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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione XI
2.
Martedì 29 settembre 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Moffa Silvano, Presidente ... 2

INDAGINE CONOSCITIVA SU TALUNI FENOMENI DEL MERCATO DEL LAVORO (LAVORO NERO, CAPORALATO E SFRUTTAMENTO DELLA MANODOPERA STRANIERA)

Audizione di rappresentanti del CNEL:

Moffa Silvano, Presidente ... 2 7 10 12
Bobba Luigi (PD) ... 8
Cazzola Giuliano (PdL) ... 7
Fedriga Massimiliano (LNP) ... 8
Gatti Maria Grazia (PD) ... 9
Marzano Antonio, Presidente del CNEL ... 2 10
Mosca Alessia Maria (PD) ... 9
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP.

COMMISSIONE XI
LAVORO PUBBLICO E PRIVATO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 29 settembre 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SILVANO MOFFA

La seduta comincia alle 12,40.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti del CNEL.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva su taluni fenomeni distorsivi del mercato del lavoro (lavoro nero, caporalato e sfruttamento della manodopera straniera), l'audizione di rappresentanti del CNEL.
Sono presenti il professor Antonio Marzano, presidente del CNEL, il dottor Michele Dau e il dottor Stefano Bruni.
Do la parola al presidente Antonio Marzano per lo svolgimento della relazione.

ANTONIO MARZANO, Presidente del CNEL. Desidero ringraziare il presidente per questo invito a trattare un tema che ha sempre costituito oggetto di approfondimento e di dibattito presso il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro.
Nel corso degli anni, il CNEL ha prodotto vari documenti e organizzato diverse iniziative. In questa sede, in particolare, desidero ricordare un rapporto di indagine, due documenti di osservazioni e proposte e un convegno molto approfondito sulle misure legislative e le politiche della lotta all'economia sommersa. Inoltre, desidero rendere noto che si è insediata un'importante Commissione, guidata dai presidenti di Camera e Senato e da chi vi parla, presidente del CNEL, che ha assunto un'iniziativa interistituzionale dal titolo «Il lavoro che cambia», i cui risultati sono stati presentati, con la partecipazione del Presidente della Repubblica, il 3 febbraio di quest'anno.
Per il momento, mi limiterò a fornire un'esposizione sommaria, ma se credete lascerò agli atti della Commissione un documento scritto.
Il lavoro irregolare e l'economia cosiddetta «informale» hanno ancora un'incidenza troppo alta sul PIL nazionale. Uno studio sul lavoro irregolare, prodotto dalla Commissione europea, rileva tra l'altro un movimento divergente dell'Italia rispetto alla media dei Paesi dell'Unione europea e dell'Europa dei quindici.
Mentre in Europa si stima che l'incidenza di questo elemento distorsivo, ovvero il lavoro irregolare, sul PIL si attesti in media sotto il 5 per cento, secondo i dati della Commissione europea - mi sto riferendo ad una stima altrui - risulta che in Italia tale valore raggiunga il 18 per cento.
È utile citare anche alcuni dati forniti da una recente indagine (del 2007) dell'Eurobarometro sulle categorie di lavoratori che risultano maggiormente coinvolte nel lavoro irregolare, nei 27 Paesi dell'Unione europea. Tale indagine ha rilevato che, nel 41 per cento dei casi, sono i disoccupati ad essere più soggetti a vivere situazioni di irregolarità lavorativa. Ad


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essi, seguono gli immigrati, nel 23 per cento dei casi, e i lavoratori autonomi, nel 13 per cento dei casi.
In Italia, invece, sono gli immigrati ad essere maggiormente coinvolti nelle attività irregolari, con il 33 per cento, seguiti dai disoccupati e dai lavoratori autonomi. Germania e Francia fanno registrare percentuali in linea con l'Europa, mentre l'Italia è più prossima alla situazione della Spagna e della Grecia. Devo subito precisare che ho citato delle stime, ma ovviamente il fenomeno non è facile da rilevare e neppure da stimare, a causa della sua stessa natura.
Per valutare la diffusione e la dimensione del lavoro nero è necessario ricorrere a fonti e definizioni che considerano il lavoro nero accanto ad altre forme di irregolarità.
La principale e più affidabile fonte per il nostro Paese è l'ISTAT, che da anni ha affinato e realizzato un metodo di stima delle unità di lavoro irregolari, ritenuto talmente attendibile da essere stato acquisito dall'Eurostat.
I più recenti dati dell'ISTAT sono riferiti, però, al periodo 2001-2006 e sono stati pubblicati nel febbraio del 2008. È un peccato: la qualità è buona, ma c'è un certo ritardo.
Per quanto attiene alla definizione e alla misurazione del fenomeno del lavoro irregolare, i documenti del CNEL hanno sposato l'approccio dell'ISTAT, in base al quale vengono ormai prodotte stime sistematiche del lavoro definito «non regolare», che nella pubblicistica corrente - oltre che nei commenti della grande stampa - viene in effetti chiamato «lavoro nero». Quindi, si intende convenzionalmente per lavoro irregolare, il lavoro nero.
«Si dicono non regolari - afferma l'ISTAT - le posizioni lavorative svolte senza il rispetto della normativa vigente, in materia fiscale-contributiva, quindi non osservabili direttamente presso le imprese, le istituzioni e le fonti amministrative». La definizione di lavoro non regolare, quindi, è più ampia di quella di lavoro nero e comprende tutte le situazioni in cui la prestazione lavorativa non viene svolta in modo del tutto conforme alle leggi e ai contratti vigenti. Queste violazioni possono essere di varia ampiezza e determinare anche solo un parziale occultamento della prestazione lavorativa - per cui, in contrapposto al lavoro nero, qualche volta si parla di lavoro grigio - tale da non configurare condizioni di elevato sfruttamento. In altri termini, c'è una irregolarità che però potrebbe anche non essere considerata una vera e propria forma di grave sfruttamento. Invece, le recenti trasformazioni del mercato del lavoro mostrano nuove tipologie di sfruttamento, dissimulate da forme contrattuali flessibili. È il caso del prolungamento dell'orario di contratti part time o dall'impropria definizione di lavoro autonomo per rapporti, a tutti gli effetti, invece subordinati.
L'ultimo rapporto sul mercato lavoro del CNEL - come sapete, il CNEL produce ogni anno un rapporto sul mercato del lavoro - ha messo in evidenza che l'economia sommersa in Italia si intreccia con le caratteristiche di un sistema economico contraddistinto da ampi divari territoriali. Questo è un aspetto importante del problema.
In particolare, la composizione quali-quantitativa del sommerso varia a seconda del livello di sviluppo delle strutture economiche di riferimento, per cui si può configurare una tipologia di sommerso prevalente nelle aree del Nord, legato a forme di evasione fiscale e contributiva - connesse soprattutto al secondo lavoro e al «fuori busta» - che è molto diverso dal sommerso nel Mezzogiorno. Nel sud i fattori di disagio che sono all'origine del sommerso sono più diffusi, per cui il fenomeno tende ad assumere un carattere quasi endemico. Queste considerazioni, di ordine strutturale, devono essere tenute adeguatamente in conto nel valutare i possibili effetti della crisi sull'occupazione irregolare.
Le più recenti stime della SVIMEZ, relative al 2009, indicano una flessione nel 2008 delle unità di lavoro irregolare (meno 22.000 unità), dopo una lieve contrazione del 2007, a fronte di una sostanziale stazionarietà delle unità di lavoro regolari.


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Il dato nazionale, tuttavia, sottende dinamiche che tutto sommato sembrano simili nelle due circoscrizioni, almeno per quanto riguarda il 2008: una diminuzione dello 0,7 per cento nel Mezzogiorno e dello 0,8 per cento nel centro nord, dopo un'evoluzione invece divergente che aveva caratterizzato il 2007, con una sensibile flessione del Mezzogiorno (meno 2 per cento) e un incremento nelle regioni del centro nord. Sembrano avere un ruolo significativo sull'andamento del lavoro irregolare le politiche per favorire l'emersione, in particolare nel settore delle costruzioni.
L'entrata in vigore del Documento unico di regolarità contributiva (DURC) e il collegamento stabile fra Casse edili, INPS e INAIL hanno funzionato positivamente. Il settore edile, infatti, si caratterizza per la netta flessione del tasso di irregolarità, che passa dal 15 per cento del 2001 al 9,8 per cento del 2008. L'impatto della nuova normativa è confermato dal fatto che anche nel Mezzogiorno, dove la presenza di lavoratori stranieri è molto minore, il tasso di irregolarità del settore edile scende sensibilmente, passando dal 29,7 per cento del 2001 al 18,6 per cento del 2008.
Secondo l'ISTAT, i fattori che contribuiscono fortemente ad accrescere l'occupazione dipendente regolare sono due: la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro dipendenti regolari - in termini di orario, durata e nuove forme di contratto - e le sanatorie di legge a favore dei lavoratori extracomunitari. Mi riferisco, in particolare, alla legge del 30 luglio 2002, la quale ha consentito a molti lavoratori stranieri di regolarizzare la loro presenza sul territorio e anche la loro posizione fiscale e contributiva.
In ultima analisi, in termini di unità di lavoro non regolari, il fenomeno subisce tra il 2001 e il 2006 una contrazione che, in presenza di una moderata espansione della occupazione totale, fa scendere in quel periodo il tasso di irregolarità dal 13,8 al 12 per cento.
Tra le posizioni lavorative non regolari, circa 3 milioni, i quattro quinti sono rappresentate da lavoratori dipendenti. Il tasso di irregolarità ha inoltre una forte differenziazione per settore: molto alta è l'irregolarità nell'agricoltura, che nel 2006 si attestava al 22,7 per cento.
L'altro settore in cui si concentra il lavoro non regolare è quello dei servizi, in particolare commercio e pubblici esercizi, dove il tasso di irregolarità sfiora il 20 per cento e si mantiene costante negli anni. In questo ambito, le attività in cui più si raccoglie il lavoro irregolare sono: i servizi alle persone (collaboratori domestici, badanti e colf), la ristorazione, le attività di loisir, i servizi di pulizia e quelli di trasporto.
Nel settore delle costruzioni, i dati dell'ISTAT mostrano un andamento decrescente negli ultimi anni - ma parliamo sempre del periodo compreso tra il 2000-2001 e il 2006 - perché in questo settore il numero degli irregolari passa dal 15 all'11 per cento. Ciò è da ricondurre principalmente alle politiche per la sicurezza del lavoro e al controllo della regolarità del lavoro nelle imprese.
Invece, il tasso di irregolarità è relativamente basso nell'industria manifatturiera rispetto agli altri settori che ho citato, e mostra un andamento decrescente negli ultimi anni, passando dal 4,6 per cento del 2000 al 3,7 per cento del 2006.
Un altro fattore di articolazione del fenomeno, come già accennato, è quello territoriale, con una forte intensità del fenomeno nel Mezzogiorno. In particolare, è possibile rilevare un tasso di irregolarità per regione che vede al primo posto la Calabria (26,9 per cento), seguita dalla Sicilia (21,4 per cento) e dalla Basilicata (20,1 per cento). Tra le regioni del centro, si segnala l'Umbria, mentre la prima regione del nord Italia è la Val d'Aosta.
La crisi in atto potrebbe aumentare la propensione verso il lavoro irregolare per coloro che perdono un lavoro regolare, oppure vedono aumentare le difficoltà di ingresso nel mercato del lavoro, andando così ad ingrossare le file di quello che viene denominato il «sommerso di necessità», più marginale e debole settore rifugio delle fasce più deboli.


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Il problema richiede qualche considerazione particolare, con riferimento al caso degli immigrati. In Italia, un gran numero di immigrati si inserisce nel mercato del lavoro, in quanto disponibile ad accettare un'occupazione anche più dequalificata rispetto alla propria formazione.
Questo risulta dal nostro rapporto 2009, dedicato soprattutto al cosiddetto fenomeno della over education, ovvero una formazione superiore a quella strettamente necessaria per il lavoro che si svolge. Ciò è molto diffuso fra gli immigrati.
Dai dati della rilevazione del 2008 sulle forze di lavoro risulta che quasi tre stranieri su quattro sono operai o svolgono un lavoro non qualificato. Meno del 20 per cento si colloca nel gruppo delle professioni collegate alle attività commerciali e di servizi e solo l'8 per cento svolge professioni cosiddette «qualificate», le quali peraltro, nel caso degli stranieri, coincidono prevalentemente con la gestione di piccole attività imprenditoriali, soprattutto nei campi della ristorazione e della vendita al dettaglio.
La concentrazione dell'occupazione straniera nei lavori a bassa specializzazione sconta sia la persistente domanda rivolta verso questi lavori, a sua volta collegata alla bassa disponibilità della forza lavoro italiana disposta a svolgere quei lavori, sia la maggiore disponibilità degli immigrati ad accettare tutti i tipi di lavoro, anche i meno qualificati, per motivi materiali ma anche per questioni legate agli aspetti normativi, dal momento che lavorare è un requisito fondamentale per risiedere anche legalmente.
Nel rapporto OCSE-SOPEMI - che noi abbiamo seguito - si evidenzia come il calo dell'attività economica nell'area dell'Unione europea (circa - 4,3 per cento del PIL, nel 2009) colpisca soprattutto i lavoratori immigrati. Infatti, da quanto emerge dal suddetto rapporto, gli immigrati sono i primi ad essere licenziati e i datori di lavoro sono più reticenti ad assumerli. Questo fatto è intuitivo, ma provato anche dai dati.
Per quanto riguarda le politiche per l'emersione in Italia, l'esigenza di trovare una soluzione al problema è oggi avvertita come una questione fondamentale. I Governi che negli ultimi anni si sono succeduti alla guida del Paese, e d'altra parte i Governi dell'Unione europea, si sono impegnati a sostenere una politica per l'emersione, al fine di individuare le condizioni che favoriscono il proliferare delle attività sommerse, e quindi a combattere la diffusione del fenomeno.
Questi sforzi hanno visto partecipi, nell'ultimo decennio, sia le forze sociali sia lo Stato e i Governi nelle diverse articolazioni, e hanno sicuramente contribuito ad una migliore conoscenza e a una maggiore capacità di interpretazione del fenomeno. Quindi, tali sforzi hanno consentito di fare un passo avanti, seppure non ancora sufficiente rispetto agli inizi degli anni Novanta.
Coerentemente con quanto indicato a livello europeo, in Italia sono stati predisposti, a partire dal 1989, una serie di interventi mirati, da una parte a incentivare le aziende che intendono emergere, dall'altra a potenziare l'attività ispettiva e di controllo. Non vi leggo tutti gli interventi legislativi che sono stati prodotti, ma li lascio nella sintesi depositata presso la vostra Commissione.
Le considerazioni che ho svolto, nel complesso e peraltro sinteticamente, spingono a pensare che il problema vada affrontato predisponendo una strategia complessiva, che faccia leva sulla vigilanza, su interventi di semplificazione della normativa, di incentivazione e, soprattutto, su politiche di sviluppo locale.
Appare necessario - ritiene il CNEL - ragionare su un percorso a 360 gradi, che prenda le mosse da alcuni fattori chiave. Il primo è ovviamente una maggiore affermazione della cultura della legalità. Il sapere e la conoscenza rappresentano una delle principali leve su cui agire per garantire alle persone più spazi di partecipazione, più consapevolezza e in definitiva più libertà.
È indispensabile impegnarsi per costruire un sistema che, nell'arco della vita


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lavorativa, consenta di migliorare nel continuo la professionalità, di aumentare il livello di soddisfazione sul lavoro e di dare maggiori opportunità di crescita a tutti.
Questa impostazione - difficile, è ovvio - consentirebbe di contrastare la diffusione dell'economia irregolare e di favorire l'affermazione della cultura della legalità e di una più consapevole e responsabile cultura del valore dell'impresa e del lavoro.
A questo scopo, ci pare indispensabile l'azione congiunta di tutti gli attori impegnati su questo fronte, siano essi soggetti istituzionali, forze sociali, scuola, università, enti di formazione e di ricerca. Cooperare nell'interesse dello sviluppo e della legalità significa: scambiarsi informazioni e know how; avviare campagne di sensibilizzazione, rivolte soprattutto ai giovani; accompagnare i progetti di incentivazione dell'occupazione con pacchetti di formazione alla legalità per i lavoratori e per gli imprenditori; monitorare gli effetti ottenuti dalle iniziative prese di volta in volta; implementare una legislazione più aderente al tessuto industriale italiano, che crei maggiori opportunità per lo sviluppo e che renda più appetibile la legalità.
Il secondo punto riguarda la semplificazione delle normative e l'efficienza della pubblica amministrazione. Questo rappresenta un ambito essenziale di intervento, con l'introduzione di innovazioni all'interno delle pubbliche amministrazioni, basate su nuove modalità di coordinamento fra enti e fra settori dello stesso ente e un ruolo più efficace nell'erogazione di servizi ai cittadini e alle imprese.
Più in particolare, all'interno di un processo di semplificazione della normativa relativa agli adempimenti a carico delle imprese e di riduzione dei costi e dei vincoli che ne limitano la crescita, occorre incoraggiare e rafforzare il dialogo fra le istituzioni locali, con il potenziamento di strumenti, peraltro già esistenti (i servizi per l'impiego e gli sportelli unici) e con l'implementazione di iniziative di coordinamento, orientamento e consulenza, anche per contribuire alla costruzione di un nuovo rapporto di fiducia fra poteri pubblici e cittadini.
Il terzo fattore consiste nel potenziare e rendere più efficaci i servizi ispettivi. Si è già avuto modo di sottolineare in precedenza che reprimere i comportamenti in violazione delle norme, per alimentare una cultura della legalità, è essenziale. Occorre, quindi, migliorare ancora di più il coordinamento fra gli istituti preposti al controllo di legalità; potenziare le risorse finanziarie - i servizi costano - tecnologiche e umane dei diversi servizi ispettivi; una maggiore programmazione dell'attività di vigilanza e coordinare queste attività fra i diversi centri che ne hanno la responsabilità.
Il ruolo dell'attività di vigilanza va potenziato non soltanto nel suo aspetto repressivo, ma anche in quella informativo e preventivo. La vigilanza potrebbe addirittura diventare un ulteriore strumento di osservazione del territorio e di stimolo all'attività.
Infine, l'ultimo fattore è rappresentato dallo sviluppo locale. È opinione del CNEL che le politiche per l'emersione debbano essere considerate parte di una politica economica volta alla qualificazione dello sviluppo produttivo del Paese, che restituisca competitività al nostro sistema - ci sono ragioni economiche che ci fanno pensare che il lavoro regolare abbia una produttività maggiore di quello irregolare - e consenta di avvicinarsi agli obiettivi occupazionali fissati con il vertice di Lisbona. Questa strategia a carattere generale (sviluppo locale) deve comunque coniugarsi con gli interventi di sviluppo del territorio. Non è più rinviabile l'esigenza di promuovere con maggiore forza azioni che tengano in giusto conto il territorio e le sue tipicità.
Una strategia che punti, nel contempo, all'emersione del nero e al consolidamento e alla creazione di imprese deve partire da un'analisi dei diversi sistemi locali e dalla promozione di modalità concertative bottom up, simili a quelle previste per la programmazione negoziata, che permettano di identificare le politiche ad hoc,


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ossia territorio per territorio. Sono quindi essenziali investimenti per le infrastrutture e per la creazione di nuovi e attrezzati insediamenti produttivi.
Nella parte del rapporto che non vi ho letto per ragioni di sintesi, osservo come in particolare gli immigrati si servano poco delle agenzie per l'impiego e cerchino piuttosto il lavoro attraverso conoscenze occasionali vicine ad essi. Ciò li spinge, quasi inevitabilmente, rispetto al caso in cui fruissero di più delle agenzie per il lavoro, verso lavori squalificati, dequalificati o addirittura irregolari. In qualche caso, quando si rivolgono a una rete di conoscenze sbagliata, possono anche spingersi verso lavori fuorilegge e criminali.
In conclusione, solo dopo aver offerto una serie di servizi di supporto per la creazione e lo sviluppo delle imprese, per facilitare l'accesso al credito, semplificare le procedure e per implementare e rendere effettiva la formazione, si potrà forse parlare di successo delle precondizioni della lotta alla economia sommersa.
In questo senso, bisogna gestire con grande oculatezza questa fase, che noi vediamo come di passaggio da una normativa eccezionale, ovvero nata da circostanze e necessità eccezionali, dunque caratterizzata dal susseguirsi di interventi nati per fronteggiare l'emergenza - non li ho elencati, ma sono stati molti - ad una strategia in cui i provvedimenti a favore delle emersioni siano inseriti in un più ampio contesto di riforma del mercato del lavoro e di sviluppo dell'economia.

PRESIDENTE. Do la parola ai deputati che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

GIULIANO CAZZOLA. Ringrazio il presidente Marzano per l'esposizione curata che ci ha presentato e per i dati che lascerà come contributo al lavoro di indagine di questa Commissione.
Mi limito a porre alcune domande. Presidente Marzano, lei ha parlato di un effetto negativo della crisi sull'immigrazione, ricordando tra l'altro anche i dati dell'Eurobarometro, che sono stati illustrati in questa Commissione anche dai rappresentanti del CENSIS nel corso della loro audizione.
Tuttavia, se ben ricordo, questa valutazione si pone leggermente in contrasto con i dati dell'ISTAT sull'andamento dell'occupazione e della disoccupazione nel primo trimestre, poi nel primo semestre, del 2009. Infatti, anche se alcune questioni attengono agli archivi - quindi il dato è un po' «sporco», come diceva lei - i dati della disoccupazione del primo trimestre dicono che la maggiore occupazione dei lavoratori stranieri, in numero di 222.000, ha praticamente dimezzato il tasso di maggiore disoccupazione complessiva.
In altre parole, siamo arrivati ad avere un numero di disoccupati pari, se ricordo bene, a 202.000, che derivano dalla somma algebrica tra meno 426.000 italiani e più 222.000 stranieri.
Tra l'altro, la dinamica positiva dell'impiego di lavoratori stranieri è continuata, seppure in termini più contenuti, anche nel secondo trimestre del 2009, con un risultato positivo - mi pare - di 10.000 occupati in più.
Quindi, in fondo l'occupazione di stranieri tiene, nonostante la crisi e nonostante sia vero che strutturalmente sono gli stranieri a concentrarsi di più nel lavoro sommerso. Questo - mi azzardo a sostenere e a chiedere anche la sua opinione - avviene in ragione del fatto che esistono lavori che in Italia vengono rifiutati dagli italiani, anche quando ci sono situazioni di crisi.
Dobbiamo ricordare anche il dato della sanatoria, ovvero il fatto che il Governo è stato costretto a fare una sanatoria per le persone addette ai servizi alla persona, anche se probabilmente i risultati saranno inferiori rispetto a quelli considerati, forse in ragione dei requisiti più che del numero degli utenti.
Sono convinto, ad esempio, che se c'è qualcosa da correggere questo elemento riguarda le venti ore settimanali, che rappresentano sostanzialmente un ostacolo alla regolarizzazione, non tanto delle badanti, quanto delle colf.


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Bisognerebbe riuscire a fare una specie di «nastro» dei diversi datori di lavoro - operazione comunque abbastanza complicata in quel settore - perché è improbabile che qualcuno assuma una colf per venti ore alla settimana, a meno che non si tratti di una famiglia con il maggiordomo, dal momento che di solito, nelle famiglie normali, le colf svolgono solo qualche ora di lavoro settimanale. Questa mi pare una contraddizione, che volevo chiarire con lei.
L'ultima domanda riguarda i dati dell'occupazione e della disoccupazione, sempre dell'ISTAT del primo semestre. Risulta che nelle regioni del centro nord l'occupazione continua a crescere di qualche punto decimale, mentre invece c'è una flessione molto grossa e preoccupante, dell'ordine di quasi il 4 per cento, nel sud. Ebbene, questa non può essere una prova del fatto che nel sud la crisi ha determinato una fase di ulteriore sommersione dell'economia, ovvero che in realtà questo crollo molto importante dell'occupazione trovi un riscontro nell'economia sommersa?

MASSIMILIANO FEDRIGA. Per collegarmi a quanto detto dal vicepresidente Cazzola, e quindi approfondire ad esempio la prima domanda, relativa ai lavori che i cittadini italiani non gradiscono svolgere, le domando se, insieme a questo parametro, si possa considerare anche il basso reddito che alcuni lavori comportano.
In altri termini, se una famiglia italiana non riesce a vivere con pochi euro al mese, un immigrato in una situazione difficile è più propenso ad accettare dei lavori a basso reddito, che chiaramente non gli garantiscono una buona qualità di vita. Tuttavia, ciò non vuol dire che a lui piaccia fare quel lavoro, semplicemente si trova in una situazione più difficile, quindi è disposto ad accettare anche salari estremamente bassi. Dunque, forse non è la tipologia di lavoro, ma il salario percepito in molti casi, che influisce sulla scelta dei cittadini del nostro Paese.
Al contempo, per quanto riguarda colf e badanti - faccio solo una puntualizzazione - credo che la ratio della norma non sia quella di regolarizzare gli immigrati - ovvero, non deve trattarsi di una sanatoria - ma di far emergere il lavoro nero.
Dunque, se regolarizziamo anche una persona che lavora solo per quattro ore, ciò vuol dire che teniamo in nero tutto il resto del lavoro e l'unico risultato che otteniamo è solo di creare nuovi permessi di soggiorno, che però non fanno realmente emergere tutto il lavoro nero realmente presente nel settore.
Per quanto riguarda la questione del centro sud, dove - come sottolineava l'onorevole Cazzola - si vede un aumento della disoccupazione, almeno secondo i dati ufficiali, le chiedo quale possa essere una reale soluzione di intervento.
Sono decenni, infatti, che si cerca di intervenire in tutto il Paese, ma soprattutto nel Mezzogiorno, per fare emergere il lavoro nero. Dunque, le chiedo quale potrebbe essere un intervento che il Governo e il Parlamento potrebbero intraprendere per cercare di ottenere realmente qualche risultato.

LUIGI BOBBA. Vorrei tornare sulla questione delle colf e delle badanti, sollevata dall'onorevole Cazzola, per porre una domanda. Prima, però, voglio esprimere una considerazione rispetto a quello che ha detto l'onorevole Fedriga, perché qui «la canzone» si ripete. Prima è stata approvata una legge che stabiliva che tutti gli immigrati dovevano andare via, poi ci si è accorti di determinate persone, e allora si è pensato che bisognava tenerle. Adesso, ci si accorge che venti ore non consentono di fare quello che sarebbe opportuno, normale e ragionevole fare.
Al di là di questo, probabilmente un intervento molto efficace - come quello che esiste, per esempio, in Francia - potrebbe essere quello di utilizzare il sistema della detrazione fiscale, oggi alquanto limitato, sia come cifra complessiva, sia come possibilità percentuale di detrazione. Questo potrebbe essere un elemento fortemente incoraggiante rispetto a tutta questa tipologia, dove il lavoro nero rappresenta un elemento prevalente e


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grandemente diffuso. Evidentemente, infatti, ci potrebbe essere un reciproco interesse, sia della famiglia, sia della persona, sia dello stesso Stato.
Mi domandavo, dunque, se il CNEL avesse fatto una stima sulla possibilità che, introducendo un sistema molto più favorevole dell'attuale, che è assolutamente poco favorevole, nelle politiche di emersione - ovvero, una misura perlomeno pari a quella prevista per la ristrutturazione delle case, per fare un paragone - si potrebbe generare un effetto positivo di contrasto e di emersione insieme.

ALESSIA MARIA MOSCA. Vorrei porre una domanda di carattere generale, in quanto l'indagine conoscitiva è sì sul lavoro sommerso e sul lavoro nero, ma contiene una parte anche sulla questione del caporalato. Mi chiedevo che incidenza avesse, in base alle stime del CNEL, il tema del caporalato e se ci fossero anche dei dati relativi alla distribuzione del fenomeno. Nel nostro immaginario collettivo, infatti, il caporalato è un fenomeno ristretto ad una singola regione, invece dalle cose che si leggono, anche se non organicamente documentate, questo fenomeno è in espansione anche in altre regioni.
Inoltre, vorrei porle una domanda più specifica. Lei ha citato i dati relativi al sommerso, che arrivano fino al 2006. In modo particolare, nel settore dell'agricoltura, che lei ha citato come essere quello ad incidenza più alta del lavoro sommerso e nero, mi chiedevo se alcune misure che sono state prese negli anni successivi - mi riferisco, nello specifico, al periodo che va dal 2006 al 2008 - quali la sperimentazione per esempio dei voucher o di altre forme contrattuali, avessero avuto un'incidenza positiva nella emersione del lavoro irregolare. Dunque, se si, di che tipo di incidenza si tratta e se quella è una strada che si può continuare a percorrere, oppure se al contrario essa genera dei fenomeni che sono più negativi, rispetto appunto ad altre questioni ad esso collegate, come lo sfruttamento o temi di questo genere.

MARIA GRAZIA GATTI. Anch'io ringrazio il presidente Marzano per la relazione, che leggerò con molta attenzione, perché mi interessa anche la parte relativa alla legislazione che lei ha chiamato «di emergenza». Sono assolutamente d'accordo sul fatto che c'è la necessità di passare a una legislazione connessa a tempi più regolari e tranquilli, anche se mi sembra di capire che i dati che ci vengono riproposti invece segnalano, per quanto riguarda l'Italia, una percentuale di lavoro nero assolutamente emergenziale.
Quando parliamo del 18 per cento, a cui va sommato il 5 per cento dei «lavoretti» irregolari, riconducibili per esempio ai voucher o a cose di questo tipo, le percentuali continuano ad essere molto significative.
Da questo punto di vista, ho apprezzato molto la riflessione che il presidente faceva sui DURC e sull'effetto che la loro introduzione ha avuto in edilizia. Chiederei al CNEL di monitorare la situazione, perché ho la sensazione che le forme di semplificazione che sono state adottate nell'ultimo periodo di fatto depotenzino molto questo strumento. Mi riferisco all'innalzamento della soglia su cui chiedere degli appalti, per cui chiedere il DURC, e così via. Bisognerebbe tentare di capire se uno strumento di questo tipo mantiene questa valenza. L'altro punto su cui concordo assolutamente è la necessità di effettuare un'azione di controllo molto stringente. In merito, rilevo la difficoltà di capire interventi come quelli che sono stati realizzati nell'ultimo anno, in cui i controlli sono stati di fatto ridotti. Sono stati ridotti i controlli territoriali e aziendali, con una circolare d'accompagnamento in cui si diceva che in una situazione di crisi era il caso di allentare le forme di controllo. Io penso, invece, che la situazione di crisi imponga un aumento dei controlli e allo stesso tempo probabilmente - e su questo sono d'accordo - forme di incentivo adeguate. Anche su questo, vorrei una sua considerazione.
Vengo ora, in termini generali, al tema dell'emersione. Ho avuto i dati relativi al 2007, forse, riguardanti quei cantieri con il


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20 per cento di lavoro nero, che venivano chiusi e poi riaperti. Quindi, si è verificato un fenomeno che è stato possibile quantificare. A prescindere da questi dati, c'è dell'altro? Lo chiedo perché non riesco a definire quanta emersione ci sia stata effettivamente.

PRESIDENTE. Prima di dare la parola al presidente Marzano per la replica, vorrei anch'io formulare una domanda. Lei ha correttamente parlato della necessità di una strategia complessiva per far fronte al fenomeno del lavoro nero, del lavoro irregolare, quindi per passare da uno stato eccezionale a uno stato di normalità.
Sostanzialmente, lei ha indicato alcuni fattori essenziali su cui far leva. Tra questi, ha parlato - io condivido molto - della necessità di una politica per lo sviluppo locale, che in qualche modo faccia tesoro delle esperienze positive della concertazione negoziata, quindi della programmazione negoziata, ovvero di alcuni modelli che in passato, ma anche recentemente, sono stati usati dalle amministrazioni, in particolare dalle regioni e dagli enti locali, per creare sviluppo sulla base di una lettura attenta delle dinamiche del territorio, sia delle potenzialità sia delle criticità, con un'analisi bottom up, come lei giustamente dice.
Lei ritiene che i patti territoriali, che soltanto in alcuni casi hanno prodotto effetti positivi - sono esempi abbastanza rari di positività - vadano riproposti così come sono stati a suo tempo immaginati, o è possibile, sulla scorta di esperienze straniere e basandosi su un maggiore dinamismo dei sistemi distrettuali, individuare fattori legislativi innovativi che possano creare strumenti di sviluppo locale molto più adeguati ai tempi e più dinamici?
Le chiedo questo proprio per cogliere gli aspetti che lei correttamente, nella sua analisi - della quale la ringrazio - ha posto alla nostra attenzione.

ANTONIO MARZANO, Presidente del CNEL. Non so se sono in grado di rispondere a tutte le domande che sono state formulate, alcune delle quali abbastanza complesse. Vorrei partire, se mi consentite, da una premessa. Due giorni fa, sono stato a Lione, perché volevano conoscere il mio punto di vista in relazione al confronto fra le politiche italiane e le politiche degli altri Paesi europei, in particolare la Francia.
Quello che emerge è che, dal punto di vista della disoccupazione, l'Italia non è poi tanto mal messa rispetto agli altri Paesi, perché il tasso di disoccupazione italiano - naturalmente parlo di dati ufficiali - mediamente è più basso di quello europeo. Ciò è dovuto a molti fattori, che ho cercato di illustrare in quell'occasione. Se vuole, Presidente - le documentazioni sono tante - vi posso far avere il testo del mio intervento svolto a Lione, per quello che possa valere.
Per quanto riguarda le previsioni del CNEL, nella relazione sul mercato del lavoro che abbiamo presentato a luglio, avevamo fatto una previsione di una perdita di posti di lavoro entro la fine dell'anno di circa 500.000 unità, purtroppo. Mi pare che questo dato trovi una certa conferma nei dati INPS - apparsi mi pare ieri, e di cui la stampa parla oggi - che parlano di 450.000 unità.
Finora, il Paese si è difeso bene, ma devo esprimere la mia personale preoccupazione per quello che avverrà, se non ci sarà la ripresa. Il ciclo conta molto, non lo dimentichiamo. Credo che forse la caduta sia finita, ma da qui a parlare di ripresa ce ne corre un po'. Una cosa è non continuare a cadere, ben altra è risalire.
I tempi sono un po' sfasati. In generale, quando una crisi nasce nel settore finanziario dell'economia - e questa è una crisi che nasce nella finanza - prima c'è la crisi finanziaria, poi si contagia l'economia reale (il mondo della produzione) e soltanto dopo l'occupazione. Non sono sicuro che la crisi dell'occupazione si sia già manifestata in pieno. Dipende da quello che si riuscirà a fare nel frattempo, con le opportune politiche.
I lavori non graditi, che sono poi quelli che svolgono gli immigrati, sono in genere


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anche i lavori a bassa produttività e quindi a basso salario. Questi lavori non sono graditi non solo per la qualità del lavoro stesso, ma anche, appunto, perché meno remunerati. Dunque, è chiaro che l'immigrato si rivolge proprio a quegli ambiti di lavoro: c'è poco da fare. Nel Meridione, questo fenomeno è accentuato, dove naturalmente il lavoro irregolare si manifesta di più, così come il lavoro di bassa qualificazione.
Se posso, vorrei aprire una piccola parentesi, ma a titolo personale: non è il CNEL a parlare. Quando si parla di differenziazione salariale, si deve tener conto non solo delle differenze nel costo della vita, ma anche del costo del vivere. Nel Meridione, come sapete, avere meno infrastrutture significa molte cose. Si vive una vita più difficile: i tempi di percorrenza dalla propria casa al lavoro e ritorno sono più lunghi e spesso i servizi pubblici non funzionano un granché bene. Insomma, il costo della vita non è rappresentato dalla media dei prezzi dei beni, ma c'è un costo del vivere di cui bisogna tener conto.
Il mio punto di vista, anzi il mio sogno, sarebbe che il Meridione non avesse più bisogno di trasferimenti a carico dello Stato, ma questo potrà accadere quando si sarà realizzata una migliore somiglianza strutturale fra la dotazione delle infrastrutture nel Sud, ad esempio, la convivenza legale e tutti gli altri fenomeni che sappiamo esistere.
Certo, ogni forma di incentivazione, come quella a cui si faceva riferimento, è utile. Ho l'impressione che tali forme siano più utili nella creazione di posti di lavoro, piuttosto che nella capacità di incidere sulla percentuale di lavoro regolare o irregolare - la quale potrebbe rimanere più o meno uguale - ma naturalmente anche la creazione di nuove occasioni di lavoro aiuta in questa nostra direzione.
Il caporalato esiste, è diffuso e non si tratta necessariamente del caporalato che alcuni film, ad esempio, ci hanno mostrato. Penso alla piazzetta con il caporale e gli uomini e le donne che offrono i propri servizi. Esistono forme più raffinate di caporalato, meno evidenti - se volete - dal momento che ci sono collegamenti fra «caporali», che sono più evoluti. Tuttavia, si tratta sempre di caporalato.
Per quanto riguarda le azioni da intraprendere, occorre avviare una politica sperabilmente non più emergenziale - messa in campo giustamente quando l'emergenza c'era - e sarebbe bene arrivare gradualmente a una politica di normalizzazione della situazione. Questo richiede controlli e anche più comunicazioni fra i responsabili dei controlli, i quali potrebbero essere messi in rete, in modo che si sappia gli uni degli altri. Occorrono, inoltre, una certa semplificazione e degli incentivi, come quelli che sono stati menzionati, ma ho l'impressione che ci sia soprattutto la necessità di politiche di sviluppo locale. Se il federalismo servirà a un maggiore incremento delle politiche di sviluppo locale, farà quello che ci si aspetta.
Vengo al tema dei patti territoriali, presidente. Credo che alcuni casi di patti territoriali positivi ci siano stati, altri no. Sarebbe interessante capire perché quelli sì e gli altri no, per cercare di individuare i punti di criticità, quando ci sono stati. Anzi, questo è un tipo di tema che mi permetterei anche di segnalare.
Oggi, i distretti industriali sono quelli su cui si deve contare per uscire dalla crisi e per avviare la ripresa. I distretti sono stati fondamentali per il nostro Paese, ma bisogna tener conto del fatto che tutto cambia nella nostra società e nella nostra economia, dunque il distretto non è necessariamente inteso in termini di contiguità territoriale delle imprese. Ci può essere una messa in rete anche a distanza fra parti di territorio non contigue, ma egualmente complementari nell'organizzazione della funzione complessiva di produzione, per usare un termine tecnico. Credo che si andrà di più in quella direzione.
Mi permetterei di aggiungere anche un'esperienza personale. L'Italia è il Paese dei cento comuni, e dunque ci sarebbe bisogno di una politica di efficienza


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urbana. Ho presieduto una Commissione bipartisan per il futuro di Roma capitale, a cui hanno partecipato membri di vario orientamento politico. Ebbene, la città nasce come distretto, ma non sempre lo è, ovvero non sempre il grado di efficienza dell'organizzazione urbana consente di definirla come un distretto di successo.
Diverso sarebbe il discorso se riferito al periodo agricolo della nostra storia. La città a quel tempo non era così importante, magari lo era dal punto di vista artistico e culturale. Invece, con l'urbanizzazione crescente le città dovrebbero diventare dei distretti. Forse una politica della competitività dovrebbe passare attraverso una fase di politica della città come distretto. Questo ai fini della politica di sviluppo locale che, a mio parere, è determinante per il tema che ci ha oggi occupato.

PRESIDENTE. Ringrazio il presidente Marzano, anche per aver messo a disposizione della Commissione ulteriori documenti, che saranno utili alla nostra indagine.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,35.

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