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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissioni Riunite
(I e II)
5.
Lunedì 6 giugno 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Bruno Donato, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DEL DISEGNO DI LEGGE C. 4275 COST. GOVERNO, RECANTE «RIFORMA DEL TITOLO IV DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE» E DELLE ABBINATE PROPOSTE DI LEGGE C. 199 COST. CIRIELLI, C. 250 COST. BERNARDINI, C. 1039 COST. VILLECCO CALIPARI, C. 1407 COST. NUCARA, C. 1745 COST. PECORELLA, C. 2053 COST. CALDERISI, C. 2088 COST. MANTINI, C. 2161 COST. VITALI, C. 3122 COST. SANTELLI, C. 3278 COST. VERSACE E C. 3829 COST. CONTENTO

Audizione dei professori Giulio Illuminati, ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi di Bologna, Vittorio Angiolini, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Milano, Vladimiro Zagrebelsky e Giuseppe Di Federico, professore emerito di ordinamento giudiziario presso l'Università degli studi di Bologna:

Bruno Donato, Presidente ... 3 10 14 19 26 31 37 39 44
Bongiorno Giulia, Presidente ... 24
Angiolini Vittorio, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Milano ... 10 24
Bernardini Rita (PD) ... 19 38
Bressa Gianclaudio (PD) ... 17 38 41
Calderisi Giuseppe (PdL) ... 16 20 39 42
Ciriello Pasquale (PD) ... 15
Di Federico Giuseppe, Professore emerito di ordinamento giudiziario presso l'Università degli studi di Bologna ... 31 33 42
Ferranti Donatella (PD) ... 15 39
Illuminati Giulio, Professore ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi di Bologna ... 3 19 20 21
Pecorella Gaetano (PdL) ... 14 21
Samperi Marilena (PD) ... 17
Vassallo Salvatore (PD) ... 18 37
Zagrebelsky Vladimiro, Professore ... 26 33 39 41 42
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Iniziativa Responsabile (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): IR; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

COMMISSIONI RIUNITE
I (AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI) E II (GIUSTIZIA)

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta antimeridiana di lunedì 6 giugno 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA I COMMISSIONE DONATO BRUNO

La seduta comincia alle 10,10.

(Le Commissioni approvano il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione dei professori Giulio Illuminati, ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi di Bologna, Vittorio Angiolini, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Milano, Vladimiro Zagrebelsky e Giuseppe Di Federico, emerito di ordinamento giudiziario presso l'Università degli studi di Bologna.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul disegno di legge C. 4275 cost. Governo, recante «Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione» e delle abbinate proposte di legge C. 199 cost. Cirielli, C. 250 cost. Bernardini, C. 1039 cost. Villecco Calipari, C. 1407 cost. Nucara, C. 1745 cost. Pecorella, C. 2053 cost. Calderisi, C. 2088 cost. Mantini, C. 2161 cost. Vitali, C. 3122 cost. Santelli, C. 3278 cost. Versace e C. 3829 cost. Contento, l'audizione dei professori Giulio Illuminati, ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi di Bologna, Vittorio Angiolini, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Milano, Vladimiro Zagrebelsky e Giuseppe Di Federico, emerito di ordinamento giudiziario presso l' Università degli studi di Bologna.
Comunico che il capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli ha trasmesso ai presidenti delle Commissioni riunite affari costituzionali e giustizia un documento unitario, predisposto d'intesa con il Comandante generale dell'Arma dei carabinieri e con il Comandante generale della Guardia di finanza, in relazione al disegno di legge costituzionale C. 4275 e alle abbinate proposte di legge costituzionale. Il documento è in distribuzione.
Ringrazio, a nome mio e a del presidente della II Commissione, i nostri ospiti della loro presenza e do la parola al professor Giulio Illuminati, ordinario di diritto processuale penale presso l'Università di Bologna.

GIULIO ILLUMINATI, Professore ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi di Bologna. Mi è stato chiesto di contenere l'intervento in mezz'ora. Cercherò di toccare rapidamente soltanto i punti che più direttamente riguardano il processo penale, ma ci sarebbe molto di più da dire; se ci sarà tempo, cercherò di approfondire eventuali argomenti che emergeranno dal dibattito.
Comincerei il mio intervento dalla separazione delle carriere che, in qualche modo, si pone al centro di questo provvedimento di riforma. Ho sempre ritenuto - e l'ho anche sostenuto in passato - che la separazione delle carriere tra pubblico ministero e giudice sia opportuna, se non


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altro per una questione di immagine. È una scelta politica che deve essere difesa, secondo me, ma si tratta pur sempre di una scelta politica, non di una conseguenza necessitata dalla riforma dell'articolo 111 della Costituzione (cosiddetto «giusto processo»).
Molti sostengono che, poiché la riforma del giusto processo ha introdotto i concetti di terzietà del giudice e di parità delle parti, questo comporterebbe necessariamente la separazione delle carriere. Non sono di questa opinione, perché sia la terzietà del giudice sia la parità delle parti vanno assicurate sul piano funzionale. Può esserci anche una separazione sul piano ordinamentale, ma non è indispensabile; la terzietà si può valorizzare anche in un sistema di carriere unite e viceversa.
Bisogna anche riconoscere che non si tratta di una scelta risolutiva. È vero che separare le carriere del pubblico ministero e del giudice probabilmente può far venire meno alcune contiguità e alcune affinità che sono del tutto inopportune, ma io penso che, comunque, tra giudice e pubblico ministero ci sia un'omogeneità di funzione: in sostanza, sono entrambi investiti dello stesso ruolo, quello di assicurare l'accertamento dei reati e di garantire l'applicazione della legge, soprattutto in un sistema come il nostro, in cui il giudice - piaccia o no, ma accade per tradizione risalente - è corresponsabile dell'accertamento. Nel nostro sistema il giudice non è un semplice arbitro (come nei sistemi propriamente accusatori) indifferente all'esito del processo. Il giudice ha come obiettivo quello di assicurare la corretta applicazione della legge e quindi anche, per esempio - l'ha detto la Corte costituzionale - di attivarsi, in caso di inerzia delle parti per disporre l'acquisizione di prove, il che in un sistema accusatorio, anche se formalmente non proibito, sarebbe assolutamente inopportuno. Dunque, se il giudice, in qualche misura, proprio per la sua funzione, è coinvolto nella responsabilità per l'accertamento, cioè non è indifferente al risultato, sarà difficile che non riconosca una differenza fra la posizione del pubblico ministero e quella del difensore, non fosse altro perché il pubblico ministero è portatore di un interesse pubblico, è imparziale e non ha altro scopo che quello di accertare la verità. Questo, ovviamente, andrebbe verificato caso per caso, però è inevitabile che il giudice abbia la tendenza a ritenere più credibile la posizione del pubblico ministero.
Il riequilibrio dunque non è soltanto nella separazione delle carriere, ma nel rafforzamento dei poteri delle parti private, in particolare della difesa. Una parità assoluta tra pubblico ministero e difensore non è assolutamente pensabile e non possiamo immaginare per essi - come qualcuno ritiene - poteri speculari e neanche simmetrici. Pubblico ministero e difensore sono parti asimmetriche, hanno diversi poteri: il pubblico ministero ha poteri coercitivi che il difensore non ha; inoltre, a differenza del difensore, il pubblico ministero ha, almeno allo stato attuale, la disponibilità della polizia giudiziaria che il difensore non ha. Non si può, quindi, pensare a un'equiparazione totale tra pubblico ministero e difensore, ma eventualmente si dovrà assicurare un equilibrio nel contraddittorio e la parità - come diceva Girolamo Bellavista - di potenza, non di poteri, delle parti.
Tra l'altro, io reputo - in questo sono piuttosto eterodosso rispetto alla dottrina dominante - che quando l'articolo 111 della Costituzione parla di parità delle parti intende che l'imputato deve avere poteri «almeno» equivalenti a quelli del pubblico ministero. È una norma di garanzia: non è una norma che tutela il pubblico ministero, ma una norma che tutela la difesa, quindi l'imputato può, a mio modo di vedere, avere anche una condizione di privilegio rispetto al pubblico ministero sotto alcuni aspetti.
Per questo motivo - e anche su questo sono stato assolutamente minoritario - non ho mai pensato che la cosiddetta «riforma Pecorella» forse incostituzionale per violazione del principio di parità delle parti. Ritenevo che fosse inopportuna per altri motivi, che riferirò se avremo tempo.


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Tuttavia ormai sono rimasto solo in questa posizione, considerato che mi ha dato torto anche la Corte costituzionale.
Ciò che forse non si apprezza abbastanza è che talvolta le norme di garanzia per l'imputato si trasformano, più o meno inopinatamente, in strumenti che potenziano la posizione del pubblico ministero. Mi riferisco non solo alla parità delle parti, ma ad esempio anche al principio della ragionevole durata, che molto spesso viene letta come uno strumento per assicurare l'efficienza della repressione e nemmeno su questo io sono d'accordo. La ragionevole durata è una garanzia - almeno nel processo penale, mentre nel processo civile il discorso potrebbe allargarsi ed essere modificato - per l'imputato di ottenere un accertamento in tempi brevi. Non credo che, almeno nella logica che ho espresso finora, l'articolo 111 della Costituzione si preoccupasse tanto dell'efficienza quanto invece delle garanzie per la difesa.
Non mi soffermo sugli aspetti tecnici, comunque devo dire che la modifica degli articoli 101, 102 e 104 della Costituzione, che costituzionalizza la separazione delle carriere, è una scelta, secondo me, legittima e opportuna dal punto di vista politico. C'è però un rischio - e questo è il vero problema quando si parla di separazione delle carriere - ossia quello di attrarre il pubblico ministero nella sfera dell'esecutivo. Molti segnalano questo problema, in merito al quale bisogna essere estremamente cauti.
Accanto alla separazione delle carriere occorrerebbe un rafforzamento dell'indipendenza del pubblico ministero per evitare che quest'ultimo finisca per essere condizionato dal potere esecutivo.
A questo riguardo la questione si fa più delicata, perché se contestualizziamo il principio della separazione delle carriere nell'ambito della riforma costituzionale, vediamo che invece ci sono diversi segnali in senso contrario che sembrano alludere a una più o meno espressa volontà della sottoposizione del pubblico ministero, in maniera indiretta, al potere esecutivo, o comunque a una scarsa attenzione alla questione.
Innanzitutto si parla di indipendenza dell'ufficio e non di indipendenza del pubblico ministero, il che ovviamente ha una logica, perché si vuole consentire un'organizzazione anche gerarchica dell'ufficio del pubblico ministero. Ma un'organizzazione gerarchica dell'ufficio del pubblico ministero - credo che questo sia noto - è possibile anche a Costituzione invariata, dunque non c'è bisogno per questo di modificare il testo della Costituzione. Infatti, l'ordinamento giudiziario prevede forme di organizzazione burocratico-gerarchica perché anche nel testo attuale della Costituzione, come tutti sanno, è scritto che i giudici sono soggetti soltanto alla legge (articolo 101), mentre il pubblico ministero è organizzato dalle norme sull'ordinamento giudiziario (articolo 107), pur essendo chiaramente riconosciuta la sua garanzia di indipendenza, anche se in maniera forse non perfettamente limpida. Quando, infatti, la Costituzione assicura che il pubblico ministero presso le giurisdizioni speciali sia indipendente (articolo 108), è chiaro che, con un semplice ragionamento a fortiori, si deduce che anche il pubblico ministero presso la giurisdizione ordinaria debba essere indipendente.
Il primo punto debole, quindi, secondo me, è questa imprecisa definizione, o per lo meno non sufficiente garanzia dell'indipendenza del pubblico ministero. Non parlo di azione penale diffusa o di azione penale centralizzata. Il punto è che si tende ad attenuare l'indipendenza del pubblico ministero come tale.
L'altro punto critico, sul quale vorrei tornare alla fine del mio intervento, se ci sarà tempo, è relativo ad una norma che mi permetto di non condividere assolutamente, vale a dire la modifica dell'articolo 109 della Costituzione, cioè la decostituzionalizzazione della disponibilità della polizia giudiziaria da parte del pubblico ministero. Non si parla più di diretta disponibilità, c'è un rinvio alla legge ordinaria e questo significa - è scritto anche nella relazione illustrativa del disegno di legge costituzionale - che il baricentro


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delle indagini, contrariamente alle scelte effettuate dal codice del 1988, si sposta sulla polizia giudiziaria.
Analoga questione si pone per quanto riguarda la modifica dell'articolo 112 della Costituzione, sull'obbligatorietà dell'azione penale, dato che anche qui si rinvia alla legge ordinaria. Credo che quello della obbligatorietà/discrezionalità dell'azione penale e dei criteri selettivi della notizia di reato sia un problema enorme. Sicuramente, però, il rinvio alla legge ordinaria comporta anche in questo caso una decostituzionalizzazione, mentre ci sono margini - e questo è riconosciuto unanimemente - anche all'interno dell'attuale articolo 112 della Costituzione per prevedere criteri di controllo della discrezionalità (che indubbiamente esiste) del pubblico ministero nell'esercizio dell'azione penale.
Questa è una traccia minima, ma ha un senso se collegata al contesto. La questione della separazione delle carriere è, in sé, opportuna, ma il discorso va contestualizzato e dal contesto ricaviamo anche, fra le altre cose, che sarà il Ministro della giustizia a riferire alle Camere sull'esercizio dell'azione penale e sull'uso dei mezzi di indagine. Questo non è lesivo di alcuna prerogativa, però è una traccia importante del fatto che si voglia spostare l'attività di indagine, quindi l'esercizio dell'azione penale - perché, di fatto, l'esercizio dell'azione penale è condizionato dall'attività di indagine - sulla polizia giudiziaria e quindi sul potere esecutivo. Questo, a mio parere, è assolutamente inopportuno.
Riguardo al doppio Consiglio superiore della magistratura, penso che sia una scelta consequenziale alla separazione delle carriere, ma anche in questo caso si tratta di una scelta non necessitata. Ci sono esperienze straniere, in particolare in Portogallo e Brasile, che prevedono un Consiglio superiore del pubblico ministero e un Consiglio superiore dei giudici. Bisogna stare sempre molto attenti, però, quando si fa una trasposizione da ordinamenti stranieri al nostro, bisogna farlo con molta cautela. In quegli ordinamenti, infatti, il pubblico ministero è organizzato piramidalmente, nel senso che c'è un'organizzazione gerarchica. La nostra organizzazione, invece, è a vertici chiusi: le nostre procure generali non sono dipendenti da un procuratore nazionale. In quei Paesi, invece, c'è un procuratore nazionale.
Ritengo che non sarebbe accettabile, nel nostro sistema, un'organizzazione di questo genere senza un collegamento del vertice del pubblico ministero con il potere politico, perché, a quel punto, è chiaro che il pubblico ministero nazionale diventerebbe un organo politico. Non so, ovviamente, se questo è inevitabile in un sistema rigido di separazione delle carriere. Certo è che in quei Paesi è così. In Brasile, addirittura, i procuratori nazionali e quelli federali sono nominati dal Governo di concerto con il Consiglio superiore del pubblico ministero, dunque c'è un collegamento - cosa che, peraltro, non avviene in Portogallo - con il potere esecutivo.
Si potrebbe pensare, in alternativa, a due sezioni del CSM, come aveva a suo tempo proposto la Commissione bicamerale. Non mi pare che ci sia una ragione specifica per discostarsi, però queste sono ovviamente scelte operative. Oppure, si potrebbe - ma penso che questo sia politicamente improponibile - tornare a una rigida separazione delle sole funzioni di pubblico ministero e giudice senza necessariamente separare gli organi di autogoverno, in quella forma drastica che era stata prevista originariamente dall'ordinamento giudiziario, che poi non ha avuto seguito.
È certamente diversa la separazione delle funzioni dalla separazione delle carriere. Dal punto di vista politico, forse, non risponde alle istanze che adesso vengono prospettate, però si potrebbe anche pensare a una soluzione di questo genere. Io che in passato ho sostenuto in maniera decisa la separazione delle carriere - però non in forma così netta - pensavo piuttosto a una separazione molto rigida delle funzioni.
Mi soffermo brevemente sulla riforma dell'articolo 109 della Costituzione. Il testo originario stabiliva: «L'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria». Non richiamo i lavori dell'Assemblea


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costituente, che sono abbastanza ambigui, su questo punto, perché non è chiaro se la scelta fosse di carattere pratico - per evitare, come qualcuno aveva detto, la creazione di un ulteriore corpo di polizia - o, effettivamente, una scelta di carattere politico. Tanto che, alla fine, si optò per quel testo, ma con l'auspicio (espresso da Giovanni Leone, almeno a quanto risulta) che si potesse arrivare in tempi brevi alla creazione di un corpo di polizia giudiziaria.
Magari si tratta di eterogenesi dei fini, ma ritengo che la scelta dei costituenti, oggettivamente, sia stata molto saggia, per evitare la costituzione di un centro di potere separato, addirittura con un braccio armato, la polizia giudiziaria, in capo alla magistratura.
Anche se questa doppia titolarità, il fatto cioè che la polizia giudiziaria dipenda funzionalmente dall'autorità giudiziaria e organicamente dal potere esecutivo, è stata sempre molto criticata, mi pare che rappresenti una forma di equilibrio molto opportuno. Questo equilibrio è stato realizzato nella maniera più efficace dal codice di procedura penale vigente che, ferma restando la dipendenza organica della polizia giudiziaria, ha avvicinato quest'ultima al pubblico ministero, con la creazione delle sezioni e dei servizi di polizia giudiziaria, che dipendono direttamente dal pubblico ministero.
Quindi, il capo delle sezioni di polizia giudiziaria è il pubblico ministero, mentre l'ufficiale più alto in grado dei servizi risponde al pubblico ministero, ma questo, ovviamente, non implica una dipendenza organica. I rapporti tra polizia giudiziaria e pubblico ministero sono calibrati in maniera molto equilibrata. Esiste, ad esempio, l'obbligo della polizia giudiziaria di riferire al pubblico ministero, ma ha, ovviamente, venature di scelte discrezionali: non c'è, per esempio, un termine perentorio come nel testo originario del codice. Inoltre, la polizia giudiziaria continua a svolgere le proprie indagini anche indipendentemente dalle direttive del pubblico ministero. Il coordinamento tra pubblico ministero e polizia giudiziaria opera all'interno di una reciproca autonomia con riferimento all'attività di indagine, però il vertice è comunque il pubblico ministero.
È chiaro che se si rompe il legame tra pubblico ministero e polizia anche questa è una scelta. Certo, esistono altri ordinamenti nei quali la polizia si occupa di tutto: in Inghilterra e Galles, per esempio, è la polizia che gestisce le indagini, istruisce il processo, e infine trasmette tutto al prosecutor, il quale si limita a decidere se esercitare o meno l'azione penale. Molti autorevolissimi studiosi inglesi sono però contrari a questo tipo di impostazione e non bisogna dimenticare che quello è un sistema sensibilmente diverso, sia dal punto di vista istituzionale sia dal punto di vista processuale, rispetto al nostro.
Io ritengo, più che inopportuno, grave che si sposti la titolarità delle indagini dal pubblico ministero alla polizia, perché questo significa che il potere esecutivo, in sostanza, avrà nelle mani l'interruttore del processo. Una volta che le indagini siano state inutilizzate dalla polizia giudiziaria, in ragione di ciò che la stessa avrà raccolto nel corso delle sue indagini, è chiaro che sarà piuttosto difficile avere una gestione veramente indipendente della notizia di reato.
La struttura attuale in questo modo viene rovesciata: dal coordinamento tra polizia giudiziaria e pubblico ministero alla loro separazione. Questo non è scritto nell'articolo 109 della Costituzione, come riformulato da parte del disegno di legge costituzionale, ma è chiaro che l'obiettivo sembra questo, come risulta del resto dalla relazione illustrativa, dove si parla di «piena autonomia nell'attività di pre-investigazione della polizia giudiziaria, mentre all'ufficio del pubblico ministero sono riservate le attività di carattere processuale relative alla valutazione dei risultati dell'investigazione». Il pubblico ministero, in sostanza, è un mero recettore dell'iniziativa della polizia giudiziaria. Anche questa è una scelta plausibile, ma io ritengo che sia, allo stato, estremamente inopportuna nel nostro sistema.
Un altro problema di decostituzionalizzazione riguarda la modifica dell'articolo 112 della Costituzione: vi è, in sostanza,


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un rinvio alla legge ordinaria, il che vuol dire che si aggira l'obbligatorietà dell'azione penale e che rischia di venire meno un principio che la Corte costituzionale ha ribadito più volte essere posto essenzialmente a tutela dell'indipendenza del pubblico ministero.
Si potrebbe, certamente, anche decidere che il pubblico ministero, come in altri Paesi, si muova sulla base del principio di opportunità. È una scelta politica anche questa, però, ancora una volta, se il pubblico ministero fa scelte di opportunità nell'esercizio dell'azione penale, non può essere indipendente. Nel momento in cui opera scelte di politica criminale deve necessariamente dipendere dal potere esecutivo, perché svolge un'azione di indirizzo politico che non può essere attribuita a un soggetto politicamente irresponsabile. Torniamo quindi alla scelta di fondo, di cui parlavo anche all'inizio: si tratta di scegliere se si vuole un pubblico ministero davvero indipendente oppure se l'indipendenza del pubblico ministero non viene considerato come un valore da tutelare.
Il fatto che la modifica dell'articolo 112 della Costituzione faccia riferimento ai criteri stabiliti dalla legge sembrerebbe un'ovvietà. Il nuovo articolo 112 reciterebbe: «L'ufficio del pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge». Già oggi, però, a Costituzione invariata, col testo attuale dell'articolo 112, non c'è alcun dubbio che l'obbligatorietà dell'azione penale dipenda dalla verifica dei presupposti di legge.
Il fatto stesso che il pubblico ministero possa chiedere l'archiviazione dimostra che non c'è lesione dell'obbligatorietà dell'azione penale nel momento in cui il pubblico ministero opera questo tipo di scelta. L'importante è che i presupposti di legge per l'azione penale siano definiti da fattispecie ben delimitate e che sull'operato del pubblico ministero ci sia un controllo, più o meno come l'attuale meccanismo dell'archiviazione.
Come dicevo all'inizio, non c'è alcun dubbio che il pubblico ministero faccia scelte discrezionali sul piano operativo; e non c'è alcun dubbio che questa discrezionalità debba essere guidata da parametri normativi, ma anche questo, a mio avviso, si può conseguire a Costituzione invariata. Stando al dibattito che da anni si svolge su questo tema - ho visto che saranno sentiti anche Mario Chiavario e Vladimiro Zagrebelsky, che più volte si sono occupati espressamente di questo argomento - le soluzioni che si cercano per conciliare il principio di legalità con l'oggettiva impossibilità di perseguire tutte le notizie di reato (il che implica che il pubblico ministero comunque deve compiere delle scelte operative) sono tutti rimedi che, secondo me, sono esperibili anche a Costituzione invariata, sempre che non si voglia scivolare dal principio di obbligatorietà al principio di opportunità.
Si propone, per esempio, di aumentare l'ambito delle condizioni di procedibilità, certo facendo molta attenzione perché le condizioni di procedibilità non possono essere rimesse a valutazioni discrezionali di un altro potere dello Stato o di un altro organo pubblico. Da tempo si parla, inoltre, di stabilire dei criteri di priorità; in questo caso c'è stato anche, non proprio con riferimento all'azione penale, un precedente normativo. La legge istitutiva del giudice unico aveva, infatti, previsto dei criteri di priorità di carattere generale nella trattazione dei processi, che si riferivano alla gravità dell'offesa, agli interessi delle persone offese, all'urgenza di raccogliere le prove.
Si può considerare l'idea di adottare a questo scopo la forma di un ordine del giorno del Parlamento o addirittura di una legge. Di certo, il Parlamento non può indicare categorie di reati o reati specifici per i quali l'azione penale deve essere esercitata prima o dopo, perché evidentemente questo sarebbe in contraddizione con la tavola dei valori espressa dal codice penale; in tal modo si rinnegherebbero le scelte del codice penale. Il Parlamento, però, può stabilire dei criteri di carattere generale che si riferiscano non alle fattispecie incriminatrici, ma alle condizioni nelle quali si deve esercitare l'azione penale. Naturalmente, l'individuazione dei


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casi specifici, come il ben noto editto pretorio di cui si discuteva tempo fa, cioè i criteri di priorità dell'ufficio non possono che essere fissati a livello locale perché, tra l'altro, i criteri di priorità non saranno evidentemente gli stessi a Palermo e a Torino.
Un'altra possibile via di fuga dall'esercizio obbligatorio dell'azione penale (anche se un po' discussa, ma possibile a mio parere) è l'introduzione, anche nel processo ordinario, del criterio della rilevanza del fatto, anche se si discute se questo possa dar luogo all'archiviazione o meno.
In definitiva, tutti questi rimedi - e io non riesco a immaginarne altri che non finiscano col determinare il passaggio dal principio di legalità al principio di opportunità - sono rimedi esperibili, secondo me, anche a Costituzione invariata.
Infine, vorrei soffermarmi sulla modifica dell'articolo 111 della Costituzione. Ho segnato nei miei appunti «costituzionalizzazione dell'appello». Con la modifica dell'articolo 111 - è evidente - l'obiettivo è quello di superare quella giurisprudenza della Corte costituzionale che aveva dichiarato illegittima l'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte del pubblico ministero.
Trovo inopportuno che si riconosca dignità costituzionale all'appello quando non ci si occupa, invece, di quello che da tempo viene richiesto da più parti, cioè una decostituzionalizzazione del ricorso per cassazione. Il vero problema, infatti, nel nostro Paese è rappresentato dal numero esagerato di ricorsi che affliggono la Corte di cassazione - e anche dal numero eccessivo di giudici della Corte stessa -. La Corte di cassazione lavora anche su questioni di minima importanza: tutte le sentenze sono ricorribili per Cassazione, quindi anche per una contravvenzione si può andare in Cassazione.
Non parlo dell'opportunità di un filtro in ingresso - che pure esiste in moltissimi Paesi - in base al quale la Corte di cassazione ammette un ricorso solo se coinvolge un interesse generale. Parlo semplicemente di una normativa che riduca l'ambito dei ricorsi per Cassazione.
Ho un po' divagato su questo punto, ma ciò che tenevo a sottolineare è che i rimedi contro le sentenze non si possono eliminare del tutto. È un risultato sempre a somma zero, quello che togliamo da una parte dobbiamo aggiungerlo dall'altra. Infatti, con la riforma Pecorella si è dovuto ampliare lo spazio del ricorso per cassazione, si è dovuto portare il fatto in Cassazione. Questo vale anche nei rapporti tra i ricorsi per cassazione e revisione: se restringiamo il ricorso per cassazione, si allargano gli spazi per la revisione. Le Sezioni unite in anni passati hanno stabilito che si può impugnare con revisione anche se la prova a discarico è stata acquisita nel processo, ma non valutata dal giudice. Teoricamente sarebbe un classico strumento per l'intervento della Cassazione. Mi fermo qui, anche se ci sarebbe altro da dire sull'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento e sulla disciplina generale dell'articolo 111.
Per concludere, vorrei esprimere la mia opinione su un discorso ricorrente che trovo assolutamente infondato. Secondo questo punto di vista, il giudizio di appello sarebbe imposto dall'articolo 2 del Protocollo VII alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Se l'imputato viene prosciolto in primo grado e il pubblico ministero, avendone il potere, appella e ottiene una sentenza di condanna, allora l'imputato sarebbe privato del doppio grado di giurisdizione, cioè di un grado di merito. Si sostiene, appunto, che l'appello nel merito sia imposto dal citato articolo 2 del Protocollo VII. Probabilmente questa opinione è fuorviata da una cattiva trasposizione della rubrica nella quale si parla appunto di doppio grado di giurisdizione. Per «doppio grado di giurisdizione» noi intendiamo l'appello, ma l'articolo 2 del Protocollo VII - lo ha detto la Corte europea dei diritti dell'uomo - non prevede un secondo grado di merito: è sufficiente che ci sia un ulteriore grado di giudizio, che può essere anche di sola legittimità.
Sotto questo profilo, quindi, non c'è nessun obbligo europeo che imponga il


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doppio grado di merito. Peraltro, il secondo comma dello stesso articolo 2 prevede espressamente che si possa fare a meno del doppio grado di giurisdizione nel caso in cui la condanna intervenga a seguito dell'impugnazione di una sentenza di proscioglimento in primo grado.
Spero di essere rimasto nei tempi concessi. Ringrazio per l'attenzione.

PRESIDENTE. Siamo noi che la ringraziamo, professore. Le chiedo, se è possibile, di attendere per le domande.
Do la parola al professor Vittorio Angiolini, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Milano.

VITTORIO ANGIOLINI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Milano. Ringrazio le due Commissioni affari costituzionali e giustizia e i loro presidenti per l'onore di questo invito.
Naturalmente, la mia vocazione disciplinare è diversa da quella del professor Illuminati, quindi saranno diverse anche le mie osservazioni. Ho consegnato un testo scritto, dunque mi limiterò a illustrare alcune questioni cercando di farne trapelare, però, un elemento di valutazione di fondo circa la coerenza con i propri fini e anche con i princìpi costituzionali di questa riforma.
La riforma si presenta, anche nella lettura della relazione accompagnatoria, come una riforma compiuta del Titolo IV della Parte II della Costituzione. Si riprendono i temi della Costituente, non a caso continuamente, nella relazione, e si aggiorna quel dibattito per arrivare alle soluzioni.
Da questo punto di vista debbo dire che, forse, vanno segnalati anzitutto al Parlamento alcuni punti che non sono presenti nella riforma; si tratta di punti molto importanti, che però non interessano direttamente o esclusivamente la materia penale. Un primo punto - ne cito solo alcuni - è la questione dell'intangibilità del giudicato, su cui sempre più si ripiega la Corte costituzionale nella ricerca di una soluzione. Era un tema affrontato dalla Costituente: nella seconda Sottocommissione, Leone e Calamandrei nelle loro relazioni tirarono fuori questo problema come un problema centrale. Forse nel momento in cui ci si accinge a una riforma costituzionale esso meriterebbe di essere affrontato.
Il secondo punto riguarda la questione centrale in questo progetto di riforma, del rapporto tra giustizia e politica, che è interessato dalla questione del giudicato, a cui ho appena accennato. Infine l'ultimo punto è quello della giustizia verso l'amministrazione. In quest'ultimo caso, si tratterebbe di mettere insieme un orientamento del legislatore ordinario, che aveva reso generale la giurisdizione amministrativa, con un intervento della Corte costituzionale, fatto a partire dalla famosa sentenza del 2004, che ha ridimensionato questo aspetto. E forse anche su questo punto ci potrebbe essere un supplemento di riflessione. Ma non lo si trova nella riforma, perché la riforma riguarda essenzialmente la giustizia penale.
A questo riguardo, mi sentirei di fare un primo rilievo. Ciò che colpisce il costituzionalista è un fenomeno che potremmo definire - citandolo in parallelo a quella che normalmente chiamiamo delegificazione - «decostituzionalizzazione» della materia. Su una serie di questioni, cioè, piuttosto che mutare i princìpi della Costituzione, si libera lo spazio per il legislatore ordinario.
Questo avviene anche su temi su cui, forse, questa scelta produce degli effetti che non sono stati tutti soppesati fino in fondo. Cito due questioni. La prima è quella che riguarda l'articolo 109 della Costituzione, già citata dal professor Illuminati, con le cui valutazioni concordo e dunque non ripeto. Vorrei però dire che, a parte il fatto che il nuovo articolo 109 rischia di risultare un po' autocontraddittorio perché la polizia giudiziaria senza la disponibilità diretta da parte dell'autorità giudiziaria è un concetto curioso, la mia sensazione è che si potrebbe risolvere la situazione, quale essa è e si è trascinata


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per molti anni nel secondo dopoguerra, in vari modi, come è già stato detto dal professor Illuminati.
Qui, invece, aprendo alla legge, in realtà, si incoraggia il mantenimento della situazione attuale, che sarebbe già grave perché anche chi non auspica - e anch'io, nel mio piccolo, mi sentirei di non auspicarlo - un corpo di polizia giudiziaria a sé stante rispetto ai corpi esistenti, vorrebbe la precisazione del regime di doppia dipendenza dall'amministrazione e dall'autorità giudiziaria della polizia giudiziaria. Questo mi pare un passo molto rilevante, direi dal punto di vista non solo dell'indipendenza, ma anche dell'autonomia di azione del pubblico ministero.
Un altro punto, che tra l'altro non riguarda solo la materia penale, è quello della riforma dell'articolo 106, comma primo della Costituzione, che consente la nomina di magistrati onorari, anche elettivi, per ogni tipo di funzione. Non so se è stato soppesato anche dai proponenti il significato di questa modifica, perché nella relazione al progetto si parla essenzialmente del magistrato elettivo.
Certo, tutto si può fare, ma vorrei che si ricordasse che abbiamo già un ordinamento giudiziario che funziona da molti anni e che l'inserimento del giudice elettivo non è una cosa semplice, ma importa la ridefinizione complessiva dell'ordinamento giudiziario. Soprattutto, la riforma non prevede affatto soltanto la possibilità di nominare giudici elettivi - questa è un'eventualità - ma in realtà apre al reclutamento dei magistrati onorari per ogni funzione. Ciò significa (attenzione, dobbiamo esserne consapevoli) che muta il senso complessivo delle norme della Costituzione sul reclutamento dei magistrati
La Costituzione, per il reclutamento dei magistrati, ha voluto costituzionalizzare la regola del concorso, con alcune eccezioni, differentemente da quello che accade, come sappiamo, per i funzionari amministrativi, per cui le eccezioni al concorso sono poste dalla legge.
In realtà, qui, nella riforma, si supera la regola del concorso. E vorrei segnalare che è visto criticamente, soprattutto da alcuni degli studiosi dell'ordinamento giudiziario, l'uso che finora è stato fatto della magistratura onoraria, che in realtà significa selezione, senza le garanzie concorsuali e quindi senza la selezione professionale tipica dei magistrati ordinari, di corpi di magistrati che svolgono in realtà funzioni di «supplenza» nell'ambito degli uffici, funzioni che sono molto cresciute e che non hanno giovato, soprattutto in materia civile, al corretto esercizio delle stesse.
Indubbiamente il punto in cui questa decostituzionalizzazione è maggiore è l'articolo 112 della Costituzione, relativo all'obbligatorietà dell'azione penale. Non ripeterò quello che molti hanno già detto, ma esprimo un'osservazione di fondo. L'articolo 13 del disegno di legge costituzionale, di riforma dell'articolo 112 della Costituzione, recita: «L'ufficio del pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge». Ora, se si dovesse interpretare questa disposizione non come una disposizione innovativa da interpretare in sé, ma da inserire nel complesso della Costituzione, si potrebbe dire che è superflua, perché è evidente che la selezione delle fattispecie di reato su cui indagare spetta al legislatore e, anzi, solo al legislatore, con una riserva di legge assoluta stabilita dall'articolo 25 della Costituzione.
In realtà, sappiamo che questo nuovo articolo 112 non va interpretato così o, perlomeno, è stato scritto per non essere interpretato in questo modo, ma nel senso che il legislatore interverrebbe in materia penale a due stadi: c'è il legislatore che definisce le fattispecie di reato ai sensi dell'articolo 25 della Costituzione e poi c'è il legislatore che definisce i reati su cui indagare. Questi criteri, almeno per come sono presentati nella relazione - e forse è difficile pensare a qualcosa di diverso - sono priorità nella trattazione di indagini concernenti determinati reati, fermo l'obbligo (dice la relazione), esaurite queste, di curare anche le indagini relative alle altre fattispecie penalmente rilevanti. Si tratta, quindi, di un intervento del legislatore a


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due stadi: prima il legislatore dice quali sono i reati perseguibili e poi quelli su cui indagare.
Sappiamo tutti a cosa intende riparare questo meccanismo e nessuno nega che esiste il problema: un problema, secondo me, non tanto di discrezionalità in senso tecnico-giuridico del pubblico ministero, ma di impossibilità anche materiale del pubblico ministero di indagare con adeguatezza su tutte le notizie di reato che pervengono.
Questo problema, però, qui viene risolto con una soluzione che desta qualche perplessità proprio dal punto di vista della funzione assegnata costituzionalmente al diritto penale. Non sono un penalista, quindi non voglio avventurarmi nelle dotte discussioni sulla funzione della pena e della responsabilità penale, però, per dire una cosa che può dire anche il costituzionalista, dirò che dalla nostra Costituzione, articoli 25 e seguenti, si comprende che la responsabilità penale è la forma di responsabilità considerata più grave, a cui ricorrere per l'indispensabile. Mi sembra che questo possa essere ragionevolmente condiviso da tutti. Tuttavia, se è così, mi chiedo che senso abbia una scelta che rischia di incoraggiare la proliferazione delle fattispecie di reato, dal momento che, teoricamente, tutto potrebbe essere reso penalmente rilevante, salvo riservarsi di non indagare su quel reato.
Questa idea, che nella sua fase di proiezione realizzativa sembrerebbe quasi dar luogo a una specie di diritto penale di riserva, cioè di diritto penale che vale solo in seconda battuta, dopo che si è indagato sul reato più importante, a me pare molto discutibile, proprio se pensiamo a questa idea, che emerge con forza dalla Costituzione, del diritto penale come - vogliamo chiamarla extrema ratio? - forma più grave di intervento nel campo della responsabilità.
Il primo rilievo che nasce verso questa proposta di modifica dell'articolo 112 della Costituzione è il seguente: se il problema è - come è - che ci sono troppi reati e che c'è stata un'inflazione dell'uso dello strumento penale, allora perché non accingersi a una riforma su questo terreno, cioè sul terreno della riduzione dello spettro della repressione penale, piuttosto che avventurarsi su un terreno che, badate, mette anche il cittadino in una strana condizione?
Infatti, non bisogna vedere sempre tutto e solo dal punto di vista dell'equilibrio dei poteri, ma pensare anche che ci saranno delle fattispecie di reato che il cittadino avrà di fronte sapendo che forse saranno perseguite o forse no, poiché tutto dipenderà dall'evoluzione dei criteri e, credo, anche dalle interferenze tecniche di diritto penale, per esempio sul piano dell'operare della prescrizione, di non poco conto.
Forse un ripensamento su questo argomento potrebbe esserci e riguardare proprio questo ampliamento del potere del legislatore, che rischia di andare a detrimento di una razionalità del sistema e anche delle garanzie del cittadino.
In realtà, questa riforma tende soprattutto a riequilibrare il rapporto tra giurisdizione e potere politico con un occhio molto attento al ruolo del potere politico. Lo si vede anche nelle norme che, anziché delegare il legislatore, introducono dei vincoli o dei princìpi nuovi. Una norma che mi pare meriti attenzione da questo punto di vista è quella che inserisce, accanto alle competenze del Ministro della giustizia sull'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, il potere ispettivo come a sé stante.
La relazione al progetto ci dice che questa è una costituzionalizzazione del potere ispettivo. Mi permetto di osservare che questa costituzionalizzazione è di assai dubbio significato perché, di per sé, il potere ispettivo è ovviamente ricompreso (così, infatti, è stato finora disciplinato) nella competenza del Ministro della giustizia per l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Cosa significa metterlo fuori? Significa dargli autonomia e, quindi, l'unica implicazione normativa immediata che si potrebbe scorgere è quella che il potere ispettivo potrebbe estendersi per esplicito - è chiaro che, da sempre, li sfiora - agli accertamenti processuali e quindi all'attività giurisdizionale dei magistrati. Credo,


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però, che questo sarebbe un passo da meditare con molta attenzione, perché indubbiamente è di enorme portata e muta radicalmente l'idea dell'indipendenza.
Dirò, ora, qualche parola sul problema della separazione delle carriere. Personalmente - per quanto un costituzionalista possa prendere posizione su un tema di questo tipo - ho sempre ritenuto che nella questione della separazione delle carriere ci fosse un'istanza, comunque giusta, di trasparenza di rapporti tra chi svolge un mestiere e chi ne svolge, indubbiamente, uno diverso. In larga misura la legislazione italiana ordinaria, peraltro, assicura che non ci sia interscambiabilità tra gli uffici del pubblico ministero e quelli giudicanti.
A me pare che il punto riguardi invece il contesto nel quale la costituzionalizzazione della separazione delle carriere si va a collocare: e il contesto è quello di una riforma che complessivamente tende ad accrescere - credo che questa sia una diagnosi che deriva da quello che ho detto fino ad ora - il peso del potere politico rispetto alla giurisdizione, con riferimento tanto all'attività della magistratura giudicante che a quella inquirente. Tanto più che lo sdoppiamento del Consiglio superiore è coronato da un passaggio che è anch'esso non banale. La composizione tra i membri cosiddetti «togati» e quelli di estrazione parlamentare diventa paritetica: questo cambia la natura del Consiglio perché, come sappiamo, i costituenti concepivano la presenza della componente parlamentare come un temperamento alla gestione corporativa (termine che fu utilizzato espressamente). Qui, la riforma, ovviamente, cambia la natura delle cose. E in questo contesto, francamente, la separazione delle carriere così realizzata desta qualche perplessità. In primo luogo, il rinforzo dell'influenza del potere politico - inteso come Parlamento e, a fortiori, naturalmente, come Governo/Amministrazione - sul pubblico ministero non è un'implicazione logicamente né operativamente necessaria dell'imparzialità del giudice, neanche sotto forma di terzietà improntata alla parità delle armi. È chiaro a tutti che le armi possono essere pari anche tra una difesa e un pubblico ministero indipendente.
Mi permetto, inoltre, di dissentire - ma il collega stesso ha detto che molti dissentivano da questa posizione - sul valore del principio della parità delle armi, che è stato scritto non tanto nell'articolo 24 ma nell'articolo 111 della Costituzione. Questo è molto significativo. Si tratta di un principio - che tra l'altro nel nostro sistema, a mio avviso, dovrebbe penetrare in ogni processo - che riguarda non soltanto la difesa delle parti, ma il modo di essere del giudizio. Il giudice è terzo perché ha di fronte le parti ad armi pari e quindi è imparziale.
Il problema che esiste, però, in tutti i Paesi in cui il pubblico ministero è legato, diciamo così, a un'influenza forte del potere politico, è che risulta difficile, proprio in quel caso, realizzare questa parità delle parti, ossia quella che serve all'obiettività del giudizio. È chiaro, infatti, che proprio se il potere politico è espressione del pensiero e della sovranità popolare più genuina e se il pubblico ministero è rappresentante di questa politica improntata alla sovranità popolare, allora irrompe nel processo una parte che infrange l'equilibrio. La parità di poteri, a questo punto, non può più essere parità di potenza tra le parti, giacché è evidente che quella è una parte, per forza di cose, sovraordinata.
Su questo mi permetto di svolgere un'osservazione finale anche di carattere personale. È il risultato finale dell'esame complessivo di questa riforma che desta qualche perplessità, proprio sul punto ultimo che toccavo, cioè sul rapporto tra legislazione, Governo/Amministrazione in quanto espressione del principio di sovranità popolare, e giurisdizione. Il giudice oggi si pronuncia in nome del popolo. Se questo popolo, nel cui nome oggi si pronuncia il giudice, pretende la stessa inviolabilità che aveva il re (in nome del quale si pronunciavano i giudici) tanto tempo fa, che come sappiamo non era solo insindacabilità, ma era dovere di difendere il re, non facciamo molti passi avanti sul piano della garanzia processuale.


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Non è questo il presupposto culturale su cui si può andare avanti sulla garanzia processuale.
Come già diceva Salvatore Satta, nei processi ci deve essere sempre il pubblico, ma diviso dagli attori del processo, perché - lui diceva - quando il pubblico supera quella divisione ed entra fra gli attori del processo - e il pubblico è il popolo - il giudizio è finito, perché non ci sono più le parti e la contrapposizione delle tesi delle parti stesse. Diceva dunque Satta che il giudizio è finito e si passa all'azione. Ora, quello era naturalmente una valutazione data in un saggio che riguardava i tribunali rivoluzionari, quindi risentiva di questa origine, però ci dava un avvertimento del quale a mio avviso il Parlamento dovrebbe tenere conto fino in fondo. Vi ringrazio.

PRESIDENTE. Grazie a lei. Poiché il professor Illuminati dovrebbe allontanarsi, prima di ascoltare le altre relazioni do la parola ai deputati che intendano porre quesiti o formulare osservazioni ai professori Illuminati e Angiolini.

GAETANO PECORELLA. Rivolgo qualche domanda innanzitutto al professor Illuminati, il quale ha fatto cenno al problema dell'imparzialità, un punto ricorrente, dicendo che per l'articolo 111 della Costituzione non vi è una discendenza automatica della separazione delle carriere.
Come si differenzia, secondo il professor Illuminati, la terzietà rispetto all'imparzialità? O meglio, i due concetti richiamati dall'articolo 111 come si differenziano tra di loro?
Il secondo quesito è relativo al rischio che il pubblico ministero sia attratto nella sfera del potere esecutivo. A parte il fatto che non mi è chiaro perché nel momento in cui si fa la separazione delle carriere o si stabilisce una priorità nell'intervento dell'azione penale questo posso portare il pubblico ministero nella sfera del potere esecutivo, chiedo comunque perché si parla di rischio. Negli Stati liberali il pubblico ministero è espressione o della volontà popolare o del potere esecutivo, quindi perché è un rischio?
Inoltre, laddove si sostiene che si attenua l'indipendenza, vorrei capire se con questo il professor Illuminati fa riferimento all'indipendenza dell'ufficio del pubblico ministero o dei singoli pubblici ministeri. In altre parole, è un problema dell'autonomia dei singoli pubblici ministeri o lo stesso ufficio del pubblico ministero perde una parte della sua indipendenza?
Pongo ora una domanda - che riguarda anche il professor Angiolini - sulla cosiddetta «decostituzionalizzazione» dell'obbligatorietà dell'azione penale. Non è anche questa, così come è stata scritta, una forma di riaffermazione del principio di legalità? Infatti, attraverso l'individuazione per legge dei criteri si stabilisce non solo che cos'è reato e che cosa non lo è, ma si evita che ci sia una scelta del magistrato e non invece una scelta legata al principio di legalità. È la legge che stabilisce non solo che cos'è reato, ma anche i criteri e le priorità nel procedere.
Il professor Illuminati ha fatto anche cenno a un eventuale pubblico ministero nazionale. Ricordo che giace una proposta di legge in questo senso. Quale potrebbe essere una soluzione per una struttura gerarchica, ossia un responsabile a livello nazionale del pubblico ministero che non comporti un'inevitabile dipendenza dal potere politico? Penso, ad esempio, alla nomina da parte del Parlamento o all'elezione interna da parte della magistratura.
Venendo al problema della polizia giudiziaria, l'articolo 348 del codice di procedura penale - il professor Illuminati lo sa meglio di me - prevede che dopo l'intervento del pubblico ministero la polizia giudiziaria possa agire solo per delega (espressamente il citato articolo del codice dice che «compie gli atti ad essa specificamente delegati»). Questo è il grande problema che abbiamo: la polizia giudiziaria, dopo l'intervento del pubblico ministero, tende a fermarsi o si ferma. Come garantire, quindi, l'autonomia della polizia giudiziaria nelle sue iniziative anche quando c'è un pubblico ministero che opera rispetto alla dipendenza diretta?


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L'eliminazione del concetto di «diretto» aveva tra le sue finalità quella di far sì che la polizia giudiziaria potesse agire in autonomia rispetto al pubblico ministero, quindi compiere le attività non solo dopo aver avuto notizia di reato, il che è previsto, ma anche dopo l'intervento del pubblico ministero. Se c'è una dipendenza diretta, questa autonomia non c'è più. Occorre la delega per qualunque atto venga compiuto. Come riuscire, quindi, a garantire l'autonomia delle indagini rispetto alla dipendenza diretta?
Rivolgo ora una richiesta di chiarimento al professor Angiolini. Non mi è chiaro perché nell'ipotesi in cui il pubblico ministero fosse espressione o fosse comunque legato al potere politico ciò inciderebbe sulla parità delle parti. La convinzione che avevamo - ma può essere sbagliata - è che quanto più il pubblico ministero è espressione di parte, tanto più si crea una terzietà del giudice e tanto più si crea un equilibrio. Come diceva peraltro il professor Illuminati, oggi il pubblico ministero è visto come organo di giustizia che opera solo nell'interesse della verità eccetera. Legarlo, come avviene nel processo accusatorio puro, allo Stato-amministrazione, al potere politico, chiamiamolo così, noi riteniamo che possa essere uno stimolo a un giudice più terzo e quindi a una maggiore parità tra le parti.
Vorrei, se è possibile, un chiarimento su questa idea secondo cui la parità si ridurrebbe quanto più il pubblico ministero diventa espressione di una dipendenza, di un rapporto o di una contiguità con il potere politico. Grazie.

PASQUALE CIRIELLO. Professor Illuminati, nella scorsa tornata di audizioni, nella quale abbiamo ascoltato prevalentemente o forse esclusivamente costituzionalisti, abbiamo sentito spesso ritornare il tema che, in fondo, dinanzi a una proposta di revisione costituzionale, il costituzionalista in qualche modo, almeno dal punto di vista formale, è quasi bloccato, a meno che non si individui un possibile vulnus a uno di quei princìpi fondamentali della Costituzione come tali sottratti anche alla revisione.
Stando al problema dei rapporti tra pubblico ministero e potere esecutivo, su cui lei si è soffermato, vorrei essere aiutato a capire meglio, sebbene io comprenda che il tema è molto scivoloso, dove passa la linea di confine tra l'esercizio legittimo della discrezionalità del legislatore e dove invece c'è il perimetro dell'area non disponibile al legislatore. Se non si individuano in concreto almeno le coordinate di questo perimetro risulta molto difficile dare sostanza operativa anche agli stessi princìpi fondamentali difesi in Costituzione.

DONATELLA FERRANTI. Vorrei rivolgere la stessa domanda a entrambi gli auditi. Partiamo dalla separazione delle carriere che direi - ma è emerso anche dalle due relazioni - potrebbe essere realizzata anche a Costituzione vigente.
Il problema, a mio avviso, è rappresentato dalla serie di interventi di decostituzionalizzazione e di indebolimento dell'autonomia e dell'indipendenza del giudice e del pubblico ministero. Si tratta di diversi princìpi, almeno a mio parere, che si mettono insieme a raggiera e influiscono in maniera pesante anche sulla terzietà del giudice.
I temi dell'obbligatorietà dell'azione penale e della dipendenza diretta della polizia giudiziaria sono stati sviscerati abbondantemente. Vorrei che si approfondisse, se è possibile, l'aspetto relativo alla composizione dell'organo di autogoverno, ossia come viene realizzata la separazione delle carriere e in particolare come viene garantita l'autonomia dell'organo di autogoverno, con particolare riferimento, oltre che alla percentuale della composizione laica e togata, che è già stata individuata anche dal professor Angiolini, alle modalità di elezione, soprattutto per la parte togata, con l'estrazione a sorte degli eleggibili.
Chiedo se identiche modalità siano state previste sia per l'organo di autogoverno del giudice, sia per l'organo di autogoverno del pubblico ministero, sia


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per la Corte di giustizia, e se queste modalità, anche con il ruolo di ago della bilancia che assumono il procuratore generale della Cassazione e il primo presidente della Cassazione, incidono e come incidono sull'autonomia e indipendenza del giudice, che viene proclamata, del pubblico ministero e anche sul ruolo che viene assegnato a questi vertici dei due organi della Cassazione, che mi sembra un po' diverso rispetto a quello che hanno attualmente.
Inoltre, in questi elementi a raggiera che confluiscono nella definizione del giudice, del pubblico ministero, del loro ruolo e della loro autonomia e indipendenza, come si pone la questione dei nuovi poteri assegnati al CSM? Si tratta di poteri che, alla luce di queste modifiche, definirei di mera amministrazione burocratica. Il CSM, a mio avviso, nemmeno sull'organizzazione tabellare potrà più costituire il punto di riferimento; mi pare che il suo ruolo riguardi soltanto l'amministrazione ordinaria, valutazione di professionalità e trasferimenti. Questa è la mia opinione, a una prima lettura. Vorrei dunque conoscere l'opinione di chi ha capacità di leggere queste questioni in maniera più approfondita.
Vorrei richiamare, anche alla luce di quello che ha detto l'onorevole Pecorella, un aspetto che riguarda il profilo della polizia giudiziaria. In realtà, se lo spirito della riforma è quello riferito dall'onorevole Pecorella, cioè quello di consentire alla polizia giudiziaria di avere dei poteri di indagine e autonomi, cioè di non rimanere relegata dietro le direttive del pubblico ministero, una volta che questo è stato investito dell'indagine, io credo che la nuova formulazione dell'articolo 327 del codice di procedura penale già abbia modificato l'originaria impostazione del codice - questa è la mia lettura, anche in base all'esperienza che ho fatto -, laddove prevede che «anche dopo la comunicazione della notizia di reato, [la polizia giudiziaria] continua a svolgere attività di propria iniziativa».
Non esercitando la professione di pubblico ministero dal 1999, può darsi che io non sia aggiornata al 100 per cento, però vorrei capire meglio. Quando è stato introdotto il nuovo codice di procedura penale noi partecipammo tutti al successivo momento importante di formazione dei magistrati, alla luce dei princìpi del nuovo processo accusatorio, che si è poi andato modificando rispetto all'impostazione ordinaria. L'impostazione era quella cui accennava l'onorevole Pecorella: quando interviene il pubblico ministero la polizia giudiziaria può svolgere solo attività delegata. Tuttavia, questo principio, proprio perché non aveva dato frutti buoni e comunque metteva un po' nell'angolo la polizia giudiziaria, fu temperato da questa modifica successiva, che mi pare corrisponda al regime vigente.
Detto questo, la questione che io pongo è la seguente: se il problema fosse solo questo, ossia quello di fare in modo che una polizia giudiziaria operosa e capace non sia messa in disparte con la notizia di reato del pubblico ministero, magari non altrettanto capace (le persone non sono tutte uguali) nelle tecniche investigative, ma possa dare impulso alle indagini, non c'è bisogno a mio avviso di incidere sul principio costituzionale eliminando «direttamente», perché l'attuazione di quel «direttamente» può essere realizzata - ma questa è la domanda - con le norme processuali. Grazie.

GIUSEPPE CALDERISI. Rivolgerò alcune domande al professor Illuminati e al professor Angiolini.
In primo luogo, io credo che si debba partire dalla realtà dei fatti: l'obbligatorietà dell'azione penale è una finzione, poiché siamo di fronte a una massima discrezionalità. Non ritenete che questa previsione costituzionale, diversamente dalle ragioni per la quale l'aveva concepita il costituente, si sia di fatto modificata e che questo principio oggi realizzi una violazione del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge? Se da procura a procura si può agire con la massima assoluta discrezionalità, la conseguenza è evidentemente la mancanza del principio di uguaglianza.


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In secondo luogo, va benissimo l'indipendenza del pubblico ministero, ma mi sembra che si trascuri una valutazione sulla responsabilità del pubblico ministero. Al riguardo, chiedo: in quali altri ordinamenti esiste un grado di totale assenza di responsabilità del pubblico ministero come avviene nell'assetto italiano?
Un'altra domanda riguarda il fatto che questo principio dell'obbligatorietà dell'azione penale di fatto priva il Paese della possibilità di discutere, non solo a livello nazionale ma anche a livello internazionale, di scelte di politica criminale. Se le scelte di politica criminale sono atomizzate nelle scelte discrezionali di ciascun singolo sostituto procuratore della Repubblica, di fatto il Paese non può discutere di tali scelte, ma non possiamo neanche confrontarci a livello internazionale. Potrei continuare, ma credo che il filone sia chiaro. Mi sembra che questo sia il nodo principale da sciogliere.
È giustissima la parte della riforma che riguarda la separazione delle carriere, perché a mio avviso un giudice terzo non può essere un collega di un pubblico ministero, ma questa sola riforma, pur importantissima, non riesce a mio avviso ad assicurare un cambiamento dello stato e delle disfunzioni della nostra giustizia se non è accompagnata da una modifica del principio dell'obbligatorietà dell'azione penale e dall'introduzione di meccanismi di responsabilità. Né questo deve significare un assoggettamento al potere politico e mi sembra che nel testo ci sia ampia possibilità di evitare di sottoporre il pubblico ministero al potere politico.

GIANCLAUDIO BRESSA. Intervengo sostanzialmente sugli stessi temi affrontati dal collega Calderisi. Faccio riferimento alla modifica dell'articolo 112 della Costituzione - ma il discorso potrebbe estendersi a diverse norme di questa proposta di riforma - sull'obbligatorietà dell'azione penale. Il principio della gerarchia delle fonti stabilisce che nessuna fonte può disporre della propria efficacia. Con la riscrittura dell'articolo 112, di fatto noi veniamo meno a questo principio fondamentale. Si potrebbe dire che ci troviamo di fronte quasi a una norma costituzionale inesistente, perché un principio viene apparentemente definito in Costituzione ma poi viene riempito di contenuti da una legge ordinaria.
Possiamo, quindi, affermare che con questa modifica dell'articolo 112 il principio dell'obbligatorietà sparisce come principio costituzionale e viene introdotto - legittimamente, nessuno contesta la possibilità di scelta politica di andare in questa direzione - il principio dell'opportunità, con un passaggio da un principio all'altro?
Passando dal principio dell'obbligatorietà al principio dell'opportunità non viene, tuttavia, in qualche modo meno una delle condizioni di fondo per garantire l'autonomia e l'indipendenza del pubblico ministero? Questa, a mio modo di vedere, è una delle condizioni che consentono di guardare alla separazione delle carriere senza particolari problemi.

MARILENA SAMPERI. Anch'io voglio ritornare sull'obbligatorietà dell'azione penale perché sembra, in fondo, che questa riforma tenda a riequilibrare il potere politico e il potere giudiziario, come se ci fosse stata in qualche modo un'invasione di campo e si richieda un intervento costituzionale per far ritornare questi poteri in equilibrio.
Credo che il rischio che si corre, invece, sia che affidando i criteri per definire le priorità al Parlamento, cioè alla legge, questo sia sottoposto a variabili maggioranze e quindi non sia, in effetti, così a tutela della garanzia dei cittadini come sembrerebbe dalle intenzioni della relazione introduttiva del disegno di legge.
Inoltre, non sarebbe più semplice alleggerire i ruoli? È chiaro che l'obbligatorietà dell'azione penale viene messa in discussione anche per l'enorme carico di lavoro che hanno i magistrati. Se si intervenisse, invece, come in tante altre nazioni europee, con la depenalizzazione dei reati di minore allarme sociale, con l'introduzione della fattispecie della particolare tenuità del fatto, con la semplificazione


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e lo snellimento di certe procedure, non ci troveremmo di fronte a questo amletico problema, ogni volta, di dover scegliere quali processi affrontare e quali no. Allora, un legislatore lungimirante non dovrebbe intervenire su quegli altri strumenti, invece di lasciare in fondo intasata la giustizia e dovendo scegliere, di volta in volta, quali reati perseguire?
Nella relazione introduttiva del disegno di legge si afferma che la scelta di soggettivizzare l'ufficio del pubblico ministero nasce dall'esigenza di superare la frammentazione della funzione requirente, che ha favorito la deresponsabilizzazione. Ora, in questo nuovo progetto di legge, come vengono garantite l'autonomia e l'indipendenza dell'ufficio del pubblico ministero, dell'ufficio requirente, ma anche dei singoli magistrati?

SALVATORE VASSALLO. Sarò breve anche se, come si è capito, inevitabilmente questa è un'occasione anche per i componenti delle Commissioni di mettere a fuoco problemi concettuali grazie all'aiuto dei nostri ospiti.
Vorrei pregarvi di focalizzare l'attenzione su un problema che a me sembra sia il cuore di una serie di discorsi che stiamo affrontando: quello dell'obbligatorietà dell'azione penale. Vorrei chiedere al professor Illuminati se può aiutarci, prima ancora di entrare nei dettagli tecnici della disciplina dell'azione penale e degli organi che possono formulare indirizzi sull'attività dei pubblici ministeri, a concordare su una definizione concettuale di questo problema. Taluni ritengono che l'obbligatorietà dell'azione penale sia una finzione, mentre altri si appellano a questo principio giurando di ritenere che non sia una finzione, forse perché ritengono che sia la difesa ultima dell'autonomia della magistratura.
La mia personale percezione, al momento - ma prego davvero lei e gli altri autorevoli studiosi presenti di aiutarci in questo - è che effettivamente molti dati di fatto ci inducano a ritenere che l'obbligatorietà sia pesantemente incrinata dal modo in cui concretamente agisce la magistratura, con i vincoli che sono stati appena richiamati. In pratica, qualsiasi magistrato si trova di fronte a innumerevoli opportunità di intervento e deve esercitare inevitabilmente una discrezionalità. Quindi, l'obbligatorietà di fatto finisce per essere una discrezionalità posta in capo al singolo magistrato di scegliere quali sono i reati più rilevanti da perseguire.
Mentre personalmente ritengo che in effetti ci sia una parte di verità nella proposizione di coloro i quali sostengono che il concetto nasconde una finzione, non mi sembra che il principio sia del tutto da buttare a mare. A me sembra, dunque, che il problema non sia se mantenere o negare l'obbligatorietà, ma se sia preferibile un sistema che attribuisce una discrezionalità diffusa ai singoli magistrati perché ritiene che l'esercizio diffuso della discrezionalità sia una garanzia maggiore rispetto all'ipotesi che la discrezionalità sia concentrata in poche mani.
La mia impressione - e su questo chiedo conforto - è che il problema andrebbe ridefinito concettualmente in questi termini: non «obbligatorietà sì oppure obbligatorietà no», ma «quanto ha senso che sia diffusa o concentrata la discrezionalità», la quale è inevitabile perché c'è un carico molto maggiore di reati da perseguire rispetto a quelli che concretamente possono essere perseguiti.
Ridefinita in questi termini, la questione forse diventa un po' più concreta, la discussione più efficace, e il problema diventa fino a che punto e in capo a quali soggetti si può pensare che ci sia un elemento di centralizzazione nell'indirizzo che contempera la necessaria autonomia, che inevitabilmente vuol dire anche un certo grado di discrezionalità nella scelta dei reati che si considerano più rilevanti, da parte dei singoli magistrati.
A quel punto il problema diventa se questo indirizzo possa essere posto in capo al Governo - ma francamente non credo - cosa che ugualmente avverrebbe se fosse posto in capo a una legge votata a maggioranza oppure se c'è la possibilità di creare un indirizzo di questo tipo all'interno degli organismi di autogoverno della


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magistratura, che però a quel punto dovrebbero essere composti in maniera adeguata, in modo da non prevedere un peso soverchiante dell'indirizzo politico sotto altra veste, e se si possa pensare a una figura apicale, che gerarchicamente enuclei un indirizzo generale che appunto contempera la discrezionalità dei singoli magistrati.

RITA BERNARDINI. Noi ci troviamo, a meno di due anni dalla chiusura di questa legislatura, con questo disegno di legge costituzionale e immaginiamo che, proprio per il ritardo con il quale è stato presentato questo progetto di legge, e avendo ascoltato le audizioni che fin qui si sono tenute, difficilmente essa potrà vedere la luce.
Chiedo per questo: ad avviso dei professori che sono intervenuti, è possibile, in questo scorcio di legislatura, arrivare a riforme non di tipo costituzionale sugli argomenti che sono contenuti in questo disegno di legge costituzionale? Mi riferisco all'obbligatorietà dell'azione penale chiedendo se, a vostro avviso, è possibile intervenire con legge ordinaria per disciplinare questo settore. Mi riferisco, altresì, alla responsabilità civile dei magistrati, alla separazione delle carriere, alla riforma del Consiglio superiore della magistratura chiedendo allo stesso modo se, a vostro avviso, è possibile intervenire con legge ordinaria?
Inoltre, chiedo in quali altri Paesi - è una mia curiosità - del mondo occidentale esiste il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale.

PRESIDENTE. Do la parola al professor Illuminati e al professor Angiolini per la replica.

GIULIO ILLUMINATI, Professore ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi di Bologna. Signor presidente, mi scuso di aver chiesto l'anticipazione della replica poiché devo allontanarmi. Cercherò di essere possibilmente esauriente, ma molto breve.
Il professor Pecorella mi sta invitando a una discussione sul piano dogmatico, su terzietà e imparzialità. La discussione sarebbe interessantissima, ma non vorrei infilarmi in un imbuto su problemi di definizione. Posso esprimere, tuttavia, il mio punto di vista.
A mio modo di vedere, una nozione di imparzialità ce l'abbiamo già in Costituzione, là dove si parla di imparzialità non solo con riferimento al giudice, ma anche con riferimento alla pubblica amministrazione. Imparzialità, secondo il mio punto di vista, vuol dire parità di trattamento dei cittadini, il che vale ovviamente per il giudice, vale per il pubblico ministero, vale per la polizia giudiziaria, vale per la pubblica amministrazione.
La terzietà è cosa diversa - questa è la mia opinione, ma non vorrei che scadessimo in un dibattito puramente terminologico - dall'imparzialità, perché vuol dire equidistanza tra le parti. La terzietà è connotato tipico del giudice.
Ora, noi possiamo dire che il giudice deve essere terzo, e ha un senso, ma non ha molto senso dire che il giudice deve essere imparziale, perché è un carattere fondamentale del giudice, non c'è bisogno di dirlo; sarebbe come dire che il giudice non deve decidere le sentenze con i dadi o vendere le sentenze. Mi pare, insomma, che non fosse necessario scriverlo in Costituzione: è un connotato della funzione pubblica esercitata dal giudice.
Può darsi che un giudice - lo dico per precisare meglio il mio pensiero, ma non voglio esprimere una parola definitiva su questo punto - sia imparziale ma non terzo. Chi ha i capelli bianchi come me ricorderà il giudice istruttore, che era un giudice imparziale in quanto giudice, ma non era terzo, perché svolgeva contemporaneamente attività di raccolta delle prove e attività di decisione. Viceversa, può darsi che un giudice sia terzo funzionalmente, ma non sia imparziale, come ad esempio il giudice incompatibile: se il giudice si è pronunciato sulla libertà personale dell'imputato nel corso dell'indagine non può pronunciarsi nel merito. Questo giudice non perde la terzietà, perché rimane sempre equidistante tra le parti, ma non è più imparziale perché soffre di un pregiudizio.


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Per questo a me pare che non sia necessario modificare la posizione ordinamentale del giudice per assicurarne la terzietà. La terzietà del giudice, come ho detto prima, è una terzietà funzionale. Il giudice deve essere posto in condizione di equidistanza dalle parti. La condizione di equidistanza prescinde dal fatto che si trovi strutturalmente organizzato in una maniera o in un'altra. Senza voler con questo dare giudizi sulla riforma e riferendo solo la mia opinione, dico che può darsi che il giudice separato non sia terzo e il giudice non separato lo sia. È possibile, perché la terzietà dipende dalla struttura dell'intero processo. Non voglio, tuttavia, portare la questione per le lunghe perché diventerebbe più astratta che concreta.
Per quanto riguarda il rischio della sottoposizione al potere esecutivo, io questo rischio lo vedo non per la separazione delle carriere in sé ma, come dicevo all'inizio, per il contesto. In un contesto in cui la separazione delle carriere viene accompagnata da una serie di altre intenzioni - quanto meno - di depotenziare il pubblico ministero a vantaggio della polizia giudiziaria o di limitare le garanzie di indipendenza del pubblico ministero, mi pare che sia un obiettivo possibile, senza con questo voler fare il processo alle intenzioni.
Io ritengo, non come studioso di diritto ma come cittadino, che questo sia un rischio. A me non piacerebbe un pubblico ministero dipendente dal potere esecutivo, però mi rendo conto che su questo ognuno ha la sua opinione. Vorrei ricordare - non voglio fare il professore - che la democrazia è essenzialmente tutela delle minoranze. Un pubblico ministero che dipende dal potere esecutivo può mettere a rischio le minoranze.
Poiché le maggioranze si modificano e la Costituzione resta, forse è opportuno garantire meglio questa posizione.
Ritengo che sia importante anche l'indipendenza del singolo magistrato, entro certi limiti. Tuttavia, entro certi limiti, come ho detto all'inizio, il magistrato del pubblico ministero può essere organizzato gerarchicamente, quindi può essere limitato per quanto riguarda l'organizzazione dell'ufficio. Dovrebbe essere rispettata l'autonomia di funzione anche del singolo magistrato, come è adesso; per esempio, il pubblico ministero in dibattimento è autonomo, si muove come crede, non può essere revocato e sostituito perché non si attiene alle direttive dell'ufficio. Mi pare che questo sia importante. Certo, la cosa più importante è che rimanga indipendente l'ufficio, però, rispetto alla modifica della Costituzione, è solo un segnale: invece di rafforzare l'indipendenza del pubblico ministero si va a indebolirla.
Quanto al pubblico ministero nazionale, siamo sempre alla questione della dipendenza dal potere esecutivo. Non riesco a immaginare un pubblico ministero nazionale che non sia dipendente dal potere esecutivo o quanto meno ad esso collegato. In Inghilterra c'è il Director of public prosecutions, che non è un membro dell'Esecutivo ma fa parte, comunque, del Gabinetto.
Non riesco a vederla diversamente e non riesco a immaginare come si possa conciliare l'indipendenza del pubblico ministero con una struttura gerarchica a vertice unico.

GIUSEPPE CALDERISI. Quali guasti produce questo sistema in Inghilterra?

GIULIO ILLUMINATI, Professore ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi di Bologna. Non dico che produca guasti. Dico soltanto che sono politicamente - se posso usare questo termine - contrario alla dipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo perché il pubblico ministero diventa, in questo modo, uno strumento del potere esecutivo.
L'Inghilterra ha una tradizione democratica e un rispetto per le istituzioni che probabilmente in Italia dobbiamo ancora conquistare, ma questa è una mia opinione personale. Bisogna sempre valutare le istituzioni anche nell'ambiente politico e civile nel quale operano. Del resto, sono molti gli ordinamenti in cui il pubblico ministero dipende dal potere esecutivo.


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Non c'è solo l'Inghilterra, ci sono anche la Francia e la Germania. Si tratta di calibrare i poteri del Governo rispetto all'operato del pubblico ministero. Il Ministro della giustizia, ad esempio, in Germania può dare direttive di carattere generale ma non può intervenire sui singoli casi. A questo punto, però, non è più un problema di posizione formale del pubblico ministero; se la carriera del pubblico ministero dipende comunque dal potere esecutivo, cioè se non si autogoverna, è chiaro che comunque risulta condizionato.
Lo ripeto, si tratta di scelte politiche, ci mancherebbe! Né su questo esprimo il mio parere come giurista, ma come cittadino.
Sull'autonomia della polizia giudiziaria, effettivamente l'articolo 348 del codice di procedura penale è stato modificato proprio per mantenere questa specie di doppio binario, perché al terzo comma esso reca «(...) la polizia giudiziaria compie gli atti a essa specificamente delegati (...), esegue le direttive del pubblico ministero ed inoltre svolge di propria iniziativa, informandone prontamente il pubblico ministero, tutte le altre attività di indagine» eccetera. Esiste, quindi, la possibilità di iniziativa parallela del pubblico ministero...

GAETANO PECORELLA. Attività di indagine per accertare reati...

GIULIO ILLUMINATI, Professore ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi di Bologna. No, anche richieste da elementi successivamente emersi. Qui si tratta, probabilmente, di una questione di interpretazione. Comunque, questa norma fu introdotta, nel 1991 se non ricordo male, poiché si era creata una spaccatura tra polizia giudiziaria e pubblico ministero, dal momento che la polizia giudiziaria trasmetteva la notizia di reato al pubblico ministero e poi restava inerte, mentre naturalmente il pubblico ministero, sommerso da tutte queste notizie di reato, non poteva fare nulla. Pertanto, è stato previsto che, in primo luogo, la polizia giudiziaria non avesse più l'obbligo - che poteva anche essere sanzionato penalmente - di trasmettere entro ventiquattro ore e che non potesse astenersi dall'agire. In più, è stata data alla polizia giudiziaria la possibilità di azione autonoma: perlomeno, questa norma io la interpreto in questo modo e credo che sia così anche nella prassi. Non esercito l'attività professionale, quindi non ho dati certi a questo riguardo.
Per quanto riguarda i princìpi inviolabili, onorevole Ciriello, mi dichiaro incompetente; bisognerà chiedere al collega costituzionalista, non saprei cosa dire. È chiaro che se si tratta dei diritti inviolabili, come tutti sanno, il legislatore non può muoversi neanche a livello costituzionale. Non saprei, però, darle una risposta se mi chiede di definire entro quali limiti.
Proseguendo con ordine, vengo alla questione della composizione del CSM, alla questione dell'estrazione a sorte. Come professore universitario credo di essere passato attraverso tutte le possibili versioni della composizione delle commissioni di concorso per l'accesso alla carriera universitaria. Abbiamo avuto il sorteggio integrale, l'elezione seguita da estrazione, l'estrazione seguita da elezione, e mi pare che sia quest'ultimo il sistema privilegiato dalla riforma del CSM, ossia prima si sorteggia e poi si elegge.
Se questo deve servire - posso dirlo «dal basso» della mia esperienza - a depotenziare le correnti, secondo me, è uno sforzo inutile. Si potrebbe fare il sorteggio assoluto ma, se è vero che questa è la forma più integrale di democrazia, mi pare che sia assolutamente da evitare per una funzione così delicata.
Piuttosto, se si intende depotenziare il sistema delle correnti - come è giusto che sia, perché in effetti si creano situazioni di insufficiente autonomia dei membri del Consiglio, di scambi di favori eccetera, il che effettivamente è molto spiacevole - dico innanzitutto che sono favorevole (anche se non so se sia il caso di mettere in Costituzione norme di questo genere, inclusa quella del sistema elettorale) alla non rieleggibilità. Vedrei forse un sistema di primarie che potrebbe scardinare il sistema delle correnti, come abbiamo imparato


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anche a livello politico generale. Soprattutto, mi pare che sia contraddittoria con l'intento di diminuire il potere delle correnti la modifica dell'articolo 105, comma 2, che reca: «I Consigli superiori non possono adottare atti di indirizzo politico, né esercitare funzioni diverse da quelle previste nella Costituzione». Sostanzialmente, il Consiglio superiore deve essere un puro e semplice organo amministrativo che gestisce la carriera dei magistrati. Si toglie - e questo mi pare inopportuno, anche perché crea problemi di coordinamento con la legislazione vigente - al Consiglio superiore anche il potere di emanare normativa secondaria, la normativa tabellare per esempio.
Allora, se il Consiglio superiore si trasforma in puro e semplice organo di gestione della carriera, i poteri delle correnti secondo me aumentano; potrebbero invece essere contrastati proprio attraverso l'imposizione dei criteri organizzativi degli uffici e quindi l'organizzazione dell'amministrazione della giustizia al di fuori del sistema delle correnti.
Per quanto mi consta, le associazioni della magistratura tendono piuttosto a delimitare il potere normativo del Consiglio superiore e ad avvalersi invece, eventualmente, delle funzioni amministrative del Consiglio con riferimento ad esempio alla scelta dei capi degli uffici.
Per quanto riguarda la composizione dell'organo di autogoverno, ci sono direttive europee che dicono che i Consigli superiori debbano essere composti almeno al 50 per cento di magistrati. Credo che questa composizione al 50 per cento potrebbe creare qualche problema con riferimento al voto del vice presidente del Consiglio superiore, che vale doppio, per cui, dovendo trattarsi necessariamente di un laico, si finirebbe per avere una preponderanza della componente laica nel caso si dovesse spaccare verticalmente la maggioranza.
Onorevole Calderisi, lei chiede se l'obbligatorietà sia autentica o meno. L'obbligatorietà è un principio, secondo me, che va mantenuto perché - lo ripeto ancora una volta - non esiste altro strumento per far sì che il pubblico ministero resti indipendente. In mancanza del principio dell'obbligatorietà, non si giustifica l'indipendenza del pubblico ministero. È vero che si tratta di giustificare il principio dell'obbligatorietà rendendolo effettivo. Oggi non è effettivo, lo sappiamo benissimo, ma questo non significa che il pubblico ministero sia legittimato a fare scelte politiche. Il pubblico ministero opera sulla base di criteri di priorità che dipendono dall'impossibilità di gestire tutte le notizie di reato.
Per quanto mi consta - ovviamente non ho dati di carattere generale - in tutti gli uffici ci sono dei criteri di priorità predeterminati. Ricordo che a Bologna si attribuivano dei codici colorati in relazione al tipo di notizie di reato, dal codice rosso al codice verde, dalle notizie di reato da trattare con precedenza assoluta fino a quelle che potevano essere posposte.
Eventualmente, il discorso è quello di generalizzare sistemi di questo genere e coordinarli. Il fatto che il Consiglio superiore della magistratura non abbia poteri tabellari nei confronti degli uffici del pubblico ministero significa che ogni procuratore della Repubblica fa quello che ritiene opportuno senza criteri di carattere generale, che chiaramente debbono comunque avere una fonte che potrebbe anche essere il Consiglio superiore, ma potrebbe anche essere il Parlamento. Lo ripeto, lo strumento non deve essere una legge che individui singole fattispecie di reato, ma che individui criteri generali, a cui a loro volta debbano riferirsi i capi degli uffici.
Quanto alla responsabilità del pubblico ministero, non vedo altra soluzione che una responsabilità disciplinare che sia rafforzata e gestita in maniera efficace e rapida. Dico subito, anche se non tutti saranno d'accordo con me, che sono assolutamente favorevole all'istituzione di una Corte di disciplina esterna al Consiglio superiore. Ritengo che questo dovrebbe valere, peraltro, per tutte le giurisdizioni domestiche, inclusa l'università. Non riesco


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a immaginare, se non vogliamo tornare alla responsabilità politica, altre responsabilità che quella disciplinare.
Anche la responsabilità civile, così come è configurata dalla riforma costituzionale - non mi soffermo su questo perché non voglio abusare della vostra pazienza - mi sembra un'arma a doppio taglio e potrebbe essere lesiva dell'indipendenza. Altrimenti la responsabilità del pubblico ministero la si può realizzare, ad esempio, attraverso il pubblico ministero elettivo: il pubblico ministero fa un programma, si sottopone al giudizio degli elettori, alla fine può essere riconfermato oppure no, a seconda dei risultati che ha ottenuto. Io, però, sarei piuttosto alieno da un sistema del genere perché un pubblico ministero selezionato dalle segreterie dei partiti non mi pare una soluzione auspicabile. Diversamente, la responsabilità si può ottenere attraverso un collegamento con il potere esecutivo: è una cosa possibile, ci mancherebbe altro, ma è una scelta politica che personalmente non condivido.
Onorevole Bressa, sono sostanzialmente d'accordo con lei. Si tratta di stabilire se dobbiamo avviarci verso un principio di opportunità nell'esercizio dell'azione penale o mantenere fermo il principio di obbligatorietà. È vero, dire che l'obbligatorietà si realizza secondo quello che stabilisce la legge ordinaria significa praticamente che l'obbligatorietà non è più assicurata, perché la legge ordinaria potrebbe dire qualunque cosa, potrebbe anche stabilire un criterio talmente discrezionale e vago da legittimare una situazione ancora più discrezionale dell'attuale. Questo riporta al discorso della responsabilità del pubblico ministero.
All'onorevole Bernardini, che me lo chiedeva, rispondo che esistono altri Paesi in cui vige il principio dell'obbligatorietà, anche se non a livello costituzionale: vige ad esempio in Germania, dove lo chiamano principio di legalità, e in Austria. Vi sono anche in quei Paesi, meccanismi di fuga dal processo, come per i reati bagatellari, e questo va assolutamente introdotto. Infatti, l'alleggerimento del peso in entrata è importante, così come è importante la depenalizzazione. Tuttavia, le esperienze passate ci insegnano che depenalizzare aiuta ma non risolve; e poi, se vogliamo essere precisi, la tendenza legislativa è se mai quella di aumentare le incriminazioni: non c'è una volontà normativa di alleggerire le fattispecie penali. D'altra parte, la depenalizzazione rappresenta la classica coperta troppo corta, perché se si depenalizza tutto ricade sulle sanzioni amministrative. Ora, poiché le sanzioni amministrative sono ricorribili davanti al giudice civile, questa è un'altra situazione a somma zero.
Rispondo anche all'onorevole Samperi sulla possibilità di introdurre altri strumenti di deflazione. Sicuramente va fatto, ma probabilmente bisogna battere più la strada della irrilevanza del fatto, altre forme di diversione dal processo come la mediazione e via dicendo. È evidente che c'è un eccesso di penalizzazione, il che, tra l'altro, alla fine comporta una fondamentale incertezza del diritto perché è chiaro che quando i reati sono tanti è anche difficile sapere se effettivamente un reato potrà essere perseguito oppure no.
Sono d'accordo sull'esigenza che sia mantenuta l'autonomia dell'ufficio del pubblico ministero, come ho detto e ripetuto diverse volte.
Onorevole Vassallo, l'obbligatorietà dell'azione penale esiste a livello di principio, ma deve essere gestita meglio. È qui con noi il presidente Zagrebelsky, autore del famoso «editto pretorio». Secondo me, deve esistere una discrezionalità tecnica nelle selezioni delle notizie di reato, ma non credo si possa trattare di una discrezionalità assoluta. Quello che conta non è tanto che non si facciano delle scelte, che pure vanno fatte, ma che le stesse siano trasparenti e prevedibili.
Dopodiché, è chiaro che possiamo continuare a sostenere che l'obbligatorietà dell'azione penale esiste. La discrezionalità diffusa - o comunque il potere diffuso di esercizio dell'azione penale - può essere uno strumento per evitare forme di discrezionalità che consistano nell'inerzia del pubblico ministero di fronte a certe notizie di reato. Anche questo, tuttavia, è


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un problema di carattere generale. Dobbiamo, cioè, attribuire a tutti i magistrati del pubblico ministero la titolarità dell'azione penale o dobbiamo quantomeno regolamentarla in relazione all'ufficio? In altri termini, il pubblico ministero parla a nome proprio o dell'ufficio? Ebbene, anche questo - scusate se uso sempre questa via di scampo - è un problema politico. Bisogna, infatti, stabilire come dobbiamo costruire l'ufficio del pubblico ministero.
Aggiungo che in molti ordinamenti, in molti di quelli in cui vige il principio di opportunità, esiste anche l'azione penale privata: quella popolare, non il ricorso al giudice di pace, per intenderci. Quindi, qualunque cittadino può esercitare l'azione penale il che può in qualche modo compensare la discrezionalità del pubblico ministero. Di fatto questo potere non viene esercitato però rappresenta un'adeguata compensazione rispetto al rischio di inerzia del pubblico ministero.
Ripeto, come dicevo prima, bisogna stabilire a quale livello debbano essere fissati i criteri di priorità, se a livello parlamentare o forse anche da parte degli organi di autogoverno. Si potrebbe pensare a una concertazione a livello nazionale per arrivare all'individuazione dei criteri di priorità. Poi, però, occorre che il Consiglio superiore sia posto nelle condizioni di ottenerne la realizzazione. Quindi, eventualmente, esso deve anche esercitare l'azione disciplinare - sempre che si voglia ammettere che il Consiglio superiore possa esercitarla - nel caso in cui vengano disattesi i criteri di priorità.
Infine, in risposta all'onorevole Bernardini, posso dire che l'attuazione dell'obbligatorietà, la responsabilità civile dei magistrati e la riforma del Consiglio superiore della magistratura sono scelte che, a mio avviso, possono essere indubbiamente attribuite alla legge ordinaria, senza doverle irrigidire in princìpi costituzionali. Credo, infatti, che, a Costituzione invariata, molte riforme di cui si fa carico la discussione di oggi possano essere realizzate, se c'è - ovviamente - la volontà politica. Ho concluso. Grazie.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA II COMMISSIONE GIULIA BONGIORNO

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Giulio Illuminati. Ricordo ai nostri ospiti che qualora ritengano opportuno approfondire qualche punto successivamente, potranno trasmettere una nota integrativa alle presidenze, che sarà messa a disposizione delle Commissioni.
Do la parola al professor Angiolini per la sua replica.

VITTORIO ANGIOLINI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Milano. Informo a questo proposito i presidenti che provvederò ad inviare un'integrazione che riguarderà un problema che, in effetti, ho trattato molto sinteticamente nella mia relazione e che, invece, veniva giustamente richiamato da alcuni deputati intervenuti, ovvero quello della composizione del Consiglio superiore della magistratura.
Infatti, mi permetto di dire che il sorteggio è introdotto in modo tecnicamente inadeguato nel disegno di legge del Governo, perché, da come è scritto, sembra che esso sia l'unico criterio, mentre mi pare che l'intenzione non sia questa, cioè non sia quella di estrarre gli eletti direttamente dal corpo elettorale. Ad ogni modo, il sorteggio è stato introdotto contro le correnti della magistratura.
A questo proposito, devo dire che nutro qualche dubbio sul fatto che si faccia una norma costituzionale contro associazioni libere della magistratura che, fino ad ora, non hanno danneggiato direttamente nessuno. Tuttavia, questo rimane un mio dubbio di fondo.
Il sorteggio, come ricordava il collega Illuminati, è stato adottato in ambito universitario per eleggere le commissioni di concorso. Il CSM, però, non è una commissione di concorso, bensì un organo di rappresentanza professionale. Pertanto, il sorteggio, in questo caso, comporta l'aumento del numero dei non togati, mutando, in realtà, la natura dell'organo, che assume un carattere politico-amministrativo.


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Vi è, dunque, un aspetto di rappresentanza professionale, ma non si tratta più di un organo di rappresentanza professionale in modo esclusivo, come molti hanno sostenuto. A questo proposito, ricordo, tra le altre, la posizione di Grevi che riprendeva questa concezione dai lavori preparatori della Costituente.
Sotto quest'aspetto, vi è un problema che riguarda anche i poteri del Consiglio superiore della magistratura. Credo, infatti, sia giusto il principio di tassatività dei poteri del Consiglio superiore della magistratura per le ragioni contenute in parte anche nella relazione al disegno di legge. Tuttavia, la questione è che sembrerebbero dover scomparire alcuni poteri del Consiglio superiore della magistratura. Come veniva ricordato, sono in discussione alcune attribuzioni concrete, come l'organizzazione dei grandi uffici giudiziari e la distribuzione degli affari tra gli stessi, che credo non possano essere obliterati senza gravi conseguenze anche sul piano dell'applicazione del principio del giudice naturale. Questa è, quindi, una parte effettivamente problematica.
Rispetto all'obbligatorietà dell'azione penale, a mio avviso, occorre essere molto chiari; infatti è un modo di affermare l'indipendenza del pubblico ministero. Questo è il nucleo, dal punto di vista costituzionale. Certamente, questo principio si potrebbe esprimere in altri modi, come accade in altri Paesi. Si potrebbe, per esempio, parlare di eguaglianza di fronte alla legge penale. Ad ogni modo, significa questo: indipendenza degli uffici del pubblico ministero. Da questo punto di vista, devo dire che vedo un rischio nella decostituzionalizzazione di tale principio, poiché di questo si tratta. Ecco, voglio essere più netto rispetto a prima perché su questo punto dobbiamo capirci. Il principio di riserva di legge in materia penale è un principio non soltanto di indeterminatezza, come sappiamo, ma anche di assunzione di responsabilità da parte del Parlamento democratico. Quest'ultimo si assume la responsabilità di dire a un soggetto che è punito, ovvero che ha la sanzione a cui nell'ordinamento è riservato l'apprezzamento più grave.
Tra l'altro, l'ipotesi avanzata nella relazione al disegno di legge è che la selezione avvenga per categorie di reati. Certo, potrebbe anche essere altrimenti; ciò nonostante, si prevede che sia fatta una selezione di criteri. Quindi, intanto iniziamo con lo stabilire se il pubblico ministero è indipendente. Bisogna, infatti, capire se la riserva di legge sui criteri per l'esercizio dell'azione penale è assoluta oppure relativa. In altri termini, occorre stabilire se questa riserva di legge ammette interventi dell'esecutivo, a cui rimandi la legge. Se è così, credo che il problema che sto evidenziando sia ancora più grave.
L'onorevole Pecorella diceva che, in fondo, si aggiunge legalità a legalità. Infatti, si forniscono dei criteri ulteriori allorquando - sia pure in modo non necessariamente interessato, quindi non discrezionale - il pubblico ministero deve scegliere tra molte notizie di reato a cui dar seguito, ovvero tra molte indagini da intraprendere. Tuttavia, con questi criteri ulteriori il Parlamento viene meno alla sua responsabilità perché precedentemente ha affermato che quelle fattispecie dovevano essere tutte punite. Questo è il problema, che, peraltro, comporta degli enormi inconvenienti pratici. Per esempio, la legge di criteri è retroattiva? Si applica, cioè, anche per le fattispecie di reato realizzatesi prima dei nuovi criteri? Difatti, o i criteri hanno una durata limitata oppure è inutile prevederli. Pertanto, si dovrebbe seguire la via maestra di una riforma drastica della nostra legislazione penale, di cui si parla da tanto tempo, e di cui la depenalizzazione è una parte; l'uso di sanzioni civili, un'altra; la possibilità di svolgere effettivamente l'azione civile, un'altra ancora.
Insomma, non si può caricare tutto il penale di questi aspetti e poi riservarsi di stabilire se eventualmente punire, peraltro comunicandolo all'interessato dopo che si è commesso il fatto perché la decisione viene presa al momento, in relazione all'allarme sociale. Del resto, questa cosa


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misteriosa che chiamiamo «allarme sociale» tornerà sicuramente in campo, com'è ovvio.
Passo all'ultimo punto che mi preme toccare. Vorrei, infatti, spiegare perché la parità delle armi è lesa dalla non indipendenza del pubblico ministero. Intanto, nel mio intervento ho affermato, più precisamente, che la parità delle armi sarebbe anch'essa a repentaglio se il pubblico ministero dipendesse direttamente dal Governo-amministrazione. Certamente, com'è legittimo, esistono diverse concezioni della parità delle armi e della terzietà del giudice. Tuttavia, questo è solo un modo di precisare l'imparzialità e di specificarla in una direzione nuova.
Del resto, si diceva che era imparziale anche il vecchio giudice istruttore, cosa molto discutibile dal punto di vista dell'equidistanza dalle parti. Quindi, terzietà significa parità delle armi, ovvero equidistanza dalle parti. Se è così, si tratta di uguale potenza delle parti. Infatti, se il principio della parità delle armi regge la terzietà, bisogna che le parti siano attive, non solo nell'interesse che rappresentano, ma in quello del processo. Allora, dicendo le cose come stanno, di fronte al pubblico ministero dipendente dall'esecutivo, un cittadino italiano - non un professore di diritto costituzionale - pensa immediatamente alla disparità di trattamento dei funzionari e degli amministratori pubblici sul piano della responsabilità penale. A ciò segue tutto il resto. Peraltro, il principio si lede anche quando il pubblico ministero non fa fino in fondo il suo mestiere di parte, non solo quando lo fa. Poi, naturalmente, vi sono tutti problemi connessi relativi agli stranieri.
Un ultimo punto riguarda il richiamato problema dei principi supremi. A questo proposito, nessun costituzionalista potrebbe dire che è violato un principio supremo. Infatti, da avvocato costituzionalista, più che da professore, posso affermare che si può ragionevolmente dire che la Corte costituzionale ha affermato, in primo luogo, che i principi supremi possono comportare l'incostituzionalità di leggi costituzionali e, in secondo luogo, che tra questi principi supremi è posto quello dell'indeclinabilità della tutela giurisdizionale e quello dell'eguaglianza nel godimento della tutela giurisdizionale. Questa è la direttiva. D'altra parte, forse non è neppure giusto porsi il problema della violazione dei principi supremi che, come tali, credo siano largamente condivisi da tutti. La questione, semmai, si porrà in una fase ulteriore.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA I COMMISSIONE DONATO BRUNO

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Angiolini. Do la parola al professor Vladimiro Zagrebelsky.

VLADIMIRO ZAGREBELSKY, Professore. Cercherò di fare una particolare attenzione nella mia esposizione, e poi rispondendo a eventuali domande, a un aspetto specifico della mia esperienza, cioè ai nove anni che ho passato a Strasburgo in qualità di giudice della Corte europea dei diritti dell'uomo, dove ho imparato cose molto importanti. Del resto, anche gli atti del Consiglio d'Europa - in particolare del Comitato dei Ministri - hanno un certo peso perché, tra le istituzioni europee, è quella che lavora sullo stato di diritto, democrazia ed equità dei processi. Questa è, ormai, la ragion d'essere del Consiglio d'Europa nel suo sviluppo storico.
In seguito invierò un appunto alle presidenze, poiché vi sono tanti aspetti specifici che non possono essere approfonditi nel breve tempo dell'audizione. In ogni caso, vorrei cominciare con tre osservazioni preliminari e generali su questo disegno di legge costituzionale.
La prima questione - già affrontata da altri - concerne la preoccupazione per la decostituzionalizzazione sostanziale di una materia che è un pilastro della struttura dello Stato, tale da garantire che si è in uno Stato di diritto e che vige una funzione giurisdizionale adeguata a queste esigenze. La questione se i principi fondamentali


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siano trattabili e toccabili non è di mia competenza; tuttavia, mi chiedo se la rigidità della Costituzione repubblicana non sia un principio fondamentale, indipendentemente dai contenuti, e quindi se, nel momento in cui si decostituzionalizza una materia come questa, si cancelli, di fatto, la rigidità della Carta costituzionale. Questo, però, è solo un mio dubbio.
La seconda osservazione - che avrete sentito menzionata in ogni audizione - riguarda il vero problema della giurisdizione italiana a livello europeo, cioè la lentezza dei procedimenti, particolarmente di quelli civili. D'altronde, anche oggi sul Sole24Ore vi sono articoli importanti su questo tema. Ebbene, questo disegno di legge costituzionale non ha niente a che fare con il vero problema della giustizia italiana nel senso che, anche adottandolo nel testo originario, l'incidenza su questo punto sarebbe assolutamente nulla.
Il terzo punto nasce anche dall'esperienza europea e, più in generale, da riflessioni sul modo d'essere progressivamente modificato della funzione giudiziaria. Peraltro, vi sono ragioni storiche e altre più vicine a noi. Basti pensare al peso crescente della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e della Carta europea dei diritti fondamentali, che oggi sono parte dei trattati. Peraltro, vorrei precisare che non bisogna considerare diritti fondamentali solo quelli di non essere torturato o di non essere ucciso. Ormai i diritti fondamentali si trovano dappertutto e costituiscono una materia trasversale in qualunque causa, dal diritto di proprietà alla libertà d'espressione.
Questo è il peso della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo che la Corte costituzionale con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007 e successive ha considerato parametro di interpretazione della legge nazionale o di costituzionalità, se l'interpretazione conforme non può avere luogo.
D'altra parte, quelle Carte e quella giurisprudenza hanno la caratteristica fondamentale - oltre a essere vincolanti per il giudice, come per il Parlamento, per il Governo e per l'intero Stato - di essere piene di valori e quindi di obbligare a effettuare scelte di valori che non sono normativamente definibili, bensì altri (di natura sociale, etica e via dicendo). Un esempio tipico è la valutazione della proporzione nel caso concreto di una certa limitazione di un diritto.
Ora, è chiaro che non possiamo dire quello che sostenevano Montesquieu, Diderot o, qui da noi, Beccaria, vale a dire che il giudice non deve interpretare la legge, secondo l'idea che le leggi siano un libretto che si tiene in tasca, che tutti conoscono, e che il giudice ricostruisce i fatti, non interpreta la legge, appunto. Questo principio è stato abbandonato da tempo. L'ordinamento giudiziario - il professore Di Federico, che interverrà successivamente, ne sa più di me - nelle sue radici e nella sua filosofia si è modificato nel tempo, sebbene resti quello piemontese del 1865, cioè quello di Napoleone, della rivoluzione francese, dell'illuminismo, quindi di Diderot e di Montesquieu. Il principio del giudice «bouche de la loi» non è più vero, tuttavia continuiamo a ragionare così.
Per esempio, mi permetto di interpretare in questo senso la norma sulla responsabilità civile. Ebbene, un rivoluzionario francese, alla fine del Settecento, avrebbe ritenuto il magistrato come gli altri funzionari. Da allora, però, sono cambiate diverse cose.
In effetti, è da rimarcare che una riforma costituzionale importante, se non altro per il numero di articoli che coinvolge, presentata con aggettivi enfatici, non tocca per nulla la domanda di «chi è in grado di fare questo mestiere», proprio nel momento in cui l'autorità e l'autorevolezza delle decisioni giudiziarie hanno perso l'aggancio di essere espressione della legge. È autorità perché parla la legge; lo dico io, giudice, ma è la legge che parla: questo principio è ormai finito. Allora, l'autorevolezza dove la possiamo trovare se non nelle persone, nella formazione professionale, nel tipo di scelta e così via?
Sotto quest'aspetto, le affermazioni della House of Lords, nel Regno Unito, sono state - a parte il livello culturale -


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rivoluzionarie per l'andamento di una società perché le persone erano credibili; le persone erano indiscutibili, qualunque fosse il criterio di selezione.
In Italia c'è molto poco di tutto questo nel dibattito culturale a livello delle professioni e degli studiosi. Tuttavia, che di ciò non si faccia parola in questo disegno di legge costituzionale è una grave debolezza, e anche una mancanza di respiro costituzionale. Di più, non c'è traccia della questione della competenza e dell'esistenza stessa del problema di assicurare la formazione e l'aggiornamento professionale dei magistrati. Lo si può ricavare, a contrario, che non spetterebbe più al Consiglio superiore della magistratura. È una brutta cosa? Questa domanda non è casuale: è stato detto che è una brutta cosa negli anni Ottanta. Si tratterebbe, infatti, di formattare, oltre che formare, le teste dei magistrati.
Ecco, volevo dire questo perché credo che da quelle sentenze della Corte costituzionale - che sono a loro volta obbligate, data la tendenza culturale e ordinamentale in questa materia in Europa - provenga un grosso ripensamento sulla struttura del giudiziario.
A proposito del Consiglio superiore, mi collego a una risposta del professor Illuminati. Il Consiglio superiore non vota mai - per così dire - spaccato, in laici e togati. Credo che questo non sia mai avvenuto, nemmeno per il calendario delle ferie. Esso vota sempre con maggioranze miste perché ci sono le diverse opinioni, che - per fortuna - non cambiano drasticamente in relazione al tipo di professione di origine dei componenti. Di conseguenza, aumentare il numero dei laici significa che nelle votazioni rilevanti in cui il Consiglio vota a maggioranza, spesso risicata, diventano decisivi uno o più laici. Non è, quindi, questione - come mi sembra di aver colto nella risposta del professor Illuminati - del peso del procuratore generale o del presidente della Cassazione o del vicepresidente di uno dei due Consigli superiori. Certo, può succedere anche questo, ma che io sappia non è quasi mai avvenuto. In realtà, laici e togati lavorano insieme. Sarebbe lungo spiegare, anche alla luce della mia esperienza, come si svolgono le dinamiche all'interno di queste due componenti, perciò non mi sembra il caso di approfondire tale questione, visto anche il tempo disponibile.
Vorrei dire qualche parola in merito alla questione della responsabilità civile, e in particolare sul punto in cui si dice che i giudici sono responsabili «come gli altri funzionari». Ecco, a mio modo di vedere, i magistrati non sono come gli altri funzionari dipendenti dello Stato per il piccolo dettaglio che sono indipendenti, a differenza di tutti gli altri, che non lo sono. Certo, gli altri devono essere imparziali, ma non sono indipendenti rispetto all'indirizzo politico del ministro, alla struttura gerarchica delle amministrazioni e quindi ai loro vari superiori.
Inoltre, siccome nella relazione si richiama una raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa del 2000, ma non si richiama l'ultima del 2010, che è totalmente ignorata e che riguarda proprio i giudici, vorrei ricordare che, sul punto della responsabilità civile dei magistrati, il Consiglio d'Europa indica soltanto la responsabilità indiretta e la responsabilità per dolo o colpa grave. Il resto ricade nella sfera dell'indipendenza e, quindi, spetta allo Stato risarcire, se il caso lo richiede.
A questo proposito, le due sentenze della Corte di giustizia che la relazione ministeriale richiama non hanno riguardo al tema che le Commissioni sono chiamate ad affrontare. Se le due sentenze fossero state lette - almeno la massima - sarebbe stato chiarissimo che riguardano la responsabilità dello Stato in relazione al risarcimento del danno per violazione di normativa comunitaria, anche quando la violazione derivi da una sentenza del giudiziario. Esse non dicono - né potevano dire - nulla, data la competenza della Corte di giustizia dell'Unione, sul punto che è oggetto della riforma proposta.
Vengo al tema, più volte toccato anche nel corso delle odierne audizioni, del pubblico ministero. A proposito dell'ufficio del pubblico ministero, vorrei segnalare che la


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formula adottata nel testo dell'articolo 4 del disegno di legge, vale a dire che l'ufficio del pubblico ministero è unico, potrebbe implicare in futuro che, con legge ordinaria, si costruisca un unico ufficio del pubblico ministero, alla spagnola o alla portoghese, il che meriterebbe di essere discusso; non voglio dire che sia un'aberrazione in sé. Tuttavia, a mio parere, deve essere molto chiaro se si vuole questo oppure no perché, in tal caso, la discussione dovrebbe prendere un'altra direzione per tempi, modalità e contenuti.
Riguardo al pubblico ministero e alla sua indipendenza, vorrei segnalare che nei documenti del Consiglio d'Europa la posizione del pubblico ministero è esaminata per garantire al giudice la possibilità di essere terzo e indipendente; questo perché in Europa vi sono anche dei Paesi che vengono dalle «prokurature». Ora, la «prokuratura» non è più debole davanti a un giudice perché è dipendente dall'esecutivo, ma è più forte. Se un giovane sostituto si presentasse in udienza, facendo sapere, anche con il silenzio, che dietro c'è il ministro, probabilmente nell'aula i pesi delle parti sarebbero diversi. Questa è la logica che muove le raccomandazioni del Consiglio d'Europa.
Torno alla questione dell'unitarietà dell'ufficio del pubblico ministero. Se la lettura - ma, nel caso, dovrebbe essere chiarita - va nel senso che i singoli uffici territoriali, agganciati ai singoli uffici giudiziari (procura della Repubblica, procure generali e via discorrendo), sono unitari, allora sono assolutamente d'accordo. Tuttavia, non credo che sia necessaria la riforma costituzionale dell'attuale articolo 107 della Costituzione poiché questo sarebbe già nella linea della modifica, già effettuata, dell'articolo 70 dell'ordinamento giudiziario per adeguarlo al nuovo Codice di procedura penale, che è - lamento - però largamente svuotata dalle prassi, anche del Consiglio superiore. Ad ogni modo, la linea è questa. Credo, quindi, che gli uffici di procura debbano essere uffici e non singoli magistrati.
Non so se adesso la prassi sia diversa, ma ho sempre visto gli atti del sostituto inviati al giudice istruttore prima o ai giudici dell'udienza preliminare firmati «il procuratore della Repubblica, xy sostituto». Quindi, che l'ufficio debba essere unitario è indubbio; la prassi è andata verso altre strade, che non condivido. Volevo, dunque, essere chiaro sul fatto che approvo questo ordine di idee.
Riguardo alla questione - collegata a quanto ho già detto - della priorità, è per me motivo di soddisfazione che se ne parli finalmente senza scandalo, senza pensare che sia qualcosa di deteriore, che non bisognerebbe fare e via discorrendo. D'altra parte, io l'ho fatto quando ero procuratore della Repubblica a Torino, forse come gesto di necessità, ma anche di assunzione di responsabilità del capo dell'ufficio rispetto ad esempio a un'ispezione ministeriale; sulle prescrizioni, per esempio, i sostituti avrebbero detto «circolare del capo dell'ufficio». Credo che sia da far così. Peraltro, nel 1994 - se posso citarmi - ho scritto un articolo «Stabilire le priorità nell'esercizio obbligatorio dell'azione penale», quindi siamo assolutamente nella linea di certi discorsi che si fanno attualmente.
Difatti, tutti gli uffici hanno delle priorità; una parte, numericamente crescente ormai, ha degli atti formali più o meno specifici del procuratore; chi non ce li ha, in un certo senso li ha ugualmente. Per esempio, mettere in lavorazione, con una certa urgenza, i processi vecchi per farli prescrivere nella fase successiva, cioè da parte del giudice, di modo che le statistiche delle prescrizioni non pesino sulla procura, ma sull'ufficio giudicante successivo, è un criterio; deteriore, ma è pur sempre un criterio. O ancora, fare i processi più semplici, che fanno numero, invece di quelli complicati, è un altro criterio; deteriore pure questo, ma è pur sempre un criterio. Persino quello del caso è un criterio, il peggiore. Quindi, tutti adottano dei criteri perché tutto non si può fare, evidentemente.
In aggiunta, la procura della Repubblica deve preoccuparsi che gli uffici giudicanti, fino alla Cassazione, debbano essere in grado di gestire il flusso di lavoro,


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altrimenti si ha una deresponsabilizzazione di singole fasi a danno del sistema complessivo.
Tutto, dunque, non si può fare. Direi anche che qualche volta, forse, l'idea astratta dell'azione penale obbligatoria, letta nel senso che bisognerebbe arrivare a sentenza definitiva in tutti i casi, potrebbe essere messa in discussione per una serie di ragioni, se non altro perché le carceri italiane sono sovraccariche e temo che la questione si potrebbe ulteriormente aggravare. Lasciando da parte questo aspetto, che rinvia anche al valore dei sistemi di opportunità dell'azione penale, dico che, siccome tutto non si può fare, bisogna stabilire dei criteri. Io non credo, però, che inserire da qualche parte l'idea che l'azione penale sia esercitata secondo criteri di priorità tocchi il valore fondamentale della sua obbligatorietà che, fin dall'inizio, avrebbe dovuto essere letta nel senso di escludere la discrezionalità del caso per caso.
Non c'è scritto nell'articolo 112 vigente che la Repubblica procede per tutte le notizie di reato. Sarebbe, secondo me, persino inaccettabile che ci fosse scritto. Ciò nonostante, questa è la lettura che la gran parte della magistratura ne ha dato, reagendo violentemente contro l'idea stessa delle priorità all'epoca. Ciò si nota, peraltro, anche in certe attese che sembrano muovere le posizioni nel dibattito politico, sociale, giornalistico e così via.
Secondo me, quindi, i criteri devono esserci. Si apre, però, il problema di chi li determina, come, con quale contenuto. Su quest'ultimo vi sono dei vincoli di carattere costituzionale; ad esempio l'articolo 13 della Costituzione implica, infatti, un obbligo di procedere prioritariamente in modo efficace. Vi sono, però, anche vincoli di carattere internazionale, per esempio la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo obbliga gli Stati a procedere ed eventualmente punire efficacemente la violazione degli articoli principali della Convenzione europea dei diritti dell'uomo; la Convenzione penale sulla corruzione obbliga a punire le corruzioni; infine, la raccomandazione del Consiglio d'Europa sul pubblico ministero dice che il pubblico ministero, anche quando segue criteri di priorità, deve comunque essere messo in grado di procedere nei confronti delle violazioni principali dei diritti dell'uomo, di corruzione e di abuso di potere da parte dei pubblici dipendenti.
Questo è il punto delicato della dipendenza o indipendenza rispetto al Governo. Vi sono degli obblighi di procedere che costituiscono delle priorità; vi è, però, un amplissimo margine di scelte possibili. Ecco, io credo che si possa forse ancora depenalizzare qualcosa e che si possano utilizzare delle formule processuali di alleggerimento delle procedure; tuttavia, non penso sia risolvibile il problema della quantità di penalizzazione, ovvero delle notizie di reato rispetto a una ragionevole disponibilità di risorse per dare corso a tutte. Questo è uno degli aspetti che mi separano da posizioni diffuse nella magistratura. Non è vero che non occorra stabilire le priorità.
Tra l'altro, è noto che ci sono ragioni per mettere l'etichetta del penale su certe condotte, anche se poi non si procede. Ci sono studi sociologici su questo tema. Se si guarda alle attese dei cittadini, spesso si risponde di sì affinché un certo comportamento sia previsto come reato, ma si risponde di no in merito alla necessità di procedere. C'è uno scarto, che è legato anche alla funzione di indirizzo etico di un Paese su certe tematiche sparse attraverso il penale.
Detto questo, non credo che si possano stabilire i criteri per legge. La relazione al disegno di legge dice che è l'unico modo affinché siano generali, astratti, oggettivi e via dicendo, ma è proprio questo che bisogna evitare. È chiaro che è l'unico modo - o almeno quello principale - per renderli oggettivi, stabili, conoscibili e così via, ma bisogna evitare proprio questo perché le priorità sono legate alla contingente disponibilità di risorse degli uffici, alle contingenze criminali del territorio, che sono diverse da caso a caso, nello spazio e nel tempo. Insomma, le urgenze cambiano. Inoltre, sarebbe fuori dal buonsenso, però obbligato se si adotta una


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legge, fare rinvio alle fattispecie di reato e dire che alcune di queste sono prioritarie. Anzi, data la tecnica legislativa diffusa, la scelta dei criteri sarebbe normalmente effettuata facendo riferimento alla pena edittale massima.
Ora, si sa benissimo che la pena edittale - e particolarmente quella massima - è definita in relazione a diverse ragioni, di cui solo una è la gravità; infatti, attraverso la determinazione della pena edittale massima certi strumenti processuali sono utilizzabili oppure no, si stabilisce la prescrizione e via discorrendo; vi sono, quindi, molte ragioni che non sono indice dell'urgenza né della significatività penale di quella fattispecie, ancor meno quando si parla dei diversi ambiti nazionali.
Un sistema di politica penale - perché è di questo che stiamo parlando - fortemente accentrato come quello francese, che prevede l'opportunità dell'azione penale e nel quale il pubblico ministero dipende dal Ministro, quindi con una fortissima coerenza di sistema, non riceve le priorità dal centro con un atto generale e astratto, e ancor meno dalla legge, ma neppure da una direttiva del ministro. Le priorità sono elaborate in sede locale; il procuratore della Repubblica sente il prefetto, il capo della polizia, il capo della gendarmeria, il sindaco, le forze sociali disponibili e tutti insieme elaborano, prima di tutto, la fotografia delle necessità repressive. Certo, alla fine qualcuno deve decidere; quindi con una catena che va dal procuratore generale, al procuratore della Repubblica fino al distretto si cerca una coerenza generale, ma non l'identità generale e astratta.
Nei vostri lavori preparatori potrebbe esservi utile un rapporto del Senato francese del 1998, che indicherò nel mio appunto, in cui è emerso che, nonostante la gerarchizzazione del pubblico ministero, la dipendenza dal ministro e le priorità, la realtà della repressione penale è molto diversa nei vari territori. Del resto, è inevitabile che sia così.
Mi chiedo, poi, se criteri indicati dalla legge - tipicamente articolo per articolo, dai prioritari ai non prioritari - sarebbero compatibili con la permanente vigenza dei reati non prioritari. D'altronde, stiamo parlando di priorità perché politicamente è più facile e più corretto; tuttavia, dovremmo usare l'espressione «priorità/posteriorità», tenendo conto che, nel sistema italiano molte posteriorità sono destinate alla prescrizione, (non al cestino, come in Francia, che prevede l'azione penale facoltativa). Allora, indicare per legge i reati «posteriori», lasciando in vigore i reati nel codice penale darebbe luogo a turbamento del sistema.
Pertanto, credo che se si ritiene di dover inserire questa legge nella nuova formulazione dell'articolo 112, essa dovrebbe individuare i criteri, le procedure e le modalità per arrivare all'indicazione di priorità. Inoltre, queste modalità dovrebbero essere partecipative, quindi coinvolgere molte voci. Secondo me, i criteri, poi, dovrebbero identificare dei settori di criminalità e non delle fattispecie di reato. Vi sono, infatti, delle contravvenzioni che sono assolutamente prioritarie, non solo perché si prescrivono rapidamente, ma anche perché si inseriscono nel fenomeno criminale da considerare prioritariamente. Per esempio, è ben noto che l'intermediazione di manodopera è un fenomeno gestito da organizzazioni criminali. Più in generale, quindi, non si può dichiarare prioritario ad esempio l'articolo 416-bis del Codice penale, dimenticando che il fenomeno criminale si manifesta anche in illeciti penali previsti con pene minime.

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Zagrebelsky. Do la parola al professore Giuseppe Di Federico, professore emerito di ordinamento giudiziario presso l'Università degli studi di Bologna.

GIUSEPPE DI FEDERICO, Professore emerito di ordinamento giudiziario presso l'Università degli studi di Bologna. Vorrei iniziare la mia esposizione col dire che un elemento che si può dedurre dall'intervento di Vladimiro Zagrebelsky è che non si può trattare di problemi costituzionali se non li si innervano in soluzioni. Il professor Zagrebelsky ha, infatti, esplorato


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cosa potrebbe significare sul piano dell'innovazione, anche legislativa, ciò che è scritto, in maniera un po' criptica, ed è ovvio che sia così, nella Costituzione. Su questo tornerò alla fine, in commento, ma non tratterrò del problema generale, per quanto sia complesso.
Difatti, quando dobbiamo considerare un testo così complesso che copre tanti problemi un primo compito è quello di selezionare, in maniera molto stretta, i temi da discutere. Pertanto, parlerò solo di alcuni aspetti relativi all'obbligatorietà dell'azione penale, con limitate riflessioni sulla formulazione dell'articolo 13 del disegno di legge di riforma e di alcune questioni ad esse funzionalmente connesse. Se ne avrò il tempo, aggiungerò alcune indicazioni concernenti le proposte di riforma della disciplina giudiziaria.
Premetto che nel corso degli ultimi quarantacinque anni ho condotto ripetute ricerche sull'assetto del pubblico ministero nei Paesi demo-liberali e che, a più riprese, ho rilevato quali siano, nel nostro Paese, le molteplici conseguenze disfunzionali che sul piano operativo sono generate dall'inapplicabile principio dell'obbligatorietà dell'azione penale. Non solo ma anche dal fatto che tali disfunzioni si sono venute aggravando con il passare del tempo.
La ragione di questa premessa è che considero con particolare favore l'iniziativa di regolamentare l'obbligatorietà dell'azione penale prevista dall'articolo 13, con una formulazione simile a quella già prevista dalla bozza Boato del 1997 e cioè «l'ufficio del pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge». Tuttavia, secondo me, c'è un forte iato tra la relazione e la trasposizione in norme. A mio avviso l'articolo 13 per conseguire le finalità indicate nella relazione dovrebbe essere formulato in maniera più articolate. Infatti, la motivazione dell'articolo è volta, innanzitutto, a tutelare il valore dell'eguaglianza dei cittadini. Paradossalmente, l'obbligatorietà dell'azione penale, pensata in questi termini, genera un rilevante problema: visto che la possibilità di perseguire tutto viene meno, l'uguaglianza del cittadino bisogna perseguirla per altre vie, anche se magari non sarà possibile farlo in maniera assolute. In secondo luogo, la norma è volta a garantire la funzionalità complessiva del sistema e a «ricondurre l'organo del PM direttamente al circuito democratico in quanto espressione di pretesa punitiva dello Stato».
Nella relazione si richiama come autorevole testimone di questo tipo di fenomeni Giovanni Falcone, sia perché il «feticcio» - come lui lo chiama - dell'obbligatorietà porta a modalità di esercizio dell'azione penale che variano non solo da procura a procura, ma anche all'interno delle singole procure (lui parla di «variabile impazzita del sistema»), sia per l'esigenza che questa grave disfunzione possa essere sanata solo con un efficace coordinamento dei comportamenti del PM, che, nel contesto della citazione, vuol di necessità dire un coordinamento a livello nazionale. Infatti, questo è l'unico modo per evitare, per quanto possibile, comportamenti diversi nelle varie procure. In buona sostanza, quindi, egli prospettava come funzionalmente necessario un assetto simile a quello degli altri Paesi di consolidata democrazia, che prevedono tutti un organo cui compete la responsabilità di assicurare l'unità di indirizzo dell'attività delle procure, anche se in questa citazione nulla si dice da parte di Falcone sulla natura e sulla collocazione istituzionale di questo organo.
Ricordo che negli altri Paesi a consolidata democrazia esiste sempre una struttura unitaria e gerarchica dei PM. Questa indicazione è a volte contenuta nella stessa Costituzione, come per Spagna e Portogallo. Gli organi di vertice dei vari Paesi sono, in sostanza, di due tipi; da una parte, vi è la soluzione maggioritaria, ovvero quella del ministro della giustizia o di figure simili come l'attorney general o il general attorney; dall'altra, vi è quella di un procuratore generale eletto dal Parlamento, adattata in varie forme da Portogallo, Spagna, Polonia e Bulgaria.
Giustamente Zagrebelsky ha ricordato che non può esservi solo un livello nazionale e ha fatto riferimento al documento del Senato francese.


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VLADIMIRO ZAGREBELSKY, Professore. Mi riferivo ad un rapporto della Commissione finanze del Senato francese.

GIUSEPPE DI FEDERICO, Professore emerito di ordinamento giudiziario presso l'Università degli studi di Bologna. Comunque, a me sembra che, nonostante le esigenze di riforma prospettate nella relazione, manchi nel testo della riforma l'indicazione di quale organo di vertice dovrebbe garantire l'uniformità dei comportamenti delle procure nell'esercizio dell'azione penale sia sul piano operativo che politico.
Ora, non è che io non sappia che è necessario un adattamento a livello locale e che, di fatto, avviene anche da noi. Questo accade in tutti i Paesi, come in Inghilterra; in Olanda è addirittura stato istituzionalizzato, con quel tipo di incontri simili a quelli che Zagrebelsky ha indicato per la Francia.
Per indicare che questo coordinamento non abbia solo un significato organizzativo, ma anche politico, voglio richiamare la già citata riforma proposta nel 1997 dalla Commissione Truche, che poi ebbe un seguito proprio in Senato. La Commissione, considerando il problema dell'obbligatorietà, che era stato indicato come un'opzione dal presidente Chirac nell'affidarle il compito, affermava di aver valutato lo svolgimento dell'azione penale non solo in Francia, ma anche in altri Paesi, inclusa l'Italia (chiesero a me la relazione), e di aver costatato che l'obbligatorietà non è operativamente possibile.
Se vengono fatte compiutamente delle scelte da parte del PM, così argomentava la Commissione Truche, esse sono di politica criminale. Ora, in un Paese democratico, le scelte di politica criminale nel settore giustizia - non differentemente da altri settori di politiche pubbliche importanti per i cittadini, come la salute - è giusto che abbiano un punto di riferimento nell'ambito del circuito democratico. Si riconferma, dunque, la responsabilità delle politiche criminali in testa al ministro perché se è vero che vi è un'articolazione territoriale in Francia, che è molto più accentuata in Paesi come l'Olanda, è anche vero che esistono momenti di riflessione che valgono per tutto il territorio nazionale.
Alla regolamentazione dell'azione penale da parte del Parlamento, di cui all'articolo 13, si collegano anche altre importanti esigenze di riforma prospettate nella relazione, ma non contenute nell'articolato. Difatti, al paragrafo 6 della relazione al testo del disegno di legge, intitolato significativamente «L'ufficio del pubblico ministero: efficacia e responsabilità nell'uso dei mezzi di indagine e nell'esercizio dell'azione penale», si prospetta correttamente, a mio avviso, il collegamento organico e funzionale tra mezzi di indagine e iniziativa penale; un collegamento che viene, poi, confermato con riferimento al ruolo del Ministro della giustizia che, a norma del secondo comma del nuovo articolo 110 della Costituzione, come prospettato dall'articolo 11 del disegno di legge, deve annualmente svolgere una relazione sia sull'esercizio dell'azione penale che sull'uso dei mezzi di indagine. Sembra, quindi, strano che all'articolo 13 non si preveda anche qualcosa in merito ai mezzi di indagine. La normativa proposta non sembra, pertanto, garantire la soluzione di quei problemi che sono posti dalla stessa relazione. Il disegno di legge deve essere più articolato e specifico sui temi del vertice, dei mezzi di indagine e dei poteri di ispezione.
Sotto questo ultimo aspetto, il potere di ispezione è stato trasferito a livello costituzionale senza nulla dire su cosa questo avrebbe variato rispetto al potere che il Ministro ha già adesso. Vuol dire che potrà fare le ispezioni nelle procure che gli vengono ora vietate dal Consiglio superiore della magistratura, oltre che dalla magistratura a livello locale? Potrà guardare ed entrare nel merito dell'indagine? È stata introdotta la costituzionalizzazione, ma non si capisce che cosa cambi.
Con riferimento all'iniziativa penale e all'uso dei mezzi di indagine vi è un aspetto di grande rilievo per il cittadino e per la protezione dei suoi diritti civili che viene tenuto presente molto analiticamente in altri Paesi, ma che nel nostro non appare. Si tratta delle modalità con


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cui evitare - per quanto umanamente possibile s'intende - che si eserciti l'azione penale senza che esistano solide prove di colpevolezza. Nel nostro Paese esempi di questo genere ve ne sono parecchi.
A questo proposito, ho partecipato alle discussioni che hanno preceduto l'approvazione della riforma inglese del 1985 in materia penale, sopra l'assetto del pubblico ministero, e una delle questioni che veniva tenuta presente è che l'indiscriminato e non regolato esercizio dell'azione penale era penalizzante per il cittadino, nonché dannoso per le limitate risorse a disposizione del sistema penale.
Si è intervenuti poi in sede di riforma introducendo strumenti come l'evidentiary test, il quale obbliga il pubblico ministero a domandarsi e a giustificare perché ritenga di avere prove sufficienti per «disturbare» il giudice, come a volte ci si esprime in tale contesto.
Si decise anche che il pubblico ministero, a differenza di ciò che capitava nel resto d'Europa e attraverso una scelta cosciente, non dovesse avere alcuna supervisione sulla polizia. Le indagini rimanevano, cioè, alla polizia per evitare quella che allora si chiamava la «sindrome del cacciatore», ossia la tendenza di una persona coinvolta dalle indagini di poter scambiare semplici indizi per prove e, quindi, proseguire con l'azione penale. È una riflessione di cui si è tenuto conto anche in altri Paesi.
In Italia, anche se la sentenza di assoluzione arriva, come di solito avviene, dopo molti anni, si celebra un successo della giustizia giusta per il cittadino. Che il cittadino abbia subìto danni spesso devastanti e irreparabili sotto il profilo economico, sociale, politico e familiare e anche della salute sembra assolutamente secondario. A differenza di altri Paesi democratici, non si prevede nulla di efficace per evitare, per quanto umanamente possibile, che si verifichino quelle forme sostanziali di condanna di cittadini innocenti derivanti dall'azione penale esercitata senza sufficienti elementi di prova.
Si potrebbe, per esempio - è un'idea che mi è venuta estemporaneamente, perché è una questione che mi interessa molto - aggiungere all'articolo 111 della Costituzione che la legge assicura che i cittadini non subiscano iniziative penali non suffragate da sufficienti elementi di prova. Ciò deve poi naturalmente essere trasferito a livello di procedura penale e ordinamentale, per esempio, per quanto riguarda la valutazione di professionalità dei pubblici ministeri.
Per alcuni versi e in via parziale si è forse voluto proteggere il terreno dagli effetti eccessivamente negativi di iniziative penali non sostenute da sufficienti prove con la previsione dell'articolo 12, il quale, fatte salve le eccezioni espressamente previste dalla legge, sancisce l'inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Si tratta di una soluzione solo parziale, che va incontro a quel problema, ma è meglio di nulla.
Ho accennato solo ad alcune delle disfunzioni molteplici che a livello operativo si collegano al principio di obbligatorietà. Per il resto lascio alle Commissioni un sintetico articolo dal titolo «L'indipendenza e la responsabilità del pubblico ministero in prospettiva comparata», che è stato oggetto di una mia breve relazione pubblicata su Giurisprudenza italiana. Ci sarebbero tantissime altre considerazioni da svolgere, ma mi fermo a questo punto.
Sulla disciplina dei magistrati sviluppo due osservazioni. In primo luogo, non si è tenuto in alcun modo conto dell'evoluzione dei sistemi disciplinari nei Paesi democratici. Ho svolto di recente per conto dell'OSCE una relazione, che allego, su questo tipo di sviluppi per i tanti Paesi che fanno parte dell'area OSCE. Credo che siano 47, ma ne abbiamo trattati solo una trentina.
Ho potuto vedere che in alcuni Paesi il problema della disciplina è considerato con molta più attenzione, con molta più articolazione di soluzioni di quanto non avvenga da noi, sia sotto il profilo proattivo, sia sotto il profilo punitivo.
L'idea da cui si parte è che i codici di etica non siano primariamente intesi alla punizione, ma a stabilire alcune regole e a far sì, con strumenti adeguati, che esse siano assorbite e interiorizzate da coloro che pongono in atto tali comportamenti. In alcuni Stati, soprattutto negli Stati


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Uniti, a volte si fanno partecipare i familiari alle riunioni che riguardano l'etica giudiziaria.
Ciò avviene proprio per una delle ragioni che indicava il collega Zagrebelsky, ossia che l'idea del giudice come bocca della legge non esiste più e che, quindi, l'autorevolezza del giudice dipende dalla fiducia che riesce a ispirare nei cittadini. Sotto il profilo proattivo si tratta di un grosso sforzo che da noi non è mai stato compiuto neppure a livello della formazione, se non parzialmente per i magistrati in tirocinio.
Vi è poi l'aspetto punitivo. Si è dimenticata una questione che in altri Paesi viene considerata come un elemento di efficacia forse superiore al fatto di una composizione paritaria magistrati laici, cioè l'esposizione pubblica di questo tipo di attività, che non può essere certamente data dalla diffusione delle sentenze criptiche della nostra disciplinare, ma che deve essere svolta in relazione al cittadino che avanza le lamentele.
Da noi il cittadino che si lamenta non riceve alcuna informazione su ciò che è successo a seguito dei suoi esposti. In altri Paesi esistono, invece, apparati che aiutano i cittadini a formularli, negli Stati Uniti, per esempio, a livello statale e federale. In Inghilterra ciò è avvenuto più di recente, perché negli Stati Uniti è dagli anni Settanta od Ottanta che avviene, mentre in Inghilterra è dal 2004 e altrettanto in Nuova Zelanda. Esistono cioè apparati appositi che aiutano i cittadini a scrivere in maniera efficace le loro lamentele e li tengono informati dei risultati.
Mi domando, qualora ciò avvenisse anche da noi, se alcune sentenze disciplinari passerebbero sotto silenzio. Io so che anche le sentenze disciplinari del Consiglio possono essere un po' compiacenti. L'esposizione di queste in forma comprensibile, comunicate al cittadino costituisce non solo una verifica pubbliche dell'efficaci e del sistema, ma serve anche, per quelle che magari non sono agibili sotto il profilo operativo, a indicare quali siano le aspettative dei cittadini. Questa esigenza, per esempio, è espressa molto chiaramente nel progetto di riforma della materia in Inghilterra.
Un altro aspetto che mi sorprende della norma che riforma la disciplina è il fatto che essa sia motivata dall'esigenza di evitare che il CSM eserciti tale funzione con modalità compiacenti nei confronti dei magistrati. Un fenomeno che certamente esiste. Noi abbiamo proprio di recente condotto, e concluso con una pubblicazione, un'analisi di tutte le sentenze disciplinari dall'inizio degli anni Novanta al 2009, e certamente si possano citare numerosi esempi, come il pubblico ministero che sottopone il teste a ipnosi per riuscire a ottenere alcune informazioni o quello che dimentica una persona in carcere per 16 mesi (in questo caso un extracomunitario), magistrati puniti con l'ammonimento e poi valutati positivamente ai vagli di professionalità e quindi promossi. Sono solo alcuni degli aspetti che si possono documentare.
Tuttavia, se la ragione della riforma era quella di evitare che il Consiglio superiore continui a esercitare le sue funzioni in maniera compiacente, ci sono altre funzioni del Consiglio che sono molto più compiacenti nei confronti dei magistrati di quanto non sia la disciplinare.
Negli ultimi quarant'anni il Consiglio superiore della magistratura non ha di fatto svolto un compito che gli è stato espressamente assegnato dalla Costituzione, ossia quello di effettuare effettive valutazioni di professionalità, per le promozioni. L'articolo 105 della Costituzione dispone che esso deve effettuare le promozioni, ciò nonostante il CSM effettua promozioni generalizzate: le valutazioni negative variano a seconda dei Consigli - le ho calcolate tutte - solo tra lo 0,4 e lo 0,8 per cento.
È una violazione della Costituzione di tutta evidenza, salvo non voler ritenere che, nell'assegnare al CSM il compito di effettuare le promozioni, il costituente volesse dare al termine «promozione» un significato ben diverso da quello che esso ha nella lingua italiana.


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Dovendo valutare quali delle funzioni sottrarre al Consiglio perché utilizzate in termini troppo compiacenti, quella delle promozioni, e non quelle disciplinare avrebbe dovuto essere la prima competenza, a somiglianza di quanto avviene in Belgio e in Francia, dove il Consiglio non ha competenza in materia di valutazione delle professionalità dei magistrati.
Della separazione delle carriere non tratto, ma è una delle questioni che, se non accompagnata a una responsabilizzazione del PM, non serve a molto, perché la tradizione di unità che vi è nella magistratura è tale da permanere per almeno cinquant'anni, anche a prescindere dal fatto che PM e giudici siano istituzionalmente uno da una parte e uno dall'altra. Non si può certamente imporre loro di non avere un'associazione in comune. O si opera una responsabilizzazione delle attività del PM, oppure la divisione delle carriere non raggiunge lo scopo di rendere il giudice veramente terzo.
Infine, credo che sia necessaria una riflessione sull'uso del concetto stesso di indipendenza, perché lo si usa indifferentemente con riferimento sia al giudice, sia al pubblico ministero, generando non poche confusioni e fraintendimenti che, seppur particolarmente evidenti nel caso italiano, non sono assenti neppure nel dibattito sugli assetti giudiziari degli altri Paesi.
Sotto il profilo funzionale il termine indipendenza ha e non può non avere un significato diverso quando viene riferito allo status del giudice e a quello del pubblico ministero. Gli obiettivi e, quindi, anche le garanzie dell'indipendenza nei Paesi democratici sono diversi a seconda che si tratti del giudice o del pubblico ministero.
Non posso discutere approfonditamente sul piano comparato delle differenze in questo contesto. Mi limito a ricordare che l'indipendenza del giudice è una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per garantire alcune delle caratteristiche fondamentali del suo specifico ruolo, vale a dire quello di organo passivo - professor Mauro Cappelletti insisteva molto su questo punto - che giudica in modo imparziale controversie da altri a lui sottoposte, dopo aver ascoltato sul piano di parità le parti in conflitto.
È necessario, pertanto, creare le migliori condizioni perché egli venga sottratto a influenze esterne e anche interne al giudiziario. In democrazia la stessa legittimazione del suo ruolo dipende non solo dal suo essere, ma anche dal suo apparire come indipendente e imparziale.
Sono molto diverse, invece, le caratteristiche funzionali del ruolo del PM. Lungi dall'essere passivo e super partes, il suo ruolo è, per sua natura, essenzialmente attivo; verrebbe meno a un compito essenziale, se non fosse un organo attivo. Spettano a lui, infatti, l'iniziativa penale e in molti Paesi, Italia inclusa, anche la direzione delle indagini di polizia. Non è, quindi, un organo imparziale né la sua legittimazione dipende dall'apparire tale.
È, dunque, visibile la differenza tra i ruoli del giudice e del pubblico ministero sotto il profilo dell'indipendenza interna.
Per essere efficace l'attività del pubblico ministero richiede spesso un coordinamento delle sue iniziative con altre componenti del suo ufficio e con quella degli altri uffici di procura, mentre per il giudice un tale coordinamento nel merito del suo agire e decidere rappresenterebbe una chiara violazione della sua indipendenza.
Sono rilevanti anche le differenze per quanto riguarda l'indipendenza esterna. La natura intrinsecamente discrezionale dell'azione penale rende la definizione delle priorità da seguire nel suo insieme parte integrante e rilevante delle scelte da effettuare per un'efficace repressione dei fenomeni criminali. Proprio per il loro grande rilievo politico, tali scelte vengono di regola in diverso modo fissate - sto parlando a livello internazionale - in linea generale nell'ambito del processo democratico e sono vincolanti per i pubblici ministeri.
Sotto questo profilo l'indipendenza esterna del pubblico ministero consiste non tanto, come invece per il giudice, nel non ricevere direttive di ordine generale dall'esterno, ma piuttosto nel non riceverle con modalità prive di trasparenza e riferite a singoli casi particolari.


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In generale ciò richiama alcune osservazioni di Zagrebelsky. In fondo, il rapporto tra indipendenza e responsabilità - l'accountability è un concetto molto più vasto, usato dagli inglesi perché include anche aspetti non giuridici - è un problema presente in tutti i Paesi. Se ne discute in continuazione.
Il rapporto tra questi due termini si potrebbe definire come un equilibrio instabile che viene continuamente riproposto. A questo proposito, è attualmente è in corso un importante dibattito in Irlanda, perché non lo si può certamente definire una volta per tutte. Basta un elemento che interferisca, come l'uso da parte dell'attorney general inglese del nolle prosequi con riferimento a un principe del mondo arabo, e la discussione riparte anche in Inghilterra e si cercano soluzioni.
Non è un tema che possa essere cristallizzato con una formula magica, però allo stesso tempo per il nostro Paese c'è una bella differenza con il fatto che il pubblico ministero italiano possa di sua iniziativa iniziare qualsiasi azione su ciascuno di noi e usare, perché vige l'obbligatorietà, i mezzi di indagine senza limitazioni per raggiungere gli obiettivi che a suo avviso ritiene siano importanti.
Il fatto che poi, anche quando egli ha sprecato grandi risorse oppure quando emerge chiaramente, come è avvenuto in alcuni casi secondo le stesse sentenze, che non si riesce a capire sulla base di quali elementi l'azione penale fosse partita il PM non possa comunque essere disciplinato o valutato negativamente è un limite non piccolo.
L'obbligatorietà dell'azione penale può pretendere che comunque agisca. L'obbligatorietà dell'azione penale trasforma, così, qualsiasi atto discrezionale del PM in un atto dovuto.
È un assetto che, non si trova in alcun altro Paese democratico al mondo e sul quale certamente occorre intervenire, anche se non so se nelle forme che sono state proposte nella riforma all'esame, che, a mio avviso, sono largamente incomplete, dovrebbero essere precisate, pensando anche alle leggi attuative con le quali dovranno essere trasferite a livello operativo.

PRESIDENTE. Do la parola ai deputati che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

SALVATORE VASSALLO. Cercherò di essere breve, focalizzandomi di nuovo sullo stesso argomento della domanda che ho posto in precedenza e approfittando della chiarificazione utilissima, di cui ringrazio molto il professor Zagrebelsky, riguardo alla natura del principio di obbligatorietà e alla sua applicabilità.
Se non capisco male, il professor Zagrebelsky ci ha riferito che, se lo si assume in senso rigoroso, il principio dell'obbligatorietà come obbligo di approfondire tutte le notizie di reato è inapplicabile e sarebbe tale anche se si praticassero tutti i possibili interventi per sfoltire la mole dei reati teoricamente da perseguire. Si pone, dunque, un problema di fissazione di priorità, in un certo senso di limitazione della totale discrezionalità dei singoli magistrati. Non è opportuno che ciò venga garantito da una legge, ma bisogna invece pensare a un sistema - credo abbia usato questa espressione - più partecipato, che preveda un meccanismo più diffuso di definizione delle priorità e di attenuazione della discrezionalità.
Svolgo un inciso che è anche un dubbio accademico. Perché il principio dell'obbligatorietà va mantenuto, se è inapplicabile? Può darsi che abbia un senso, però, a prima vista, da un punto di vista concettuale, ci si potrebbe chiedere perché mantenerlo, se è inapplicabile.
La mia impressione è che la ragione non stia nella sua definizione originaria, cioè nell'obbligatorietà, ma nel fatto che in questo modo, fissando in maniera volutamente e opportunamente fittizia tale principio, si tuteli un altro aspetto, vale a dire si eviti che possa essere impedito a un PM di avviare un'indagine su una notizia di reato che egli ritenga rilevante, cioè che non possa esistere alcun vincolo assoluto all'autonomia e all'indipendenza del magistrato.


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Come è stato ricordato, in effetti, l'obbligatorietà serve a garantire in ultima istanza l'autonomia dei singoli magistrati, ancorché non garantisca o non possa garantire ciò che dichiara, cioè il fatto che tutte le notizie di reato vengano perseguite. È puramente una questione accademica, però sembrerebbe di poter affermare che ci sia una larga condivisione di fatto sulla proposizione che il principio sia inapplicabile e, dunque, fittiziamente fissato dalla Costituzione a garanzia di altro rispetto a ciò che essa dichiara.
Chiudo questa parentesi per tornare al quesito precedente e per porre al professor Zagrebelsky un quesito specifico. Lei ritiene, professore, che una modifica dell'articolo 112 della Costituzione sarebbe ragionevole, laddove non stabilisca che la legge fissa le priorità, ma che la legge fosse chiamata a definire il quadro procedurale nell'ambito del quale le priorità vengono fissate in maniera partecipata, come lei ha affermato, e quindi in maniera tendenzialmente diffusa? Si tratterà poi di capire che cosa si intenda per misura diffusa ed eventualmente coordinarla con meccanismi nazionali. Questo è un primo punto specifico.
Capisco il senso di alcune preoccupazioni espresse soprattutto da colleghi del centrodestra. So di non condividere in molti casi le motivazioni sottese a tali preoccupazioni, però effettivamente esiste un quesito che, a mio avviso, deve trovare risposta: quali sono gli elementi di difesa del sistema, anche a tutela dell'eguaglianza di fronte alla legge, in casi nei quali si verifica un esercizio palesemente irrazionale della discrezionalità da parte di singoli magistrati, tutelati da quella interpretazione del principio dell'obbligatorietà dell'azione penale?
Nel caso di un magistrato che effettivamente decida di inseguire in maniera particolarmente unilaterale notizie di reato che si dimostrano nel corso del tempo frutto di scelte non razionali, come può il sistema difendersi? C'è un elemento che nel tipo di procedura partecipata cui lei pensa può costituire un antidoto a questa deviazione?

RITA BERNARDINI. Rivolgo due domande al professor Di Federico, che so aver avuto un lungo rapporto di collaborazione con il dottor Giovanni Falcone. Ci può riferire il dottor Di Federico che cosa pensasse il dottor Falcone dell'obbligatorietà dell'azione penale?
La seconda domanda è se, a suo avviso, su questa opzione, ossia sul tema dell'obbligatorietà dell'azione penale, si debba necessariamente intervenire come ci è proposto dal disegno di legge costituzionale, ossia con una modifica della Costituzione, oppure se si possa perseguire questo scopo attraverso un intervento legislativo ordinario.

GIANCLAUDIO BRESSA. Nel ringraziare entrambi i professori per la chiarezza con cui hanno esposto le loro opinioni, vorrei porre due domande brevissime per chiarire meglio il loro pensiero.
La prima è per il professor Zagrebelsky, il quale sostiene che, relativamente all'obbligatorietà dell'azione penale, essa non possa essere stabilita con legge, ma che la legge dovrà indicare le modalità per definire i criteri con una partecipazione a molte voci, ossia molto larga. Non bisognerà fare riferimento alle fattispecie penali, ma ai settori di criminalità.
Ciò che non mi è chiaro in questo modello è chi garantisce l'unità di indirizzo, chi compie una sintesi: il ministro, il Parlamento, i singoli responsabili degli uffici nelle diverse procure? È una legge che definisce solo i criteri? Come si procede poi? Chi è l'attore che darà corpo e gambe a questi criteri e a queste modalità?
Pongo al professor Di Federico un domanda in maniera molto lapidaria, scusandomi per non avere una conoscenza sufficiente del suo pensiero. Lei, professore, ha svolto un'affermazione a mio modo di vedere molto suggestiva, ma che andrebbe chiarita in questa sede. Lei ha sostenuto, cioè, che la separazione corrisponde alla responsabilità dei pubblici ministeri. Può essere più preciso e circostanziare questa sua tanto secca e importante affermazione?


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DONATELLA FERRANTI. Ringrazio i relatori per gli spunti di approfondimento che entrambi ci hanno offerto. Vorrei che il professor Zagrebelsky individuasse - per me è molto importante il principio relativo all'autonomia e all'indipendenza del giudice e del pubblico ministero - quali sono i canoni delle fonti internazionali e delle pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo che rafforzano il principio che l'autonomia e l'indipendenza del giudice derivino anche da un'autonomia e da un'indipendenza del pubblico ministero.
Mi riferisco all'intervento del professor Di Federico, con cui ho avuto anche il piacere di lavorare per un determinato periodo di tempo al CSM, so quanto si è dedicato all'analisi delle massime della disciplinare e del corso dell'azione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura.
A volte sembra che non emerga a sufficienza, a mio avviso, il fatto che ci sia stata una riforma dell'ordinamento giudiziaria, recente, in cui si è trovata per la magistratura ordinaria l'individuazione della tipizzazione dell'illecito disciplinare, ossia l'obbligatorietà dell'azione disciplinare. Condivido quanto il professor Di Federico sostiene, che bisogna trovare meccanismi di conoscenza e di informazione del cittadino rispetto a ciò che accade nell'ambito della sezione disciplinare dei magistrati, perché il cittadino deve poter sapere e verificare.
Fermo restando che non mi sembra che il progetto di riforma del Governo preveda nulla di tutto ciò, ma che crei solo un «macchinone» più ampio, mi riferisco alla Corte di giustizia, quali possono essere gli strumenti per la conoscenza delle pronunce riguardanti il disciplinare dei magistrati ordinari?
Non le sembra, professore, che si sia dimenticata un'altra fetta della magistratura? Si guarda solo e soltanto alla magistratura ordinaria. Pur ammettendo che essa possa essere lacunosa, non esaustiva, non tempestiva al 100 per cento, lei, che l'ha analizzata e studiata, ha studiato anche ciò che avviene per i magistrati amministrativi e contabili? Funziona meglio quel tipo di pronunce disciplinari oppure no?
Come vede questa riforma sotto il profilo dalla Corte di giustizia, prospettata con giudici estratti a sorte per la parte della componente togata?

GIUSEPPE CALDERISI. Volevo chiedere al professor Zagrebelsky, ma anche al professor Di Federico, un breve giudizio - mi scuso per l'autoreferenzialità - su una proposta presentata dal sottoscritto e dal collega Pecorella, la proposta C. 2053 abbinata all'esame del disegno di legge del Governo, consistente nell'introduzione nella Costituzione dell'articolo 107-bis, che leggo: «Il Presidente della Repubblica nomina il procuratore di giustizia tra i magistrati aventi il grado di procuratore generale di corte d'appello o della Corte di cassazione in una terna proposta dal Parlamento in seduta comune con la maggioranza dei tre quinti. Il procuratore di giustizia vigila, coordina e indirizza gli uffici del pubblico ministero nei limiti e secondo le modalità previsti dalla legge. Il procuratore di giustizia rimane in carica per tutta la legislatura e non è rieleggibile. All'inizio di ogni anno il procuratore di giustizia presenta alle Camere una relazione sull'attività svolta».
Volevo chiedere un parere su una norma del genere rispetto ai problemi che abbiamo discusso. È ispirata a una proposta di Calamandrei, anche se è diversa, perché non contiene alcun collegamento con il Governo, come invece nella proposta di Calamandrei. Vorrei sapere se una soluzione del genere possa essere utile a risolvere i problemi che sono stati finora affrontati.

PRESIDENTE. Do la parola agli auditi per la replica.

VLADIMIRO ZAGREBELSKY, Professore. La prima domanda riguarda di nuovo la nozione, la ragion d'essere del principio di obbligatorietà. Alla fine il quesito è chi può assicurare che i criteri, qualunque essi


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siano, siano effettivamente messi in essere e che non ci siano abusi nelle indagini e nelle azioni penali.
Nel sistema non c'è altro, che io veda, che l'azione disciplinare con il preliminare, di cui parlava il professor Di Federico, dell'attività sollecitatoria, ossia acculturazione verso la deontologia, con disciplina e valutazioni di professionalità ai fini della cosiddetta carriera. Il riferimento è al CSM.
In generale io credo che, se un organismo che dovrebbe essere deputato a svolgere una data funzione non funziona o non funziona a sufficienza, bisogna farlo funzionare e non abolire l'esigenza. L'esigenza resta. Se oggi nel sistema costituzionale venisse messo in vigore ciò che è proposto con l'approvazione di questo disegno di legge, se i due Consigli superiori o la Corte di disciplina non funzionano, perché i colleghi coprono altri colleghi, perché alcuni componenti laici hanno interesse a coprire una data violazione deontologica - non dividerei le componenti anche sotto questo profilo con un taglio di accetta - siamo daccapo. Bisogna far funzionare il sistema.
Io credo, ma su questo tema Di Federico è molto più documentato di me o le nostre competenze si sommano, che il dato fondamentale nella lottizzazione e nelle deviazioni correntizie del Consiglio superiore della magistratura e, in genere, nell'inefficienza di questa materia stia nella carenza di informazione, nel momento della decisione da parte dei Consigli giudiziari e da parte del Consiglio superiore sulla realtà professionale di un determinato magistrato e sul fatto che tutto ciò che rimane informale non possa essere utilizzato perché poi c'è il ricorso al TAR, il quale giustamente si basa sul fascicolo relativo.
Io credo che in un'indagine il 90 per cento dei magistrati risultino eccellenti. I componenti del Consiglio superiore, dal mio punto di vista seri, che per compiere una scelta tra magistrati per un dato posto direttivo si trovano davanti a fascicoli identici perché sono eccellenti quelli di entrambi o dei dieci candidati, telefonano al collega di cui si fidano nella sede locale in cui i soggetti lavorano e chiedono informazioni. Dopodiché, se seguono il fascicolo, il risultato è quello che è, se seguono la risposta rassicurante del collega o della pluralità dei colleghi, il TAR è in grado giustamente di annullare l'atto.
Al fondo della possibilità di votare per gruppi o di stipulare accordi sta il fatto che spesso non esistono criteri non dico oggettivi - non si tratta di questo - ma affidabili che consentano di differenziare le diverse professionalità o il livello di professionalità dell'un candidato rispetto all'altro. Io credo che sia questo il problema, però con la separazione dei due CSM, il problema resta esattamente come prima. Il vizio sta in ciò, a mio modo di vedere.
A proposito dei criteri di obbligatorietà, io sono assolutamente dell'idea che si debbano introdurre e che la modifica dell'articolo 112 della Costituzione, che stabilisce che ci siano, possa per questo avere un senso positivo. I criteri deteriori del tipo ordine cronologico andrebbero spazzati via. Questo è il valore positivo di una riforma di questo senso.
Uno dei grossi problemi dei criteri di priorità in tutti i sistemi è quello del quesito attorno alla pubblicità di tali criteri oppure no. Una parte dei sistemi che adottano tali criteri li tiene segreti o per quanto è possibile comunque riservati.
Una circolare di priorità dell'attorney general svedese ha giustamente disposto - in Svezia è un crimine molto diffuso - che i furti di bicicletta sono posteriori rispetto ad altre priorità, però la stessa circolare indica la necessità a volte di procedere, altrimenti si darebbe per assodato che si possono rubare le biciclette.
Questo tipo di indicazioni è pubblicabile? Se lo è quale effetto ha ciò sulla dinamica criminale, per esempio lo spostamento di certe attività criminali da territorio a territorio?
Io ho un'esperienza in merito per una ragione molto semplice. Quando ero procuratore della Repubblica presso la pretura di Torino, (gli assegni a vuoto erano reato) avevo adottato un sistema per produrre


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le richieste di decreto penale con grande facilità, rapidità e poca costosità rispetto alle risorse disponibili.
Si sapeva che alcuni professionisti dell'assegno a vuoto si erano trasferiti su Milano, perché all'epoca la procura presso la pretura di Milano - forse l'onorevole Pecorella ne ha un ricordo - aveva un minor grado di efficienza sul punto specifico, ragion per cui c'era una valanga di assegni a vuoto datati a Milano, perché a Torino quell'aspetto dell'azione penale era particolarmente efficace.
Gli effetti sulle dinamiche criminali sono immediati e dipendono anche dalla pubblicità dei criteri, la quale evidentemente incide sul fatto che esistono norme penali in vigore che in linea di principio dovrebbero essere applicate. L'eventuale scelta nel senso della non pubblicità, che è questione seria ed evidentemente in conflitto con l'idea di una legge che stabilisca i criteri, non ha nulla a che vedere con l'indicazione contenuta nella risoluzione del Consiglio d'Europa sul pubblico ministero, la quale dispone che i pubblici ministeri debbano rendere conto periodicamente dell'uso delle risorse e delle priorità: dopo infatti e non prima. Ogni tanto si espone il consuntivo, mentre la legge darebbe voce al preannunzio delle pratiche future (una legge giustamente generale, astratta e per il futuro).
Mi si chiedeva se il Parlamento volesse in ogni caso intervenire. Esistono alcuni precedenti. Negli anni Settanta od Ottanta il Parlamento sottolineò più volte con atti di indirizzo l'importanza dell'uso più efficace possibile delle risorse disponibili e la priorità assoluta nei processi di terrorismo.
Ciò è stato fatto e anche utilmente, perché non tutti gli uffici giudiziari avevano le risorse, le possibilità o l'intenzione di farlo. C'erano grosse disparità di gestione di questi processi delicati e pericolosi nelle diverse sedi. Esiste già oggi la possibilità di intervenire con simili strumenti.

GIANCLAUDIO BRESSA. La mia domanda era un po' diversa. Se questi criteri vengono stabiliti con una legge, chi applica tale legge, chi è il soggetto preposto: il ministro, il procuratore, l'ufficio della procura di Torino, di Lamezia Terme, di Roma? Chi sono i soggetti che si incaricano e si intestano la definizione dei criteri?

VLADIMIRO ZAGREBELSKY, Professore. Se ci muoviamo sulla strada del professor Di Federico, il ministero emana una circolare, che non emana nemmeno in Francia, peraltro, perché lì ci sono i procuratori generali sul territorio e tutta la struttura ha una logica.
Se noi stabilissimo che è il ministro a emanare la circolare e poi magari, avendo la titolarità dell'azione disciplinare, procede se la circolare non è attuata, avremmo risolto il problema, nel senso che avremmo scelto un pubblico ministero dipendente dal ministro.
Diversamente bisogna avere la consapevolezza che si tratta di adottare criteri orientativi di un'azione e non di una scelta tra bianco o nero e che il nesso tra utilizzo delle risorse, organizzazione dell'ufficio e priorità è strettissimo.
Innanzitutto, il capo è il dirigente dell'ufficio, ma egli opera sulla base delle cosiddette tabelle che sono stabilite per legge per i giudici e che il Consiglio superiore ha introdotto anche per il pubblico ministero, tabelle che devono essere disegnate in modo da rendere possibile l'attuazione di priorità indicate.
È ben noto che anche laddove non esistono formalmente criteri di priorità e si preferisce «nascondersi» dietro l'obbligatorietà per gestire l'ufficio secondo determinate linee non si dispone formalmente che il tale processo o la tale tipologia di reati siano prioritari, ma semplicemente si destinano a trattarli i migliori sostituti, il maggior numero di computer di più recente fornitura all'ufficio e i migliori ufficiali di Polizia giudiziaria (cioè si opera sull'uso di risorse disponibile).
Quando cambia l'attorney general di Los Angeles, che ha un migliaio di sostituti e che è elettivo, e passa da democratico a repubblicano o viceversa, non cambia il librone delle priorità; cambio invece l'assegnazione


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dei sostituti e la politica dell'ufficio conseguentemente cambia.
Tutto ciò porta innanzitutto a stabilire chi alla fine, se il ministro o il Consiglio superiore, dal momento che non ci sono altre scelte possibili, si occuperà di verificare che l'organizzazione degli uffici sia gestita in modo tale che le priorità siano serie, vere e non semplici manifesti. Questa è la mia opinione.

GIUSEPPE CALDERISI. Non può essere un procuratore che non dipende dall'Esecutivo? Non si può immaginare una figura del genere?

VLADIMIRO ZAGREBELSKY, Professore. Certo, si può immaginare una figura del genere, ma il problema è vedere se sia opportuno introdurla. Queste scelte sono fortemente legate alle realtà storiche, sociali e politiche dei luoghi. Che ci sia un problema di repressione di reati collegati in qualche misura con le forze sociali di rilievo politico in Italia maggiore che altrove, per esempio nel Regno Unito, come ricordava il professor Di Federico, mi sembra un fatto e, quindi, ritengo che ci sia la necessità di staccare il più possibile, le priorità nell'esercizio dell'azione penale dai luoghi della politica anche accettando una disarmonia sul territorio dell'esercizio dell'azione penale. Si tratta, però, di una valutazione personale.
Mi si chiedeva anche quale sia il valore per difendere l'azione penale obbligatoria. Non si può ignorare che la maggior parte dei Paesi in Europa agisce nel senso dell'azione penale facoltativa, eppure si tratta di Paesi civili in cui non si ha paura di recarsi per turismo o per lavoro.
L'onorevole Ferranti mi chiedeva degli atti del Consiglio d'Europa e della Convenzione europea dei diritti dell'uomo che indicherebbero la necessità dell'indipendenza del pubblico ministero per garantire l'indipendenza del giudice. Non ne esistono. Esistono nelle due raccomandazioni che ho ricordato alcune indicazioni sui giudici e sui pubblici ministeri, ma non si può dimenticare che la maggior parte dei sistemi europei ha il pubblico ministero dipendente in qualche misura dal Governo o dai Governi locali, come in Germania. Queste raccomandazioni tengono conto della varietà di ben 47 Paesi.

GIUSEPPE DI FEDERICO, Professore emerito di ordinamento giudiziario presso l'Università degli studi di Bologna. Per quanto riguarda l'aspetto partecipativo, forse sarebbe bene, al di là delle descrizioni generali, focalizzarne uno, come esempio faccio quello olandese. Ho compiuto l'ultima verifica e le ultime interviste quattro anni fa e, quindi, potrebbe essere cambiato qualcosa, ma in quanto a partecipazione esso è molto chiaro: esiste un collegio di procuratori generali che opera su singoli settori di problemi criminali utilizzando sostituti degli altri distretti.
Essi elaborano alcune proposte, le discutono anche con il ministro della giustizia e quest'ultimo sente anche il ministro dell'interno e quello delle finanze, a loro volta interessati ai fenomeni criminogeni. Le eventuali divergenze tra il ministro e i procuratori generali divengono note e quindi vi è una forma di responsabilizzazione.
A livello locale, così come il collega Zagrebelsky affermava con riferimento alla Francia, per le questioni che hanno una rilevanza locale il procuratore si incontra con il sindaco, con il capo della polizia, se è un paese piccolo, o col prefetto, se è grande, e vedono insieme come si possano adattare le regole generali alle esigenze funzionali della repressione della criminalità locale. È questo un esempio di partecipazione.
Vorrei rettificare una cosa detta da Zagrebelsky, che probabilmente ha svolto una considerazione che non pensava davvero. Io non ritengo che debba essere il ministro a intervenire con la «pistola puntata» per costringere il PM a fare ciò che lui vuole.
Può essere utile una forma non pienamente trasparente, ma molto articolata di formulazione delle priorità. In Inghilterra ci sono i cosiddetti manual, libri enormi che io ho potuto vedere mentre gli inglesi non li possono consultare, proprio per una


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ragione che citava anche Zagrebelsky, ossia che una totale trasparenza, soprattutto nelle grandi città, non nei piccoli centri, secondo il Director of public prosecutions inglese, genera la conoscenza di quali norme si possono violare senza correre eccessivamente il rischio di essere perseguiti.
Prima ho sostenuto che la trasparenza è l'obiettivo verso il quale ci si sta muovendo nel regolare il rapporto tra responsabilità e indipendenza del PM. Ci si sta muovendo in questa direzione, ma con alcuni ibis redibis, perché le vicende locali creano poi problematiche per riflettere su questo rapporto.
La partecipazione in diverse forme esiste. Non è molto pronunciata, per esempio, in Francia, a quanto mi risulta, ma le questioni che si decidono a livello locale arrivano al ministro e, se quest'ultimo ha qualcosa da eccepire, si pronuncia autoritativamente.
Colgo l'occasione per dare una risposta all'onorevole Bressa sulla separazione delle carriere e sulla responsabilità. Forse sono andato troppo veloce nell'esposizione. Se si separano le carriere, e ci sono esempi di ciò in Argentina, dove tale separazione non ha creato quella terzietà del giudice che si voleva.
Se giudice e PM seguitano a dialogare tra loro è perché esiste una tradizione, se rimangono nello stesso palazzo è inevitabile che discutano delle questioni che stanno trattando e, quindi, esiste anche un costo della creazione delle premesse perché a lungo andare tale separazione abbia gli effetti di creare un giudice che non sia collega del PM. Sul piano associativo essi hanno interessi comuni anche di natura economica; che non si parlino e che non vi siano più modi per addivenire ad un orientamento comune è difficilissimo.
Una divisione delle carriere in sé e per sé non elimina quel rapporto tra colleghi. Solo la responsabilizzazione in una qualsiasi delle forme disponibili può, creando una responsabilità del PM rispetto alle azioni che compie, eliminare o ridurre l'effetto di colleganza organica che anche con la divisione delle carriere in diverse forme rimarrebbe.
Ricordo una delle mie visite di consulenza in Argentina. Andavo a mangiare a una mensa che era rimasta unica per giudici e pubblici ministeri e loro lì parlavano «di bottega». Quando esistono tradizioni consolidate, andarle a toccare con semplici divisioni di carriere non conclude molto. Il problema è quello di responsabilizzare rispetto a ciò che si fa.
Nell'ambito di questo aspetto anche la divisione delle carriere, per quanto mi riguarda, è utile, però non so se da sola avrebbe una grande efficacia, soprattutto nel breve e medio periodo.
L'onorevole Ferranti mi ha posto una domanda che meriterebbe una risposta più lunga di quella che posso fornire. I metodi di formazione sono di diverso tipo. L'azione proattiva non viene effettuata tramite la sola educazione, la formazione che viene svolta a livello centrale e periferico, ma anche per il tramite di un sistema che è stato suggerito dal Consiglio d'Europa di recente, quello di creare una funzione consultiva perché i giudici possano rivolgere le proprie domande.
Si tratta di una raccomandazione recente, del 2010, che propone quanto già avvenuto in Inghilterra e Stati Uniti. La questione dei quesiti, tuttavia, pone alcuni problemi, perché, se lo stesso organo che giudica disciplinarmente è quello che formula il quesito, ci può essere un'aspettativa che a livello disciplinare si uniformi al parere. Ci sono alcune cautele sulle quali non posso entrare, ma sulle quali posso fornire documentazione, che consentono di svolgere questa attività consultiva e allo stesso tempo rimanere svincolati da essi nel giudizio, se emergono fatti diversi o complementari a quelli segnalati nella richiesta di parere.
Tale materiale è importantissimo anche per la formazione, perché porta in pubblico, cioè nei seminari cui si partecipa o addirittura nelle trasmissioni a distanza, queste esperienze e questi quesiti, non solo quindi i risultati disciplinari, ma anche ciò che viene prima di essi.
In merito ai codici di etica giudiziaria, uno dei grossi errori che l'attuale codice italiano comprende è che ha voluto creare una


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lista completa dei comportamenti disciplinarmente rilevanti, il che non avviene in nessuna altro Paese. È una questione molto dinamica stabilire quali siano le aspettative che verificano la credibilità nel pubblico del giudice. Esse si evolvono nel tempo.
Esistono poi programmi che vengono immessi nel circuito informatico, ragion per cui è possibile ottenere risposte dall'insieme delle sentenze disciplinari. Sono molto facili da usare. Io sono stato al National Center for State Courts a Washington, dove esiste un laboratorio dedicato a questo tipo di temi, e ho visto le modalità con le quali si persegue, anche con l'uso di apposita tecnologie la diffusione dei valori dell'etica giudiziaria. Il problema è quello di promuovere l'interiorizzazione di questi valori, ossia fare in modo che vengano fatti propri dai giudici. Tutte le suddette iniziative convergono su questo punto.
Posso fornire ulteriori delucidazioni su questo aspetto, così come su quello delle procedure della repressione, che sono a loro volta molto interessanti. Pensate che in Inghilterra intervistano le persone che hanno avanzato lamentele; l'organizzazione che deve aiutarli e deve dare loro le risposte li interroga sull'efficacia con cui è stato svolto il servizio. Una delle domande è addirittura quanti squilli di telefono sono passati prima che l'operatore rispondesse. È forse eccessivo, però sono tutti elementi che influiscono, che dovrebbero influire o che comunque hanno rilevanza rispetto al risultato di creare fiducia nel ruolo del giudice. Questo è l'obiettivo che bisogna perseguire e che viene molto prima di quello della repressione dei comportamenti disciplinarmente rilevanti. Noi non abbiamo riflettuto su tale materia.
Mi era stata posta una domanda molto difficile dall'onorevole Bernardini sopra la possibilità di operare un intervento sull'obbligatorietà dell'azione penale fissando alcune priorità anche a livello non costituzionale.
All'interno di alcuni uffici giudiziari più che di altri, sia ben chiaro, ciò già avviene. Si pensi non solo alla circolare Zagrebelsky, ma anche a quella Maddalena. Ci sarebbe da domandarsi perché tali fatti avvengano a Torino e non da altre parti, ma ciò richiederebbe una spiegazione che storicamente, secondo me, esiste, ma in cui non posso entrare nei particolari.
A mio avviso, il problema grosso sia della circolare Zagrebelsky, sia della circolare Maddalena è che esse non hanno una giustiziabilità. Sono osservate per la buona volontà, il prestigio o il carisma di chi esercita le funzioni di procuratore. Per il cittadino non si chiude il cerchio della responsabilità.
È molto difficile che si possa trovare un modo per evitare la creazione di una struttura unitaria senza la quale qualsiasi soluzione rimane largamente inefficace. Ciò non significa che risultati parziali non si possano ottenere. Ho scritto un lungo testo su questo tema. Eventualmente lo posso mettere a disposizione dell'onorevole Bernardini perché possa vedere se ci sono aspetti che le interessi proporre.

PRESIDENTE. Ringrazio ancora gli intervenuti e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 14,15.

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