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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione XI
21.
Mercoledì 18 febbraio 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Saglia Stefano, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULL'ASSETTO DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI E SULLE PROSPETTIVE DI RIFORMA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

Audizione di rappresentanti della UIL:

Saglia Stefano, Presidente ... 3 7 10 14
Angeletti Luigi, Segretario generale della UIL ... 3 10 11
Bobba Luigi (PD) ... 8
Cazzola Giuliano (PdL) ... 9 11
Damiano Cesare (PD) ... 8
Fedriga Massimiliano (LNP) ... 7
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-Repubblicani: Misto-LD-R.

COMMISSIONE XI
LAVORO PUBBLICO E PRIVATO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 18 febbraio 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE STEFANO SAGLIA

La seduta comincia alle 14,30.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti della UIL.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'assetto delle relazioni industriali e sulle prospettive di riforma della contrattazione collettiva, l'audizione di rappresentanti della UIL.
Come ripeto sempre, soprattutto a beneficio dei soggetti auditi, la Commissione ha ritenuto di prorogare per breve tempo la propria indagine conoscitiva, proprio alla luce dell'accordo quadro che è stato firmato a Palazzo Chigi.
Quindi, essa è interessata a conoscere, all'indomani della firma di tale accordo, quale sarà l'evoluzione delle relazioni industriali nel nostro Paese e qual è, ovviamente, l'opinione dei soggetti auditi in materia.
Abbiamo già audito, anche in questa seconda fase dei nostri lavori, i rappresentanti di Confapi e Confindustria, quindi ci apprestiamo ad ascoltare la posizione della UIL.
Ringrazio in particolare il segretario Angeletti che ha ritenuto di essere presente personalmente. Lo accompagnano i suoi collaboratori, Antonio Messia e Antonio Passaro.
Do la parola a Luigi Angeletti, segretario generale della UIL.

LUIGI ANGELETTI, Segretario generale della UIL. Ringrazio la Commissione e il suo presidente per questa opportunità.
Cercherò di illustrare rapidamente le ragioni che hanno spinto la UIL, insieme alla CISL e alla CGIL, a preparare, lo scorso anno, una piattaforma per definire un nuovo modello contrattuale e i motivi per i quali abbiamo sottoscritto l'accordo.
Il primo motivo riguarda la nostra necessità di definire un accordo con le controparti relativamente a un sistema di contrattazione basato su due livelli: un contratto nazionale e una contrattazione di secondo livello. Questa configurazione del modello contrattuale è per noi molto importante e non scontata.
Il Paese è attraversato da molti anni da un dibattito relativo alla necessità o all'opportunità di avere più di un livello di contrattazione.
Parliamo di un modello che ha rari riscontri nel mondo, nel senso che negli altri Paesi, anche europei, esistono modelli di contrattazione che prevedono solo la contrattazione aziendale o solo i contratti nazionali.
Riteniamo importante che sia codificato, accettato e convenuto il fatto che ci siano due livelli di contrattazione, perché la nostra realtà produttiva è significativamente differente da quella di altri Paesi.


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Inoltre, a nostro avviso, né il contratto nazionale da solo, né la contrattazione aziendale da sola potrebbe essere strumenti congrui per definire i rapporti di lavoro e, soprattutto, gli andamenti delle retribuzioni.
Il secondo motivo per cui abbiamo deciso di sottoscrivere l'accordo in questione riguarda gli obiettivi del nuovo modello contrattuale che non sono solo dichiarati, ma che consideriamo quasi oggettivi, anche se la fase nella quale viviamo sembrerebbe contraddirli. Penso in particolare a uno scopo, quello di cambiare il sistema di distribuzione della ricchezza del nostro Paese che, al di là dei giudizi politici o sociali, consideriamo inefficace.
Una distribuzione della ricchezza che non premi in maniera adeguata il lavoro tende a ridurre la capacità di consumo e di produzione di un Paese. La distribuzione della ricchezza è uno dei fattori fondamentali per la crescita complessiva dell'economia.
La ricchezza di un Paese e dei ceti sociali non può crescere - non è mai avvenuto in nessun Paese e in nessuna epoca - in maniera omogenea. Non esistono esperienze storiche delle società o delle economie organizzate in cui la crescita dell'economia sia omogenea, neanche nei sistemi pianificati questo riesce o riusciva.
La crescita dell'economia è di per sé graduale, disomogenea e strettamente collegata alla possibilità di incrementare la produttività, di occupare nuove porzioni di mercato, processo, che, come è noto, non è obiettivamente omogeneo. Se si trascura questo aspetto, il risultato tende ad essere una compressione delle retribuzioni tendenzialmente al livello più basso.
Quindi, un modello contrattuale pensato per accrescere potenzialmente, nel corso degli anni, il reddito reale di quote sempre crescenti di lavoratori dipendenti - e non solo per tutelare le retribuzioni dall'aumento dei prezzi - non può che basarsi su un efficace sistema di contrattazione di secondo livello.
La contrattazione di secondo livello, per la natura e la struttura della nostra economia, non può risolversi semplicemente nella contrattazione aziendale, perché il nostro Paese ha il record mondiale di piccole e piccolissime imprese, in cui la contrattazione aziendale è fisicamente, non politicamente, impossibile.
Se vi sono centinaia di migliaia di imprese che hanno un certo numero di dipendenti, è impossibile procedere in questo senso. Quindi, bisogna spingere - questa è la nostra impostazione - verso forme di contrattazione di secondo livello, che siano anche territoriali.
Le nostre controparti, su questo tema, hanno una posizione difforme. Alcune associazioni di imprese già ritengono prassi la contrattazione territoriale; mentre altre sono ostili all'idea di procedere a tale tipo di contrattazione.
Quindi, abbiamo una situazione molto variegata. Il compromesso raggiunto è stato quello, da una parte, di confermare la contrattazione aziendale e territoriale laddove si fa; dall'altra parte, l'unica carta che potevamo avere era quella di incentivarla, ossia di rendere potenzialmente conveniente la contrattazione di secondo livello, creando un reciproco vantaggio (sia per i lavoratori, che per i datori di lavoro), attraverso una riduzione significativa del carico fiscale sugli aumenti contrattuali realizzati nella contrattazione di secondo livello.
Ho già spiegato il motivo per cui non è stato possibile stipulare un accordo perentorio sull'allargamento della contrattazione territoriale. Credo che non si possa imporre per legge, né con nessun altro sistema, a un'impresa o a un sistema di impresa di negoziare, quindi bisogna incentivare questo aspetto.
Da questo punto di vista, è molto importante ciò che fa il Parlamento. La tassazione, infatti, è ovviamente prerogativa del Parlamento e non delle parti sociali. Tuttavia, il contributo positivo che il Parlamento può dare è quello di sostenere la contrattazione di secondo livello con un sistema di incentivi fiscali che renda più conveniente questo scambio a livello territoriale o aziendale.


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Siamo profondamente convinti del fatto che il futuro sia concentrato sul binomio - che riporto come fosse uno slogan - legato alla necessità di uscire dalla trappola, nella quale l'economia italiana è caduta negli anni Novanta, di bassa produttività e bassi salari - o, per dirla come un sindacalista, di bassi salari e bassa produttività - che ha caratterizzato almeno gli ultimi dieci anni, o anche più, della nostra economia e vita sociale.
Abbiamo i tassi di incremento della produttività e i salari - ovviamente in proporzione al reddito pro capite - più bassi di tutta Europa.
Ovviamente, il modello contrattuale non è la soluzione del problema - sarebbe troppo bello e semplicistico -, ma può favorire un'evoluzione in questo senso. Questo è stato il motivo per cui abbiamo stipulato l'intesa.
Come dicevo in precedenza, abbiamo sottoscritto un accordo legato a un modo diverso di definire i contratti nazionali, soprattutto per quanto riguarda la parte salariale, superando l'idea dell'inflazione programmata che, per quanto riguarda la UIL, ha avuto un merito eccezionale. A mio parere, è stata un'intuizione e una scelta fondamentale per questo Paese negli anni Novanta, ma dal 1996 doveva essere superata.
Non a caso, gli stessi autori di quell'accordo avevano posto la previsione di verificare e modificare quell'accordo (si fece un tentativo nel 1998, che naufragò).
Ad ogni modo, tutto ciò testimonia il fatto che il concetto di inflazione programmata e la decisione di legare a essa i salari nazionali è un'ottima soluzione in un'economia che si deve disinflazionare. Diversamente, in una economia in cui i tassi di inflazione sono stabili, o leggermente crescenti, è chiaro che essa è una trappola che produce un solo risultato.
L'inflazione programmata di per sé deve tendere a essere leggermente più bassa di quella che realisticamente avverrà, proprio perché il suo obiettivo è quello di disinflazionare.
In Italia è accaduta una circostanza molto semplice. Le autorità pubbliche hanno perso gran parte della loro influenza sul controllo dei prezzi pubblici e delle tariffe, per effetto dei processi di liberalizzazione, quindi in realtà, negli ultimi anni, tale meccanismo consisteva solo in una programmazione dei salari e non in una politica dei redditi.
L'inflazione programmata serviva banalmente a stabilire quali fossero le possibili rivendicazioni salariali e, non a caso, è stata frutto di grandi conflitti sociali.
Ho seguito personalmente molti contratti in categorie importanti come quella dei metalmeccanici e posso dire che, a partire dal 1996, i rinnovi contrattuali sono sempre stati molto sofferti, proprio nell'interpretazione e applicazione del rapporto tra inflazione programmata e reale.
L'idea era quella di passare a un sistema che legasse le rivendicazioni a una previsione di inflazione realistica. Purtroppo, si possono fare solo delle previsioni, perché, essendo le piattaforme a valere per gli anni successivi, nel momento in cui le si costruiscono, si deve avere un'idea di quale realisticamente può essere l'inflazione degli anni successivi. Quindi, avevamo bisogno di convenire con le controparti questo meccanismo.
Del resto, un soggetto può definire da solo l'inflazione nel 2009, nel 2010 e nel 2011, salvo il fatto che, dovendo stipulare un accordo, bisognerebbe cercare di ridurre il più possibile il conflitto e di limitarlo agli aspetti essenziali.
Ecco da dove derivò l'idea di creare un indice che prevedesse realisticamente, scientificamente - nei limiti in cui è possibile fare delle previsioni scientifiche - l'inflazione per i tre anni successivi.
Abbiamo cercato di vedere se in Europa si potessero utilizzare degli indici a questo scopo. Ne esiste solo uno della Commissione, che ha però un limite, vale a dire che fa previsioni solo per diciotto mesi. Credo che la prossima primavera uscirà questa previsione di inflazione, in Eurolandia e nei singoli Paesi, che però vale solo per due anni. Quindi, avendo scelto un periodo di vigenza triennale, non potevamo utilizzarlo.


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Abbiamo discusso a lungo con la Confindustria, per capire come risolvere questo problema, arrivando anche a pensare di farlo in via pattizia (visto che l'indice copre un arco di tempo di due anni, abbiamo immaginato di trovare una soluzione pattizia per il terzo anno). Tuttavia, sarebbe stato possibile agire in questo modo solo all'interno di un'idea corporativa del rapporto; vale a dire solo se si fosse trattato di un puro e semplice contratto che poteva essere negoziato.
Invece, dovendo predisporre un sistema universale, che tendenzialmente valesse per tutti - come poi si è realizzato, per il pubblico, il privato e per tutta la tipologia dei contratti nella pubblica amministrazione, nell'industria, nei servizi, nel terziario e ovunque -, chiaramente avevamo bisogno di un indice che fosse il più possibile oggettivo.
Quindi, si è deciso di affidare a un ente - che ancora non abbiamo individuato -, che avesse delle caratteristiche non solo di neutralità, ma soprattutto di scientificità del suo operato, il compito di fare una previsione sull'inflazione dei prossimi tre anni, in modo tale da rendere coerente l'obiettivo che ho cercato di delineare all'inizio: un contratto nazionale che tendenzialmente salvaguardi il potere d'acquisto di tutti i lavoratori italiani, in tutti i settori, ovunque essi lavorino, e una contrattazione di secondo livello che ha, invece, l'obiettivo di accrescere la retribuzione, oltre alla pura e semplice salvaguardia del potere d'acquisto.
L'ultimo elemento che vorrei sollevare è molto più politico, ma per noi, come sindacato, non è marginale. Nel modello contrattuale, abbiamo cercato di allargare ed estendere, per renderlo più efficace, un sistema di partecipazione basato sulla creazione degli enti bilaterali che esistono già da molti anni in alcuni settori. Credo che tutti voi lo sappiate, quindi non c'è bisogno di dare grandi spiegazioni in proposito.
Questo sistema è molto utile, soprattutto per sopperire, in un Paese come il nostro, a due fenomeni che non so se definire patologie, limiti o specificità - ognuno scelga il termine che preferisce -, dovuti al fatto di avere un sistema di protezione sociale non omogeneo, non universale e, nel contempo, realtà produttive molto differenziate dal punto di vista quantitativo.
Infatti, in alcune aziende è possibile affrontare non solo i problemi relativi alle modalità con le quali si interviene quando si perde il posto di lavoro, ma anche questioni come quella dell'assistenza sanitaria. Abbiamo stipulato moltissimi accordi in questo senso. In molte imprese, in molti settori vi è un'assistenza sanitaria integrativa.
Esiste un sistema di tutela dei lavoratori che non può essere realizzato, se non attraverso enti bilaterali che vedano convergere sia le iniziative, sia le risorse, sia la volontà delle imprese e dei lavoratori.
Occorre dunque cercare di estendere questo sistema di partecipazione anche a settori diffusi sul territorio, dove la protezione azienda per azienda è praticamente impossibile.
Non a caso, in settori come quello dell'edilizia, che ha determinate caratteristiche - i cantieri sono diffusi, sono piccoli, si aprono e si chiudono, non è come la FIAT che esiste da cento anni e che speriamo di avere ancora per i prossimi cento -, un sistema di protezione non è possibile, se non attraverso un accordo tra le associazioni di imprese e dei lavoratori, proprio per sopperire a questa condizione materiale delle persone.
Pertanto, abbiamo cercato di implementare questa idea che storicamente ha funzionato, che a mio avviso è positiva e che tende ad aumentare la coesione, oltre che la protezione delle persone.
Aggiungo, inoltre, che in una fase difficile come quella che stiamo attraversando probabilmente l'idea di aumentare la coesione è molto utile e positiva anche per superare la crisi.
Queste sono le ragioni che ci hanno spinto a perseverare nell'obiettivo di cambiare l'accordo del 1993. Lo dico, perché per noi sono passati anni. Addirittura,


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abbiamo posto il problema di modificare il modello contrattuale in due diversi congressi.
In seguito, molti nostri amici e compagni si sono convinti della bontà di tale azione. Conoscete la storia, quindi sapete che sono almeno quattro anni che proviamo a procedere in questa direzione più o meno inutilmente.
Adesso abbiamo raggiunto il traguardo e siamo convinti che, predisposto questo accordo generale, si debba procedere all'individuazione dell'istituto che si occupa dell'indice previsionale e a formalizzare l'accordo vero e proprio con la Confindustria e con le altre associazioni di impresa.
Come sapete, infatti, non si è trattato di un accordo con tanto di firma, ma il testo è stato condiviso nelle sue linee guida, che sono state poi raccolte in un accordo generale che però deve essere implementato e diffuso.
Ovviamente, abbiamo un problema di tempi, perché il contratto delle telecomunicazioni è scaduto a gennaio e a maggio scadrà quello degli alimentaristi.
Poiché non abbiamo intenzione di applicare alcuna moratoria e vorremmo stipulare i contratti anche nel 2009, abbiamo l'urgenza di rendere applicabile quell'accordo.
Spero di aver reso comprensibili le nostre ragioni. Non credo di dover aggiungere altro.
Non so se l'argomento dell'audizione riguarda anche la questione dello sciopero nei servizi pubblici. In tal caso, sarei ovviamente disponibile a dare la mia opinione anche su questo tema.

PRESIDENTE. Voglio porre una domanda che mi viene spontanea, rispetto ad alcune considerazioni.
Abbiamo ragionato con tutte le parti, anche a proposito di quale dovrebbe essere il soggetto preposto a stabilire l'indice previsionale che va a sostituire l'inflazione programmata.
Personalmente, il primo ente che mi è venuto in mente è stato la Banca d'Italia. Tuttavia, ho notato che non è una soluzione particolarmente condivisa. Il CNEL poteva essere un'altra soluzione; oppure si poteva pensare di costituire un'autorità ad hoc.
Tra le ipotesi che ho formulato - o se ne esiste una quarta -, vorrei sapere quale secondo voi è più praticabile, per individuare un soggetto che abbia le caratteristiche di autonomia e indipendenza per l'indicazione di questo valore particolarmente importante per la contrattazione.
Do ora la parola ai deputati che intendono porre quesiti o formulare osservazioni.

MASSIMILIANO FEDRIGA. Signor Presidente, voglio rubare pochissimi minuti, per svolgere delle considerazioni.
Ringrazio il segretario generale per essere riuscito, in un periodo di crisi - una crisi economica che comporta una crisi occupazionale - per il Paese, ad avere il senso di responsabilità che dimostra un Paese maturo. Lo stesso posso dire delle tre principali sigle firmatarie dell'accordo quadro e dei rappresentanti delle proprietà aziendali.
Detto questo, vedo positivamente anche quanto affermato per la contrattazione di secondo livello da un punto di vista territoriale. Infatti, se è vero, come si è detto, che le aziende più grandi possono avere una contrattazione aziendale, nel tessuto economico del nord-est diventerebbe difficile stipulare un accordo azienda per azienda.
In quel contesto, invece, un accordo territoriale avrebbe un senso, prima di tutto, per dare un incentivo alla produttività e, in secondo luogo, per quello che sosteniamo da diversi anni, ossia per cercare di ridare equilibrio e giustizia, anche salariale, all'interno del nostro Paese, dove esistono situazioni molto variegate, per cui parità di stipendio non significa parità di potere d'acquisto.
Dunque, è chiaro che, nella contrattazione territoriale, dal mio punto di vista, si dovrà tenere conto anche del potere d'acquisto delle persone coinvolte in quel tipo di contrattazione.
Vorrei sottolineare che la parità di salario può assumere un valore molto


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diverso, perché se i beni alimentari, gli affitti, i vestiti costano di più, è chiaro che il salario vale molto meno, rispetto a quello di chi, invece, può avere a disposizione tali beni ad un costo più basso.
Quindi, credo che il parametro di valutazione debba essere appunto il potere d'acquisto. Dico questo, soprattutto per quanto riguarda il comparto del pubblico impiego che, in realtà, in questa situazione ha avuto difficoltà a trovare un'evoluzione che vada in questa direzione.
Vorrei capire, dunque, se si potrà finalmente arrivare - come si auspica da tanti anni - a una reale contrattazione basata, lo ripeto, oltre che sulla produttività, che riteniamo di primaria importanza per sviluppare il Paese, anche su un reale potere d'acquisto dei dipendenti coinvolti.

LUIGI BOBBA. Vorrei porre tre rapidissime domande. La prima è la seguente. Il segretario Angeletti ha parlato dell'istituto che dovrebbe presiedere alla delineazione dell'indice previsionale.
Ieri ne ha parlato anche il dottor Bombassei che, ad una domanda precisa, ha risposto che non pensava alla creazione di un nuovo istituto per svolgere questo compito, ma piuttosto a delle strutture o a dei soggetti già esistenti, perché, a suo parere, ce ne sono fin troppi.
Mi sembra di capire che, invece, nella sua impostazione - le do del lei anche se ci conosciamo per ragioni istituzionali -, lei preferisca la creazione di un'agenzia apposita che presìdi a questo compito particolarmente importante e delicato.
La seconda questione che vorrei trattare riguarda i contratti in scadenza da lei citati. Chiedo dunque come vi comporterete nei confronti della CGIL, considerando che questi contratti non scadono fra due anni, ma fra due mesi, nella complessiva applicazione di questo accordo.
Infine, se c'è tempo, le chiedo di spendere una parola sullo sciopero nei servizi pubblici.

CESARE DAMIANO. Il tempo a disposizione è breve. Mi rivolgo anche io al segretario generale dando del lei come si conviene, pur avendo frequentato per lungo tempo le stesse stanze.
Le mie domande sono le stesse che ho già rivolto nelle sedute precedenti agli altri auditi.
Ci troviamo di fronte ad un accordo quadro. I tempi per l'applicazione sono brevi, tant'è che alcuni contratti sono scaduti e dovrebbero recepire il nuovo modello.
Lei pensa che un accordo non firmato dalla CGIL, dal maggior sindacato - non parlo di accordo separato - possa favorire o allontanare la definizione di queste regole?
In primo luogo, si tratterà di stipulare gli accordi interconfederali e poi quelli di contratto. È evidente che, se in partenza non vi è una regola condivisa, la traduzione dell'accordo sarà molto difficile. Lo è già stata al tempo dell'accordo del 1993 che era condiviso. Non si corre il rischio che una buona intenzione - do per scontato che chi firma o non firma lo faccia pensando di rappresentare al meglio i propri associati e i lavoratori, nel caso dei sindacati i lavoratori - possa creare invece un conflitto?
In secondo luogo, so quanto la UIL sia legata al tema del salario. È sempre stata un'organizzazione molto portata a identificare nella richiesta salariale un tratto del suo profilo di sindacato.
Segretario Angeletti, lei pensa che questo nuovo indice previsionale porterà a un risultato migliore dell'inflazione programmata? Non si corre il rischio che vi sia qualcosa di più o qualcosa di meno, nel medio e lungo periodo, nel momento in cui si depura l'indice dall'energia importata?
La terza domanda è la seguente. Bisogna incentivare la contrattazione di secondo livello. Sono pienamente d'accordo in questo. Quando ero ministro del lavoro l'ho fatto. Non pensa che ci sia una contraddizione con la scelta di questo Governo di incentivare non solo la contrattazione di secondo livello, ma anche le erogazioni unilaterali delle imprese? Come pensate di intervenire nel momento dell'applicazione?


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Mi risulta che Della Valle non sia favorevole al sindacato e che le sue erogazioni siano per diminuire il potere di contrattazione, salvo poi riservarsi di ritirare quei soldi dati unilateralmente sulla busta paga. Crede che questo sia giusto o controproducente rispetto all'accordo che avete siglato?
Vengo ora alla quarta domanda che è legata al valore-punto. Alcune categorie, come quelle dei metalmeccanici, lo adottano. Si va verso un valore-punto medio, oppure pensate che ogni categoria avrà il suo valore-punto, un abito su misura che considera anche i livelli stipendiali e le medie di distribuzione delle qualifiche?
La quinta domanda riguarda le deroghe. Alcuni contratti contengono deroghe, come quello dei chimici e quello dei tessili (i tessili per il salario, i chimici per l'orario e per il salario).
Quando nell'accordo si parla di deroghe salariali e normative, si pensa di derogare su tutto oppure di vincolare tali deroghe nei contratti e soprattutto di sottoporle al giudizio di unanimità dei contraenti, per poterle effettuare?
Questo mi sembra un punto di chiarimento molto importante.
Passo ora all'ultima questione. Si parla di un modello unificato - idea che condivido - tra pubblico e privato. Tuttavia, poiché il Governo ha insistito per inserire nell'accordo anche la parte relativa al pubblico impiego, per la quale è previsto un recupero dello scostamento tra inflazione reale e previsionale nel triennio successivo, non si corre il rischio di avere dei modelli difformi? Nel privato il recupero è nel triennio; mentre nel pubblico è nel triennio successivo.
Come vede, ho formulato semplicemente delle domande. Non entro nel merito politico della questione, perché, come ho detto all'inizio, siamo di fronte a delle decisioni autonome delle singole organizzazioni che, chiaramente, hanno inteso perseguire, nella firma o meno, il proprio scopo.

GIULIANO CAZZOLA. Segretario Angeletti, anche io le do del lei, ma dal momento che è già stato spiegato il motivo di tale scelta, mi risparmio di ripeterlo. Tuttavia, volevo porle alcune domande per avere dei chiarimenti.
Se ho capito bene, all'inizio del suo intervento lei ha espresso un giudizio molto positivo sulla scelta del 1993, che ha largamente contribuito al bene del Paese, a stabilizzare i prezzi, a consentire all'Italia di entrare nell'euro e via di questo passo. Il modello del 1993 si basava sull'individuazione dell'inflazione programmata come punto di riferimento della prima fase della contrattazione nazionale.
L'inflazione programmata, come ha ricordato ieri il vicepresidente Bombassei, non corrispondeva all'inflazione prevista, ma rappresentava un punto di riferimento, posto in sede politica, per contenere l'evoluzione dell'inflazione stessa.
Seguiva poi il secondo livello biennale, dove si dovevano sostanzialmente conguagliare i salari contrattati all'inizio, nella prima fase della contrattazione, tenendo conto - mi sembra che questa fossero le parole contenute nel protocollo del 1993 - dell'inflazione reale, al netto anche dell'inflazione importata.
Quindi, parliamo di un modello che ha retto. Ricordiamo, per esempio, che c'è sempre stata una capacità delle parti sociali di aggiustare questo modello, tranne in alcuni casi. Salvo che in alcune categorie, infatti, la contrattazione collettiva, soprattutto nel settore privato, è diventata, dal 1993 ad oggi, un fattore fisiologico, senza nemmeno che ci fosse l'esigenza di ricorrere a massicce forme di lotta, scioperi e via elencando.
Successivamente, la situazione è cambiata. Senza dubbio, sono intervenute una serie di altre valutazioni e di altri fattori. L'inflazione non è stata più vista come l'obiettivo principale con cui misurarsi e, per anni, come lei ricordava, si è parlato di una revisione di questo meccanismo.
Tuttavia, voglio tornare al 2008 e al dibattito che si è sviluppato in quell'anno fra maggioranza e opposizione, quando abbiamo dovuto affrontare il DPEF,


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quando nel Paese anche il sindacato ha sostenuto le sue posizioni nei confronti del Governo.
Le considerazioni che si svolgevano erano le seguenti. Se non ricordo male, il Governo ha fissato l'inflazione programmata all'1,7 per cento nel 2008 - nel 2009 era dell'1,5 per cento -, a fronte dell'inflazione reale del 3,7 per cento.
Se avessimo stipulato i contratti sulla base di un dato vicino all'inflazione reale, avremmo causato un danno al Paese, perché sostanzialmente avremmo diffuso un'inflazione che, alla prova dei fatti, non c'è stata. Nel 2008, infatti - se ricordo bene -, il Paese chiude con un saggio di inflazione che si aggira intorno al 2,2 per cento.
Adesso non sono in grado di sapere qual è stato il saggio medio di inflazione del 2008, ma mi pare che sia certo e assodato che, se avessimo preso come punto di riferimento l'inflazione reale che c'era all'inizio del 2008 avremmo semplicemente compiuto un'operazione di distribuzione dell'inflazione e, alla fine, avremmo avuto a che fare con un'inflazione ben più elevata di quella che invece ci siamo trovati, per una serie di circostanze non sempre positive, quali la recessione, il calo dei prodotti petroliferi e via elencando.
L'agganciarsi ad un meccanismo una tantum, fisso in qualche modo, di inflazione su cui rinnovare i contratti collettivi, alla luce delle esperienze del 2008 che citavo, non può essere un elemento che garantisce meno del meccanismo di rapporto tra inflazione programmata e inflazione reale, di cui all'accordo del 1993?
Non può essere un elemento che finisce per agganciarsi magari a un livello di inflazione che poi viene clamorosamente smentito con il passare dei mesi? Quindi, sostanzialmente si potrebbe realizzare un'operazione inflazionistica con gli stessi rinnovi contrattuali.
Sull'altro argomento in questione la mia domanda è molto breve, ne ha già parlato l'onorevole Damiano. Ieri, il vicepresidente Bombassei ci ha preannunciato che, nella fase in cui si andranno a negoziare gli accordi interconfederali, sarà coinvolta anche la CGIL.
La mia domanda è se lei ritiene che in questa seconda fase, che si può definire come una situazione più specifica di settore e di categoria, può essere recuperato un rapporto con la CGIL.

PRESIDENTE. Do la parola al nostro ospite per la replica.

LUIGI ANGELETTI, Segretario generale della UIL. Cercherò di andare per ordine.
Per quanto riguarda il problema dell'istituto, abbiamo cercato di contattare informalmente la Banca d'Italia e l'ISTAT, che erano i due istituti più autorevoli in termini di definizione dello stato dell'economia, e abbiamo ricevuto delle cortesi risposte negative.
Da una parte, si riteneva che quello non fosse compito della Banca d'Italia, e forse - ma questa è una supposizione - c'era anche una valutazione politica nel prendere tale posizione; mentre l'ISTAT ha affermato che fare previsioni non rientrava nelle sue prerogative. Non sono organizzati per fare delle previsioni, ma solo per rilevare ciò che è già avvenuto.
Quindi, la ricerca è stata fatta in tutte le direzioni, non tanto pensando di inventare un nuovo ente o un nuovo istituto per svolgere tale funzione, perché sarebbe molto costoso, complesso e di esito incerto, quanto piuttosto cercando tra coloro che oggi sono nelle condizioni di assumersi il compito di fare delle previsioni scientificamente abbastanza affidabili.
Non lo abbiamo trovato. Nel momento in cui parlo non c'è ancora una indicazione precisa. Nei prossimi giorni, dovremo riunirci con tutti coloro che hanno firmato l'accordo, per individuare l'istituto preposto all'individuazione dell'indice.
Siamo coscienti dell'importanza di questa scelta, pensiamo che le caratteristiche che l'ente scelto debba avere siano quelle dell'attendibilità scientifica, della neutralità e di non avere in sé dei conflitti di interesse. Non so dire null'altro in proposito.


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Ad ogni modo, quelli elencati sono i criteri sulla base dei quali stiamo cercando di individuare un istituto che si occupi di indicare l'indice previsionale.
Visto che stiamo parlando dell'istituto che dovrebbe determinare gli indici, rispondo anche alle domande relative all'indice stesso. Penso di dare una risposta sia alla domanda dell'onorevole Damiano, sia a quella che verteva sul rapporto tra l'inflazione programmata, l'indice previsionale e gli effetti di incorporare o meno l'inflazione, ossia di creare una specie di scala mobile molto più pesante di quella che abbiamo storicamente conosciuto.
Abbiamo stipulato un accordo di sistema, non un contratto nazionale. Quindi, se si ha l'idea che nei prossimi cinque anni l'economia europea - e di conseguenza anche la nostra - sia in una situazione prevalentemente di depressione economica, allora ha ragione chi sostiene che l'inflazione programmata sia meglio dell'indice.
Infatti, forse già nel 2009 l'inflazione programmata potrebbe essere superiore all'inflazione reale. Nessuno sa quale sarà l'inflazione nel 2009, ma potrebbe scendere addirittura sotto l'1,5 per cento. Non so se bisogna augurarselo o meno, ma potrebbe avvenire.
In una situazione normale - come era quella che abbiamo analizzato, quando abbiamo discusso di questa riforma, e alla quale tutti ci auguriamo che si ritorni rapidamente -, è indubbio che l'inflazione, in Europa e in Italia, non sarà in discesa rispetto ai dati attuali, ma potrà essere stabile o leggermente in aumento. In questo caso, è evidente che l'indice tende a registrare l'inflazione reale per quello che è.
L'inflazione programmata è una scelta politica e, oggettivamente, non può che tendere a essere più bassa di quella reale. Altrimenti, che senso avrebbe?
L'operazione ha un senso, quando tende a disinflazionare l'economia. Da questo punto di vista, dunque, l'indice è migliore dell'inflazione programmata, almeno per la parte che noi rappresentiamo.
La seconda valutazione riguarda la questione relativa all'opportunità di togliere l'inflazione prodotta dall'aumento dell'energia, che è stato anche un elemento di grande discussione dentro il sindacato, come credo che vi sia noto.
Teoricamente, avevamo due scelte. La prima era quella di fare una scala mobile.
Infatti, una volta che si stringe un accordo con le aziende, con il sistema delle imprese, secondo cui si paga sulla base di un indice, è ovvio che si crea una forma di scala mobile. Non c'è neanche bisogno di una legge.
Solo lo Stato può decidere di non pagare i propri dipendenti, perché è il Parlamento che stanzia i soldi o meno, ma è chiaro che se le imprese private stabiliscono di pagare sulla base di un indice, che misura un dato valore, si crea una forma di scala mobile.

GIULIANO CAZZOLA. Segretario, se permette, nel pacchetto dei beni che costituivano il riferimento alla scala mobile, i prodotti legati al petrolio avevano un valore corrispondente alla metà. Quindi, se ne teneva conto anche allora.

LUIGI ANGELETTI, Segretario generale della UIL. Infatti, ho detto che è una specie.
D'altra parte, ci è stato giustamente fatto notare che ciò da cui bisognava proteggersi era lo shock prodotto sull'inflazione da un aumento non normale dei prezzi del petrolio, come è avvenuto nel 2007 e nel 2008.
Quindi, in realtà, abbiamo deciso di stabilizzare l'inflazione importata, definendo un costo standard del petrolio, evitando che esso potesse oscillare e avere tutte le ripercussioni sul sistema economico, importando inflazione e addirittura allargandola. Questa è stata la scelta.
All'epoca, quando abbiamo svolto questa discussione, il prezzo del petrolio stava a 130 dollari al barile. Se avessimo firmato in quel momento, avremmo stabilito il prezzo del petrolio tra i 90 e i 100 dollari. Quello era il prezzo del petrolio che veniva considerato non importato. Sopra quella


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soglia non sarebbe stato conteggiato e sotto quella soglia, ovviamente, sarebbe andato a vantaggio dei salari.
Per rispondere a questa domanda, dunque, dico che a nostro parere ciò da cui bisogna proteggersi sono gli shock, ossia gli incrementi improvvisi del prezzo dell'energia, frutto di vari motivi che non sono l'andamento dell'economia o il consumo dell'energia, ma che sono normalmente di carattere politico.
Per questo, pensiamo che l'accordo in questione migliori quello del 1993. Inoltre, in un'economia normale, il risultato per i lavoratori sarà superiore di quello che era prevedibile, se si fosse banalmente e semplicemente mantenuto il sistema del 1993 dell'inflazione importata.
Incentivare le erogazioni unilaterali lo considereremmo contraddittorio - e sono benevolo - rispetto allo spirito e alla lettera di quell'accordo. L'accordo prevede che si incentivino le erogazioni salariali frutto di un contratto. Se si dovessero incentivare le erogazioni unilaterali delle imprese, si minerebbe la natura di quell'accordo che, come ho cercato di spiegare, si basa sul rendere conveniente la contrattazione di secondo livello.
Per quanto riguarda la contrattazione di secondo livello, ho una visione per certi versi ideologica, secondo cui i salari dovrebbero remunerare il lavoro e non avere una funzione sociale. Non devono essere il prodotto di una politica.
Sono stato ideologicamente avverso all'inflazione programmata, proprio perché essa rappresenta l'idea che le retribuzioni siano la conseguenza di una decisione politica. È chiaro che né l'una, né l'altra tesi sono ritenute, nei loro concetti astratti ed estremisti, fondate. È altrettanto evidente, tuttavia, che si pone un problema di misura.
Se tendenzialmente la retribuzione deve compensare la quantità e la qualità del lavoro che si svolge, la locazione territoriale, non è che non abbia influenza, ma è secondaria.
Probabilmente, bisognerebbe compensare le differenze esistenti, in termini di costo della vita per i lavoratori, con strumenti pubblici (il sistema fiscale, il federalismo fiscale, la quantità e la qualità dei servizi), piuttosto che scaricarla sulle imprese.
Teniamo anche conto che, sempre portando il ragionamento alle estreme conseguenze, ci sono molte imprese che hanno produzioni in più di una regione. Non ne abbiamo moltissime, non siamo la Germania, ma siamo pur sempre un Paese molto industrializzato.
Troverei veramente complicato, anche dal punto di vista sindacale, differenziare la retribuzione di una persona che risponde al telefono, che lavora in un call-center, piuttosto che in una industria manifatturiera, a seconda che si trovi in questa o in quella provincia.
Le differenze sostanziali dal punto di vista del tenore di vita non dipendono banalmente e semplicemente dalla geografia, così come la conosciamo, ma dal fatto che una persona viva in un piccolo paese piuttosto che in una grande città.
Allo stesso modo, prendendo il caso della regione in cui oggi ci troviamo, ossia il Lazio, vivere a Roma o nel mio paese nativo è molto diverso, eppure entrambi i luoghi sono nel Lazio e non sono neanche tanto distanti.
Quindi, vi è tutta una complessità che è difficile raccogliere solo attraverso il sistema di contrattazione che, per quel poco che può fare, deve cercare di pagare la quantità e la qualità del lavoro che si svolge e garantire - questo sì - una funzione di distribuzione della ricchezza, in termini efficaci: più la ricchezza è distribuita e più essa aumenta.
Non a caso, oggi, tutte le politiche economiche che si fanno per contrastare la crisi tendono a distribuire un parte delle risorse per sostenere i consumi.
Oltre a questo ambito, tuttavia, è difficile assegnare al modello contrattuale la soluzione di problemi reali, come la differenza di qualità della vita di persone che vivono in realtà territoriali diverse e che, per questo, devono sostenere dei costi differenziati. È molto difficile che lo strumento contrattuale possa essere usato per affrontare e risolvere tale problema.


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Vengo ora alla questione relativa al valore-punto. L'accordo prevede che i contratti nazionali, nel momento della loro definizione, stabiliscano il valore-punto.
L'onorevole Damiano sa perfettamente di che cosa stiamo parlando. Non so se i suoi colleghi siano abbastanza informati in merito. Ad ogni modo, l'indice dà una percentuale, la quale deve essere applicata ad una base. Questo è il valore-punto. Tale base, ovviamente, verrà concordata categoria per categoria.
Passando al tema del pubblico e del privato, il nostro obiettivo è quello di avere un indice unico e un sistema contrattuale unico; il che non significa avere risultati unici.
La mia personale valutazione è che il Governo non sia stato entusiasta di vedersi applicare quel modello anche nel settore pubblico. Ha opposto una certa resistenza, perché probabilmente - e lo posso anche comprendere - preferiva l'inflazione programmata a quella determinata da un indice.
Del resto, nel caso dell'inflazione programmata è il Ministro dell'economia e delle finanze a decidere, più o meno, a quanto ammonteranno le retribuzioni dei dipendenti pubblici; invece, se è un istituto esterno a stabilire l'indice, il suo livello di controllo sui salari e quindi sulla spesa - almeno quella relativa ai salari - è molto più modesto.
Come è stato notato, vi sono ovviamente delle differenze. Tuttavia - coerentemente con quanto ho affermato, non a caso -, è stato fatto un compromesso in cui viene rimandata a un ulteriore accordo l'applicazione di quel modello nel settore pubblico, proprio per le ragioni di cui parlavo.
Dei contratti in scadenza vi ho parlato. Sicuramente, se ci fosse stata anche l'adesione della CGIL, l'applicazione di questo modello sarebbe stata, secondo la mia personale valutazione, molto più rapida e semplice.
Il fatto che, presumibilmente, la CGIL da qualche parte - non sono convinto che l'atteggiamento della CGIL sarà uguale dappertutto - possa avere un atteggiamento di opposizione all'applicazione di questo modello, renderà l'attuazione più complicata, ma, per rispondere politicamente a questa legittima domanda e osservazione, avremmo dovuto accettare di non fare nulla per evitare divisioni.
Abbiamo agito in questo modo per quattro anni, ma non ritenevamo possibile continuare così per i prossimi quarant'anni. Quattro anni sono stati un tempo sufficiente di riflessione.
Il confronto con la Confindustria è iniziato quattro anni fa e si è bruscamente interrotto.
È chiaro che sarebbe stato molto meglio avere una condivisione da parte di tutte le organizzazioni sindacali, come continuiamo ad auspicare. Tuttavia, non potevamo accettare l'alternativa della paralisi.
Sullo sciopero nei servizi pubblici sarò lapidario. Pensiamo che sia necessario regolamentare non il diritto delle persone a fare sciopero, ma la prerogativa delle organizzazioni sindacali a proclamarlo.
Quindi, un sindacato che oggi ha il potere di proclamare scioperi, o di firmare contratti, nei servizi pubblici essenziali, deve sottoporre tale potere alla regola della maggioranza.
Come vi è noto, attualmente, un qualunque sindacato, anche se rappresenta un numero modesto di lavoratori, può proclamare uno sciopero. In alcuni casi, anche solo il fatto di averlo proclamato può produrre dei danni.
Riteniamo necessario introdurre una clausola che preveda che solo le organizzazioni sindacali che rappresentano almeno il 51 per cento dei lavoratori coinvolti, possano proclamare lo sciopero. In alternativa, dal momento che in alcuni casi si può fare tutto, ma non si avrà mai il 51 per cento degli iscritti, si dovrebbe stabilire che, per proclamare uno sciopero, è necessario indire un referendum tra i lavoratori e che, solo se si ottiene il 51 per cento dei consensi, è possibile proclamare effettivamente lo sciopero.
Esistono poi alcuni settori, molto delicati e specifici, in cui il numero delle persone è esiguo. In quei casi, bisogna


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potenzialmente evitare di proclamare scioperi e occorre introdurre un sistema di scioperi virtuali, in base ai quali le persone che proclamano uno sciopero, perdono salario, ossia lavorano gratis, e le imprese pagano una multa dieci volte superiore al costo che subiscono i lavoratori. Il conflitto deve pesare esclusivamente sulle spalle delle imprese e dei lavoratori.
Tuttavia, l'operazione può funzionare solo se le imprese, e soprattutto i dirigenti che le amministrano, pagano il fatto di non essere in grado di gestire conflitti sociali senza interruzioni di servizio.
Questa, a nostro avviso, è una forma - non voglio abusare del termine «civiltà» - di modernizzazione del sistema delle relazioni sindacali e della regolamentazione del conflitto in alcuni settori fondamentali della nostra vita comune.

PRESIDENTE. Nel ringraziare il segretario Angeletti e i suoi collaboratori per la disponibilità manifestata, dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,30.

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