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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione XI
17.
Martedì 18 ottobre 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Moffa Silvano, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUL MERCATO DEL LAVORO TRA DINAMICHE DI ACCESSO E FATTORI DI SVILUPPO

Audizione di rappresentanti della Svimez:

Moffa Silvano, Presidente ... 3 9 13 17
Bellanova Teresa (PD) ... 12
Bianchi Luca, Vicedirettore della Svimez ... 15
Cazzola Giuliano (PdL) ... 11 14
Damiano Cesare (PD) ... 10
Foti Antonino (PdL) ... 10
Gatti Maria Grazia (PD) ... 9
Giannola Adriano, Presidente della Svimez ... 3 13 14
Padovani Riccardo, Direttore della Svimez ... 16

ALLEGATO: Documentazione presentata dai rappresentanti della Svimez ... 19
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A.

[Avanti]
COMMISSIONE XI
LAVORO PUBBLICO E PRIVATO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 18 ottobre 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SILVANO MOFFA

La seduta comincia alle 12,10.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti della Smivez.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul mercato del lavoro tra dinamiche di accesso e fattori di sviluppo, l'audizione di rappresentanti della Svimez.
Sono presenti il presidente professor Adriano Giannola, il direttore dottor Riccardo Padovani e il vicedirettore dottor Luca Bianchi, che ringrazio ancora per la loro cortese presenza.
Avverto che i rappresentanti della Svimez hanno messo a disposizione della Commissione una documentazione, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato).
Nel ringraziarvi ancora una volta, darei subito la parola al presidente professor Giannola.

ADRIANO GIANNOLA, Presidente della Svimez. Farò una rappresentazione molto schematica del tema, ma resteremo a disposizione per rispondere alle domande della Commissione. Il direttore e il vicedirettore potranno eventualmente integrare o approfondire alcuni punti che voi riterrete più importanti.
Per parlare delle dinamiche di accesso e dei fattori di sviluppo credo che sia opportuno partire da alcuni dati sulla crisi che attualmente colpisce il sistema italiano, sia al nord che al sud, sebbene in modo differenziato, mettendo in evidenza alcuni aspetti di come si concentri la crisi e su come anche la parziale ripresa del 2010, che in qualche misura sta sfumando nel 2011, sia stata un elemento di differenziazione all'interno del sistema.
Facendo riferimento ai dati sul PIL, quindi sulla produzione nazionale, dal 2008 al 2009 abbiamo una caduta del 6,6 per cento nel centro-nord e del 6,3 per cento nel Mezzogiorno. Apparentemente, quindi, il sud aveva risentito leggermente meno della crisi. Nel 2010, come dicevo, c'è stata una leggera ripresa, con l'1,7 per cento di crescita nel centro-nord e lo 0,2 per cento nel Mezzogiorno.
La previsione del 2011 è parimenti molto negativa, sia a livello nazionale che a livello meridionale, nel senso che le correzioni attualmente prevedono, dopo le stime più ottimistiche, lo 0,6 per cento per l'Italia, con 0,8 per cento al nord e 0,1 al Mezzogiorno. Dobbiamo pensare che questi dati prescindono dall'impatto della manovra finanziaria recentemente varata. Noi, però, abbiamo fatto delle stime sull'impatto di tale manovra, almeno come peso percentuale, e abbiamo verificato che peserà di più al sud che al nord. È quindi prevedibile che addirittura il prodotto interno lordo meridionale nel 2011 possa anche avere un segno negativo.


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Ricordo che la Germania è al 2,7 per cento (previsione per il 2011), la Francia all'1,7 per cento e la Spagna allo 0,8 per cento, esattamente come l'Italia.
Di questo passo il Mezzogiorno, per tornare ai livelli del 2007, impiegherebbe circa trent'anni - è necessario, dunque, cambiare ritmo - e il nord due o tre anni. La Germania ha già superato questa soglia e la Francia l'ha raggiunta. Questo dà anche un segno della necessità assoluta di riprendere la crescita, a prescindere ovviamente dal problema della sostenibilità del debito che ce lo impone ulteriormente.
È evidente che la crisi impatta sulle parti più deboli dal punto di vista sociale che, nel caso italiano, sappiamo si concentrano in particolare, sebbene non esclusivamente, nelle regioni meridionali.
Un segnale molto eloquente di questa crisi viene dall'analisi dei consumi: i consumi delle famiglie sono in frenata dappertutto, ma nel Mezzogiorno la spesa per beni alimentari, che nel 2010 al nord cresce dello 0,4 per cento e rimane stabile, si riduce dello 0,4 per cento per il quarto anno consecutivo. Direi che questo è un segnale di emergenza, non solo un freddo dato statistico.
Ovviamente, si entra nel versante di come la crisi produttiva si ribalta sul mercato del lavoro e sostanzialmente sui fattori produttivi. Abbiamo un dato molto pesante: circa 600 mila - per la precisione 533 mila, ma i dati precisi li troverete nella memoria che lasciamo - posti di lavoro perduti nel sistema italiano tra il 2008 e il 2010, e di questi 281 mila unità sono nel Mezzogiorno; quindi il 60 per cento dei posti di lavoro persi si concentra nelle regioni del Mezzogiorno che rappresentano meno del 30 per cento degli occupati. Insomma, in un'area che ha il 30 per cento degli occupati si concentra il 60 per cento delle perdite.
In questa visione, i due comparti più toccati sono giovani e donne, nel senso della partecipazione al mercato estremamente più ridotta. Il tasso di occupazione delle persone tra 15 e 34 anni è sceso nel 2010 al 31,7 per cento rispetto al 33 per cento di due anni prima. In questa fascia di età, il tasso di occupazione delle donne è del 23 per cento, mentre al centro-nord è del 56 per cento.
D'altra parte, è anche da segnalare che il crollo occupazionale soprattutto per i giovani accomuna sud e nord. In questo biennio il tasso di occupazione dei giovani scende del 14,7 per cento, mentre al nord scende dell'11 per cento. La dinamica, per certi versi, ora è più forte al nord che al sud (laddove ormai al sud si è quasi «al pavimento» e al nord ci si sta arrivando).
Una considerazione che ci sembra utile fare riguarda il sistema di welfare che in questo momento è evidentemente strategico per contenere il disagio e le tensioni sociali che da questa situazione molto problematica emergono. Al riguardo possiamo solo dire molto sinteticamente che il meccanismo della cassa integrazione guadagni penalizza il sud rispetto al nord. Per ognuno che perde lavoro al nord tre sono in cassa integrazione, quindi in qualche modo ancora sono tenuti dentro; al sud, invece, per tre che perdono il lavoro uno solo è in cassa integrazione. Le cose, dunque, funzionano in modo molto diverso. Al sud la CIG in questi anni ha riguardato appena 96.000 unità virtuali a fronte di una perdita di oltre 200 mila occupati; al nord la cassa integrazione riguarda 438 mila unità virtuali a fronte di una perdita di occupazione non paragonabile.
In Italia la spesa per quella che complessivamente potremmo chiamare la protezione sociale non è molto diversa dagli altri Paesi: noi siamo al 26 per cento, a fronte di una media dell'Unione del 27 per cento. La differenza è che in Italia si tratta per la gran parte di spesa previdenziale: il 58 per cento in Italia a fronte di una percentuale inferiore al 50 per cento nel resto d'Europa. In qualche misura, questo spiega anche come mai le pensioni soprattutto di anzianità sono più presenti al nord - e questi elementi di squilibrio sono legati a questi fattori strutturali - così come l'età media di pensionamento al nord rimane più bassa (56,3 anni a fronte


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di 58 e oltre del sud). Anche da questo punto di vista, dunque, abbiamo una diversità tra nord e sud.
Non parliamo, poi, di quella che potremmo definire la seconda gamba del welfare, con riferimento in particolare alla protezione dei minori e degli anziani, che è generalmente molto debole nel sistema di welfare italiano e lo è particolarmente, come operatività, al sud rispetto al nord.
Da questo punto di vista, l'Italia paga anche lo scotto di non avere nel suo modello di welfare misure universali di integrazione dei redditi per garantire uno standard di vita in questo momento particolarmente complesso. Questo incide di più laddove il tessuto è più debole.
Entrando più nel merito del mercato del lavoro - qui possiamo vedere alcune tabelle allegate alla documentazione - interessa mettere in evidenza due aspetti sostanziali: in primo luogo, il livello di inattività della forza lavoro, che sta aumentando; in secondo luogo, come questa crisi del mercato del lavoro si ribalti soprattutto sui giovani, nella fascia dai 15 ai 34 anni, e come questo avvenga in misura generale in tutto il Paese, confermando tuttavia un fortissimo squilibrio e una pesantezza della crisi più rilevante nel Mezzogiorno.
La reazione a questa situazione è di due tipi: uno che chiamiamo congiunturale, con una spinta all'emigrazione che è ripresa già da anni e che continua; uno invece strutturale, ossia un effetto demografico che proiettato negli anni futuri ci dà una visione molto preoccupante della situazione di tutte le regioni meridionali. Insomma, come vedremo nelle conclusioni, il sud si sta trasformando nell'area anziana del Paese, nell'area più problematica, quindi necessariamente assistita, in prospettiva, perdendo quelle caratteristiche di serbatoio di capitale umano anche di alta qualità che ha ancora in questo momento. Una prospettiva di cui dobbiamo essere consapevoli è quella verso la quale si sta avviando il sistema italiano. È un ribaltamento davvero molto preoccupante, su dimensioni, da qui al 2050, di 2 milioni di giovani in meno e di una popolazione anziana in proporzione molto più alta al sud rispetto al nord. Si tratterà di un rovesciamento strutturale se non vengono corrette le dinamiche demografiche; ma per correggere tali dinamiche sono necessari periodi lunghi e il periodo lungo che è già innestato porta in quella direzione.
Il dato ufficiale di disoccupazione nel Mezzogiorno, che era del 12 per cento nel 2008, oggi è del 13,4 per cento, contro il 6,4 per cento nel centro-nord (era il 4,5 per cento all'inizio della crisi). La reazione a questa maggiore disoccupazione al nord e al sud, sempre guardando a dinamiche aggregate, è che al centro-nord la perdita di posti di lavoro tende a trasformarsi in ricerca di nuovo posto di lavoro, quindi a mantenere nel mercato del lavoro quelli che ne sono espulsi dalla componente occupata; nel Mezzogiorno, al contrario, solo in minima parte questa componente che esce dal mercato del lavoro si trasforma in esplicita ricerca di nuovi posti di lavoro. Questo fenomeno tende ad aumentare l'area di inattività e ovviamente l'area di lavoro irregolare, quindi la propensione al sommerso e la fuoriuscita dal mercato del lavoro. Come diremo tra un momento e come sostiene il vicedirettore Bianchi, oggi occorrerebbe instaurare una moratoria sul tasso di disoccupazione, poiché non significa più granché: occorre corredarlo con molti altri elementi per capire il senso di quello di cui stiamo parlando.
Tra il 2003 e il 2010 gli inattivi in età da lavoro sono cresciuti al sud di quasi un milione di unità. Sono più di 750 mila e stanno crescendo. Al livello nazionale aumentano del 16 per cento. Mentre abbiamo una disoccupazione esplicita con 958 mila persone in cerca di occupazione, c'è almeno un milione di disoccupati cosiddetti «nascosti», che non compaiono da questo punto di vista.
Questo è un elemento strutturale, ma che la crisi ha accentuato. Se noi calcoliamo un tasso di disoccupazione corretto, in cui comprendiamo i disoccupati, i cassintegrati, gli scoraggiati (la zona grigia, quelli che a domanda risponderebbero che, se ci fosse una prospettiva, lavorerebbero


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ma che non hanno cercato attivamente lavoro) in Italia arriveremmo a un tasso del 14,8 per cento, al nord del 10,1 (dal 6) e a sud del 25,3 per cento (uno su quattro è praticamente disoccupato).
Questo è il quadro complessivo. Facendo il focus sui giovani, vediamo che la situazione è ancora più preoccupante. Per dirla in sintesi, ove per giovani intendiamo la classe dai 15 ai 34 anni, noi troviamo che c'è una sostanziale esclusione dai processi di sviluppo e dalla capacità di ingresso nel mercato del lavoro sempre più evidente. Questo determina una serie di fenomeni, relativamente all'iscrizione all'università, la qualità del capitale umano e così via.
Volendo adesso esporre molto sinteticamente - ma poi si può entrare nel merito - la composizione della popolazione dai 15 ai 34 anni per condizione sul mercato del lavoro (come mostra una delle slide che vi abbiamo distribuito) troviamo che nel Mezzogiorno gli occupati standard (laddove nella nostra definizione comprendiamo anche gli atipici «buoni», sostanzialmente i part-time) in questa classe di età sono il 24 per cento, gli atipici il 7 per cento, i cassaintegrati lo 0,1 per cento, i disoccupati ufficiali l'11 per cento, la «zona grigia», cioè quelli che dichiarano che vorrebbero lavorare se ci fosse una prospettiva ma che non si dichiarano in attiva ricerca di lavoro, il 18 per cento; il resto, circa il 40 per cento, sono inattivi, cioè in nessun modo collegati al mercato del lavoro, anche come prospettiva.
Se prendiamo gli inattivi in senso lato, cioè quelli che dichiarano che in fondo vorrebbero lavorare ma non hanno fatto ricerca attiva, e gli inattivi strettamente intesi, il 58 per cento dei giovani tra 15 e 34 anni della popolazione meridionale è compreso in questa categoria.
La situazione al centro-nord è ugualmente preoccupante, ma in misura estremamente diversa. La zona grigia, quella degli inattivi che dichiarano che vorrebbero entrare nel mercato del lavoro se avessero delle prospettive, è del 5 per cento, rispetto al 18 per cento del sud. Gli inattivi, cioè quelli che sono del tutto fuori dal mercato, sono il 33 per cento (rispetto al 40 per cento del sud). Se sommiamo questi dati otteniamo che la zona di inattività ampiamente intesa è del 38 per cento; è una zona molto ampia, ma evidentemente non comparabile al quasi 60 per cento del sud.
Quando quei giovani gridano «siamo al 90 per cento», non sono ancora a quella percentuale, ma ci stiamo incamminando perché le quote aumentino se continuiamo con questo tipo di crescita.
Al nord i disoccupati sono il 7 per cento, i cassintegrati l'1 per cento, gli atipici il 12 per cento e gli occupati standard il 42 per cento, contro il 24 per cento di occupati standard meridionali.
Capiamo, quindi, che queste strutture territoriali basano su una struttura sociale che è in grande divaricazione ma anche in grande difficoltà in entrambe le parti.
Nel periodo 2008-2010 è da sottolineare che l'occupazione nella classe 15-34 anni scende di quindici punti al Mezzogiorno ma di undici punti anche al nord. Nella classe oltre i 35 anni, invece, l'occupazione è stabile al sud (0,3 per cento) e cresce al nord del 2,6 per cento. L'effetto complessivo è di meno 1,5 per cento al nord e meno 4,3 per cento al sud. Questa articolazione, quindi, è da tener presente.
Una conseguenza di questa area grigia o di inattività totale che è particolarmente importante nel Mezzogiorno è la contiguità sempre più forte con l'area dell'economia sommersa. Non parliamo dell'economia sommersa criminale, ma di un'economia che sarebbe legale se fosse emersa. Curiosamente, però, sembrerebbe rallentare il ruolo del sommerso nel Mezzogiorno, a nostro avviso perché anche il sommerso non occupa più. La crisi sul mercato del lavoro è talmente forte che anche le opportunità di inserimento nella grande area - oltre il 20 per cento nelle regioni meridionali - del mercato del lavoro sommerso stanno venendo meno. Questo è un altro segnale molto preoccupante; non è positivo questo rallentamento, lo dico un po' cinicamente.
Ovviamente il sommerso al sud è legato, come l'emerso, alla struttura produttiva


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più fragile, al ruolo del contoterzismo, per cui molte imprese del sud sono subforniture di imprese di altre aree geografiche, alle difficoltà crescenti di accesso al credito, che sebbene generalizzate sono più intense laddove evidentemente l'attività è più rischiosa.
Sono fenomeni abbastanza noti, che però ci danno il quadro della difficoltà di gestire anche un'economia che si era assestata su un rapporto emerso-sommerso che in qualche modo ha fatto galleggiare il sistema.
Un altro elemento che questa dinamica mette in evidenza è quello che riguarda il rapporto tra capitale umano e situazione del mercato del lavoro. Da questo punto di vista, la debolezza del sistema produttivo e di un sistema sociale sostanzialmente bloccato, a nostro avviso, determina quello che nei fatti diventa un mismatching, quello che viene definito educational mismatch: abbiamo una produzione per così dire di giovani laureati, specializzati, professionalizzati, di vario genere, che sempre meno trovano lavoro e una formazione del sistema scolastico, universitario, soprattutto nel Mezzogiorno, che sembra non corrispondere alle domande delle imprese. In realtà, è il sistema produttivo che ha una difficoltà di accesso estremamente forte.
Noi verifichiamo che da qualche anno il tasso di iscrizione all'università nel Mezzogiorno è in discesa; aveva raggiunto quello del centro-nord, quindi c'era stata una omogeneizzazione dal punto di vista dell'education, ma ora c'è una diminuzione dei valori assoluti nell'ambito della formazione universitaria (a parte il problema dell'evasione scolastica, più grave al sud che al nord).
Il circolo vizioso che si innesca è che studiare serve poco, serve soprattutto per emigrare. Tenete conto che, al 2007, oltre il 41 per cento dei laureati meridionali ha trovato lavoro nel centro-nord, quindi è un'«industria» il cui prodotto non è disprezzato. Occorre, forse, apportare correzioni alla vulgata: i laureati meridionali di un certo tipo, fino a che c'è un mercato del lavoro ricettivo, trovano lavoro. Come dicevo, emigrano nella misura quasi del 42 per cento, il che dà il segno della dimensione del fenomeno.
Anche con questa crisi, nel 2001 18 mila laureati meridionali sono emigrati nel centro-nord o sono la componente di pendolarismo di lunga distanza, che è un altro dei fenomeni degli anni recenti: i giovani meridionali - sono 40 mila nel 2011 - trovano un lavoro ma pendolano sostanzialmente dalla città o regione di provenienza.
È sempre più evidente un fenomeno che in altri Paesi viene definito NEET, cioè Not in Education, Employment or Training: una quota sempre maggiore di capitale umano non è più in formazione, non è al lavoro e non è praticamente oggetto di ulteriore upgrading di conoscenze. Il 30 per cento dei laureati meridionali dai 25 ai 34 anni ricadrebbe in questa categoria.
Anche questo è un elemento socialmente molto scoraggiante. Potremmo affermare che dalla fuga dei cervelli, che è un fenomeno italiano e molto meridionale, in questo caso meridionale dal sud al nord e italiano dal nord e dal sud al resto del mondo, nel sud siamo allo spreco dei cervelli. Una quota consistente della parte più formata del capitale umano non ha lavoro, non è in formazione ulteriore e, quindi, è inattiva in senso stretto.
Da ciò possiamo anche trarre una considerazione su alcune posizioni che insistono sul fatto che in Italia, e nel Mezzogiorno in particolare, saremmo in una situazione di over education, ossia di eccessiva formazione.
In realtà, se andiamo a effettuare un qualsiasi confronto dell'Italia del sud con qualsiasi altro sistema europeo o americano vediamo che le percentuali di laureati sono molto inferiori rispetto a quelle di altri Paesi, il che ci fa sospettare che sia la struttura produttiva italiana che non consente un'adeguata education e che non assorbe. C'è un mismatching, ma in questo caso è un fatto strutturale delle nostre specializzazioni.
Ciò determina due effetti: le citate inattività e il NEET, che tende a coinvolgere


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sempre più giovani ad alto potenziale e accentua tutti i fenomeni di dipendenza giovanile. Nel Mezzogiorno oltre il 50 per cento dei giovani di età tra i 25 e i 34 anni vive con i genitori, mentre al nord la percentuale è ancora inferiore al 40 per cento, quindi c'è un gap rilevante.
L'altro elemento è quello demografico di lungo periodo, perché abbiamo l'emigrazione, da un lato, lo scoraggiamento a qualsiasi progetto normale di vita, dall'altro, quindi la dipendenza. Le proiezioni che noi abbiamo effettuato in occasione del volume sul 150o anniversario e che abbiamo riportato nel Rapporto, vedono dal 2050 in su un Paese vecchio, assistito, senza più giovani, avendo perso 2 milioni di giovani.
Trovate alcuni dati nel documento. Vi è una quota di settantacinquenni sulla popolazione complessiva che dall'8,3 per cento passa al 18,4 per cento, superando il 16 per cento del centro-nord e che diventa la parte più vecchia del sistema, non essendoci più la componente giovanile. Oggi la Campania è considerata la regione più giovane d'Europa, ma nel giro di pochi anni non sarà più quella più giovane d'Europa, ma rischierà, essendo la regione più povera in questo momento, con tutti i dati sul PIL e sull'emigrazione, di essere forse la più vecchia d'Europa.
In quanto ai trend demografici, noi abbiamo parlato di tsunami demografico per sostenere che la demografia è un elemento che poi travolge l'economia, se non viene in qualche misura accompagnata da politiche che rilancino o arrestino i processi in atto.
In ultimo, aggiungo alcune considerazioni. Oggi uno degli elementi della ricetta per la ripresa della crescita è la flessibilità. Ci terremmo a dare una raccomandazione di cautela da questo punto di vista per quello che riguarda il mercato del lavoro. Occorre essere molto attenti. Sicuramente c'è stata una forte flessibilizzazione in Italia del mercato del lavoro in generale, che ha avuto effetti congiunturali positivi nell'area sviluppata del Paese.
È molto più difficile affermare, però, che abbia avuto effetti significativi molto rilevanti nelle aree più deboli, dove il problema è strutturale. Accentuare questo aspetto di flessibilizzazione di un mercato in queste condizioni comporta un duplice rischio: quello di non essere molto efficace dal punto di vista congiunturale e quello di essere molto negativo dal punto di vista strutturale.
Le imprese del Mezzogiorno, in questo momento, soffrono molto per vincoli di liquidità, per non accesso al credito, per essere troppo piccole, tutte situazioni che con ulteriori flessibilizzazioni diventerebbero quasi elementi di patologia, perché indurrebbero a una loro reazione, che si è realizzata dal 1992 a oggi, per sopravvivere in carenza di politiche adeguate a sostenerne la crescita, la ricapitalizzazione e la modifica delle specializzazioni.
Indebolirebbero, quindi, a nostro avviso, ancor di più la struttura produttiva del sud, che ha bisogno invece di tutt'altra soluzione, ossia di una ripresa, di un accompagnamento, di una frustata, per così dire, fisiologicamente assestata per evitare di cadere in una path dependence, cioè nella prosecuzione di un processo che le vede svantaggiate dal punto di vista delle specializzazioni settoriali per le piccole e medie imprese, della tecnologia e dell'organizzazione.
Indurle ancor di più allo sfogo di ridurre il costo del lavoro è una soluzione, a nostro avviso, di breve periodo, che non porterebbe molto lontano, ma che anzi rischierebbe di peggiorare la situazione attuale.
Possiamo anche entrare nel merito di dati sulla produttività del costo del lavoro per unità di prodotto. La flessibilità ha sempre mantenuto un costo del lavoro per unità di prodotto in linea per rimanere competitivi sul mercato, ma a costo di ridurre le performance e la dimensione e di fossilizzarsi in una struttura che, alla lunga, non sta reggendo molto bene.
Ciò non significa che non ci siano eccellenze e aspetti molto dinamici nel mondo delle imprese meridionali, ma che in questo momento esse non sono in grado di trascinare tutta l'area, così come a livello nazionale non sono in grado di


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trascinare il sistema Italia. Sia al sud che nel resto del Paese, a nostro avviso, occorre affiancare a questa ipotetica ricetta una soluzione strutturalmente più efficace nel medio e lungo periodo soprattutto.
Chiuderei il mio intervento e magari inviterei il direttore Padovani e il direttore Bianchi eventualmente a svolgere le integrazioni che ritengono più opportune. Ho presentato una carrellata delle documentazioni che vi sono state consegnate. Magari, nel rispondere alle vostre domande, potremo ulteriormente approfondire gli aspetti che riterrete opportuni.

PRESIDENTE. Grazie, professor Giannola. Prima di dare la parola ai colleghi per le domande, vorrei svolgere anch'io un'osservazione preliminare. Innanzitutto la ringrazio perché ci ha consegnato uno spaccato abbastanza puntuale sulla situazione del Mezzogiorno e complessivamente del sistema Paese in riferimento all'indagine che stiamo conducendo, che, come lei ha riconosciuto, mira a effettuare la diagnosi, ma anche a cercare le possibili terapie in una situazione non molto facile.
Chiederei, soprattutto nell'ulteriore andamento del nostro incontro, di vedere se, dal punto di vista dell'osservatorio della Svimez - un osservatorio privilegiato, che ci consegna anche analisi più complete sulle dinamiche di sviluppo e sulle situazioni di crisi, soprattutto sotto il profilo occupazionale e, in prospettiva, di quello che sarà per l'interagire di diversi elementi, dall'andamento demografico alla difficoltà di recupero di una capacità produttiva che consenta alle imprese di rimettersi in marcia - avete svolto anche una valutazione non solo sulle criticità e, da ultimo, sulla flessibilità applicata rispetto alle aree più deboli, ma anche rispetto alle possibili idee che possono essere messe in campo per invertire questo meccanismo.
Il compito di questa Commissione non è soltanto quello diagnostico, pur importante, perché, se non si hanno i dati e non si ha il quadro esatto della situazione, lei capisce bene e meglio di me che non saremmo in grado neanche di compiere interventi che sviluppino politiche appropriate. Vorremmo capire, però, dal punto di vista della Svimez, in questo caso, proprio per correggere quella curva che mi sembra sia eccezionalmente drammatica per il Mezzogiorno, che cosa effettivamente si possa fare anche in termini di priorità. Ciò aiuterebbe, credo, anche la nostra riflessione.
Do la parola ai deputati che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

MARIA GRAZIA GATTI. In modo preliminare vorrei ringraziare molto il presidente della Svimez. Il quadro che ci ha tracciato è stato drammatico, ma, secondo me, necessario. È necessario avere la consapevolezza di qual è la situazione. Io ho il sospetto che, a parte alcuni momenti in cui di queste questioni si parla molto, tutto venga poi ripreso da una sorta di «melassa» e anche da alcuni pregiudizi sullo stato della situazione.
Mi veniva in mente una considerazione sulla situazione, considerati i dati riferiti dalla Svimez. Nella situazione pre-crisi ci sono stati processi di crescita che sembrano diversi, cioè c'era un Mezzogiorno che cresceva un po' di più rispetto alle aree del nord, forse perché aveva da recuperare un po' di più. Mi chiedo se questo sia un fenomeno che alla Svimez risulta e che caratteristiche abbia avuto, anche per togliere l'elemento di sud come zavorra e, da questo punto di vista, forse rompere anche un pregiudizio esistente.
È vera questa notizia? Vi risulta che nella fase pre-crisi c'è stato un momento in cui era il sud che cresceva di percentuali più alte rispetto alle zone del centro-nord? Quali, secondo voi, sono stati i meccanismi e gli elementi che hanno portato a un blocco di questo processo, al di là della crisi, anche dal punto di vista delle politiche?
Pongo poi due domande specifiche rispetto alla questione «dalla fuga dei cervelli allo spreco dei cervelli». Io ho alcuni dati, che sono assolutamente parziali, ma che vorrei verificare con voi sul momento


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dell'abbandono degli studi anche molto precoce nell'ultimissimo periodo e, in particolare, al sud.
Vi chiedo se questa situazione vi risulta, perché, secondo me, aggrava ancora l'elemento. Non avremmo più solo lo spreco dei cervelli, ma anche una perdita significativa proprio dal punto di vista delle risorse intellettuali di questo Paese e un aggravio, invece, della necessità di futura assistenza.
Per quanto riguarda la vicenda sulle flessibilità e come esse abbiano segnato lo sviluppo del sud nell'ultimo periodo nella situazione della crisi, io sto seguendo da un po' la questione dei voucher. Poiché erano stati prospettati come strumenti per l'uscita dal lavoro nero, mi hanno colpito moltissimo i dati dell'INPS, che danno la diffusione dei voucher in modo inversamente proporzionale alla diffusione del lavoro nero. Forse questo fatto è legato a quel meccanismo di cui il presidente parlava prima, in base al quale si può notare come alcune modalità e alcuni strumenti abbiano un effetto in situazioni di sviluppo, ma nelle aree deboli possano, invece, avere l'effetto completamente opposto.
Volevo sapere se questa circostanza risulta anche a voi.

ANTONINO FOTI. Ringraziamo il professor Giannola e i colleghi per aver presentato un quadro realistico. Anche se non voglio usare la parola «drammatico», è comunque preoccupante.
Lei afferma che il tasso di iscrizione all'università si è invertito rispetto ad alcuni anni fa e fornisce un dato di oltre il 47 per cento, se non ricordo male, rispetto all'adeguamento del centro-nord, nelle regioni del Mezzogiorno, aggiungendo che oltre il 47 per cento ha trovato lavoro al centro-nord (aggiungerei il 30 per cento che fa parte della famosa sigla inglese NEET).
Passo alla domanda. Come mai, se coincide con la crisi del 2008, c'è questo spostamento degli universitari verso il centro-nord? Non ritiene che questo 30 per cento di laureati sia troppo, oppure pensa si tratta di persone poco formate? Se una percentuale così alta non lavora, non è sufficiente non essere formati. Se tali soggetti sono laureati, dovrebbero essere anche formati.

CESARE DAMIANO. Anch'io voglio ringraziare il presidente Giannola per l'esposizione molto accurata e anche per i materiali che ci sono stati forniti. È chiaro che questa indagine è scioccante. Per quanto io potessi immaginare, sulla base delle mie conoscenze e dei miei studi, una rilevante differenza strutturale nel mercato del lavoro e nei trend di crescita tra nord e sud, ciò che voi prospettate è ancora più grave di quanto si potesse immaginare. Non a caso, parlate di una sorta di effetto tsunami.
Passo alla prima domanda. Mi ha colpito, tra le tante considerazioni che sono state esposte, il fatto che il ritorno ai livelli del 2007 comporta per il Mezzogiorno un'attesa di trent'anni, a differenza dei due o tre anni del nord del Paese. La Germania è già in questa situazione di recupero.
Come accennava l'onorevole Gatti, se non sbaglio, prima dello scoppio della crisi voi e altri osservatori avevate parlato di una possibile capacità di sviluppo, di una dinamica di sviluppo a macchia di leopardo per il Mezzogiorno, addirittura di uno sviluppo e di una dinamica che potevano, a macchia di leopardo, avere risultati migliori delle migliori aree del centro-nord.
La crisi ha ammazzato questa prospettiva. Dai dati che voi presentate si potrebbe dedurre che quell'illusione e quell'ottimismo pre-crisi siano del tutto spenti.
Passo alla seconda domanda. Naturalmente, come ricordava il Presidente Moffa, noi abbiamo il dovere dell'analisi e, se non il dovere, almeno l'istinto ci dovrebbe portare ad avanzare alcune proposte.
Mi concentro su due argomenti, sui quali vorrei avere un'opinione. Per quanto riguarda l'attenuazione di questo divario tra nord e sud, pensa lo Svimez che sia opportuno tornare a immaginare quella che un tempo chiamavamo una politica


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industriale? Ciò vale anche per il Mezzogiorno, oltre che per l'Italia, o soprattutto per il Mezzogiorno. Come si combina un'ipotesi di politica industriale che identifica i settori strategici col fatto che noi siamo probabilmente di fronte a una desertificazione industriale, in particolare del Mezzogiorno?
Cito Irisbus, Termini Imerese, la cantieristica. Sono settori - un tempo rilevanti - di manifattura, di occupazione, di insediamento e di indotto. Come si può ripartire, da dove si può ripartire? È necessaria una politica industriale o non c'è più speranza?
La seconda questione è relativa al mercato del lavoro. Nei grafici a torta che avete prodotto si evidenzia la diversa composizione strutturale del mercato del lavoro e colpisce il fatto che, per quanto riguarda l'occupazione standard, siamo quasi a un rapporto di uno a due fra nord e sud, a vantaggio del nord.
Non ho capito bene un passaggio del suo ragionamento e vorrei un chiarimento in merito. Lei ha affermato, e io concordo in linea di principio, che non dobbiamo fare affidamento per una ripresa anche occupazionale su un eccesso di flessibilità del sistema.
Io penso effettivamente che il sistema abbia inglobato troppa flessibilità e che tale eccesso di flessibilità sia dannoso al sistema, alle imprese e ai lavoratori. Peraltro, un eccesso di flessibilità genera comportamenti opportunistici da parte di quelle imprese meno trasparenti e meno leali sul mercato del lavoro, quali l'utilizzo del lavoro a progetto senza progetto.
Lei ha parlato di una non efficacia di un'eventuale politica di riduzione del costo del lavoro per il Mezzogiorno. Intende sostenere che non sarebbe efficace una soluzione che invece io riterrei efficace, ossia un credito di imposta a vantaggio dell'occupazione giovanile femminile, la più colpita, in particolare per il Mezzogiorno, e del lavoro standard, ossia del lavoro a tempo indeterminato, oppure allude a una non efficacia della riduzione del costo del lavoro che passa attraverso questi strumenti di flessibilità, che, paradossalmente, costano meno del lavoro standard?
Arrivo all'ultima questione. Per quanto riguarda - sentivo l'onorevole Foti che interveniva su questo punto - la questione dell'istruzione nel Mezzogiorno, noi alle volte procediamo per luoghi comuni che questi grafici sfatano, affermando, per esempio, che al sud si studia troppo e che quel troppo non serve più. Non è forse sbagliata quest'affermazione? I dati rivelano che mediamente l'Italia ha un numero di laureati significativamente inferiore rispetto alle altre nazioni maggiormente industrializzate. C'è forse un problema - credo che venga evocato nei vostri grafici - di mancanza di incontro tra studio e formazione e mercato del lavoro? Come si potrebbe spingere verso forme di specializzazione e di orientamento dei giovani alla formazione, in modo da cogliere anche le eventuali residue opportunità del sistema, soprattutto nel Mezzogiorno, diminuendo anche i tassi di immigrazione verso il nord?

GIULIANO CAZZOLA. Ringrazio anch'io i rappresentanti della Svimez per il contributo che ci hanno fornito. È sempre interessante sentire le loro valutazioni, perché esprimono una cultura che ci accompagna dal Dopoguerra a oggi per la questione meridionale, che è indubbiamente la questione nazionale del Paese.
Ciò premesso, svolgerò alcune valutazioni e porrò una domanda conclusiva.
Preciso subito che io non sono molto d'accordo con l'osservazione dell'onorevole Damiano. È vero che vige una situazione nel sud nella quale anche l'industria ha perso molti addetti - leggevo dati recenti, soprattutto in Campania, che citavano cifre alquanto preoccupanti - però credo che vada anche riconosciuto che quanto rimane di una data fase dell'industrializzazione del Paese, sostanzialmente quanto rimane dei grandi gruppi, ha ancora alcuni insediamenti importanti nel Mezzogiorno. Io credo che ciò che resterà della FIAT resterà nel Mezzogiorno, al di là del fatto che chiuda Termini Imerese, in


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quanto ci sono gli stabilimenti più innovativi che sono stati realizzati nel Mezzogiorno.
Lo stesso discorso vale per ciò che è stato delle partecipazioni statali, delle quali, pur non avendo la dimensione che avevano in passato - penso alla chimica e anche alla siderurgia - ciò che è sopravvissuto è rimasto nel Mezzogiorno, alle condizioni in cui potevano sopravvivere questi gruppi, ossia alle condizioni in cui la storia economica del mondo ha consentito a questi gruppi di sopravvivere.
Il problema è che questi gruppi non hanno costruito un tessuto produttivo e industriale, una rete di aziende di piccola e media impresa che avrebbe potuto oggi rappresentare una risposta alternativa e importante alla crisi che i grandi gruppi hanno subìto come modo di produrre e anche di organizzare la produzione.
Senza andare troppo indietro, credo che ci sia un elemento chiave, se vogliamo valutare la politica nel Mezzogiorno, ed è la fine dell'intervento straordinario. L'intervento straordinario finisce un po' all'improvviso, anche se l'annuncio era stato dato da tempo, quando l'economia italiana si integra con quella europea.
Il punto è che il sud non riesce a cogliere questo cambiamento e, peraltro, non dimentichiamolo mai, anche se ultimamente queste risorse sono state spese e impiegate in altri settori, le regioni del sud non sono state in grado neppure di utilizzare le risorse alternative rispetto all'intervento straordinario.
Ci sono stati casi, per esempio, come quello del sud della Spagna, che è riuscito a uscire dalla sua condizione di divario. Non vi è riuscito, invece, il sud dell'Italia, ancorché, attraverso i fondi strutturali, risorse fossero destinate al Mezzogiorno.
In buona sostanza, quando il sud viene lasciato a se stesso, e io credo che forse anche questo sarebbe un elemento da approfondire, cresce l'economia sommersa. Il sud finisce nell'economia sommersa.
Il caso dei voucher - anche in merito non la penso come la collega Gatti - dimostra che neppure una forma minima di regolarità come i voucher riesce ad aver ragione del lavoro sommerso nei settori in cui il voucher sarebbe dovuto intervenire a contrastare il lavoro sommerso.
La mia domanda è la seguente: siamo sicuri che il sud sia in grado di stare all'interno di regole uniformi sul piano nazionale, che il suo problema sia proprio questo? Io credo che le leggi vadano fatte per servire alle persone, mentre noi in Italia pensiamo che siano le persone a dover stare a quello che dispone la legge.
Io sono assolutamente convinto di ciò, senza per questo evocare zone salariali o cose di questo genere. Peraltro, in merito alle zone salariali, chi va a vedersi gli accordi di un tempo, noterà che le province del Mezzogiorno erano assolutamente allineate con le province del nord. Mi pare che Napoli fosse allineata con Novara, quindi non c'è mai stato un divario netto.
Io sono assolutamente dell'opinione che probabilmente, e mi pare di aver letto qualcosa in passato anche nei rapporti della Svimez, occorra una politica di differenze che sia più adeguata alle condizioni economiche di una particolare area del Paese: ciò potrebbe forse consentire il superamento di un divario che, in un'uniformità forzata delle regole, il sud non riesce a colmare.

TERESA BELLANOVA. Ho ascoltato con molta attenzione, oltre ad aver letto nei giorni precedenti ciò che è stato pubblicato nel Rapporto Svimez, e devo dire che, abitando io in una regione del Mezzogiorno, non sono per nulla scioccata, purtroppo, dai dati che voi avete fornito oggi e da quelli che avete pubblicato nei giorni precedenti.
Volevo porre due domande: una rispetto alla vostra esperienza e al lavoro che voi svolgete con le vostre indagini e le vostre ricerche, l'altra è stata stimolata dall'intervento, più che dalla domanda, dell'onorevole Cazzola.
Sulla base della vostra esperienza voi oggi valutate che nel Mezzogiorno le classi dirigenti, che talvolta si divertono a contestare i vostri dati piuttosto che a


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misurarsi con la loro drammaticità, abbiano la percezione della difficoltà del compito che hanno di fronte e, quindi, stiano costruendo ipotesi di sviluppo che mettano in condizione - certo non in tempi rapidissimi (perché, se la situazione è questa, è evidente che non può esistere una bacchetta magica), ma in tempi accettabili - di ritornare a far sperare i cittadini del Mezzogiorno in una prospettiva che non sia solo quella dell'abbandono di quel territorio alle persone anziane e magari ai bambini, ai quali viene fornito questo servizio sociale da parte dei nonni?
La seconda questione è la seguente. L'onorevole Cazzola, se ho colto bene, sostiene che questo Mezzogiorno abbandonato a se stesso è un Mezzogiorno che non ce la fa. Io non penso questo, ma penso che il Mezzogiorno sia stato in condizione anche di misurarsi con un modo qualificato di produrre sviluppo in diversi settori.
Mi chiedo, però, se, oltre a parlare di intervento straordinario sul Mezzogiorno, sul Mezzogiorno non stia pesando, negli ultimi anni, anche una rapina delle risorse che formalmente gli sarebbero destinate e che vengono utilizzate altrove. Mi riferisco non solo alle risorse che vengono distratte, per esempio, dai FAS per essere portate altrove, ma anche a quegli imprenditori che pensano di effettuare interventi nel Mezzogiorno e di spostare poi rapidamente le loro attività altrove.
Dentro questo quadro io inserisco, per esempio, tutto il comparto del contoterzismo. In Italia c'è una categoria di imprenditori che acquista le pagine dei giornali per indignarsi contro la politica e magari anche contro i ritardi che si verificano nel Mezzogiorno. Talvolta, però, sulla base della mia esperienza, sono quegli imprenditori che decidono che nel Mezzogiorno si può lavorare solo in nero, perché, quando le commesse nel settore dell'abbigliamento, del calzaturiero, ma anche della meccanica, si danno con prezzi da strozzinaggio, è evidente che l'imprenditore del Mezzogiorno, se accetta di portare avanti quella commessa, deve fare ricorso al lavoro nero.
Noi non dobbiamo interrogarci su questo piuttosto che ragionare, per esempio, su quanto i voucher possano aiutare a uscire dal lavoro nero? Tra i voucher e il laboratorio di Barletta dove sono morte quelle cinque donne non più di dieci giorni fa, è evidente che è più competitivo il lavoro nero e il laboratorio di Barletta, ma è questo il modello di sviluppo sul quale noi pensiamo di poter invitare i giovani a ritornare nel Mezzogiorno e a non abbandonare quel territorio solo agli ultraottantenni?

PRESIDENTE. Mi rendo conto che i tempi sono molto stretti, però l'interlocuzione con la Svimez rimane sempre aperta anche in futuro.
Do la parola ai nostri ospiti per la replica.

ADRIANO GIANNOLA, Presidente della Svimez. Proverò a dare alcune risposte mie e poi pregherei magari Luca Bianchi di parlare di più della parte della fuga dei cervelli, della flessibilità e dei NEET e Riccardo Padovani di trattare le politiche industriali.
Ci tenevo a dare una risposta generale. È vero, il Rapporto è stato anche molto recensito nei suoi aspetti drammatici, che sono emersi oggi, ma che, se lo si fosse letto con calma, si sarebbero visti maturare anche negli anni scorsi.
Nel Rapporto, già dall'anno scorso e anche in precedenza, noi teniamo, come Svimez, a dare anche indicazioni in positivo. Abbiamo parlato dell'esigenza di varare una nuova frontiera dello sviluppo, come, e non è per nostalgia, quella che fu varata negli anni Cinquanta e Sessanta per arrivare al miracolo economico italiano. La nostra - per diretta esperienza, non mia, ma dell'istituzione che rappresento - fu una ricetta molto meridionale. Il miracolo economico italiano è basato su alcuni elementi, tra cui l'intervento straordinario, la riforma agraria, l'immigrazione e la costruzione delle cosiddette cattedrali nel deserto, che hanno consentito il miracolo economico.
Oggi, a nostro avviso, si tratta di ripetere un'operazione del genere.


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GIULIANO CAZZOLA. Anche una grande emigrazione al nord!

ADRIANO GIANNOLA, Presidente della Svimez. Certo, l'ho ricordata. Senza abbattere la produzione agricola, ma anzi aumentandola grazie alla riforma agraria! È il modello che gli economisti conoscono molto bene e che fu sperimentato in Italia per la prima volta.
Si parla della demonizzazione dell'intervento straordinario, ma dal 1950 al 1973, si dovrebbe parlare dell'enorme successo dell'intervento straordinario, comprese le cattedrali nel deserto e quella spesa pubblica, erogata in quel modo e con quelle imprese, senza le quali non saremmo entrati in Europa e non avremmo conquistato il mercato interno europeo. Ciò ci ha consentito di tirare avanti, grazie alle svalutazioni, che sono state il surrogato della politica: si è così compiuto il miracolo dei distretti industriali basato sulle svalutazioni, compresa quella del 1992 (prima crisi finanziaria in cui il Mezzogiorno è uscito dal sistema Italia di fatto).
Oggi dovremmo riflettere su questo punto. Gli elementi positivi per ritrovare un ruolo fondamentale del Mezzogiorno, per l'Italia e non per il Mezzogiorno, ci sono e ce ne sono tanti. Cito alcune etichette: Mediterraneo, logistica, energie, ambiente, acqua sono tutte direzioni praticabili immediatamente, se solo si volesse.
Ciò comporta responsabilità a livello statale, di strategia, di politiche industriali, di fiscalità di vantaggio come complemento da contrattare con l'Europa e da imporre con l'Europa. Non possiamo competere con l'Irlanda, che, essendo uno Stato, può fare quello che non può fare una regione di 20 milioni di abitanti in un sistema di unione monetaria. Ci rendiamo conto di che cosa stiamo parlando? Non mi risulta che nessuno a livello politico abbia mai posto queste condizioni. Noi ci poniamo il problema dello stock di debito. Certo, ce lo poniamo, ma poniamoci allora anche questi problemi.
Ciò premesso, il Mezzogiorno ha ampie possibilità di essere l'elemento trainante di un rinnovato processo di crescita nazionale. Su questo punto forse con il nord ci sarebbe da costruire, invece di divaricare o di divagare sul federalismo fiscale, che può essere uno strumento utile, ma all'interno di un discorso strategico nazionale.
Ovviamente questi sarebbero temi su cui mi piacerebbe molto confrontarmi in audizioni operative, individuando che cosa fare. Porto solo un esempio, che citiamo sempre. Il Mezzogiorno d'Italia, dal bacino del Tirreno occidentale alla Sicilia, è un'area di enorme potenziale di energia geotermica. L'ha sostenuto il premio Nobel Rubbia, parlando a sfavore delle centrali nucleari e a favore della geotermia. Come mai non se n'è realizzata una? Chiediamo all'Eni e a imprese che hanno un azionista pubblico che può imporre strategie di compiere interventi che abbiano un senso.
Tali interventi imporrebbero poi alle regioni di non guardarsi l'ombelico, ma di attuare una strategia coordinata. Non è vero che il Mezzogiorno è cresciuto granché più del nord; il problema è che il nord ha cominciato a crollare prima del Mezzogiorno, perché il Mezzogiorno era un'area che non aveva grande rilievo sui mercati internazionali.
Ancora ci si illude al nord che col federalismo si risponda a questo problema, togliendo il Mezzogiorno dai conti. Il Mezzogiorno non è affatto cresciuto, come afferma Ricolfi, più del nord; è cresciuto lentamente, come sempre, mentre il nord ha cominciato a decrescere velocemente come non mai da quando è entrato nell'euro.
Ci rendiamo conto che il sistema sta andando incontro alla paralisi e allo sgretolamento? C'è una strategia alternativa? Certo, flessibilità, privatizzazioni, liberalizzazioni sono un contorno eventuale di una strategia che manca. O si discute sulla strategia, il che significa politiche industriali, politica fiscale, scelte settoriali in cui occorre un intervento. Se l'intervento spontaneo non c'è, le imprese pubbliche, a cominciare dalle Ferrovie, debbono compiere la logistica, debbono generare l'energia. Se noi, invece, ci attestiamo, come abbiamo fatto per le banche, e oggi lo


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paghiamo, su una visione per cui la banca è un'impresa e non deve essere controllata, ci ritroviamo nella situazione presente.
Questo è il quadro generale. Pregherei, per entrare nel particolare, i colleghi di aggiungere le loro considerazioni.

LUCA BIANCHI, Vicedirettore della Svimez. Sul tema scuola e abbandoni un problema è senz'altro quello del sistema di welfare. Noi l'abbiamo messo nel testo e magari non abbiamo avuto modo di richiamarlo ampiamente.
Esiste un problema profondo di impoverimento delle famiglie che ha inciso sulle condizioni di vita e sui consumi, ma anche sull'interruzione di questo straordinario processo di scolarizzazione che c'era stato nel Mezzogiorno. C'è un'interruzione sia sui livelli alti, sia, per esempio, nella riduzione degli abbandoni scolastici. Anche in tale ambito avevamo raggiunto negli ultimi quindici anni rilevantissimi risultati e, di fatto, la concentrazione di questi fenomeni era esclusivamente in alcuni grandi periferie urbane, mentre tutti i dati sono ora in controtendenza.
Ciò significa che l'impoverimento delle famiglie sta incidendo anche significativamente sulla possibilità di accesso alla scuola. È un settore dove la riduzione delle erogazioni per i libri di testo e l'assenza di una tutela universale del reddito sono questioni che, in una fase di crisi, rischiano di trasmettersi su questa generazione e, in prospettiva, anche sulle generazioni successive.
Parliamo poi di un'interruzione del processo di accumulazione di capitale sociale, come se questo processo di accumulazione di capitale, non soltanto produttivo, ma anche sociale, si fosse interrotto nel Mezzogiorno. Il dato sull'iscrizione all'università è esattamente parallelo, cioè contemporaneo, nel nord e nel sud; tutti i dati sulla disoccupazione giovanile vedono un peggioramento al nord quasi più forte che al sud, pur se su livelli migliori.
Ciò significa che è un problema di modello di sviluppo in cui il nostro Paese non offre opportunità a chi è più qualificato. Il problema non è tanto che è giovane, ma che è più qualificato. C'è uno scollamento tra progressi del sistema formativo e regressi nel sistema produttivo, che incide profondamente sul sistema scuola, il quale, lo sottolineo, dovrebbe essere un elemento di allarme straordinario. Infatti, esso è la campanella che arriva prima di tutti gli effetti che arrivano successivamente a causa dei ritardi sul sistema scolastico e formativo.
Il secondo tema, che affronterò sempre molto rapidamente, è il sommerso. Noi sul sommerso abbiamo svolto numerosi approfondimenti negli scorsi anni. Capisco la difficoltà che tutte le politiche hanno riscontrato, perché anche i contratti di allineamento, un'esperienza sperimentata ampiamente nel settore tessile, ebbero una fase, soprattutto in Puglia, in cui sembrava che riuscissero a impattare, ma poi hanno subìto un arretramento.
Su quel tema elementi esclusivamente di sgravio sul costo del lavoro sono condizione necessaria, ma non sufficiente. Servono procedure di accompagnamento all'emersione che riguardano anche il mercato in cui l'impresa sommersa opera. Il problema è anche di mercati nel Mezzogiorno, non soltanto di costo del lavoro, che è senz'altro determinante.
Noi, infatti, distinguemmo tra sommerso di necessità e sommerso di convenienza. In relazione al primo, avevamo visto che il valore aggiunto per addetto non consentiva il pagamento di un costo del lavoro adeguato, non solo di un costo del lavoro contrattuale, ma neanche adeguato alla vita normale. È difficile accedervi, se non con politiche molto complesse. Sul sommerso di convenienza ovviamente il mix di controlli e di misure di accompagnamento può incidere.
Mi collego, infine, all'ultimo tema, flessibilità e politiche del lavoro. Noi esprimiamo un giudizio netto sulle flessibilità


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in entrata, sull'offerta di lavoro in entrata. Sulla riduzione del costo del lavoro in entrata si è fatto il possibile e ciò ha inciso un po', quando l'occupazione cresceva. Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni 2001-2002 il pacchetto Treu ha avuto un impatto, a nostro parere, significativo anche nelle regioni del Mezzogiorno, però, in assenza di una dinamica complessiva di crescita economica, sull'offerta la flessibilità ha molto poco impatto, anzi ha un impatto negativo determinante.
Diverso è, invece, il tema del costo del lavoro. Rispondendo anche all'onorevole Damiano, noi crediamo, e l'abbiamo sempre sostenuto, che forme di credito di imposta in grado di ridurre il costo del lavoro per un tempo determinato collegato a processi di regolarizzazione siano realtà molto importanti nel Mezzogiorno, perché sono politiche di breve periodo e di carattere compensativo sulle imprese.
Credo che dobbiamo cominciare a riflettere, però, se valga la pena attuarle per tutti o concentrarle, per esempio, sui laureati e sulla componente più qualificata o su settori legati a processi di innovazione. Inoltre, il credito d'imposta, che è generalista nell'erogazione, non necessariamente deve essere generalista nella selezione. Non deve essere necessariamente per tutti.
Rapidamente, sulla questione di contrattazione e flessibilità, noi abbiamo aperto a possibilità di adattamento del costo del lavoro alla produttività, però riteniamo che proprio in aree deboli come il Mezzogiorno l'unico elemento vero di garanzia sia rappresentato dal contratto nazionale. Noi abbiamo sempre detto sì alle deroghe, ma soltanto se previste dal contratto nazionale.
Nel caso in cui ci si affidi esclusivamente al contratto aziendale, la debolezza sul mercato del lavoro dei sindacati e dei lavoratori - ancora peggio - nelle imprese meridionali e il rischio di finire nel sommerso farebbe arrivare a deroghe veramente eccessive, se non inserite in un quadro nazionale.

RICCARDO PADOVANI, Direttore della Svimez. In merito all'elemento che era stato sollevato dall'onorevole Gatti, sul fatto del Mezzogiorno che è cresciuto di più, occorre dire, in verità, che esso non è mai cresciuto di più neanche nei primi anni Duemila. È cresciuto fino al 2001. Dopo è cresciuto di meno e ha avuto un avvicinamento di prodotto pro capite solo perché c'era una dinamica demografica più bassa.
Successivamente, dagli anni 2004-2008, anche prima della crisi, soprattutto nel caso dell'industria, la produzione del Mezzogiorno è andata meno bene. È andata già in negativo allora, con il nord che teneva. Tuttavia, il nord, che realizzò un incremento cumulato del 2 per cento, si confrontava, ed è quello che sottolineava il presidente Giannola, con un 10 per cento medio dell'Unione europea.
Questo elemento non c'è stato, anzi è peggiorato di recente. L'elemento più forte che si ricollega al discorso della politica industriale è che già negli anni prima della crisi il Mezzogiorno ha iniziato uno spiazzamento delle produzioni delle imprese più piccole, cioè del famoso made in Italy, che sta crescendo, perché effettivamente il contenuto delle importazioni degli altri Paesi di lavoro qualificato sta crescendo e, quindi, il Mezzogiorno viene spiazzato ancora più del nord.
Infine, come ultima risposta all'onorevole Damiano, la politica industriale serve moltissimo, perché il Mezzogiorno negli ultimi anni (dal 2007) ha accusato una vera e propria sparizione dalla politica industriale specifica, dal momento che la legge n. 488 del 1992 non è stata rimpiazzata. Esiste un'esigenza molto forte di sostenere le piccole e medie imprese, che hanno una debolezza notevole: occorre cercare di farle crescere come dimensione e farle andare sui mercati internazionali ancora di più di quelle del nord.
L'altra esigenza è quella dell'attrazione effettiva di capitale estero, perché il sud è


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fuori proprio dai circuiti che hanno portato allo sviluppo delle altre economie in via di sviluppo. La Cina e altri Paesi sono cresciuti soprattutto con grandi capitali mobili internazionali, mentre il sud nella prima parte degli anni Duemila aveva 13 dollari per abitante di investimenti diretti esteri, contro una media europea di 300 dollari (l'Irlanda era a 1.000). Non ha mai partecipato ai flussi, quindi servono sia interventi sul contesto, in primo luogo sulla sicurezza e sulle infrastrutture, sia politiche attive. Questa è una leva che nel Mezzogiorno andrebbe ripristinata.

PRESIDENTE. Ringrazio gli intervenuti e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,35.

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