dati che ha comunicato il Ministero delle finanze. Non abbiamo chiesto numeri ai comuni.
Successivamente, già nel 2000 abbiamo avuto un piccolo esordio relativamente al personale ATA. Con legge n. 124 del 1999, il personale ATA passava dagli enti locali allo Stato. Ovviamente, la busta paga transitava ad un altro ufficiale pagatore e la legge prevedeva che le risorse venissero tolte a chi pagava prima (nel caso di specie, comuni e province) e passate allo Stato. Questo ha fatto sì che abbiamo dovuto recuperare quasi un miliardo di euro dagli enti locali. È improprio dire, in questo caso, che si sono ridotti i trasferimenti, poiché è venuta meno la spesa corrispondente.
È necessaria, dunque, una particolare attenzione nella comparazione dei dati da un anno all'altro. Il calcolo del recupero di un miliardo di euro è stato effettuato sulla base di certificazioni comunali; ogni comune ha inviato il suo certificato. Questa operazione, per la prima volta, ci ha visto togliere fondi agli enti locali.
È cominciato un cambio di «pelle». Noi del Ministero dell'interno eravamo quelli che assegnavano i fondi per far funzionare gli enti locali, ora siamo quelli che, spesso, con l'altra mano li riprendono. Quelle sono state le prove generali, ma adesso abbiamo altre situazioni che comportano rimborsi da un lato e recuperi dall'altro. I rimborsi riguardano tante situazioni, alcune veramente di importo considerevole.
Nel caso dell'ICI c'è stata una manovra compensativa. Lo Stato dà uno strumento e ne assume i vantaggi solo in parte: nel 1993 il 4 per mille dell'ICI fu calcolato con i valori catastali del 1993, ma poi l'evoluzione è rimasta ai comuni. L'IPT delle province ha reso ricchi questi enti, perché in 10-15 anni le entrate sono raddoppiate e oggi le province hanno un problema serio perché quelle entrate flettono del 10-15 per cento. Per 12 anni, però, le province hanno fruito di una crescita (lo Stato aveva tolto la base, ma la crescita è rimasta) e la cosa ha funzionato perché la visione prospettica era crescere. Oggi che
la congiuntura, invece, ci porta alla diminuzione delle basi imponibili, questo sistema comincia a scricchiolare.
Negli anni, tuttavia, si sono inserite disposizioni di legge a vario titolo che hanno previsto che lo Stato rimborsasse gli enti locali perché, attraverso disposizioni di legge, creava minori entrate per gli stessi enti, che non erano stimabili. Il sistema, che ha funzionato abbastanza, non è stato scelto per l'ICI prima casa, come non vi sfuggirà.
Cito, come esempio, l'ICI sui fabbricati di categoria D: è stata cambiata la possibilità di accatastare i fabbricati D (industriali). Sulla logica di questo diverso accatastamento, ai comuni giungevano somme meno cospicue (in particolare, si trattava di centrali elettriche, boe petrolifere, eccetera), in quanto gli enti locali perdevano somme dell'ICI. Lo Stato si è fatto carico di rimborsare ai comuni questo minore introito, a fronte dell'emissione di un certificato.
Si è creata un po' di confusione, riguardo a questa normativa, perché c'è stata una crescita esponenziale delle somme richieste, che faceva temere che i comuni non avessero ben inquadrato i problemi. Indubbiamente, non è facile ritrovare molte istruzioni da parte del Ministero dell'economia su questo argomento e questo può aver tratto in inganno gli enti locali.
L'anno scorso, se ben ricordo, nella legge finanziaria è stata inserita una disposizione che prevedeva una riapertura dei termini per fare le domande, ormai scadute, ma si specificavano con chiarezza le condizioni. In questi giorni abbiamo terminato il lavoro e stiamo facendo gli ultimi controlli formali. In effetti, prima della norma, c'erano 1.700 enti locali che avevano mandato certificati chiedendo rimborsi: alcuni hanno rivisto le cifre al ribasso, alla luce di questa interpretazione, altri hanno chiesto somme al rialzo, e altri mille hanno approfittato della riapertura dei termini. Pertanto, fra pochi giorni ufficializzeremo che ammetteremo a questo rimborso circa 2.700 comuni, e stanzieremo e stabilizzeremo una somma di oltre 300 milioni di euro l'anno. Ogni anno abbiamo, dunque, acquisito un certificato dai comuni, che indicava l'ammontare del rimborso. Questo è ciò che riguarda l'ICI sui fabbricati D.
Naturalmente, poiché alcune di queste disposizioni hanno, all'inizio dell'anno, una stima di assegnazione da parte del Ministero dell'economia e delle finanze, quando la somma viene superata, viene erogata nell'assestamento, o di quell'anno o dell'anno dopo, a seconda dei tempi in cui noi valutiamo la necessità di tali integrazioni. Sicuramente quest'anno, soprattutto perché dovremo attribuire arretrati per gli anni passati, le somme che abbiamo stanziato sul capitolo di spesa non ci permetteranno di erogare tutto. Daremo il diritto, l'entità spettante a ogni comune, ma non potremo pagare la relativa somma, che diventa un residuo attivo per il comune - sono quasi tutti comuni - che verrà preso a saldo, probabilmente nell'anno successivo. Si tratta di un meccanismo che i comuni hanno imparato a gestirsi, perché per alcune di queste certificazioni succede stabilmente.
Casi simili all'ICI sui fabbricati D sono l'ICI sugli oratori e l'imposta sulle insegne. Anche in questi due casi, alcune leggi statali hanno esonerato determinate situazioni dal pagare l'imposta. L'ICI oratori è ridotta e ammonta a 6-7 milioni di euro, mentre l'imposta sulle insegne pubblicitarie ammonta a circa 60-70 milioni di euro. I soldi ci sono e paghiamo il tutto. Gli enti hanno preparato certificati, hanno indicato il quantum e noi abbiamo stabilizzato tale somma.
Per quanto riguarda l'ICI sui servizi di trasporto, c'è stata un'attenzione del legislatore, nel momento in cui abbiamo avuto problemi con la Comunità europea, perché alcuni servizi non pagavano l'IVA, che si è dovuta imporre. Il problema non riguarda la Sicilia. Gli enti locali hanno osservato che, da un giorno all'altro, solo applicando una norma, il proprio contratto, che prima non era imponibile, lo diventava e ci si pagava l'IVA, quindi il 10 o il 20 per cento in più, non ricordo esattamente la percentuale. Se questo faceva carico a loro,
era necessario aumentare le tariffe. Per evitare ciò, la legge dello Stato, considerato che alla fine l'IVA in gran parte rientra - non tutta, una parte va all'UE e un'altra alle regioni - ha stabilito che, per la parte che rientra allo Stato, essa venga rimborsata ai comuni.
Anche in questo caso, il comune non vede rimborsato tutto, perché lo Stato non beneficia di tutta quell'IVA, in quanto, come detto, una parte va alle regioni e all'Unione europea. Per la parte che entra allo Stato, in proporzione a quanto speso dall'ente locale, essa viene rimborsata tramite il sistema dei certificati. Questo vale per l'IVA sui servizi a tariffa - mi pare si chiami così - e per quella sul trasporto locale.
La new entry, in questa vicenda, è rappresentata dall'ICI sulla prima casa, che voi conoscete, per la quale assegniamo un contributo agli enti locali. Essendo stata abolita, l'ente locale non può avvalersi di tale risorsa e la legge n. 126 del 2008, di conversione del decreto-legge n. 93 del 2008, ha finanziato la perdita.
Al riguardo vorrei svolgere un parallelo con l'ICI rurale, perché abbiamo due disposizioni sostanzialmente simili, ma formalmente diverse. L'ICI rurale - la chiamiamo così per banalità - è un meccanismo secondo cui diventano imponibili alcune categorie accatastate: se prima, pur essendo impiegati statali, non si pagava l'ICI perché si era considerati coltivatori se si coltivava un terreno in proprio possesso, adesso le nuove norme sull'ICI dispongono che se si è impiegati statali e si possiede un terreno, ma non si è agricoltori, l'imposta si paga. Questo, secondo i calcoli dell'Agenzia del territorio, portava alcune entrate agli enti locali, e la legge dispone che lo Stato prenda l'equivalente di quelle maggiori entrate.
C'è stata una quantificazione errata, per cui abbiamo tolto troppo agli enti locali, ed è in atto una manovra per restituire loro tali fondi. Abbiamo già restituito il 2007 e il 2008, resta il 2009. Abbiamo le risorse, ma non la regola giuridica che ci appoggi nella restituzione.
Col Ministero dell'economia e delle finanze abbiamo anche immaginato una disposizione legislativa, che sarà offerta alle valutazioni del Parlamento a margine di un decreto-legge, affinché diventi norma prima del 30 novembre, la data per effettuare il pagamento. Se essa diventa norma dopo tale data, il Ministero potrà assegnare il diritto, ma non erogare la somma, che slitterà all'anno successivo. È una somma cospicua, perché quasi 700 milioni di euro incidono sul Patto di stabilità dello Stato e su quello degli enti locali, e sarebbe una «iattura» incredibile perdere tale liquidità per quest'anno. L'auspicio, quindi, è che questa norma, che proporrà la Presidenza del Consiglio attraverso l'ufficio legislativo, trovi, in Parlamento, una sede idonea a diventare legge assolutamente entro il 30 novembre, per il bene degli enti locali.
Tale norma protegge, dunque, gli enti locali, pur con le difficoltà che stiamo vivendo. Rispetto alla stima iniziale, la somma reale è inferiore, come dimostra la tabella che state osservando, che riferisce come tutti gli enti locali abbiano mandato un certificato, attestando di aver ricavato da tali disposizioni 74 milioni di euro, ma che lo Stato ne ha prelevati, nell'anno 2009, 816 milioni di euro, quindi dieci volte tanto. Esiste una tutela di legge che prevede che il Tesoro eroghi la differenza, come ha fatto nella legge di assestamento, senza problemi.
Diversa è l'impostazione dell'ICI prima casa, che è stata abolita dall'articolo 1, comma 1, del suddetto decreto-legge n. 93 del 2008; il comma 2 del citato articolo 1, recita che ai comuni viene assicurato un rimborso di 2 miliardi 604 milioni di euro, che nel 2008 sono diventati 260 milioni di euro in più, con il decreto-legge n. 154 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 189 del 2008, - cito a memoria - ragion per cui, a fine anno, abbiamo erogato 2 miliardi 864 milioni di euro.
Il citato decreto-legge n. 154, ha richiesto agli enti interessati una apposita certificazione del mancato gettito accertato. Se il legislatore ha richiesto tale certificazione è perché voleva indagare il fenomeno,
ma la legge dello Stato attualmente vigente non dice, come per l'ICI rurale, che si ha diritto ad avere il rimborso della propria perdita. Dice invece che non c'è l'ICI, e che ci sono 2 miliardi 804 milioni, nell'anno 2008; nel 2009, la legge base dice che ci sono 2 miliardi 604 milioni, al di là delle certificazioni.
Nel frattempo - immagino che lo sappiate - è in corso una discussione effervescente su questi aspetti, e sono state date garanzie politiche dal Presidente del Consiglio in prima persona, e dai diversi ministri, come Maroni e Tremonti, e il fenomeno è stato studiato. Abbiamo avuto il certificato dagli enti locali.
Nel primo anno di applicazione delle predette misure la certificazione non era specifica: la voce prima casa rientrava all'interno di una certificazione più generale, e dava atto di una perdita di 3 miliardi e 22 milioni. Questa è stata la prima indicazione. Tuttavia tale indicazione risultava poco chiara perché faceva parte di un'altra certificazione, in cui si avanzava un'altra richiesta, ai fini della manovra - cosiddetta Prodi - di alleggerimento ICI, contenuta nella legge n. 244 del 2007. Nell'ambito di quella certificazione, che era molto semplice, si chiedeva agli enti di indicare la perdita legata alla manovra Prodi, per svolgere un controllo veramente minimale. Come Ministero dell'interno preferimmo richiedere agli enti locali i dati relativi al gettito derivante dall'ICI sulla prima casa, perché quel valore doveva essere quanto meno inferiore all'altro.
Senza sapere perché noi chiedessimo quel dato, prima ancora che fosse emanata la legge che ha abolito l'ICI, - era addirittura in carica un altro Governo - si era chiesto ai comuni quanto pesava la prima casa nel 2007. Risultò che si trattava di 3 miliardi e 22 milioni di euro. A questo punto è cominciata una discussione. Occorre valutare che questo era un dato relativo al 2007, mentre noi parliamo del 2008. Ritorno con veemenza sul fatto che le valutazioni vanno effettuate utilizzando dati omogenei. Il fatto che i dati riguardassero sempre l'ICI non significa nulla: si trattava di due esercizi diversi, con due storie diverse, perché nel 2008 la legge sull'ICI aveva alcune specifiche, si potevano attribuire le detrazioni dal reddito, e c'erano tante norme diverse; una cosa è, quindi, il 2007, un'altra il 2008.
Comunque, per avere un riferimento minimale per poter attribuire i fondi disponibili, si prese quello e i comuni fecero un prima certificazione il cui importo complessivo risultò pari a 3 miliardi e 22 milioni di euro.
Per legge è stato imposto agli enti di presentare una certificazione specifica del 2008. Questa è stata un'idea migliore, ma che ha comunque creato difficoltà agli enti, perché per la prima volta hanno dovuto attestare un fatto virtuale. In genere, abbiamo sempre chiesto loro dati precisi, per esempio sulle unità di personale ATA, o su quanto avesse incassato in più l'ICI rurale. Loro svolgevano, quindi, verifiche concrete. In questo caso, invece, si doveva indicare l'entità di qualcosa che non è successo, ossia i comuni hanno dovuto attestare quanto avrebbero pagato i cittadini se ancora fosse stata in piedi l'ICI, un fatto che non si è verificato. Specifico questo per dare atto ai comuni della difficoltà nel compiere questa operazione.
Diversamente dal passato, quando alcuni enti locali un po' disinvolti, nella confusione o nella paura di sbagliare, hanno preferito modificare le certificazioni - che ovviamente dovrebbero essere immodificabili, essendo approvate con decreto (vengono pubblicate in Gazzetta, o sul sito Internet, sono fotocopiabili e compilabili), magari aggiungendo un «non» dove invece si doveva dire «dichiaro che», fidando del fatto che non ci si accorgesse che era tutto uguale a eccezione di quel «non» vicino - in questo caso, invece, gli enti locali hanno compiuto un'operazione più pulita: su 8 mila certificazioni, in mille è stato aggiunto un foglio di carta, in cui si dichiarava che il sottoscritto sindaco consegnava la certificazione, ma faceva presenti le difficoltà riscontrate nel reperire i dati. Prendeva, in sostanza, le distanze per indicare che, nonostante avesse
attestato un certo dato, permanevano dubbi. Questo sarà stato fatto da almeno 1.100 enti, il che vi fa capire le difficoltà.
Questa certificazione è arrivata e sono cominciate le dispute, in particolare con l'ANCI, in Conferenza unificata. Ovviamente sono tutti dati che vengono inseriti nel sistema informatico e noi abbiamo fatto una verifica sulla sua corrispondenza con la dichiarazione fisica, dal momento che su di esso si basa l'elaborazione. Abbiamo acquisito il documento PDF - predisposto dalla prefettura - da tutti gli enti locali, quindi siamo sicuri che gli enti locali hanno dichiarato che la perdita del 2008 è pari a 3 miliardi 360 milioni di euro.
Il decreto-legge n. 154 stabilisce che su queste certificazioni sarà svolto poi un controllo dalla Corte dei conti, che a tale fine può avvalersi anche della competente Agenzia del territorio. Noi abbiamo svolto controlli cartolari, cartacei. Ogni amministrazione ha proceduto a verifiche sui documenti in suo possesso. Noi avevamo i dati relativi all'anno 2007, che si può prendere come riferimento, in quanto è meglio considerare l'ICI piuttosto che la TARSU, però, ribadisco, è sempre un'ICI che ha poco senso, perché si tratta di due cose diverse. Abbiamo anche gli stessi dati messi insieme, per classe e per fascia.
Si ricava che è inevitabile statisticamente che qualcuno si possa essere sbagliato, perché su 8 mila attestazioni qualcuna può essere errata. Se, però, si vanno a mettere per classi di differenza gli 8 mila comuni, per vedere quanti hanno dichiarato di più rispetto ai 3 miliardi 22 milioni di euro, e si scelgono tutti quelli che hanno dichiarato più del 60 per cento rispetto l'anno prima, e si vuole supporre per un momento che tutti costoro fossero distratti e abbiano compilato in modo totalmente errato la certificazione e si azzerasse questa differenza, si recupererebbero - andando a memoria - 100-150 milioni di euro. È un'ipotesi che ha veramente dell'assurdo.
Questo dà atto che i 3 miliardi 360 milioni di euro, eccetto per alcuni casi puntuali, si possono definire sostanzialmente validi. Tuttavia, come vi dicevo prima per l'ICI rurale, abbiamo avuto una notizia utile: il mondo degli enti locali reclama adesso di avere il tutto, ma serve uno strumento legislativo, dal momento che la legge ha disposto che su questa situazione si stanzino 2 miliardi 604 milioni di euro. Se lo si ritiene giusto, corretto, politicamente valido - sono un tecnico, non spettano a me queste scelte - il giorno in cui lo si decidesse, nella misura in cui si deciderà, occorrerà uno strumento legislativo con adeguata copertura, per arrivare alla somma disponibile.
Io sono andato a braccio, quindi vi chiedo scusa se sono passato da un argomento all'altro. Vi prego di chiedermi quello che ritenete più opportuno, e, se del caso, mi riservo di darvi risposte in seguito, laddove non fosse possibile fornirvele in questa seduta.
PRESIDENTE. Grazie, dottor Verde. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
REMIGIO CERONI. Esprimerò alcune considerazioni. Non si tratta di un giudizio sul direttore, ma, essendo stato sindaco, esprimo un giudizio fortemente negativo su quello che è avvenuto nella finanza locale in questi anni.
Ci sono stati alcuni errori, per esempio il passaggio dagli enti locali allo Stato del personale ATA, un'operazione suicida, che ha fatto raddoppiare i costi del personale: dove prima c'erano due bidelli nel comune, sono diventati quattro nel passaggio di tale personale allo Stato, con un'operazione davvero incredibile.
Si è poi operato in senso contrario rispetto a Robin Hood, per cui è stato tolto alla massa dei comuni per finanziarne alcuni più grandi. Questa operazione è stata attuata grazie all'ANCI, che è stata in mano a sindaci di città importanti, che hanno fatto il loro gioco, per cui sono stati tagliati trasferimenti agli enti locali più piccoli per erogare - lasciando fermo il monte totale - le risorse risparmiate ai comuni più grandi. Se andiamo a vedere i
contributi erariali, i comuni più piccoli hanno una media di 237 euro contro i 430 euro dei comuni più grandi. A volte si parla della soppressione dei comuni più piccoli, ma in realtà bisognerebbe sopprimere quelli più grandi, perché costano allo Stato il doppio rispetto a quelli più piccoli, che sono capaci di gestire meglio le risorse assegnate.
Poi si pone il problema dell'autonomia impositiva. Lei, dottor Verde, prima l'ha accennato: la differenza del patrimonio immobiliare e agricolo, soggetto a tassazione ICI, e anche la stessa addizionale IRPEF - nei comuni più piccoli dell'entroterra - sono molto più bassi rispetto ai comuni della costa. Noi abbiamo entrate dall'ICI dei comuni della costa che sono dieci volte superiori per abitante. Ci sono dunque alcuni comuni che dispongono di 50 euro per abitante e altri di 500 euro. Tenuto conto, poi, che tutti i comuni della costa fanno pagare il servizio per tutto l'anno, ma lo erogano solo per un mese, chi ha la seconda casa paga un'aliquota più alta, eroga un servizio per un dodicesimo - perché chi ha la casa al mare ci va un mese l'anno - e quindi il comune della costa è favorito.
Questo ha determinato sperequazioni davvero incredibili, nel silenzio più assoluto da parte della finanza locale, che avrebbe invece dovuto segnalarle.
Va, inoltre, segnalato che, dopo 31 anni dal decreto Stammati del 1978, siamo arrivati a discriminazioni peggiori di quelle originarie ed è mancata completamente la volontà di riequilibrare. Forse qualcuno lo avrà fatto in qualche maniera, però, nella sostanza, i comuni che erano sottodotati sono rimasti tali.
Volevo poi segnalare la normativa prevista dall'articolo 1, comma 703, lettere a) e b), della legge n. 296 del 2006, relativa ai comuni fino a 5 mila abitanti, con esposizione triennale, che prevedeva l'incremento del contributo ordinario sia per i comuni nei quali il rapporto tra la popolazione residente di età inferiore a cinque anni e la popolazione residente complessiva è superiore al 5 per cento, poi diventato 4,5, sia per i comuni nei quali il rapporto tra la popolazione residente ultrasessantacinquenne e la popolazione residente complessiva è superiore al 25 per cento. Questa è un'altra operazione cervellotica, perché i comuni la cui percentuale di popolazione inferiore ai cinque anni si attesta sotto il 4,5, supponiamo al 4,49, non ricevono niente, mentre quelli per i quali l'incidenza di tale popolazione è di poco superiore alla soglia stabilita ricevono una cifra ragguardevole rispetto al bilancio di un
ente. Si sarebbe dovuto stabilire un contributo per bambino: nel caso ve ne siano 20 si prende una data somma, ove ve ne siano 25 si riceve di più. Ripeto, si sarebbe dovuta stabilire una cifra a bambino, perché altrimenti lo scalone, cioè il punto di taglio, è stato incredibile. I bilanci dei comuni sono quindi condizionati anno per anno dalla presenza o meno di bambini, e nei comuni piccoli, se l'elemento determinante diventa due nati in più o in meno, un comune un anno si trova 30 mila euro e l'anno dopo non si trova niente. Nonostante ripetute segnalazioni, ciò non è avvenuto.
C'è, inoltre, il blocco delle aliquote, una questione che andava rivista. È vero che il Governo le ha bloccate, ma l'autonomia impositiva va a farsi friggere, perché se le aliquote sono bloccate non si può più programmare il proprio bilancio.
Credo che si poteva operare meglio, e mi limito a questo, perché i punti di criticità sono stati talmente tanti, che servirebbe una giornata per elencarli.
Quello che mi interessa sapere, però, è che cosa faremo domani, cioè qual è la proposta che arriva, in maniera che, con criteri di buonsenso e di equità, si possa mettere la parola fine e dire che quello che è stato è stato, ma che, ora, avendo tutti i dati, si cambia direzione. Sui dati siamo maestri, ma poi restiamo nella stessa situazione e tutto questo lavoro non serve.
Bisogna, quindi, agire e comunicare al Parlamento che questa è la situazione della finanza locale. Sarebbe intanto necessario cominciare a rimuovere queste situazioni nell'arco di cinque anni, ed elaborare un progetto per cinque anni.
Altrimenti, sono passati trentuno anni dal decreto Stammati, ne passeranno altri sessantaquattro, e saremo nella stessa condizione, e ciò è inaccettabile. Ci sono sindaci che possono permettersi ogni tipo di lusso, con uno staff di cinque o anche di dieci persone, concerti e via elencando, e altri che non riescono veramente a tenere aperto il comune e non hanno neanche i soldi per le manutenzioni. Se ci accorgiamo che l'edilizia scolastica fa pena è perché non ci sono più risorse per gli investimenti.
Siamo arrivati a far quadrare i bilanci attraverso l'utilizzo degli oneri di urbanizzazione. Penso che questo sia un delitto assoluto. Potremmo parlare per ore e ore di questo tema. Gli oneri di urbanizzazione servono per l'urbanizzazione; se li utilizziamo per la spesa corrente, poi non dobbiamo meravigliarci delle condizioni degli asfalti.
Servirebbe una proposta che venga da chi conosce i numeri, perché il Parlamento possa operare in questo senso. Altrimenti, facciamo finta di nulla.
PRESIDENTE. Vi invito a porre domande abbastanza contenute, anche perché non possiamo abusare oltremisura della pazienza del dottor Verde.
LINO DUILIO. Vorrei, innanzitutto, ringraziare il dottor Verde per la sua comunicazione e complimentarmi per la stessa. Vorrei porre prima alcune domande di dettaglio e poi una di carattere generale.
Lei, dottor Verde, non ha parlato degli avanzi di bilancio. Noi, in questi anni, siamo un po' impazziti con gli avanzi di bilancio, la cui cifra complessiva era esorbitante. Peraltro, ci metteva in una condizione paradossale - in alcuni casi ne abbiamo anche parlato, sottoponendo alcune istanze - perché, giustamente, i comuni denunciavano di avere, sostanzialmente, in bilancio alcune risorse, ma di non essere in grado di spenderle.
Ebbene, al di là delle recriminazioni dei comuni - so quali erano le implicazioni - voi avete provato a effettuare un'analisi di tali avanzi di bilancio? Dico questo perché in alcuni momenti ci si veniva a dire che, tutto sommato, non corrispondevano a fenomeni reali, ma erano frutto di «patologie» inscritte dentro la dinamica dei bilanci degli enti locali e che la cifra esorbitante di cui parlavo prima, di circa 5-6 miliardi di euro - cifre incredibili, peraltro, con alcuni comuni soprattutto grossi, e penso a quello di Roma, per fare un esempio, che rappresentavano magna pars di tale cifra complessiva - ci metteva nella condizione per cui, dopo «un tira e molla», si è anche deciso di mettere mano a una parte della somma, sia pure non rilevantissima dal punto di vista percentuale. La conseguenza era che dell'importo complessivo che si metteva a disposizione, in termini di possibilità di manovra, la maggior parte
veniva assunta, di nuovo, dai comuni più grandi, proprio perché l'incidenza era quella che era. Insomma, si trattava di un fenomeno molto distorsivo.
Vorrei sapere se avete provato a svolgere una riflessione su questo fenomeno e, in caso affermativo, come ce lo potete spiegare.
Passo al secondo punto. Noi stiamo svolgendo una ricognizione su quello che è stato, fino a oggi, e su quello che non so se poi sarà o dovrà essere - siamo tutti curiosi, anche noi che dobbiamo mettere mano alla legge di delega sul federalismo fiscale - e su come si dovrà passare da un sistema di finanza derivata a uno in cui, almeno tendenzialmente, si dovrà, al di là del discorso perequativo, cambiare filosofia, e arrivare, fondamentalmente, a una maggiore autonomia anche da un punto di vista finanziario (non so se poi ci si riuscirà), realizzando un'autentica rivoluzione nell'ambito della finanza locale.
In questo senso, la domanda più specifica che le pongo è la seguente: in questa prospettiva, voi ritenete che si debba arrivare a consolidare i bilanci degli enti locali? Uno dei fenomeni che si sono verificati in questi anni è che molti di essi, per aggirare i problemi, hanno trasferito a società che hanno costituito alcuni servizi, nei quali, per dirla molto tranquillamente,
si sono annidati problemi che probabilmente bisogna ricondurre a chiarezza e trasparenza, se vogliamo avere un governo autentico dei processi di finanza locale.
Mentre le pongo questa domanda, sono ben consapevole di cosa possa significare consolidare il bilancio del comune di Roma, che ha un'azienda come l'ACEA, o di quello di Milano, che ha un'azienda di trasporti municipali, per le quali qualcuno afferma che bisogna distinguere se si tratta di società quotate, non quotate e via elencando. La domanda che mi interessa porre è se, in prospettiva, il discorso sulla finanza locale dovrà ricondurre a unità e trasparenza tutto il tema, attraverso un consolidamento dei bilanci, oltre a realizzare, ovviamente, i criteri di maggiore uniformità e trasparenza di cui parliamo, perché ci sia, almeno in termini classificatori, una possibilità di comparazione.
Rilevo un piccolo dettaglio per quanto riguarda l'ICI: al di là della querelle relativa agli importi, se si tratta di 3,3 o 2,8 miliardi, con la promessa di aggiungerci un po' di soldi e via elencando, il ristoro di questa imposta - lei me lo confermerà - realizza, peraltro, un'intrinseca ingiustizia. Considerato che esso implica cristallizzare ciò che è accaduto al momento in cui era iscritto in bilancio un certo importo, noi ci troviamo di nuovo dinanzi a una situazione analoga a quella in cui ci siamo trovati col criterio della spesa storica, laddove andavamo a premiare chi si comportava peggio e a punire chi si comportava meglio.
Ci troveremmo di fronte - e ci troviamo, mi pare, a meno che non abbiate trovato un antidoto - dinanzi a una situazione in cui i comuni che hanno applicato aliquote più alte vengono trattati meglio rispetto a quelli che hanno applicato aliquote più basse.
Il comune più virtuoso dal punto di vista della gestione politica, evidentemente, che ha cercato di agire sul versante della spesa in modo tale da non avere un'aliquota più elevata al fine di ottenere maggiori introiti, si trova a ricevere, sostanzialmente, una restituzione che corrisponde alla sua politica virtuosa e che lo punisce, sia pure surrettiziamente. Sarebbe stato meglio se si fosse comportato peggio, visto che lo Stato lo rimborserà sulla base di quello che aveva realizzato con il sistema di aliquote applicato.
Vi chiedo, inoltre, che cosa pensate del sistema dei controlli. Noi siamo passati da una situazione in cui abbiamo abolito i Comitati regionali di controllo, anche perché probabilmente si erano estenuati come soggetti, perché abbiamo tutti constatato che, purtroppo, si verificava che, dinanzi a situazioni identiche, in molti casi si prendevano decisioni opposte. Siamo, quindi, arrivati a eliminarli. Adesso mi pare di capire che siamo in una situazione - non vorrei urtare la sensibilità della mia amica sindaca, l'onorevole Rubinato - di una quasi ricreazione, nel senso che nessuno controlla più niente, mentre mi risulta, attraverso un'analisi comparata con altri Paesi, che vi sono sistemi di controllo in altri Paesi molto puntuali. Penso alla Francia, per esempio, laddove si indica addirittura che cosa bisogna modificare nel bilancio di un ente da parte della Corte dei conti, ma penso anche alla Germania, o ad altri Paesi.
Ebbene, se dobbiamo andare verso una prospettiva di finanza locale che sia inscritta dentro ciò che abbiamo ipotizzato in linea ancora molto generale con la legge n. 42 del 2009, lei vede comunque la necessità, o l'opportunità, di inserire un sistema di controlli, per quanto innovato, che consenta di passare dall'assenza a una forma di controllo? Sulla base della vostra esperienza, che cosa ci potreste suggerire?
Un'ultima considerazione riguarda una questione importante. Aspetto di vedere, quando si cominceranno a redigere i decreti legislativi, che cosa si dovrà fare. Lei accennava già al discorso degli indicatori di efficienza, di efficacia e via dicendo, e mi riferisco ai costi standard. Il tema dei costi standard è anche concettualmente complicatissimo, perché lei sa meglio di me che vi sono costi virtuali, ma che allo stesso tempo corrispondono a un dato di fatto, che è ineludibile.
Se opero in un contesto - io vivo a Milano - laddove mi trovo con trenta
ospedali nel giro di cinquanta chilometri, ho un determinato costo in relazione a una determinata possibilità di benefici. Se mi trovo in un territorio laddove per raggiungere un ospedale devo percorrere cinquanta chilometri, se mi va bene, è chiaro che dovrò calcolare diversamente tali costi. È un esempio, ma ne potrei farne tanti altri. I costi standard devono incorporare, evidentemente, una situazione sociale, economica, ed elementi che sarà difficile, a mio avviso, assumere come parametri abbastanza precisi e puntuali perché tale costo standard sia effettivamente utilizzabile per costruire un mosaico di finanza locale che consenta di arrivare anche alla perequazione, ma in relazione a una parità di condizioni ricostruita anche in riferimento a questo contesto.
SIMONETTA RUBINATO. Molte osservazioni sono state fatte. Vorrei solo, collegandomi all'intervento del collega che ha parlato per primo, evidenziare che non c'è solo il tema dei comuni piccoli e grandi, ma anche quello dei comuni della fascia intermedia, che, stando a quello che ho visto nei dati - non so se lei si riferiva ai piccoli o alla fascia intermedia - è esattamente quella che ha livelli di efficienza con performance talora assolutamente migliori rispetto ai comuni con grande popolazione. Un fenomeno un po' strano perché, anche nella gestione delle aziende pubbliche, dovrebbero funzionare economie di scala. Stranamente, invece, si gestisce meglio una certa dimensione. Non so se è una dimensione ottimale, ma rimane il fatto che i comuni di media dimensione sono quelli solitamente più attenti nella pressione che esercitano sul contribuente, che hanno
trasferimenti pro capite più bassi e che spendono anche di meno.
I comuni di fascia media sono quelli che, a mio giudizio, in questa situazione di sperequazioni che si riverberano in ingiustizie concrete a danno dei cittadini - poi ci sono sempre le eccezioni -, funzionano meglio. Ricordo che, nella parte della Costituzione relativa ai princìpi fondamentali, abbiamo un articolo importantissimo, l'articolo 3. In realtà, poiché i comuni sono gli enti che amministrano la gran parte dei servizi alle famiglie, alle persone, in particolare anche alle fasce dell'infanzia e della popolazione più anziana, il loro fare, non fare o non poter fare si ripercuote sui diritti essenziali dei cittadini e sui livelli di tali diritti.
Mettere mano alle sperequazioni che ci sono è, secondo me, fondamentale; ci si è provato, come ha cercato di illustrare anche il dottor Verde, in diversi momenti, ma i tentativi sono stati bloccati. Rimane il fatto che arriviamo a oggi con un aggravarsi della sperequazione, piuttosto che su una via di soluzione. L'invocazione a gran voce del federalismo fiscale, come si spera, è uno degli strumenti per cercare di affrontare questo problema. Non credo, però, che il federalismo sarà la panacea di tutti i mali, soprattutto se non fa tesoro di queste esperienze, come osservava prima il dottor Verde.
È anche singolare che oggi, il Parlamento, e in particolare la Commissione bilancio, che si è occupata della delega al federalismo fiscale e che si occupa della partita della manovra finanziaria e del Patto di stabilità, sembri poco stimolata ad ascoltare una relazione interessante come questa, peraltro utile per noi che dovremmo poi emanare norme. Si tratta, in realtà, di una delle relazioni più interessanti che ho avuto modo di ascoltare.
Probabilmente i dati, le informazioni ci sono, ma bisogna avere la volontà di ascoltarli. A volte, credo - qui parliamo con un rappresentante del Ministero dell'interno - che su questi temi ci sia una presenza molto più incombente, ossia quella del Ministero dell'economia e delle finanze, che, pur non conoscendo e non avendo rapporto diretto con la realtà della finanza locale e dei tanti comuni che stanno sul territorio a erogare servizi, semplicemente si basa sulle necessità di cassa e di finanza pubblica, sulla base della quale indica, anche attraverso il Patto di stabilità, obiettivi di contributo al risanamento della finanza pubblica che non tengono conto di questa realtà, come
ci è stato confermato anche questa sera. Si fa di tutta l'erba un fascio, e, ovviamente, tagliare a un ente sottodotato, a chi ha un determinato rapporto popolazione/abitanti, o popolazione/territorio, o altro ancora, è questione del tutto diversa, che a volte costringe anche gli enti a tagliare veramente le spese a favore dei cittadini.
Fatta questa premessa, io volevo porre alcune rapide domande e svolgere alcune considerazioni.
Sotto tutte le tabelle che abbiamo visto figurava la dicitura: «esclusi i comuni delle regioni a statuto speciale». Dico soltanto che la grande riforma del federalismo fiscale non si è occupata di questo tema, e già questo mostra qual è la sua ambizione. Il tema è che, se avessimo avuto anche i dati pro capite di spesa possibile negli enti delle regioni a statuto speciale, in particolare di alcune del nord - non è questione di nord o di sud - la discriminazione e la disuguaglianza dei cittadini sulla base dell'articolo 3 della Costituzione sarebbe emersa. Peccato che i comuni non possano adire la Corte costituzionale, perché, se un sindaco di un comune medio del Trentino-Alto Adige può spendere, in un anno, tra spesa corrente e capitale, 2.400 euro pro capite, mentre un sindaco di un comune medio, per esempio della regione Veneto - sto parlando di regioni che vengono fatte passare come
ugualmente ricche - ne può spendere 960, c'è qualcosa che non funziona. La riforma del federalismo fiscale non ha, quindi, toccato un punto centrale come questo. Le ambizioni del Parlamento sono francamente molto modeste.
In merito al fatto che siano esclusi i comuni e le regioni a statuto speciale, avete la possibilità di darci alcuni dati comparativi oppure no?
Al Patto di stabilità ho accennato. Oltre a tutto ciò, alla stratificazione del sistema come si è andata delineando, è accaduto che a un certo punto - lei non ne ha parlato per ovvi motivi - è entrato in vigore il Patto di stabilità. Dal suo osservatorio che cosa ha comportato, che impatto ha? Sappiamo già qualcosa, sicuramente ci sono stati anche meccanismi di maggiore virtuosità. Magari lei ci può fornire alcuni dati di cospicuo e considerevole apporto che i comuni hanno portato al risanamento della finanza pubblica? Almeno il 50 per cento degli obiettivi conseguiti da tutte le pubbliche amministrazioni è stato a carico dei comuni e da essi realizzato, ma il tema è che il Patto di stabilità oggi si riverbera, in modo particolare, su una contrazione dell'unica spesa discrezionale possibile per la gran parte dei comuni, vale a dire quella per investimenti, la spesa in conto capitale.
In un momento di crisi e di recessione come questo ciò non aiuta.
Esisteva ed esiste ancora, credo, un fondo per il finanziamento degli investimenti degli enti locali. Avevamo proposto che fosse rimpinguato per i cantieri che aprivano rapidamente nei comuni che avevano i progetti in questa fase di recessione, ma la proposta non è stata accolta. Vorrei da lei un'indicazione sulla consistenza e sull'effettiva funzionalità di tale fondo - se c'è - che dovrebbe dare una mano all'ammortamento dei mutui che gli enti locali assumono per investimenti e per la spesa in conto capitale.
Un dato che mi viene dalla mia realtà territoriale - una domanda forse anche troppo specifica, ma ne approfitto per porla, visto che ne ho l'occasione - riguarda un tema che credo non ci si sia mai posti, ossia quello dei servizi all'infanzia, e della differenza che esiste in questo Paese tra il nord e il centro-sud.
Le scuole materne - secondo dati del Ministero dell'istruzione - sono statali per il 63 per cento circa al centro-sud, mentre nel nord si scende a un 35-40 per cento. In particolare, io vivo in una provincia in cui il 75 per cento dell'offerta della scuola dell'infanzia è paritaria, proprio perché le comunità si sono attrezzate a organizzare la scuola materna prima che ci arrivasse lo Stato. Abbiamo, quindi, da un lato il 38 per cento - questa è la media del Veneto - di scuole materne statali contro una media del centro-sud del 63 per cento.
Questo significa, a parte le rette che le famiglie devono pagare - per le quali c'è una discriminazione anche tra cittadini -
che nei bilanci di questi comuni ci sono per queste scuole, che sono a volte l'unica forma di servizio che le famiglie possono trovare, cospicui contributi, che gravano su questi comuni, ma non su quelli del centro-sud. Non è un problema: la scuola dell'infanzia deve esserci al centro, al nord e al sud. Va benissimo se lo Stato si è attrezzato di più al centro-sud, ma non è possibile che i comuni sottodotati - penso a quelli di una provincia di una regione come la mia - debbano anche essere onerati di questo ulteriore sostegno alle famiglie, e che su questo non ci sia alcuna considerazione da parte dello Stato.
Anche dati come questi nell'attuale sistema Paese non vengono considerati, mentre incidono in misura davvero molto rilevante. A volte si va per contributi - che dà il comune - di 590 euro annui a bambino nella scuola dell'infanzia. Moltiplicateli per i numeri e si tratta di cifre molto importanti. Faccio l'esempio del mio comune: sono 140 mila euro per un comune di 14 mila abitanti, che vanno solo a questa forma di sostegno.
Concludo con la questione degli equilibri di bilancio. In questo momento di crisi economica molti comuni, soprattutto quelli della fascia media e quelli sottodotati, in particolare del centro-nord, hanno alcuni problemi nel mantenimento degli equilibri di bilancio, a causa dei minori trasferimenti, del non totale rimborso dell'ICI - per fortuna abbiamo avuto la buona notizia dei consistenti pagamenti a fronte delle certificazioni di quella che lei ha chiamato l'ICI rurale - di una fortissima diminuzione degli oneri di urbanizzazione, che era un'entrata fondamentale, dovuta alla crisi economica. Inoltre, i mutui vanno pagati, perché la moratoria vale per le imprese ma non per gli enti locali. Si tratta, di solito, di comuni che hanno speso molto in investimenti, perché, essendo in crescita demografica, la popolazione scolastica aumenta di oltre il 10 per cento, mentre quella nazionale diminuisce. Ci sono, quindi, investimenti importanti da effettuare anche sul
settore delle scuole fino alla primaria e alla primaria secondaria.
Ebbene, ci sono difficoltà a mantenere gli equilibri di bilancio per comuni che non hanno mai contribuito al disavanzo nazionale. Di questa situazione c'è contezza? Si stanno elaborando proposte? Il mio timore è che qualche ente possa anche andare in disavanzo proprio perché c'è una diminuzione delle entrate dovute alla crisi, quindi possa non farcela.
PRESIDENTE. I colleghi hanno posto domande di sicuro interesse. Devo porne una anche io. Evidentemente non mi addentro né nel commento di quanto espresso dal collega Ceroni, ossia della sua provocazione per cui sarebbe meglio chiudere i comuni grandi rispetto ai piccoli, né nella digressione quasi escatologica della collega Rubinato, relativa all'articolo 3 della Costituzione, perché siamo pienamente consapevoli di questa disparità per quanto riguarda alcuni settori, in particolare nella fascia materno-infantile. Saremmo ben felici di ottemperare al rispetto pieno dell'articolo 3 della Costituzione, anche sulle infrastrutture, e questo ci porta molto lontano. Lo stesso vale per alcune norme che garantiscono le regioni a statuto speciale: si tratta, a loro volta, di norme costituzionali, e credo che siano questioni che esulano dalla possibilità di risposta da parte del dottor Verde.
Una questione, posta dall'onorevole Duilio, a me sembra assolutamente importante, e la condivido pienamente: mi riferisco all'assoluta mancanza, oggi, di controlli riguardo agli enti locali. Io non penso alla riproposizione delle famigerate Commissioni regionali di controllo - che poi, talvolta, famigerate non erano - però sicuramente un momento di controllo va operato e bisogna andare a immaginare un percorso di questo genere.
Peraltro, ricordo a me stesso che dovrebbe essere ripensato lo stesso meccanismo di individuazione e di nomina dei direttori generali dei comuni, in particolare dei segretari generali, oggi completamente avulsi da qualsiasi meccanismo di verifica, controllo e certificazione da parte di un organismo centrale, attività un tempo egregiamente svolta dalle prefetture
e dal Ministero dell'interno. Il controllo di legittimità degli atti e del rispetto di leggi e norme trova maggiore garanzia se svolto da soggetti assolutamente terzi, e che comunque trovano un forte aggancio, un controllo, ma anche una garanzia, da parte di un organismo centrale, mentre sappiamo benissimo che cosa accade realmente, a seguito delle ultime riforme: si tratta di funzionari e dirigenti nella totale potestà dell'amministrazione pro tempore, e conseguentemente vincolati dal punto di vista personale, e, perché no?, anche da quello politico e del legittimo interesse.
Vorrei anche porle una questione specifica: mi ha molto incuriosito una delle sue prime osservazioni, per quanto riguarda il bilancio degli enti locali, in merito alla vicenda del cosiddetto personale ATA. È vero, come lei ha affermato, che il personale ATA, essendo transitato da enti locali all'amministrazione centrale, ha comportato un corrispondente sgravio di somme, che rappresentano, di fatto, una partita di giro: sono stati inviati dalla sede centrale meno fondi ai comuni perché un grosso quantitativo di personale è passato sotto competenze diverse.
Il ragionamento non fa una grinza, o meglio, non farebbe una grinza, ma c'è un piccolo particolare: agli enti locali e ai comuni, di fatto, sono state defalcate le somme, come è giusto che fosse; però il personale ATA transitato nell'amministrazione dello Stato è stato quasi sempre riparametrato al ribasso, con notevole risparmio, a detrimento questa volta del lavoratore, rispetto al monte somme percepito precedentemente.
Questo crea, innanzitutto, una condizione di estrema difficoltà nei confronti di questi lavoratori, che in tale passaggio hanno perso economicamente, e tra l'altro, poiché si tratta di una perdita non secca, una tantum, ma stabilizzata in busta paga, tutto ciò ha creato situazioni disastrose per migliaia e migliaia di lavoratori. Si tratta di una questione della quale credo che dovremmo occuparci in Commissione bilancio nella prima occasione utile.
La domanda che mi pongo - anche questo è un aspetto molto particolare, che a lei evidentemente interessa poco - è la seguente: posto che, con questa nuova collocazione dei dipendenti, c'è stata una rischiosa contrazione delle buste paga da loro percepite, e posto che la somma da voi detratta nei confronti dei comuni è stata la medesima, che fine ha fatto questa plusvalenza a favore dell'amministrazione centrale?
Questo è il tipico esempio di un caso in cui tutti hanno perso qualcosa. Aspetto, però, che me lo dica il dottor Verde.
GIANCARLO VERDE, Direttore della Direzione centrale della finanza locale del Ministero dell'interno. Se posso svolgere al contrario le risposte, parto da quest'ultima, che è la più intrigante.
Vorrei innanzitutto riportare il meccanismo al territorio. Dopo undici anni si sono evidenziati problemi di questa misura solo in Sicilia, dove alcune delle persone coinvolte percepivano stipendi maggiori.
PRESIDENTE. Anche nel Veneto e in Emilia-Romagna, glielo assicuro!
GIANCARLO VERDE, Direttore della Direzione centrale della finanza locale del Ministero dell'interno. Quanto meno tali casi sono stati gestiti, evidentemente, perché non sono arrivate lamentele a livello di ministero. Sappia comunque che, come ricordava l'onorevole, la vicenda è costata molto di più allo Stato, perché, di fatto, sono passate tutte le persone, ma lo Stato non ha trattenuto l'equivalente dello stipendio, perché in quasi tutte le scuole il bidello comunale guidava anche lo scuolabus o puliva il giardino. In base alla norma il comune ha avuto diritto a perdere non tutto lo stipendio, ma solo la parte relativa alle funzioni di bidello statale della scuola.
Di fatto, è un fenomeno vastissimo, tant'è vero che abbiamo un problema in Calabria, dove evidentemente c'era stato un errore nella compilazione dei certificati, e in questo ultimo anno sono arrivate da una ventina di comuni - anche dalla Campania, ma la gran parte veniva dalla
Calabria - rettifiche dei certificati, con dieci anni di ritardo, con la giustificazione che non si era al corrente che si poteva scrivere che il bidello svolgeva anche tali mansioni ad esempio di giardinaggio che incidevano per il 50 per cento sullo stipendio. Si era allora semplicemente dichiarato quanto si pagava costui integralmente. Lo Stato lo aveva acquisito, e il comune aveva dovuto cominciare a pagare una ditta per occuparsi del giardinaggio. Secondo la norma, il comune avrebbe avuto, quindi, diritto a recuperare. Questi sono i comuni che si sono sbagliati, gli altri non si sono sbagliati per nulla: hanno indicato chiaramente le percentuali - e chi può dire quali fossero, parliamo qui di controlli - per cui si sono fatti togliere il meno possibile, diciamoci la verità. Alla fine, probabilmente, ci hanno perso tutti da questa situazione. Lo Stato certamente ha pagato un miliardo di euro.
Abbiamo addirittura cause in corso in Sicilia con personale che non se n'è voluto andare. È rimasto al comune e, quindi, ha creato molti problemi.
Sempre andando a ritroso, sulla materia dei controlli, voi permetterete che mi attenga alle mie materie di ufficio. È scontato dirlo, ma io non sono un parlamentare, e quindi mi tengo sul piano tecnico. Vi posso dire che, a volte, seguo la situazione anche con amarezza, perché non sono un legislatore, ma lo sono in realtà di secondo livello. Ho concorso anche da giovane funzionario - all'epoca non ero direttore dell'ufficio - a elaborare i decreti legislativi, e vedo come rimangano sostanzialmente inapplicati. Talvolta è lo stesso legislatore che si fa carico di ciò.
In alcuni casi la devo in un certo senso smentire, perché sono stati i comuni grandi che hanno fatto da freno, essendo loro a rimetterci nella prima applicazione del provvedimento di legge. I comuni grandi erano quelli che, con quel 5 per cento, ci perdevano, e che, rappresentati in Parlamento, hanno ispirato disposizioni di legge che fermassero il provvedimento. Poi potranno esserci casi specifici.
Mi riferisco al decreto n. 504 e alle riforme che, per la parte tecnica, il Ministero dell'interno ha proposto con il supporto di studi. È tutto anche riportato in altre audizioni parlamentari. A livello tecnico, gli elementi sono stati forniti. L'uso che se ne fa in sede parlamentare, ovviamente, non può essere da noi determinato. Non c'era bisogno neanche che glielo dicessi.
A proposito dei controlli, l'argomento del presidente è intrigante. Siamo stati di recente nella UE e vi parlavo della questione di ricevere i sindaci. Abbiamo la fortuna che con i colleghi andiamo anche a fare i commissari nei comuni, quando li sciolgono. Garantiamo la permanenza e tocchiamo con mano la situazione. Stiamo dietro la scrivania, ma sappiamo anche quello che avviene dall'altra parte. Io aggiungo - lo ripeto, per il mio stile di direzione - che ricevo tutti i sindaci, li ascolto e cerco di conoscere la situazione sul territorio.
Non vi posso portare i nomi dei sindaci, non li ricordo, ma nei convegni, all'ANCI, è un comune sentire: tutti piangono per l'assenza del CORECO. Costituzionalmente non lo possiamo introdurre, ma posso garantirvi - questo è un contributo tecnico che posso offrire - che gli amministratori comunali e i gestori avvertono il bisogno di un recupero sui controlli. Certo, non sarà il CORECO, ma un controllo serve. Mi si diceva in contesti europei, che, per esempio, in Francia il ragioniere comunale è un dipendente dello Stato, perché lì chi ha i cordoni della borsa vuole mantenere il controllo.
Abbiamo detto di qualificare i revisori dei conti, perché sostanzialmente il sistema, anche quello in visione della nuova Carta delle autonomie, prevede di rafforzare il loro ruolo, e quindi i controlli interni. In quel caso li rafforza anche mettendo loro spavento con l'attribuzione di alcune responsabilità.
Qualcuno suggerisce di impiegare i colleghi del Tesoro o dell'interno. Mi pare che le Aziende sanitarie locali abbiano disavanzi mostruosi, eppure hanno un revisore che è un dirigente della Ragioneria generale, quindi non sempre questo è utile.
Da esperto, anch'io credo che bisogna ritornare ai controlli. Non più tardi di ieri ho ricevuto una telefonata per me mortificante. Si trattava di un giovane consigliere comunale - lo si capiva dalla voce - il quale affermava che nel suo comune avevano adottato il riequilibrio, ma falso, perché avevano messo poste non valide, e sollecitava un intervento da parte del Ministero dell'interno. Ho dovuto rispondergli che non dovevo fargli una lezione di diritto costituzionale, ma che né l'amministrazione centrale né la Corte dei conti potevano fare nulla. Il consigliere minacciava di ricorrere al TAR, ma gli ho risposto che, essendo un consigliere comunale, doveva condurre la sua battaglia in Consiglio, come prevedono le norme. Un cittadino può andare al TAR. Gli ho detto, mortificato, che il sistema è questo, che è stato voluto e che probabilmente sta portando a risultati sbagliati.
Ho visto con piacere, al di là del merito, che nei diversi passaggi di riforma della legge sul federalismo è stata colmata una lacuna sul controllo successivo. Il lavoro per l'euro è stato meraviglioso, è stato portato avanti bene; io l'ho seguito da funzionario, il mio direttore dell'epoca faceva parte del Comitato euro, che era coperto a tutto tondo, da tutte le categorie. Tutto però è morto il giorno dell'introduzione dell'euro. Si stava per commettere lo stesso errore col federalismo fiscale, mentre la legge ha previsto la commissione che lavorerà dopo. Cominciano quindi a passare questi concetti, che occorre seguire il processo man mano, successivamente.
È importante che questo si faccia per la riforma e un errore che non si deve commettere è quello di far partire gli enti in una situazione diversa. Stiamo correndo il rischio di incappare nello stesso problema. Partiremo con il federalismo, ma nessuno si è posto il problema, segnalato dal Ministero dell'interno nelle sedi opportune, che gli enti stanno partendo col piede sbagliato. Si fa una nuova riforma, ma per gli enti, anche figurativamente - perché i soldi non ci sono - non viene posto il problema che questi dovranno pesare non per quello che sono, ma per come dovranno essere riequilibrati quando andranno al federalismo fiscale. Questo è un aspetto che per il momento è trascurato, e vediamo se nei decreti delegati lo si potrà colmare. Non va trascurato assolutamente, perché, diversamente, si rischia di trascinarci dietro gli errori del passato.
Gli equilibri di bilancio mi portano a un problema anche semplice, ma che tutti trascuriamo: sono decisioni che noi dei ministeri aiutiamo voi parlamentari ad assumere, anche quelle sul Patto di stabilità. Sono argomenti di legge, e io potrei dire che le leggi le fa il Parlamento. È chiaro, ho il mio ruolo, come rappresentante del Ministero dell'interno, come i colleghi del Ministero dell'economia e delle finanze, che non devo certamente difendere.
Abbiamo un problema di base, e qui parlo del consolidamento e dell'armonizzazione. In ogni caso, un rendiconto si rilascia l'anno dopo. Noi quest'anno abbiamo forzato la mano e l'abbiamo portato al 30 aprile anziché al 30 giugno, e qualcuno si è dispiaciuto. Si tratta di uno dei nostri problemi, come amministrazione che voleva rassegnare date. Il collega dottor Sarnataro non è un vecchio elefante burocrate, ma il giovane direttore dell'Ufficio studi, che studia veramente; non è un ufficio del ministero dove si colloca un dirigente che non ha altra collocazione. È proprio l'Ufficio studi che studia, ma il problema è che può farlo quando ha i dati, che però arrivano in ritardo. C'è un inevitabile iato temporale tra la conoscenza del dato e la decisione da prendere.
Il dato del consuntivo 2007 comincia a circolare nei comuni a giugno 2008. Se in tale data è noto in un singolo comune, finché viene raggruppato e raggiunge lo Stato arriva la primavera 2010. Oggi abbiamo l'informatica e io insisto sui miei uffici e sulle prefetture, a volte personalmente, per far arrivare tali dati. Si potrebbe stringere: anticipando al 30 aprile 2010, potremmo avere i dati del consuntivo 2009 a dicembre 2010.
La finanziaria 2011 è stata già fatta. I colleghi che hanno i problemi del patto e l'utilizzo dell'avanzo ragionano su dati di
due anni prima, e in due anni sta cambiando tutto ogni volta. Ogni anno successivo ricambia il patto, il dato non si stabilizza, e quindi avremo bisogno di sperimentare per arrivare a fare.
Può accadere che gli enti locali si lamentino, sostenendo che devono estinguere i mutui, ma che non lo possono fare perché costa. Si fa uno stanziamento, ma si risponde che non basta. Poi si viene a scoprire, magari, dopo due anni, che ne è bastata la metà. Nessuno ha chiesto quei fondi. Allora se si è chiesta una certa somma, perché dopo ne serve la metà? Non è colpa di nessuno, in questo caso. Le previsioni su dati ancora non conosciuti non si riescono a elaborare.
Probabilmente abbiamo bisogno di stabilizzare le norme per vederne gli effetti e compiere gli aggiustamenti, mentre invece continuiamo, purtroppo, a cambiare, anno per anno, senza prevedere lassi temporali adeguati a quello che si sta facendo. Questo è il male di tutti, perché ovviamente l'efficacia ne risente.
Alla base di alcune di queste scelte ci sono le esigenze del bilancio statale, che conosciamo essere in restrizioni mostruose. Ho iniziato a lavorare alle vicende di finanza locale col decreto-legge che si faceva, con la relativa legge di conversione, e ricordo ancora le 14.327 vecchie lire per abitante. Noi attivavamo mutui per miliardi di vecchie lire per ogni comune ogni anno. Ci sono stati anni in cui il Tesoro ci permetteva di ridare agli enti locali l'economia dell'estinzione dei mutui e i mutui in scadenza pesavano per 600 miliardi di vecchie lire, oggi 320 milioni di euro.
La bolletta che paghiamo di mutui per gli enti locali già contratti è di 722 milioni l'anno e il fondo dei piccoli comuni, sotto i 3 mila abitanti, il fondo speciale, non muove neanche 100 milioni di euro, quando c'è, non essendo neanche a legislazione vigente. Questo, ovviamente, fa fatalmente i conti con la visione miope del problema.
Quando vi dicevo che nel 1992 si è provato a consolidare i fondi, non si trattava solo di una manovra di polizia contabile, ma di sottrarsi alla necessità del bilancio non vigente. La finanza locale, per la parte che non sta nel bilancio a legislazione vigente, subisce ogni anno gli attacchi, come parte della sanità e parte dei trasporti, per andare a equilibrare il bilancio dello Stato, perché la parte a legislazione vigente non viene toccata. Sulla parte variabile - a quel punto - ci si va a commisurare per le esigenze dell'anno.
Nel 1992 questo lavoro si compì e riuscimmo a riportare molto all'interno del bilancio. Aggiungendo, facendo e dicendo, oggi siamo nuovamente in quelle condizioni. Il sistema degli enti locali non ha certezza, benché sia un principio costituzionale, e benché continuiamo a sollecitare gli enti locali a redigere il bilancio entro il 31 dicembre. Se non fossero le ore 20 vi potrei parlare per mezz'ora di che grave bluff sia il rinvio annuale del bilancio di previsione degli enti locali, e di che gravi danni comporti rinviare ogni anno il bilancio ad aprile, a maggio o a giugno, facendo gestire - pensate che contraddizione - all'ente locale per cinque mesi un bilancio con un documento dell'anno prima, che non ha con esso nessun legame. L'ente ha poi soli sette mesi per recuperare il difetto dei cinque mesi, e fare quello che non ha fatto in dodici mesi, recuperando il guaio dei cinque, il che dimostra che non serve a nulla rinviare il termine del
bilancio, anche se le poste non sono tutte note. Conviene essere fermi su un bilancio al 31 dicembre.
È altrettanto corretto che la riforma del bilancio dello Stato si adegui. Leggevo le altre audizioni, ed è stato posto, correttamente, il problema di uniformare, mettere in condizione gli enti locali di avere conoscenza per tempo, dai documenti del bilancio statale, di quello che li aspetta, per poter poi veramente arrivare al 31 dicembre a redigere un bilancio di previsione accettabile. Diversamente, lo scostamento diventa eccessivo.
Vorrei spendere due parole anche su questo: ho lasciato quest'oggi anche i nuovi princìpi contabili degli enti locali, approvati dall'Osservatorio presso il Ministero dell'interno. Anche quella vuole essere
la dimostrazione di che cos'altro si deve fare. Nella Commissione paritetica per il federalismo fiscale, di cui sono stato chiamato a fare parte, come unico rappresentante del Ministero dell'interno - di tutta una platea di tanti dirigenti di altri ministeri, il Ministero dell'interno ha un solo rappresentante, forse dipendente anche dal peso dei ruoli, non ne ho idea - si è parlato del fatto che sarà importante dare le regole e armonizzare. Dobbiamo armonizzare tanti soggetti, ma la gran parte sono enti locali, che tra di loro sono armonizzati. Non è ancora passato, però, il principio di armonizzarci verso gli enti locali, mentre pare che passi quello di armonizzarci verso le regioni, che sono solo venti, e tra di loro scoordinate.
Abbiamo 9 mila enti locali, abbastanza armonizzati tra di loro; in questi ultimi trent'anni lo sono stati. Non significa che ci si debba appiattire su di essi, ma non mi sembra sia stata data molta valenza e importanza al fatto che un lavoro di armonizzazione è già stato svolto con gli enti locali, e questi princìpi lo dimostrano. Non è stato dato solo il glossario - si era raccomandato che se ne dovesse stilare uno, come per il SIOPE, il che è giusto, ma esso specifica solo che cosa significa accertamento, o colonna numero 3, il che non basta - occorre dare anche indicazioni.
Il principio contabile va oltre, rispetta la norma, ma fornisce spiegazioni e tante piccole regole. La Corte dei conti ci lavora tanto, i ragionieri comunali sono contenti perché hanno il conforto del principio contabile e della registrazione della Corte dei conti per poter procedere. Siamo sicuri che tutti, quando hanno un dubbio, perlomeno prima di chiedere al Ministero, consultano i princìpi contabili.
Oggi, in questi mesi, l'Osservatorio ha fornito i nuovi princìpi contabili al Ministro dell'interno; in attesa che ci sia la riforma; li abbiamo aggiornati e si parla di princìpi anche del bilancio sociale, per esempio. Si è cominciato a parlare del bilancio consolidato. Io avevo preparato oggi una tabella in cui si dimostra che il mondo va avanti benissimo, perché si spende solo il 30 per cento di personale sulle entrate. Si tratta di una somma che non è credibile: figura questo, ma se noi andiamo a portare dentro i dati dei servizi appaltati, delle municipalizzate e dei servizi dati fuori, il dato esplode al 50 e al 60, e questo non lo possiamo ignorare.
Già nei princìpi contabili troviamo alcuni spunti, perché tali sono. È stato posto il problema per vedere se riusciamo a effettuare anche una sperimentazione - alcuni enti si sono proposti - di bilancio consolidato, un'operazione molto faticosa. Non si deve consolidare il dato che già esiste, ma spingere le società, che sono poi regolate dal Codice civile, a organizzarsi già con una contabilità che si possa armonizzare, perché non possiamo fare tanti specchietti di collegamento.
I princìpi contabili che oggi sono degli enti locali, in altra forma, con altri contenuti, devono rappresentare un metodo applicato anche col federalismo fiscale; dovrà partire, in maniera coerente e coeva, non solo un glossario, ma principalmente princìpi contabili, altrimenti daremo regole a qualcuno, ma non sapremo come saranno applicate.
Come al solito, noi vogliamo dare il contributo. Il dottor Sarnataro, prima dell'estate, ha lavorato con le associazioni degli enti locali e abbiamo modificato quest'anno il certificato del rendiconto degli enti locali, che sulla carta è un documento contabile e deve avere un esatto collegamento e un riscontro nel dato contabile dei bilanci. Noi abbiamo un po' plasmato questa realtà, e abbiamo inserito altri dati che non sono del bilancio dell'ente locale, ma che vogliamo conoscere.
Alcuni riguardano proprio le aziende. Vogliamo sapere quante ne ha l'ente, che capitale ha, se ci perde o ci guadagna, che tipo di servizio ha affidato loro. Interessa solo fino a un certo punto sapere per che percentuale l'ente è proprietario, per esempio, dell'ACEA, ma interessa di più sapere quanto servizio dell'acqua essa fornisce. Se non c'è corrispondenza tra percentuale del servizio affidato e della proprietà
il dato perde di significato. Interessa sapere che cosa si dà fuori e quanto costa.
Abbiamo iniziato questo tipo di interlocuzione con l'ente locale, che ovviamente è faticosa e lunga, perché prima di arrivare ad avere dati «buoni» per quelle tabelle passerà del tempo.
Mi rivolgo a voi perché questa è la sede dove state sceverando tutti i princìpi del federalismo, l'armonizzazione, il disegno di legge C. 2555 di contabilità e finanza pubblica - c'è da farsi tremare i polsi per quello che state facendo e per le relative conseguenze - la scelta del bilancio di cassa, eccetera.
Mi ricollego al Patto di stabilità: si è cercato di compiere un passo avanti con la competenza mista. Si sperava, onorevole, che con essa si liberasse la possibilità di investire. Mandare separati cassa e competenza, essendosi praticamente autorizzato a impegnare l'opera anche se non la si deve pagare, è quello che succederà quando avremo il bilancio di cassa. Credo che tutti noi abbiamo timori in merito. Non lo dovrei dire io.
Porto queste riflessioni come esperienze, che valgono quello che valgono, ma mi fa piacere farlo.
LINO DUILIO. Mi permette di svolgere una considerazione sulla questione della cassa? Noi abbiamo più che un timore. Ne abbiamo parlato e abbiamo sviscerato il problema: perché alla fine si è arrivati a deciderlo? Premesso che si potrebbe fare anche oggi bilancio di cassa e non lo si fa, la competenza, che oggi è il sistema a cui ci si ispira, è vissuta fondamentalmente come un sistema di prenotazione, per cui si stanzia una cifra che prescinde totalmente da quello che accade e poi si hanno montagne di residui assurdi da gestire che non corrispondono alla realtà e che hanno implicazioni non banali, che adesso non si ha il tempo di approfondire.
Premesso, inoltre, che non esisterà solamente da noi il bilancio di cassa, ma che esiste anche altrove, da noi probabilmente potrà - sottolineo anche io con timore e tremore - servire come una clava che ci porti alla competenza economica, per cui, cambiando anche la testa del funzionario pubblico, si arrivi a elaborare previsioni che corrispondano ai processi reali. Oggi, invece, il sistema si basa su una filosofia dell'impegno di tipo giuridico astratto, che non corrisponde, di fatto, alla realtà.
Volevo solo specificarlo per sottolineare che non abbiamo sottovalutato alcunché. Tremiamo tutti. Difendere l'esistente significa, però, probabilmente, anche mantenere una situazione che non è il paradiso terrestre.
GIANCARLO VERDE, Direttore della Direzione centrale della finanza locale del Ministero dell'interno. Credo che ci sia stata una confusione nella visione delle tabelle o forse non abbiamo proiettato quella giusta. Il fenomeno per cui nei comuni piccoli i trasferimenti sarebbero bassi - come mostra la tabella 12, che riporta il valore per abitante - non corrisponde al vero. Quella è una curva gaussiana: i trasferimenti sono più alti nei piccoli comuni. Se prendete la tabella 12 e i contributi erariali pro capite, vedete che si passa da 374 euro nei comuni fino a 500 abitanti e poi si comincia a scendere. Il contributo è per abitante e la logica è sempre la divisione per fasce demografiche, che poi si possono accorpare. Per legge sono undici, altrimenti si perdono le comparazioni. Sono le regole matematiche delle curve di questo tipo.
I trasferimenti, ovviamente, sono un po' più alti, perché c'è anche un po' di equilibrio tra tributi propri e trasferimenti. Laddove è un po' di meno e l'autonomia tributaria dei comuni piccoli è più bassa, non nella maniera desiderata, ma sono affluiti più alti trasferimenti. Nei comuni più grandi, dove i servizi costano di più e dove il peso politico è diverso, sono anche affluiti maggiori trasferimenti.
REMIGIO CERONI. Ma ciò non incide sul monte...
GIANCARLO VERDE, Direttore della Direzione centrale della finanza locale del Ministero dell'interno. Però quello giustifica lo scatto, perché poi arriviamo a 359
e 430 euro per i comuni maggiori. Comunque, rispetto alla media nazionale di 237 euro, i comuni piccoli, fino ad arrivare alla fascia di 5 mila abitanti, hanno contributi consistenti. Poi lei ha ragione sul fatto che 5.800 comuni - ho portato un appunto, perché sapevo che l'argomento sarebbe stato affrontato - hanno meno di 5 mila abitanti. Questo è un altro problema che, piaccia o non piaccia, dovrebbe far valutare le decisioni che si prendono, perché l'impatto è per gran parte su enti piccoli, il doppio regime degli enti.
REMIGIO CERONI. Ma quanto assorbono?
GIANCARLO VERDE, Direttore della Direzione centrale della finanza locale del Ministero dell'interno. I comuni fino a 5 mila abitanti, non a caso, non hanno il Patto di stabilità, perché, ai fini del Tesoro, sono finanziariamente insignificanti: messi insieme, valgono meno di Roma.
Lo sforzo compiuto, in proporzione, è sicuramente basso, come ci indica l'altra tabella dei valori assoluti, per cui, su 14 miliardi di euro, solo 112 milioni vanno ai comuni fino a 5 mila abitanti, questo è verissimo. Avrei concluso, se non ci sono altre domande.
PRESIDENTE. Dottor Verde, la seduta di questa sera è sicuramente stata molto utile e interessante. Io ho colto la sua assoluta disponibilità, per la quale le siamo tutti grati. Ritengo, quindi, che, qualora i colleghi qui presenti - a dire la verità, anche quelli che non sono potuti venire perché impegnati in altre attività e che avranno la possibilità di rendersi edotti leggendo i resoconti - lo ritenessero utile, potranno mettersi in contatto con i suoi uffici e con lei stesso per avere ulteriori chiarimenti.
GIANCARLO VERDE, Direttore della Direzione centrale della finanza locale del Ministero dell'interno. Senza dubbio. I colleghi funzionari conoscono tutti i miei recapiti, ma, sempre nella tradizione di massima apertura, sul sito internet del Ministero dell'interno trovate tutti i miei dati. A costo del sacrificio personale - lo dico perché arrivano e-mail con le richieste più disparate - siamo pronti a tutto.
PRESIDENTE. La ringrazio e dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 20,20.