Camera dei deputati

Vai al contenuto

Sezione di navigazione

Menu di ausilio alla navigazione

Cerca nel sito

MENU DI NAVIGAZIONE PRINCIPALE

Vai al contenuto

Per visualizzare il contenuto multimediale è necessario installare il Flash Player Adobe e abilitare il javascript

Strumento di esplorazione della sezione Lavori Digitando almeno un carattere nel campo si ottengono uno o più risultati con relativo collegamento, il tempo di risposta dipende dal numero dei risultati trovati e dal processore e navigatore in uso.

salta l'esplora

Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

Torna all'elenco delle indagini Torna all'elenco delle sedute
Commissione VIII
5.
Martedì 4 novembre 2008
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Alessandri Angelo, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE POLITICHE PER LA TUTELA DEL TERRITORIO, LA DIFESA DEL SUOLO E IL CONTRASTO AGLI INCENDI BOSCHIVI

Audizione di rappresentanti dell'UPI:

Alessandri Angelo, Presidente ... 3 8 9
Mariani Raffaella (PD) ... 9
Nucara Francesco (Misto-LD-R) ... 8
Rossi Massimo, Vicepresidente dell'UPI e presidente della provincia di Ascoli Piceno ... 3

Audizione di rappresentanti del Comitato per la vigilanza sull'uso delle risorse idriche:

Alessandri Angelo, Presidente ... 9 13 14 16
Mariani Raffaella (PD) ... 13
Nucara Francesco (Misto-LD-R) ... 13
Passino Roberto, Presidente del Comitato per la vigilanza sull'uso delle risorse idriche ... 10 14
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-Repubblicani: Misto-LD-R.

COMMISSIONE VIII
AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 4 novembre 2008


Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE ANGELO ALESSANDRI

La seduta comincia alle 10,10.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti dell'UPI.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle politiche per la tutela del territorio, la difesa del suolo e il contrasto agli incedi boschivi, l'audizione di rappresentanti dell'UPI, che ringrazio per la presenza e a cui cedo immediatamente la parola.

MASSIMO ROSSI, Vicepresidente dell'UPI e presidente della provincia di Ascoli Piceno. Innanzitutto, ringrazio il presidente e la Commissione, che hanno ritenuto di consultarci nell'ambito dell'indagine conoscitiva.
Ritengo importante che il Parlamento, nella sua attività legislativa, faccia tesoro in maniera critica delle esperienze del territorio, per poter salvaguardare la parte valida del patrimonio normativo che è stato costruito negli anni e per modificare e ottimizzarne quella parte che, invece, non funziona, rendendolo sempre più rispondente alle esigenze delle comunità locali. Questo è l'argomento che affrontiamo, quando parliamo di difesa del suolo e di contrasto agli incendi boschivi.
Ho letto la nota che inquadra questa audizione e ho cercato di trovare le connessioni esistenti tra i due temi della difesa del suolo e del contrasto agli incendi boschivi: ho trovato che esse sono molto sfumate e per questo vorrei sforzarmi di rafforzare il loro legame.
Questo è il primo concetto che voglio introdurre. Probabilmente, esso in parte esula dalla competenza di questa Commissione, ma ritengo - per esperienza diretta, da ex sindaco e, oggi, da presidente della provincia di Ascoli Piceno e vicepresidente dell'UPI - che un elemento fortemente unificante questi due ambiti sia la lotta allo spopolamento dei territori montani e rurali.
Lo spopolamento produce, ovviamente, una mancata gestione del suolo, delle aree boschive e della regimentazione delle acque e, quindi, un aumento del pericolo di incendi. Non lo dico sulla base di assunti di carattere geologico, ma sulla base dell'esperienza diretta. Mi permetto, pertanto, di sollecitare i parlamentari e le forze politiche verso una forte azione di tutela del territorio, intesa come tutela della permanenza delle comunità locali.
Cito un esempio a tal proposito. In questi giorni ci troviamo a fare i conti con il tema della razionalizzazione della rete scolastica: nella mia provincia chiuderanno trentacinque scuole rurali e montane che hanno meno di cinquanta alunni. Stiamo tentando di operare una razionalizzazione, ma la mancanza di servizi di base come il servizio scolastico farà sicuramente venir meno le popolazioni in quelle zone e ciò renderà più difficile il


Pag. 4

presidio del territorio, che costituisce la prima azione di prevenzione virtuosa degli incendi boschivi e del dissesto idrogeologico.
Venendo, poi, ai temi che state esaminando, affronterò la questione della legge n. 183 del 1989 e del quadro normativo e organizzativo della difesa del suolo nel nostro Paese.
Anche in questo caso, sulla base di esperienze concrete, nella mia doppia veste di amministratore locale e di componente di due autorità di bacino (quella interregionale del fiume Tronto, che raccoglie le regioni Marche, Abruzzo e Lazio, e quella interregionale delle Marche), ritengo che la legge n. 183 del 1989 sia innovativa.
Essa ha anticipato la direttiva europea sulle acque, n. 2000/60, perlomeno per quanto riguarda gli aspetti della governance integrata del sistema idrogeologico e della rete idrografica nell'ambito del bacino, creando organismi di cooperazione e collaborazione interistituzionale - nella mia esperienza, funzionanti, poi si tratterà di valutare l'esperienza generale - in cui è stato possibile (poi vedremo quali sono state le criticità) poter pianificare le attività di gestione di questi corsi d'acqua.
L'aspetto che mi fa un po' paura riguarda l'adeguamento acritico alla direttiva 2000/60 che si è prefigurato con la prima impostazione del decreto legislativo n. 152 del 2006, ossia del testo unico dell'ambiente. La prevista riduzione da trentadue autorità di bacino - tante, credo, sono quelle attualmente ancora in esercizio - a otto, al di là della necessaria semplificazione e integrazione, rischia infatti di far venir meno una governance efficace del sistema ambientale. Pensate che il nord delle Marche verrebbe integrato in un'autorità distrettuale idrografica che arriva fino ai bacini della Liguria, passando per l'Emilia-Romagna e la Toscana.
Penso che in questo modo verrebbe meno la possibilità di attuare un'adeguata pianificazione degli interventi territoriali e quel coinvolgimento di prossimità degli enti territoriali che è fondamentale, tra l'altro - in particolare attraverso il coinvolgimento dei nostri enti, ossia le province - per integrare la pianificazione di bacino con la pianificazione territoriale di scala più generale.
Le province, fortunatamente, sono titolari della pianificazione territoriale di area vasta: com'è pensabile escluderle - non lo dico perché voglio lavorare di più - da un coinvolgimento nella pianificazione di bacino?
Voglio sottolineare che il disegno del decreto legislativo n. 152 del 2006 escludeva le province dalla governance e, in questo quadro di riaggregazione a livello distrettuale, prevedeva una governance molto centralistica, ponendo al centro sei o sette ministeri e un rappresentante per regione. Le province che hanno queste funzioni, quindi, venivano escluse, senza tener conto neppure che in molte regioni, come la mia o l'Emilia Romagna, nell'ambito delle amministrazioni provinciali è collocato anche il genio civile - che precedentemente apparteneva alla regione -, cioè l'organo deputato ad effettuare gli interventi sulle aste fluviali. Fatemelo dire: sarebbe un vero disastro.
Mi auguro, pertanto, a nome dell'UPI, che l'applicazione della direttiva 2000/60 venga ripensata, prevedendo un'articolazione degli organi della pianificazione di bacino che tenga conto della specificità italiana.
La direttiva in questione, infatti, lasciatemelo dire, è stata pensata per fiumi come il Reno o il Danubio, non è stata pensata per un Paese come l'Italia, da un punto di vista geologico più giovane di altri Paesi europei e con un'orografia diversa; in particolare, con un sistema appenninico che fa da potente spartiacque- e che determina quindi, dei bacini idrografici molto più definiti e articolati sul territorio.
Sono necessari, quindi, un maggior numero di autorità di bacino (si può risparmiare in altri modi) e un coinvolgimento delle province, come avviene oggi, nell'ambito della governance.
Non lo dico, voglio ripeterlo, perché le province vogliono occuparsi di «cose in più», ma perché riteniamo che, insieme


Pag. 5

alle regioni e allo Stato, potremmo non solo svolgere al meglio tale funzione, ma anche integrare le nostre funzioni nel campo più generale della pianificazione territoriale.
Un altro aspetto della legge n. 183 del 1989 che voglio sottolineare è la criticità rispetto ai flussi finanziari che, giustamente, avete messo in evidenza nel documento che ci avete inoltrato. Avete colto l'elemento di criticità correlando il problema - non lo dico per fare il solito piagnisteo - del graduale ridimensionamento delle risorse al progressivo evidenziarsi di sempre maggiori necessità.
Poiché dobbiamo riparare i danni, la spesa non si è comunque ridotta e, quindi, dovremo svolgere una riflessione in merito.
A questo proposito, occorre dire che, piuttosto che ridurre le tasse - scusatemi la battuta - e, poi, tagliare i programmi, dovremmo porci con più attenzione il problema ed evitare quelle riduzioni di spesa che determinano un aggravio successivo: penso a tutte le tematiche ambientali, da Kyoto al dissesto idrogeologico. Sottolineo sempre questo aspetto, perché è l'ambito nel quale, alla fine, spendiamo di più per riparare i danni.
Tornando al quadro normativo e alle risorse stanziate per le politiche per la difesa del suolo, ritengo che il paradosso sia stato determinato dal fatto che la legge n. 183 del 1989 è decollata lentamente. Come avete scritto voi stessi, infatti, tale norma era ambiziosa e innovativa. A partire dal 1989, per passare poi alla legge n. 142 del 1990 e così via, è stato difficile mettere in piedi l'impianto previsto, in una fase di forte evoluzione del sistema degli enti locali.
In quella fase, paradossalmente, le risorse ci sono state ma, in mancanza di piani per l'assetto idrogeologico (PAI), esse sono state utilizzate nell'ambito di modalità di finanziamento non molto virtuose (ad esempio sulla base di semplici schemi programmatici) e, molto spesso, sono state utilizzate per finanziare attività differenti - strade o mura - dagli interventi per il miglioramento del sistema idrogeologico.
Successivamente, nel periodo 2004-2006, in particolare dopo Sarno e Soverato, sono stati approvati i piani di assetto idrogeologico, che oggi ci danno una fotografia dei diversi livelli di rischio e di pericolosità delle singole zone e che quindi possono orientarci verso gli interventi prioritari. Purtroppo, però, da quel periodo le risorse sono venute meno.
L'altro aspetto critico, per non parlare solo del problema della quantità di risorse, riguarda le modalità di finanziamento. Paradossalmente, negli anni tra il 2004 e il 2006, le risorse sono state attribuite dal ministero direttamente ai comuni.
Per carità, io sono stato sindaco e credo molto al principio di sussidiarietà. Tuttavia, mi chiedo come sia possibile, in presenza delle autorità di bacino e di enti territoriali di area vasta, finanziare direttamente le domande dei comuni per intervenire sulla frana o sul corso d'acqua quando sono i PAI ad individuare la scala di priorità: eppure, questo è avvenuto!. Come è avvenuto che nel 2006, sul finire della legislatura, sia stato varato un decreto-calderone con cui venivano finanziati numerosi comuni e che dopo le elezioni i soldi siano spariti e - per citare la mia esperienza personale - mi sono ritrovato i sindaci alla porta della provincia, che lamentavano la mancanza di risorse per la pianificazione.
Per farla breve, sottolineo la necessità che si instauri un meccanismo virtuoso, anche più virtuoso di quello attivato dal ministro successivo, che prevedeva l'indicazione del 50 per cento delle risorse da parte del ministero e dell'altro 50 per cento da parte delle regioni, con un metodo di concertazione e con una titolarità fifty-fifty.
Non capisco come il ministero possa individuare le priorità, soprattutto in presenza delle autorità di bacino, quando si potrebbe invece individuarle sul territorio, nell'ambito della pianificazione di bacino, laddove la scala delle priorità viene definita in maniera trasparente e scientifica, sulla base degli elementi di conoscenza che si acquisiscono e si consolidano nella pianificazione territoriale. Aggiungo che,


Pag. 6

alla base di questo modo non virtuoso di attribuzione delle risorse c'è la legge n. 179 del 2002, in particolare l'articolo 16, che ha modificato il regime dei finanziamenti precedente, quando, in base alla legge n. 183 del 1989 essi venivano erogati dallo Stato e orientati verso le autorità di bacino. L'articolo 16 della legge n. 179 del 2002 parla, infatti, di erogazione di fondi agli enti locali e territoriali, sulla base delle necessità e delle emergenze e tale disposizione normativa ha contribuito, insieme alla progressiva riduzione delle risorse, a «dissestare» il meccanismo. In conclusione, una cattiva gestione delle risorse non ha tenuto conto delle pianificazioni territoriali e tali risorse sono state distribuite, alla spicciolata, tra i comuni; in presenza di una riduzione di finanziamenti, a mio avviso, ciò ha prodotto uno sfasamento ulteriore e un cattivo funzionamento del meccanismo.
Chiudo sulla questione relativa alla difesa del suolo, dicendo in sintesi: d'accordo (per quanto riguarda la revisione della legge n. 183 del 1989) sulla necessità di aggiornare gli ambiti distrettuali idrografici, tenendo conto, però, delle specifiche caratteristiche del nostro Paese, senza andare verso una riduzione o un accorpamento simile a quello che già è stato fatto; di mantenere una governance territoriale che coinvolga le province e gli enti territoriali, per valorizzare la prossimità e per favorire l'integrazione della pianificazione con le altre pianificazioni settoriali, nel quadro dei piani di coordinamento territoriale; di dare le risorse alle autorità di bacino che, così, non si occuperanno soltanto della riparazione e dell'emergenza, ma anche della manutenzione (e se eseguiamo la manutenzione ordinaria dei corsi d'acqua, possiamo gestire al meglio tutti i sedimenti e i depositi, che oggi, purtroppo, subiscono delle dinamiche diverse che in passato, dal momento che i corsi d'acqua non hanno più le stesse portate, mentre se non lo faremo, dovremo poi riparare i danni).
Vengo ora alla questione degli incendi. Tornando al nesso iniziale con la prevenzione, direi che non solo dobbiamo concentrarci sulle attività di spegnimento degli incendi, ma che dobbiamo dare valore anche all'attività di prevenzione primaria, coinvolgendo le popolazioni locali.
Esistono esperienze significative in merito, attuate in Italia, presentate a livello europeo e copiate anche dal Canada. Mi riferisco, ad esempio, all'Aspromonte, dove sono stati stipulati contratti di responsabilità con associazioni, cooperative e imprese locali che hanno assunto la gestione, dal punto di vista della prevenzione degli incendi e del controllo del territorio, di alcuni ambiti territoriali.
Tali contratti responsabilizzano questi soggetti prevedendo che, nel momento in cui piccole percentuali di bosco andassero in fumo, si dimezzerebbe l'affidamento economico. Le popolazioni locali vengono così coinvolte.
In proposito, fatemi dire che, in alcune zone del Sud, si tratta delle stesse popolazioni locali che in assenza di tali iniziative avrebbero potuto avere interesse, per motivi di riforestazione e altro, ad appiccare il fuoco. In questo caso, invece, le popolazioni sono state coinvolte e sul territorio si è creato reddito, con ricadute economiche e con la permanenza in loco delle popolazioni.
Allo stesso tempo, inoltre, si è dato luogo a una gestione molto più flessibile di quella che può essere attuata con il solo personale dipendente dallo Stato o dagli enti locali che, dovendo rispettare determinati orari, in certe fasce orarie non può controllare se si accende un fuoco e ha una gestione più rigida e meno efficace dal punto di vista della prevenzione degli incendi.
Un altro aspetto della questione, anch'esso legato alla prevenzione, riguarda la necessità di rafforzare le filiere forestali ed energetiche.
Sulle minifiliere agro-energetiche, io ho un'esperienza diretta: nel mio territorio, infatti, è stato progettato un impianto per la produzione di pellet dalla manutenzione boschiva, che si realizza nella piccola area industriale montana, occupa persone di quell'area e rende la manutenzione boschiva


Pag. 7

un'opportunità e non un costo: rafforziamo questi progetti! Noi, ad esempio, siamo pronti a duplicare il nostro, che è già stato finanziato nell'ambito del bando sulle filiere agro-energetiche (ci sono investitori locali pronti ad investire 7 milioni di euro). Ricordo, inoltre, che questi pellet saranno utilizzati in primis dai comuni dell'area montana per gli impianti delle scuole e degli edifici pubblici e non andranno in giro per il territorio con i camion, restando così in una filiera corta. Questa è prevenzione boschiva attiva e primaria, perché si creano reddito ed economia sul territorio.
In conclusione, affronto un ulteriore aspetto della prevenzione, che voi stessi avete individuato ed è reale, come abbiamo verificato nel mio territorio, segnato fortemente, come molte altre parti d'Italia, dagli incendi nel 2007: mi riferisco al contrasto dell'attività dolosa.
Occorre concentrarsi maggiormente sulla prevenzione e sul contrasto alle attività dei piromani. Le azioni preventive, pertanto, non devono essere assolutamente trascurate perché, dove sono state attuate, sono state efficaci.
Quanto alla «linea di comando», relativamente alle attività di spegnimento, trovo che l'impianto della legge n. 353 del 2000 vada salvaguardato: guai a tornare indietro, a un approccio centralistico!
Abbiamo esperienze diverse in questo Paese, come è giusto che sia. Segnalo, tuttavia, quelle della mia regione, le Marche, e dell'Emilia Romagna. Ad avere questa competenza sono le regioni, intese però come sistema territoriale, perché esse hanno delegato - in alcuni casi completamente, nella gran parte dei casi solo parzialmente - le funzioni di pianificazione e organizzazione di contrasto agli incendi.
Le attività di coordinamento, anche dei Corpi dello Stato (di quello forestale e dei Vigili del fuoco) funzionano: non vedo sofferenze in questo sistema. Purtroppo e mio malgrado, sono stato involontariamente protagonista degli accadimenti del 2007 e devo dire che mi sembra non si siano posti problemi particolari.
I problemi che, invece, ho potuto registrare erano legati, ad esempio, al fatto che, per le attività di spegnimento, purtroppo, abbiamo situazioni abbastanza critiche, sia dal punto di vista della chiarezza normativa, sia da quello della solidità del sistema.
Come mi insegnate, il Corpo forestale ha la competenza per lo spegnimento degli incendi boschivi, mentre i Vigili del fuoco si occupano dell'interposizione e della sicurezza dei cittadini.
Ovviamente, le dimensioni delle risorse a disposizione del Corpo forestale non sono sufficienti. Certo, esiste il volontariato, che non può, però, surrogare un'attività altamente professionistica, perché parliamo di interventi comunque delicati.
Accade così, dunque, che i Vigili del fuoco vengano utilizzati per le attività di spegnimento extra-orario, finanziate dagli enti locali: i Vigili del fuoco che non si occupano di attività di spegnimento vengono coinvolti dalle regioni per integrare le squadre del Corpo forestale e i volontari nelle attività di spegnimento, che non hanno orario. Tali attività, tuttavia, sono a carico del sistema degli enti locali.
Al di là della lamentazione comprensibile legata a questa circostanza - visto che, peraltro, il sistema è già gravato di per sé e purtroppo le risorse a disposizione, pervenute per rifondere le spese, sono state molto limitate rispetto alle spese effettive a carico dei comuni, delle province e delle regioni - il punto essenziale è che bisogna definire bene quali sono le competenze dei Vigili del fuoco; perlomeno, occorre circoscrivere le attività che possono essere poste a carico del sistema degli enti locali, se devono esserlo (chiaramente, con un ristoro possibile da parte dello Stato).
Ciò che voglio ribadire - che mi sembra sia stato sottolineato dai rappresentanti dell'ANCI e che condivido - è che il sistema deve operare in un'ottica di sussidiarietà.
Il ruolo centrale dei comuni - parlo ora da presidente di provincia - non va assolutamente dimenticato: chi meglio del sindaco, nella fase di emergenza, riesce a


Pag. 8

coordinare e orientare sul territorio le attività di gestione delle problematiche degli incendi boschivi?
Chiaramente, abbiamo visto che in questi casi la sussidiarietà è reale e che la provincia, con il suo sistema integrato - nei nostri territori, in ogni provincia c'è una sala operativa integrata (SOI) della Protezione civile - ha una funzione di sussidiarietà, laddove i fenomeni siano tali da coinvolgere un territorio più vasto, che non consente ai comuni di svolgere un'adeguata funzione di coordinamento.
Ribadisco, dunque, che non si può semplificare il sistema, che è complesso. Il sedimento normativo non è assolutamente da rovesciare, come accadrebbe ritornando a delle ottiche centralistiche. Occorre definire meglio le competenze, per quanto riguarda le attività di spegnimento, ma devono essere rafforzate anche le attività di prevenzione di vario genere, con il coinvolgimento delle province, ossia di enti che hanno una funzione di governo delle aree vaste.
Penso, ad esempio, alle funzioni di prevenzione legate alle politiche territoriali per rafforzare, in termini socio-economici, i sistemi locali e, allo stesso tempo, per trasformare i problemi, gli oneri e le criticità in opportunità, come quelle delle manutenzioni boschive che possono essere realizzate attraverso l'implementazione delle filiere energetiche e forestali.

PRESIDENTE. Passiamo agli interventi dei colleghi che intendono porre quesiti o formulare osservazioni.

FRANCESCO NUCARA. Ho ascoltato con molto interesse la relazione del vicepresidente dell'UPI. Condivido moltissime delle affermazioni che sono state esposte: è inutile, quindi, ripeterle.
Vorrei solamente accennare a due questioni.
In primo luogo, vorrei trattare il tema relativo alla prevenzione nei bacini idrografici, un tema che concerne il governo dell'esistente e deve essere gestito proprio dalle province.
Per spiegarmi meglio faccio l'esempio dei rifiuti che, spesso, vengono buttati in mezzo ai torrenti o ai fiumi. Ricordo in proposito che il disastro di Sarno nacque proprio da una situazione di questo tipo, ossia da rifiuti depositati in un torrente che, poi, produssero un «effetto diga» che, al verificarsi di una pioggia consistente, provocò i disastri e la morte delle persone. Il problema della manutenzione, quindi, è importante.
Condivido allo steso modo il fatto che si debba fare di tutto per non spopolare le montagne o i bacini montani, proprio perché la presenza dell'agricoltore e l'esistenza del sistema boschivo minore consentono una manutenzione e permettono a chi vi lavora di avvertire in anticipo circa ciò che può succedere. Penso, dunque, che la competenza in merito debba essere delle province, d'intesa con le regioni.
Concordo, inoltre, sul fatto che non si possa creare un bacino idrografico che parte da Ascoli Piceno e arriva a La Spezia, perché diventerebbe assolutamente inefficace e inefficiente.
Credo, quindi, che le competenze in materia di prevenzione debbano essere esclusivamente locali, d'intesa con il Governo nazionale, che deve trovare un sistema come quello dei parchi: il parco non deve essere considerato soltanto un luogo di ristoro, ma può rappresentare anche una risorsa per prevenire i disastri.
Quanto agli incendi, il sistema è talmente complesso che, forse, non basterebbe un seminario di una settimana per affrontarlo. Gli incendi, infatti, sono un problema che riguarda non solo l'Italia, ma il mondo intero. Svolgerò solo un'osservazione rispetto al sistema che il vicepresidente dell'UPI ci ha illustrato.
In alcune zone d'Italia - in Aspromonte, ad esempio - non vi sono incendi: è vero. Sarebbe, però, interessante sapere chi sono i proprietari dei boschi o chi sono gli sfruttatori del sistema boschivo. A quel punto, forse, capiremmo meglio perché in quelle zone non ci sono incendi, diversamente da quanto accade nel resto d'Italia.
La differenza non sta solo nel sistema delle cooperative e dei mille ragazzi che d'estate avvistano gli incendi. Se qualcuno vuole bruciare un bosco in Aspromonte,


Pag. 9

figuriamoci se si preoccupa di un ragazzino che fa parte di una cooperativa o che lavora tre mesi!
Il problema degli incendi boschivi è di natura diversa e purtroppo - non so se sia peggio o meglio - riguarda anche la cultura, se è vero che non si trovano persone a sufficienza, nella popolazione, che denunciano i piromani, ossia coloro che appiccano incendi boschivi con dolo.
Probabilmente, quindi, si deve incominciare da un'attività culturale in merito, a partire dalle scuole e credo che, in questo senso, un ruolo importante possa essere svolto dai parchi.

RAFFAELLA MARIANI. Vorrei ringraziare il presidente della provincia di Ascoli Piceno e sottolineare alcuni aspetti importanti - dal mio punto di vista - che ci ha voluto far rilevare.
In primo luogo, mi riferisco alla questione dei finanziamenti per la difesa del suolo. Abbiamo detto più volte, anche nel corso della nostra discussione parlamentare, quanta incongruenza ci sia in un'organizzazione che divide a metà le competenze tra ministero e regioni e allenta il tema delle priorità e dell'assegnazione dei contributi per la difesa del suolo. Non a caso è nata questa indagine conoscitiva.
La nostra preoccupazione riguarda, oltre alla riduzione - di quasi il 50 per cento - dei fondi per la difesa del suolo prevista dalla legge finanziaria che è attualmente in discussione, anche la dispersione delle priorità, che non aiuta né le regioni né i territori.
L'altro aspetto che il vicepresidente dell'UPI sottolineava e che mi auguro sarà oggetto, con questo Governo, di una discussione, riguarda l'iniziativa di una la legge-delega in materia ambientale che, a quanto sentiamo dire, dovrà essere ripresa.
Ci auguriamo anche che, proprio in riferimento al tema delle acque e dell'organizzazione dei distretti idrografici, si possa svolgere un ragionamento il più razionale possibile, magari anche distinguendo le differenti situazioni. Noi abbiamo infatti alcuni grandi bacini idrografici (è inutile paragonare i grandi fiumi italiani, che non sono moltissimi, con quelli europei) che richiederebbero una gestione complessiva e non frammentaria come quella odierna e in questi casi, potremmo avere anche un'impostazione europea: non ci troviamo niente di strano.
Allo stesso tempo, non è possibile non vedere che nei bacini idrografici più ristretti, invece, si deve predisporre una programmazione più coerente con quella delle autorità di bacino, così come erano precedentemente intese.
Ad ogni modo, questa difficoltà di organizzazione e questa farraginosità normativa fanno dire a tutti che occorre una semplificazione, un'impostazione più agile, per rispondere alle esigenze del territorio, soprattutto alle esigenze di una programmazione delle attività di difesa del suolo, che altrimenti finisce sempre per essere rincorsa dalle emergenze e, quindi, non trova mai una politica strutturale.
Il mio augurio è che questo tema diventi uno dei più importanti da trattare, nell'ambito della discussione che dovremo svolgere - ne abbiamo parlato diverse volte anche con il presidente della Commissione - riguardo alla revisione del decreto legislativo n. 152 del 2006.

PRESIDENTE. Ringrazio il vicepresidente dell'UPI che - ne sono certo - rivedremo presto, considerato quanti temi restano ancora da discutere.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta, sospesa alle 10,40, è ripresa alle 10,50.

Audizione di rappresentanti del Comitato per la vigilanza sull'uso delle risorse idriche.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle politiche per la tutela del territorio, la difesa del suolo e il contrasto agli incedi boschivi, l'audizione di rappresentanti del Comitato per la vigilanza sull'uso delle


Pag. 10

risorse idriche, che ringrazio per la presenza e a cui cedo immediatamente la parola.

ROBERTO PASSINO, Presidente del Comitato per la vigilanza sull'uso delle risorse idriche. Nel preparare una traccia dell'intervento, ho letto il programma dell'indagine, che ho trovato molto pertinente rispetto ai problemi di cui la Commissione ha deciso di interessarsi, soprattutto laddove distingue tre fasi dell'evoluzione della situazione nel settore di indagine.
Vorrei svolgere qualche considerazione in merito a questo tipo di evoluzione e alle fasi, così come sono state individuate.
La legge n. 183 del 1989 è stata fortemente innovativa e adeguata alla soluzione dei problemi di cui trattava. Essa fu accolta, però, con reciproche diffidenze tra lo Stato e le autonomie locali. I primi mesi di attuazione di questa legge, infatti, furono vissuti dallo Stato come un'ulteriore privazione di competenze e dagli enti locali come un tentativo dello Stato di riappropriarsi di competenze che erano state trasferite, in particolare alle regioni, con un provvedimento precedente (mi pare che si tratti del decreto del Presidente della Repubblica n. 616 del 1977).
Questo portò anche alla presentazione di numerosi ricorsi davanti alla Corte costituzionale per presunta illegittimità costituzionale della legge. Tali ricorsi furono esaminati e respinti dalla Consulta, con una sentenza di cui molti si sono dimenticati, ma che tuttora io considero ammirevole. Parlo della sentenza n. 85 del 1990 che contiene una dissertazione su come i rapporti tra lo Stato, le regioni e, in generale, gli enti locali dovrebbero articolarsi, che non è stata in alcun modo intaccata dai provvedimenti legislativi successivi. Sarebbe bene che questa sentenza venisse riletta da molti e soprattutto che venisse letta da coloro - e sono tanti - che non l'hanno mai letta.
I motivi di ricorso allora respinti dalla Corte costituzionale sono continuamente riproposti, secondo l'abitudine piuttosto consolidata, nel settore di cui io mi occupo, per la quale il Parlamento approva una legge e le strutture, invece di occuparsi della sua attuazione, secondo l'articolazione della norma, pensano che sarebbe stato meglio se il provvedimento fosse stato diverso e si comportano riferendosi alla legge che avrebbero voluto e non a quella che lo Stato si è dato.
Questo è un aspetto che, francamente, ha condizionato l'attuazione delle norme in campo ambientale, sia per la legge n. 183 del 1989, sia per la legge n. 319 del 1976, sia per la legge n. 36 del 1994, di cui oggi mi occupo particolarmente. Queste norme sono state in qualche modo travasate nel decreto legislativo n. 152 del 2006, il cosiddetto «codice ambientale».
La frase che condensa l'impostazione della sentenza della Corte costituzionale è lapidaria e parla di «leale collaborazione tra Stato e regioni».
Questa leale collaborazione è stata molto difficile da costruire, perché la diffidenza iniziale era profonda. Inoltre, con riferimento alla prima fase, indicata nel programma della Commissione, per quanto concerne le autorità di bacino nazionali - ricordo che sono stato Segretario generale dell'Autorità di bacino del Po dal 1990 al 2002 - questa leale collaborazione fu costruita facendo lavorare bene il loro comitato istituzionale.
Richiamo questa esperienza perché, sulla base di quanto ho imparato, ritengo che quella sia la sede istituzionale giusta in cui, con la dovuta frequenza di riunioni e con la qualità delle discussioni e delle decisioni, questa leale collaborazione tra Stato e regioni si può effettivamente costruire.
Nella seconda fase, il risultato altamente positivo ottenuto, in termini di costruzione di fiducia reciproca, è stato demolito: i comitati istituzionali non si sono più riuniti e si è ricreato il clima di diffidenza che esisteva al momento della prima attuazione della legge n. 183 del 1989.
Devo dire che, ancora una volta, in ogni occasione in cui organi dello Stato e organi regionali si riuniscono, raramente si discute del merito, mentre si duella sempre sull'attribuzione delle competenze.


Pag. 11

Si perdono, cioè, tempo ed energie per svolgere delle discussioni che non portano da nessuna parte e aumentano le incertezze.
Questo è tanto più grave, quando pensiamo al problema della difesa del suolo e alle questioni ad esso associate, come pure al problema dell'organizzazione dei servizi idrici, rispetto ai quali mi permetto di fare un inciso.
Sento, infatti, il bisogno di attenzione da parte di questa Commissione, perché nel settore nel quale oggi ho una responsabilità istituzionale importante, la situazione è molto seria e grave e, senza attenzione e provvedimenti da parte del Parlamento, può soltanto aggravarsi.
Presidente, le ricordo che ne abbiamo già discusso e torno a chiedere, approfittando «vigliaccamente» di questa occasione, l'attenzione della Commissione sull'argomento.
Dicevo che la questione è tanto più importante perché la materia della difesa del suolo impatta inevitabilmente sulla situazione del territorio che, viceversa, è di stretta competenza delle autonomie locali.
Purtroppo, nelle scelte, negli orientamenti e nella pianificazione sulla difesa del suolo, l'attenzione si concentra sulle risorse finanziarie e sugli interventi, ma questo non è il modo di realizzare la politica giusta, quella della prevenzione, la quale non passa per la ricostruzione dei beni distrutti dalle alluvioni, né per i risarcimenti ai soggetti interessati - ai quali, ovviamente, va prestato il massimo rispetto - ma passa attraverso le interferenze fra le opere esistenti (a volte insediamenti umani) e l'inevitabile espansione delle piene, quando si verificano.
Il concetto di rischio idrogeologico si articola sul pericolo e sul soggetto esposto al rischio ed esistono due modi per diminuire questo rischio: uno è quello di diminuire il pericolo, che è molto difficile perché, oggi, in alcune situazioni, i pericoli sono aumentati per eccesso di interventi correttivi; l'altro è quello di sottrarre al pericolo il soggetto che può essere offeso, mediante la «famosa» delocalizzazione.
Questo è il segreto della politica di prevenzione, che passa anche attraverso il recupero degli ambiti fluviali, ossia della restituzione al fiume delle sue pertinenze naturali.
Testimonio l'esperienza del Po, la cui più grande sofferenza è oggi, certamente, l'eccesso di opere di difesa dalle piene: meglio si sarebbe speso se, invece, si fosse intervenuti per sottrarre soggetti alle possibili piene e per consentire una più naturale espansione delle piene stesse.
Si sono verificate delle situazioni di un'assurdità gravissima: mentre da una parte, con la legge n. 183 del 1989, si ponevano in essere politiche preventive, dall'altra, l'Amministrazione del demanio faceva approvare al Parlamento leggi che alienavano il demanio fluviale. La politica corretta sarebbe, invece, quella di riacquisire pertinenze fluviali e di restituirle al demanio.
Su questo aspetto, tra l'altro, esiste la legge n. 37 del 1994, approvata dal Parlamento contemporaneamente alla legge n. 36 del 1994, che probabilmente è la norma più disapplicata della storia delle leggi in Italia.
È fondamentale, tuttavia, l'interfacciatura con le leggi urbanistiche e con i piani regolatori, soprattutto con quelli urbanistici comunali, e non soltanto con i grandi piani territoriali.
Se si analizza il rapporto esistente tra la pianificazione di bacino e i piani urbanistici comunali, si riscontrano delle contraddizioni drammatiche.
Sono proprio gli enti locali che realizzano gli interventi più contrastanti con un'impostazione di prevenzione, per una ragione che, già in altre occasioni, ho indicato anche in questa Commissione. Vale a dire per la ragione che, siccome le sorti delle giunte comunali si giocano sui piani urbanistici e sulla destinazione delle aree edificabili, gli interventi pubblici - le scuole, le caserme, gli ospedali, le stazioni - si costruiscono sempre in aree residuali che, guarda caso, si trovano sempre vicino al fiume.


Pag. 12


Nelle grandi alluvioni del 1992 e del 1994, i più grossi guai riguardarono le scuole, gli ospedali, le ferrovie, i ponti stradali e quelli ferroviari.
Questo ci porta al discorso della zonizzazione del rischio che, a sua volta, si collega al problema della copertura assicurativa, della condivisione del rischio e del suo costo. Si tratta di un problema dibattuto per vent'anni e mai risolto da noi, diversamente che nel resto dell'Europa.
I tentativi realizzati hanno portato a richieste, da parte delle società assicurative, che prevedevano premi talmente assurdi che questa copertura non c'è stata. Molti Paesi si sono dati norme di condivisione del costo della protezione assicurativa.
Inoltre, esiste ormai ovunque il concetto della condivisione del rischio, nel senso che il costo dell'assicurazione è condiviso tra il soggetto pubblico e quello privato, in funzione della classe di rischio dell'area in cui si trova l'insediamento.
Inoltre, le società assicuratrici stabiliscono i premi in base alla zonizzazione del rischio fatta dalle autorità pubbliche e non in proprio, come è accaduto in Italia, dove le società assicurative si sono rivolte ad esperti, o presunti tali, e hanno così provveduto alla propria zonizzazione del rischio.
Un'altra questione importante, che ritengo opportuno segnalare a questa Commissione, è che occorre rimettere radicalmente mano all'architettura della pianificazione: questo è uno dei peggioramenti introdotti dal decreto n. 152 del 2006.
Ho molto apprezzato, nel programma della Commissione, la frase in cui si dice che l'ultima versione del decreto n. 152 del 2006 ha introdotto alcuni peggioramenti, il più serio dei quali, probabilmente, è proprio quello che ha consentito di mantenere la struttura del piano di protezione idrogeologica previsto dalla legge n. 183 del 1989, ma poi, nell'intento di osservare l'attuazione della direttiva comunitaria 2000/60, le si è affiancato il piano di gestione, stabilendo un rapporto tra i due piani che, in realtà, non esiste.
La descrizione dei contenuti del piano idrogeologico, infatti, è di pura natura idrogeologica; mentre la descrizione dei contenuti del piano di gestione - che è presa testualmente dall'allegato della citata direttiva comunitaria - tratta problemi totalmente differenti, prevalentemente legati alla qualità e solo parzialmente al bilancio idrico, e non risolve il problema del rapporto tra la pianificazione di bacino e i piani di tutela regionali.
Questa è una distorsione antica, creata con il famoso articolo 44 (nella versione precedente a quella oggi vigente) del decreto legislativo n. 152 del 2006, promosso dal Ministro Ronchi, che dà ai piani di tutela la caratteristica di piano stralcio del piano di bacino. Questa è un'assurdità, perché il piano di bacino, ovviamente, deve essere organico e una singola regione non può garantire l'organicità di un piano di tutela che deve raccordarsi al piano di bacino.
L'ultima questione importante che richiamo, per poi chiudere l'intervento per ragioni di tempo, è quella del bilancio idrico.
Né i piani di assetto idrogeologico, né i piani di gestione affrontano seriamente il problema del bilancio idrico che, evidentemente, è una questione fondamentale di gestione del bacino, a cui si lega la necessità, più volte dichiarata e denunciata, di rivedere profondamente il regime delle concessioni, anche perché lo strumento giuridico della concessione ha ormai settanta anni e, quindi, riflette la situazione dell'acqua di quell'epoca, quando le leggi dello Stato erano opportunamente pensate per promuovere l'uso dell'acqua.
Oggi, invece, che devono essere predisposte misure per promuoverne il risparmio, lo strumento giuridico della concessione è assolutamente inadatto e produce conseguenze molto negative.
Tra l'altro, esiste una quantità incredibile di importanti concessioni scadute, nell'ordine anche delle decine di metri cubi al secondo, che sono in regime di prorogatio, che andrebbero riviste e adeguate alla nuova situazione del rapporto tra bisogni e disponibilità.


Pag. 13


Naturalmente, per far questo, occorrerebbe fare in modo che i distretti funzionassero, riassorbendo le autorità di bacino. Probabilmente è necessaria qualche riflessione perché i distretti, così come previsti dal decreto n. 152 del 2006, nel testo oggi vigente, non si capiscono.
Infatti, l'elemento legante di un distretto dovrebbe essere l'esistenza di problemi comuni e l'interesse a risolverli collaborando. Quando, invece, si mettono insieme regioni dell'Adriatico e del Tirreno, con gli Appennini in mezzo, non si comprende quali siano gli interessi comuni di queste regioni.
I comitati istituzionali sono molto affollati e questo crea, secondo me, le premesse per non riuscire neppure a convocarli, come troppo frequentemente è successo negli ultimi anni.
Molte delle autorità di bacino oggi esistenti sono acefale (non hanno il segretario generale) e sono state «strozzate» nelle disponibilità finanziarie che ne garantiscono l'operatività quotidiana, quella elementare, che permette di pagare un biglietto del treno per venire a Roma, di pagare il telefono, di avere un mezzo per andare in campagna o altre cose di questo genere.
Io auspico che la Commissione approfondisca questi problemi, trovando delle soluzioni adatte, riavvicinando l'individuazione degli ambiti istituzionali, ossia dei territori, a quello che era stato il concetto informatore delle autorità di bacino di rilievo nazionale, che avevano funzionato bene. Altrimenti, le strutture si sovrappongono, perdono d'interesse e infastidiscono gli altri organismi, facendo venire meno le condizioni perché possano operare positivamente e contribuire alla soluzione dei problemi. Grazie.

PRESIDENTE. Passiamo agli interventi dei colleghi che intendono porre quesiti o formulare osservazioni.

FRANCESCO NUCARA. Grazie, professor Passino. C'è poco o nulla da aggiungere alla dotta illustrazione che lei ci ha presentato.
Visto che questa è un'indagine conoscitiva sulla difesa del suolo e lei, istituzionalmente, si interessa soprattutto di problemi idrici, vorrei chiederle se c'è - come c'è sicuramente, ma vorrei che lei lo esplicitasse meglio di quanto potrei fare io - una relazione tra i prelievi idrici e la difesa del suolo.
Le chiedo se esista una relazione tra l'infinita costruzione di dighe in alta montagna e la difesa del suolo; se c'è qualche relazione tra il prelievo da falda di acque - soprattutto in regioni del Mezzogiorno, ma non solo - e la difesa del suolo; se i fenomeni della subsidenza possano essere o meno attribuiti anche all'eccessivo prelievo da falda.
È stato molto interessante ascoltarla, come anche in altre occasioni e credo che dovrà tornare in Commissione, visto che ha accennato anche a come sia possibile riformare alcune leggi per rendere più efficace l'intervento dello Stato. Forse avremo bisogno di riconvocarla in questa sede - almeno questa è la mia idea, ma sarà il presidente della Commissione a decidere - per approfondire alcuni aspetti peculiari che ci ha illustrato questa mattina.

RAFFAELLA MARIANI. Intervengo anch'io per ringraziare il presidente Passino.
Nella discussione che abbiamo svolto in questa Commissione, anche rispetto al nostro ruolo, ci siamo detti più volte che sarebbe opportuno iniziare una discussione, ad adiuvandum rispetto all'azione del Governo, sulle modifiche al decreto legislativo n. 152 del 2006, che non erano state fatte nella passata legislatura e che riguardavano l'amplissimo tema delle acque, che comprende tutti i richiami da lei fatti in conclusione. Questo non è l'oggetto della discussione di oggi, ma vorremmo assolutamente avere il suo contributo in proposito.
Tra l'altro, lei ha richiamato il tema della pianificazione urbanistica. In questi giorni, noi affrontiamo una discussione su alcune proposte di legge riguardanti la pianificazione.


Pag. 14


A tal proposito, c'è un'attenzione forte alle questioni da lei sottolineate, riguardanti un uso esagerato del territorio e del suolo, con le conseguenze a cui lei faceva cenno, che ormai diventano insostenibili anche dal punto di vista economico, perché diventa difficile riparare senza aver provveduto a una prevenzione corretta.
Oggi abbiamo sotto gli occhi richieste di contributi per le emergenze in Piemonte, poi verranno quelle della Sardegna, e noi non riusciamo a dare le risorse che vengono richieste dalle istituzioni locali.
Uno dei temi sollevati anche dall'onorevole Nucara mi sembra interessante e riguarda le questioni odierne.
Ci siamo trovati di fronte alla difficoltà di riconoscere le priorità rispetto all'indirizzo delle poche risorse che, ogni anno, vengono destinate al tema della difesa del suolo, proprio a causa della difficoltà derivante dalla sovrapposizione di enti, per cui sia le regioni, sia le autorità di bacino si occupano della pianificazione e anche il ministero tiene per sé una quota parte delle risorse, indicando le proprie priorità.
Questo mette in evidenza ordini di priorità quasi sempre differenti che - possiamo immaginare - si rifanno ad altre esigenze, nonché l'inutilità di una serie di istituzioni che, se non solo non collaborano lealmente - come direbbe la Corte costituzionale - ma a volte si fanno addirittura la guerra, perché ognuno deve poter portare a casa qualcosa e deve rispondere a un disegno e a una logica che avevano precostituito.
Se, quindi, da un certo punto di vista, la legge n. 183 del 1989 era stata moderna e molto utile, forse l'organizzazione istituzionale - che nel nostro Paese non è ancora improntata ad una piena e leale collaborazione - fa sì che ci siano più conflitti che condivisione.
Dovremo riflettere su questo argomento, nell'intenzione di semplificare e rendere più agevoli i risultati per i territori, perché, in ultima analisi, le farraginosità rappresentate dalla convocazione dei comitati istituzionali - molto numerosi, come lei sottolineava, ma che alla fine non decidono - portano al risultato complessivo di istituzioni non funzionanti, di risposte che non vengono date e di soldi spesi male.
Sia la discussione sul decreto legislativo n. 152 del 2006, sia quella sulle proposte di legge in materia di pianificazione urbanistica - se riusciremo a portarle in fondo - saranno, forse, occasioni utili per una semplificazione e per agire con buon senso, in modo da poter rilevare le competenze e, poi, un unico meccanismo per stabilire le priorità, altrimenti ognuno avrà le proprie e abbiamo tutti esperienza di quanto questa situazione sia devastante per il territorio.

PRESIDENTE. Do la parola al professor Passino, presidente del Comitato per la vigilanza sull'uso delle risorse idriche, per la replica.

ROBERTO PASSINO, Presidente del Comitato per la vigilanza sull'uso delle risorse idriche. Sono stati sollevati alcuni argomenti importanti, sui quali avevo sorvolato - me ne scuso - per esigenze di tempo.
L'onorevole Nucara ha ripreso un punto che avevo tralasciato, parlando genericamente di bilancio idrico. Questo aspetto costituisce l'interfaccia tra il settore della difesa del suolo e quello dell'utilizzo dell'acqua.
Tale bilancio idrico non è amministrato da nessuno e non c'è dubbio che si tratti di un punto cruciale - è difficile dare risposte chiare, perché le variabili si intrecciano e influiscono l'una sull'altra - perché, purtroppo, l'attenzione è concentrata sulle risorse finanziarie, sull'individuazione delle priorità e sulla destinazione delle poche risorse finanziarie disponibili.
Sono, quindi, trascurati tutti gli aspetti di tipo normativo e gestionale che possono produrre risultati molto positivi con il buongoverno, senza che questo necessariamente sottenda spesa. La gestione delle risorse - in termini quantitativi di soluzione dei conflitti d'uso, di soddisfacimento dei bisogni prioritari e così via - passa per questa strada.
Questo mi dà l'opportunità di collegare il problema del settore dei bacini idrografici


Pag. 15

con quello dei servizi idrici. I piani degli ambiti territoriali e ottimali sono liste della spesa, non sono piani. L'attenzione è concentrata unicamente sulla realizzazione di opere e sui finanziamenti.
Tra i tanti, riporto un esempio che - a mio avviso - è il più importante di tutti. Si dice che le perdite negli acquedotti siano altissime. Ho sempre detto, e sono in condizione di dimostrare, che i numeri sono gonfiati ad arte perché, per troppo tempo, nella scelta della destinazione delle risorse pubbliche - parlo, in particolare, dei Programmi operativi regionali (POR) e del fondo aree sottoutilizzate (FAS) - il livello delle perdite è stato considerato come un elemento prioritario per la destinazione delle risorse. Era logico, quindi, che chi presentava le richieste gonfiasse i numeri.
Stiamo cercando di capire come siano state utilizzate le cospicue risorse finanziarie date agli ambiti e ai gestori per contenere le perdite. Parliamo, ormai, di un periodo di più di dieci anni e i livelli delle perdite sono sempre gli stessi o aumentano.
Si verifica dunque che, se un organo di governo, prende provvedimenti e spende per aumentare la fornitura d'acqua al sistema acquedottistico sa, dal giorno in cui decide, che la metà di questo sforzo finirà nel nulla perché c'è il 50 per cento di perdite.
Invece di concentrare l'attenzione, con i controlli dovuti, sulla verifica dei finanziamenti accordati, per vedere cosa è stato fatto per contenere le perdite, si fanno programmi di emergenza o si destinano risorse ad aumentare le disponibilità a monte, sapendo che il 50 per cento di questo aumento di disponibilità, teoricamente, andrà disperso.
Non c'è dubbio che tutti i problemi che l'onorevole Nucara ha indicato, compresa la subsidenza, siano toccati da questo aspetto; e che gli sbarramenti di quota, in alcune circostanze, hanno addirittura influito sulle intensità delle piene, perché lo svasamento degli invasi ha aumentato, a valle, la portata dei corsi d'acqua e l'intensità e la gravità delle piene. I problemi sono tantissimi.
Questo insieme di problemi - sui quali rispondo troppo sbrigativamente e me ne scuso - si collega al discorso delle priorità di indirizzo nella destinazione delle risorse.
Se si calcola il bilancio complessivo delle risorse necessarie e se ne individua la fonte - ossia quanto viene dal pubblico e quanto da tutti gli altri soggetti - si nota facilmente che la percentuale di contributo del pubblico è molto piccola.
Gli altri Paesi - ai quali potremmo riferirci per migliorare l'efficienza dell'uso di queste risorse - invece di finanziare interventi particolari, premiano i comportamenti virtuosi.
Se si cambiasse indirizzo e si uscisse dalla guerra delle liste delle priorità, in cui ognuno (le regioni, i comuni, il mondo dell'agricoltura, i produttori idroelettrici, l'amministrazione centrale e così via) ha la propria priorità; se i pochi soldi disponibili venissero utilizzati - come si fa benissimo in Francia - per premiare i comportamenti virtuosi, nel senso che i pochi soldi disponibili vengono dati a chi osserva le norme, a chi investe in modo corretto, sicuramente si produrrebbero degli effetti straordinariamente positivi. Il bilancio costi-benefici sarebbe positivo.
Quando, invece, i pochi soldi vengono destinati a costruire opere, il bilancio è negativo, soprattutto quando essi vengono utilizzati per ricostruire opere che non sarebbero dovute essere là dove sono state demolite dalle piene.
Il risarcimento del danno e, addirittura, la costruzione dell'opera incompatibile con la naturale evoluzione delle piene, infatti, sono un incentivo formidabile ai comportamenti viziosi e un disincentivo a quelli virtuosi.
Mi rendo conto di dire quasi una banalità, tuttavia le realtà importanti sono sempre determinate da fattori semplici e, di solito, le cose semplici non sono stupide ma sono serie. I danni più gravi si fanno quando non si rispettano le cose semplici, non quelle complesse o cervellotiche.


Pag. 16


Non sono dell'idea che l'organizzazioni istituzionale crei conflitti. Ribadisco, infatti, che la situazione dei comitati istituzionali, così com'erano pensati alla fine degli anni '90, era soddisfacente.
Sono stati compiuti dei passi indietro quando il comitato istituzionale, invece di essere l'organo politico di collaborazione tra Stato ed ente regionale, è stato svuotato del suo significato politico e considerato una seccatura da chi l'avrebbe dovuto valorizzare, per cui, ad esempio, ci sono casi in cui si sono tenuti cinque comitati istituzionali in un'ora e mezza.
Se l'enfasi si concentra sull'aspetto tecnico burocratico, il sistema non funziona. Se poi il comitato istituzionale è gonfiato, se, cioè, ha una composizione che crea negli enti locali il giusto sospetto che ci sia una maggioranza precostituita a livello dello Stato, e così via, allora è inevitabile che le cose prendono un indirizzo sbagliato.

PRESIDENTE. A nome dell'intera Commissione, ringrazio il professor Passino per la disponibilità che ha dimostrato e per la puntualità delle risposte che ci ha fornito.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 11,25.

Consulta resoconti delle indagini conoscitive
Consulta gli elenchi delle indagini conoscitive