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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissioni Riunite
(I e II)
7.
Giovedì 9 giugno 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Bongiorno Giulia, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DEL DISEGNO DI LEGGE C. 4275 COST. GOVERNO, RECANTE «RIFORMA DEL TITOLO IV DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE» E DELLE ABBINATE PROPOSTE DI LEGGE C. 199 COST. CIRIELLI, C. 250 COST. BERNARDINI, C. 1039 COST. VILLECCO CALIPARI, C. 1407 COST. NUCARA, C. 1745 COST. PECORELLA, C. 2053 COST. CALDERISI, C. 2088 COST. MANTINI, C. 2161 COST. VITALI, C. 3122 COST. SANTELLI, C. 3278 COST. VERSACE E C. 3829 COST. CONTENTO

Audizione del professore Alessio Lanzi, ordinario di procedura penale presso l'Università degli studi di Milano, del Presidente della Corte dei conti, dottor Luigi Giampaolino e del professore Carlo Federico Grosso, ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Torino:

Bongiorno Giulia, Presidente ... 3 16 19 22
Bernardini Rita (PD) ... 17
Contento Manlio (PdL) ... 18
Ferranti Donatella (PD) ... 17
Giampaolino Luigi, Presidente della Corte dei conti ... 8 21
Grosso Carlo Federico, Professore ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Torino ... 12 21
Lanzi Alessio, Professore ordinario di procedura penale presso l'Università degli studi di Milano ... 3 19
Mantini Pierluigi (UdCpTP) ... 16

Audizione del dottor Raffaele Sabato, componente dell'ufficio direttivo del Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE) del Consiglio d'Europa, e dei presidenti emeriti della Corte costituzionale, professor Cesare Ruperto e professor Cesare Mirabelli:

Bongiorno Giulia, Presidente ... 23 28 31 38
Contento Manlio (PdL) ... 31
Mirabelli Cesare, Presidente emerito della Corte costituzionale ... 28
Ruperto Cesare, Presidente emerito della Corte costituzionale ... 28 31
Sabato Raffaele, Componente dell'ufficio direttivo del Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE) del Consiglio d'Europa ... 23 38
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Iniziativa Responsabile (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): IR; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

COMMISSIONI RIUNITE
I (AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI) E II (GIUSTIZIA)

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 9 giugno 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA II COMMISSIONE GIULIA BONGIORNO

La seduta comincia alle 10.

(Le Commissioni approvano il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del professore Alessio Lanzi, ordinario di procedura penale presso l'Università degli studi di Milano, del Presidente della Corte dei conti, dottor Luigi Giampaolino e del professore Carlo Federico Grosso, ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Torino.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul disegno di legge C. 4275 cost. Governo, recante «Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione» e delle abbinate proposte di legge C. 199 cost. Cirielli, C. 250 cost. Bernardini, C. 1039 cost. Villecco Calipari, C. 1407 cost. Nucara, C. 1745 cost. Pecorella, C. 2053 cost. Calderisi, C. 2088 cost. Mantini, C. 2161 cost. Vitali, C. 3122 cost. Santelli, C. 3278 cost. Versace e C. 3829 cost. Contento, l'audizione del professore Alessio Lanzi, ordinario di procedura penale presso l'Università degli studi di Milano, del Presidente della Corte dei conti, dott. Luigi Giampaolino e del professore Carlo Federico Grosso, ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Torino.
Informo gli auditi che, qualora lo ritengano opportuno, potranno integrare con la trasmissione di una nota scritta la loro relazione e le risposte alle eventuali domande dei deputati.
Ringrazio, anche a nome del presidente Bruno e delle due Commissioni, gli intervenuti cui do la parola.

ALESSIO LANZI, Professore ordinario di procedura penale presso l'Università degli studi di Milano. Ringrazio i presidenti e saluto i componenti delle Commissioni presenti. Ho avuto la possibilità di seguire parzialmente via web-tv il dibattito precedente e le audizioni che si sono svolte.
Sono un esperto di diritto penale sostanziale, ma esercito la professione di avvocato, ragion per cui prenderei lo spunto, fermo restando che le questioni sono notevolissime e che su di esse mi riservo di trasmettere alle presidenza una nota integrativa in un momento successivo, per puntualizzare l'attenzione su taluni temi che sono particolarmente emersi nell'ambito della discussione precedente e che riguardano forse più da vicino altri temi di carattere sostanziale, anziché esclusivamente di carattere processuale.
Vorrei partire da una considerazione che esprime una mia ferma convinzione: io credo che la divisione delle carriere dei magistrati sia una scelta irrinunciabile, senza se e senza ma. Solo in questo modo è possibile attuare il principio costituzionale del giudice terzo previsto dall'articolo 111 della Costituzione. Non vi sarà mai


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una terzietà finché non si abbandonerà l'idea di due funzioni di un unico genere. Finché il genere rimarrà uguale e la differenza sarà solo per funzioni credo che la terzietà non potrà mai essere assicurata.
La remora a questa impostazione di principio è data dal temere che, così facendo, il pubblico ministero perderebbe la cosiddetta cultura della giurisdizione. Io credo che sia una considerazione fuorviante, perché in realtà la contiguità nell'ambito del medesimo ordine, la stessa appartenenza di derivazione concorsuale e di carriera, l'intercambiabilità dei ruoli, dal momento che assistiamo a fenomeni di giudici che diventano pubblici ministeri e di pubblici ministeri che diventano giudici, sono tutte tematiche che, come l'esperienza insegna, privilegiano più la cultura dell'accusa in capo ai giudici che non la cultura della giurisdizione in capo ai pubblici ministeri.
Come correttamente, a mio avviso, da più parti, soprattutto dell'avvocatura, è stato sottolineato, il problema non è tanto la cultura della giurisdizione, ma la cultura della legalità, che deve riguardare nei diversi compiti che a ognuno sono assegnati tutte le parti e gli attori del processo: la cultura dell'accusa, la cultura della difesa, la cultura della giurisdizione sono tutte accomunate nell'ambito della cultura della legalità.
Da sostanzialista voglio ricordare come il tema della giurisdizione e della sua cultura non sia nuovo neanche al diritto sostanziale. Alla fine degli anni Sessanta era stata addirittura avanzata l'ipotesi di un principio di cosiddetta giurisdizionalità come principio costituzionale che si accomunava al principio di legalità e di personalità della responsabilità penale.
La garanzia per il cittadino sarebbe stata non solo il rispetto della legalità, quindi riserva assoluta di legge, irretroattività della norma penale e via elencando, ma anche la giurisdizionalità, non solo come tema di carattere processuale, che è ciò che comunemente si intende, ma addirittura come tema di carattere sostanziale. La giurisdizionalità avrebbe potuto, pertanto, supplire alle carenze di legalità dell'eventuale normazione.
Sul tema i sostanzialisti si sono espressi. Ricordo sul punto le fondamentali note critiche del mio grande maestro, Pietro Nuvolone, in cui si afferma che parlare di una giurisdizionalità a tutela del principio della libertà accanto ed eventualmente in sostituzione del principio di legalità significa adagiarsi su un mito fideistico della funzione della magistratura, laddove, viceversa, la garanzia è presentata dal principio di legalità senza altri tipi di surrogati.
In ogni caso, la tematica della giurisdizionalità in senso sostanziale è stata abbandonata anche dagli studiosi del diritto penale sostanziale e io credo che siano pochi gli approcci e le diversità che si devono tenere al riguardo in relazione al medesimo concetto trasfuso in sede processuale.
Inoltre, il giudice terzo, ossia la terzietà, riposa su un concetto chiaramente diverso dal concetto di imparziale, perché l'imparzialità è assicurata dalle regole del Codice di procedura penale ed è una componente soggettiva interiore dell'individuo, del giudice. Viceversa, la terzietà è oggettivamente una posizione diversa, ossia è terzo colui che è diverso dalle parti, colui che anche fisicamente, come allocazione, è diverso dalle parti.
Prestate attenzione, però: è terzo non solo colui che secondo la legislazione è terzo, ma anche colui che appare come terzo.
In merito voglio svolgere una considerazione molto pragmatica. Non so fino a che punto i cittadini, che alla fine sono i fruitori della legislazione, anche i più acculturati, intendano propriamente tutto il dibattito che su questi temi si compie. Parlare di decostituzionalizzazione, di obbligatorietà, di tanti temi tecnici forse per molti risulta essere un linguaggio criptico, non chiarissimo.
Quello che però il cittadino di tutti i livelli capisce perfettamente è ciò che appare: il cittadino che viene condannato o che viene eventualmente sottoposto a


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restrizione preventiva o definitiva deve avere la percezione che colui il quale lo condanna, colui il quale lo arresta non è contiguo, non ha la stessa derivazione di colui che esercita l'accusa. Credo, quindi, che la terzietà in un sistema come il nostro vada anche al di là della forma giuridica, ma sia anche un'apparenza indispensabile.
A questo punto, sorvolando su molte questioni, vorrei intrattenermi su una che ritengo particolarmente rilevante, sempre in una visione sostanzialistica del tema. Si parla molto, a proposito di questo disegno di legge di riforma, di un asserito principio di decostituzionalizzazione. Ci sarebbero, anzi, ci sono istituti che, grazie al dettato di questo disegno di legge, sarebbero sottratti alla Costituzione e assegnati al legislatore ordinario. Questo principio si è visto in termini assolutamente negativi e di questo concetto di decostituzionalizzazione si fa un uso molto critico.
Io vorrei, in realtà, da sostanzialista, fare una considerazione, con tutti i limiti che questo termine può avere, di ampio respiro. Il nostro è un sistema che esiste e funziona in quanto realizza una felice sintesi tra due opposte prospettive normative: da un lato, la garanzia costituzionale, data dalla Costituzione, dall'altro, l'attuazione del principio democratico, dato dalla funzione legislativa del Parlamento. Si tratta di due elementi, due connotati che talvolta possono entrare in tensione e lo sono entrati in molti ordinamenti a partire dall'Ottocento. Può apparire, infatti, incongruo - costituzionalisti statunitensi l'hanno sovente rilevato - l'impiego eccessivo della garanzia costituzionale. Di fatto, noi abbiamo regole che ci sono state tramandate dai nostri padri e i nostri figli avranno delle regole tramandate loro dai nonni, per cui un cittadino si trova a vivere secondo regole che potrebbero non essergli proprie perché appartenenti a un periodo storico diverso, a una diversa situazione sociale, culturale e via dicendo.
Al tempo stesso, quello democratico è un principio che presenta degli aspetti di pericolo perché può determinare la cosiddetta dittatura della maggioranza, ossia grazie al 50 più 1 si possono sempre imporre al Paese, e quindi anche alle minoranze dei cittadini, normative contrarie a molti desiderata.
La tensione tra garanzia costituzionale, da una parte, e principio democratico, dall'altra, trova la sintesi, appunto, in un sistema di democrazia costituzionale, dove quindi si riconosce che la Costituzione traccia il perimetro, ma è poi la legislazione ordinaria che, nell'ambito di questo perimetro, legifera in modo legittimo.
Vi sono delle bellissime definizioni, talune che derivano da Norberto Bobbio, altre da costituzionalisti di oltreoceano, in cui si parla del clima della democrazia costituzionale come di un ambito di vasto clima morale perché «non si risolve nella regola di maggioranza come strumento per legiferare necessitando di più alti presìdi costituzionali per l'esercizio delle stesse libertà democratiche». I due poli, quindi, la garanzia costituzionale e il principio democratico, hanno nel nostro e in tutti i sistemi di democrazia costituzionale una sintesi che consente di organizzare la vita secondo questi princìpi.
A questo punto, porto l'esperienza del diritto penale sostanziale. La sintesi è trovata: la Costituzione fissa i beni oggetto di tutela penale, la legislazione ordinaria prevede le fattispecie di reato e orienta le sue scelte di penalizzazione sulla base della tutela da assegnare a beni di rilevanza costituzionale. Così la sintesi esiste e, qualora, viceversa, il legislatore ordinario, quindi la democrazia, prevarichi la garanzia e vada fuori dal perimetro, la garanzia costituzionale è ristabilita col giudizio di legittimità costituzionale.
Facciamo ora questa considerazione: premesso che così è, e così esiste in tutta la legislazione penale, vogliamo dire che la disciplina penalistica è tutta decostituzionalizzata? Seguendo i criteri sulla base dei quali non è sufficiente che la Costituzione dia il principio e si rimanda alla legislazione ordinaria l'attuazione dello stesso, dovremmo dire che tutto il diritto penale è stato decostituzionalizzato perché i reati, certo, non è la Costituzione a prevederli, come non prevede gli istituti giuridici


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principali. La Costituzione traccia il perimetro - legalità, riserva assoluta di legge, irretroattività della norma penale, determinatezza, tassatività, personalità - e, sulla base di questi elementi il legislatore opera. Solo così un sistema può marciare salvando l'equilibrio tra la garanzia e la democrazia.
A questo punto, mi chiedo cosa voglia dire in senso critico che questa riforma decostituzionalizza. Bisogna assumere questa considerazione - ma non in senso critico - che, il disegno di legge costituzionale del Governo di riforma, fissa i princìpi per l'attuazione e, per renderli a distanza di decenni dall'entrata in vigore della Costituzione, più aderenti al contesto sociale del Paese, demanda al legislatore ordinario un'attuazione nell'ambito del perimetro.
D'altronde, non dimentichiamo che la Costituzione del 1948 nasce a seguito di una guerra civile, del famoso vento del nord, in costanza del triangolo dell'Emilia-Romagna, con i blocchi contrapposti, e quindi è una Costituzione rigida con rigidi princìpi. Probabilmente, i tempi sono cambiati ed è tempo che, nell'ambito del rispetto dei princìpi e delle tensioni e dell'equilibrio tra i concetti, il legislatore ordinario possa adeguare la legislazione ai tempi concreti con rispetto dei princìpi costituzionali.
Abbiamo, credo, il privilegio di vivere in una democrazia costituzionale. Non capisco, allora, perché dobbiamo sempre spaventarci dell'equilibrio tra garanzia e democrazia. Cerchiamo di non svilire la categoria «legislatore», la vostra categoria, perché altrimenti usciamo dagli equilibri indispensabili, ma che talvolta possono essere precari, tra garanzia e democrazia.
Orbene, proprio in questa prospettiva ho sentito fare affermazioni che, francamente, non capisco fino in fondo, per esempio a proposito di quello che dovrebbe essere il nuovo articolo 104, terzo comma della Costituzione: cosa significa che l'ufficio del pubblico ministero diventerebbe quasi una longa manus del potere politico e dell'organo esecutivo? Il nuovo progetto di norma costituzionale è chiarissimo. La scelta va, infatti, nella direzione di depersonalizzare la funzione, ad appannaggio di una struttura organizzata, come, del resto, è attualmente nell'ordinamento giudiziario.
L'ufficio del pubblico ministero è organizzato secondo le norme dell'ordinamento, quindi della legislazione ordinaria e della Costituzione, che ne assicurano l'autonomia e l'indipendenza. Più precisamente, è un ufficio che, secondo la volontà costituzionale, deve essere ordinato con autonomia e indipendenza, lasciando al legislatore ordinario il compito di legiferare in questa prospettiva. Se una legge volesse strutturare l'ufficio del pubblico ministero senza salvaguardarne l'autonomia e l'indipendenza sarebbe incostituzionale perché, appunto, altererebbe gli equilibri fra garanzia e democrazia, esclusivamente ad appannaggio di quest'ultima e quindi insorgerebbero i criteri e i momenti di controllo a favore della garanzia costituzionale. Pertanto, mi sembra che parlare di decostituzionalizzazione in termini critici, e ravvisare una sorta di attentato ai princìpi fondamentali sia un modo non condivisibile di analizzare questa riforma.
Passo ad esaminare gli altri temi trattati dal disegno di legge del Governo.
Innanzitutto, se per attuare la terzietà si decide per la separazione delle carriere, è ovvio che vi è la necessità di una duplicazione del Consiglio superiore della magistratura, come è assolutamente opportuno che vi siano due diverse sezioni per quanto concerne gli aspetti disciplinari. Si è molto ironizzato sul tema del sorteggio che determina gli eleggibili - in pratica, si votano i sorteggiati - sul punto, però, francamente, la relazione mi sembra convincente. Devo dire, peraltro, si tratta di princìpi che trovano sempre riscontro nell'ambito della pubblica amministrazione.
D'altronde, se si vuole evitare la suddivisione politica in correnti e l'assunzione di potere da parte di pezzi di quel corpo è indispensabile ricorrere, almeno in parte, al sorteggio. A questo proposito, sulla base della mia esperienza universitaria, posso dire che all'università si sono


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state sperimentate tutte le possibili forme di sorteggio (da quello puro a quello sugli eletti, all'elezione sui sorteggiati) e, al di là di ogni ironia, più questa modalità è stata praticata, più si sono eliminati i centri di potere dominanti. Nel caso del Consiglio superiore della magistratura sarebbero le correnti politiche, nell'università, invece, sono le baronie accademiche. In generale, più si ricorre al sorteggio e più si ha la garanzia di allontanare - perché eliminare è praticamente impossibile - la forza dei centri di potere.
Peraltro, dire, come ho sentito, che non vi sarebbe garanzia perché si potrebbero sorteggiare delle persone incompetenti, è una facile ironia. Infatti, in questo caso, si ribalta il discorso perché significherebbe pensare che la magistratura sia fatta di incompetenti. Se una persona diventa magistrato e quindi esercita una funzione che poi, per taluni giudici singoli, è anche un potere, evidentemente non possiamo ironizzare, ipotizzando una sorta di dequalificazione e di inidoneità.
Inoltre, l'articolo 106 tratta di una tematica molto interessante, di cui, però, non si parla molto, ovvero di allargare le maglie dell'utilizzo dei magistrati onorari ed elettivi. Si tratta di una scelta politica, che penso possa essere condivisibile. Infatti, siccome la giurisdizione è esercitata in nome del popolo italiano, possiamo anche far operare il popolo italiano. Non vedo perché bisognerebbe avere paura delle elezioni operate direttamente dalla comunità dei cittadini. Poi, ovviamente, con legge ordinaria, sarà chiarito chi potrà essere eletto, con gli opportuni requisiti di competenze e di professionalità.
Un ultimo punto che vorrei trattare - riservandomi di intervenire nel dibattito, che spero possa procedere anche in relazione ad altri temi che, per la brevità, non riesco a toccare - riguarda il tema della asserita decostituzionalizzazione del principio di obbligatorietà dell'azione penale.
Nel progetto di riforma, l'articolo 112 riproduce il concetto che l'ufficio del pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge. A questo proposito si è parlato di abdicazione della Costituzione, di cui abbiamo già discusso, di una rinuncia del potere legislativo a scelte penalistiche precedentemente fatte, oltre che di un pericolo di uso strumentale della giustizia.
Ecco, io credo che questi temi debbano essere affrontati in maniera coerente sulla base di quello che effettivamente accade; e ciò che accade è che l'obbligatorietà dell'azione penale, così come prevista dalla Costituzione, quindi concepita nei termini del concetto puro di obbligo di agire sempre, è chiaramente un'utopia. Questo lo sappiamo tutti. Infatti, si è proposta un'interpretazione, affidabile entro certi limiti, che intende l'obbligatorietà sancita in Costituzione come un privilegio, una garanzia del pubblico ministero, nel senso che egli deve essere il dominus dell'azione penale, senza nessuna possibile interferenza da parte di organi diversi, in modo tale che sia il pubblico ministero a valutare l'opportunità e la praticabilità tecnica e fattuale di determinate iniziative.
Ora, questa concezione comunque resta perché l'articolo 112 della Costituzione ribadisce come garanzia costituzionale la prospettiva dell'obbligatorietà dell'azione penale. Il resto è prassi, necessità contingente, oltre che un tema che da sempre riguarda l'amministrazione della giustizia e che ha portato diversi uffici italiani del pubblico ministero a darsi delle regole. Le più eclatanti sono il cosiddetto «Protocollo Maddalena» e le cosiddette «Linee guida Caselli» a Torino, che sono state molto enfatizzate e presentate all'opinione pubblica come esempio.
A questo proposito, ho qui un commento secondo il quale partendosi dal presupposto che il legislatore, avendo fallito in tutti i tentativi deflattivi del processo e della legislazione penale sostanziale, leggo testualmente «a questo punto sorge spontaneo l'interrogativo se non appaia più funzionale in merito prescindere da ogni iniziativa riformistica di natura processuale e procedimentale - quindi è inutile che cambiamo le leggi - implementando invece il governo dell'esistente,


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come rimesso a coloro che quotidianamente si trovano ad affrontare la crisi del giudiziario».
Credo che, anziché il governo dell'esistente, a questo punto sia utile utilizzare la legislazione del Parlamento democraticamente eletto, e quindi sia il Parlamento a dare dei criteri che consentirebbero una uniformità di trattamento anche regionale, perché a Torino si fa in un modo, ma come si fa a Potenza, a Matera o a Reggio Calabria? Allora cosa abbiamo: delle azioni penali che vengono orientate in un modo o nell'altro sulla base delle situazioni e delle collocazioni geografiche?
A mali estremi, estremi rimedi: sempre con la prospettiva della riserva della garanzia dell'obbligatorietà, nel senso che può essere interpretato, diamo al Parlamento la sua prerogativa democratica di stabilire dei criteri. Sul punto casomai sarebbe utile che già a livello costituzionale la norma prevedesse in linea di massima questi criteri che possono essere per temi, per settori, e quindi già la norma costituzionale dia dei criteri per l'adeguamento del principio.
Non ci si deve però assolutamente scandalizzare se si vuole cambiare il modus operandi di una vera decostituzionalizzazione del criterio di obbligatorietà sulla base delle impostazioni delle singole Procure a favore di una linea unica e generale democraticamente stabilita dal potere legislativo.

LUIGI GIAMPAOLINO, Presidente della Corte dei conti. Il mio intervento, anche ascoltando quanto da ultimo diceva il professor Lanzi, è un po' estraneo alla materia che è oggetto di questo disegno di legge costituzionale.
Per gli aspetti che possono coinvolgere la Corte dei conti o comunque per i quali la Corte può dare un suo contributo alla discussione generale, a parte l'aspetto generale della natura delle funzioni della Corte, individuo quello della intestazione della funzione giurisdizionale alla Corte dei conti, della figura e del ruolo del pubblico ministero contabile, della responsabilità civile dei magistrati, della responsabilità disciplinare per i magistrati della Corte dei conti, della riforma del Consiglio superiore della magistratura e, infine, quello dell'esperienza del Consiglio di presidenza della Corte dei conti.
Ho preferito affidare questi argomenti a una comunicazione scritta consegnata alla presidenza, affinché essi restino agli atti delle Commissioni, così che nei lavori delle Commissioni stesse e negli approfondimenti che se ne faranno si possano trovare utili indicazioni per i riflessi che possono dare al disegno di legge costituzionale.
Preferisco pertanto rinviare al documento scritto, che si articola nei titoli che ho innanzi indicato, e limitare il mio intervento orale ad alcuni aspetti di principio che riguardano la Corte. Mi permetterei comunque di affidare alla riflessione delle Commissioni le segnalazioni che in questo documento vengono compilate ai fini appunto dei riflessi che si possono avere sul disegno di legge costituzionale che vede estranea la Corte.
Gli articoli 100, 103 e 108 delle Costituzione infatti non sono toccati dalla riforma costituzionale proposta dal disegno di legge del Governo. Lo stesso articolo 12 del disegno di legge aggiunge all'articolo 111 della Costituzione, che sancisce i principi del giusto processo, un ultimo comma che costituzionalizza il principio del doppio grado di giurisdizione.
Esso introduce peraltro una asimmetria tra le sentenze di condanna e quelle di proscioglimento. Tale modifica, richiamando espressamente le sentenze di condanna e quelle di proscioglimento, e rifacendosi quindi a una terminologia processual-penalistica non incide sulle funzioni intestate alla Corte dei conti.
Ciò premesso, vorrei sottoporre all'attenzione delle Commissioni alcune evidenze relative al ruolo che la Costituzione ha affidato alla Corte dei conti e alle modalità che possono ricondurre la prospettata riforma in un disegno coerente con tale ruolo.
A tale ultimo riguardo vorrei ricordare come la Corte dei conti, istituita come è noto agli albori dello Stato e voluta da


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Cavour, avvertì sin dall'inizio la necessità di salvaguardare l'indipendenza del magistrato, di cui era assicurata in particolare l'inamovibilità.
Lo status della magistratura contabile, che allora era pressoché un unicum, era particolarmente garantito anche nello Statuto Albertino, tanto che la revoca dei suoi magistrati - questo è un ricordo storico che forse può essere di qualche utilità anche per le nomine e per tanti altri aspetti di queste magistrature tanto vicine al Parlamento e al Governo - poteva avvenire solo a seguito della delibera di una Commissione composta dai Presidenti di Camera e Senato e da due vicepresidenti delle stesse, perché questi ultimi erano rappresentanti dell'opposizione.
Fin dall'istituzione della Corte, quando ancora la funzione giurisdizionale non era associata alla funzione di controllo, erano state riconosciute come prerogative della magistratura contabile quella dell'indipendenza, dell'inamovibilità, affinché un simile controllo, di rango costituzionale, fosse rigorosamente neutrale e preordinato alla tutela del diritto oggettivo. Una magistratura quindi per l'epoca molto garantita, in quanto volta a tutelare la retta spendita del denaro pubblico perché proveniente dal prelievo coattivo operato dai cittadini.
Illustro nel documento più ampio, lasciato agli atti della Commissione, che allora la tutela era nei confronti appunto del sovrano e a favore del Parlamento e oggi, nello Stato pluriclasse, come si è affermato in dottrina, il referente della Corte è il Parlamento.
La Corte costituzionale ha ripreso e sottolineato tali caratteristiche di imparzialità e di indipendenza, avendo riguardo sia a una funzione di controllo, sia a una funzione giurisdizionale, tutelando sia i giudici della giurisdizione contabile, sia il pubblico ministero presso la stessa. Il riferimento è agli articoli 103 e 108, che il disegno di legge non tocca.
A tale disposizione si aggiunge coerentemente l'articolo 135 della Costituzione, che inserisce la Corte fra le supreme magistrature che contribuiscono alla composizione della Corte costituzionale. D'altro canto, la funzione di controllo della Corte dei conti presuppone per sua stessa natura l'indipendenza, l'imparzialità e la terzietà dei magistrati che la svolgono, al pari della funzione giurisdizionale.
Infatti, se l'indipendenza dell'organo di controllo eleva l'autorevolezza dell'attività stessa, non vi è dubbio che una funzione di controllo di livello costituzionale, quale quella affidata alla Corte, richieda la posizione istituzionale di terzietà assoluta riconosciuta ai magistrati contabili, che sono in situazione di estraneità rispetto all'ente oggetto del giudizio.
Il livello costituzionale di questa garanzia pone la Corte in una condizione del tutto originale, quella di un organo che, da un lato, pone la sua funzione al servizio di altri organi e poteri dello Stato, ma, dall'altro, svolge questa funzione per diretta investitura costituzionale, al fine di assicurare o di agevolare, come ha spiegato la Corte costituzionale, il più corretto ed efficiente svolgimento delle funzioni di altri organi.
In questo quadro, infatti, si collocano importante pronunzie della stessa Corte costituzionale.
Il processo di riforma della Corte e, in particolare, delle sue attribuzioni di controllo, avviato con le riforme del 1994 e completato con la riforma della legge n. 131 del 5 giugno 2003, «Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3», pone ormai la Corte in un continuum tra l'Unione europea, lo Stato e le autonomie territoriali. Essa si colloca, pertanto, come istituzione di garanzia del corretto uso delle risorse pubbliche, ivi comprese quelle di provenienza comunitaria, con riferimento non solo allo Stato apparato, ma, nel nuovo quadro costituzionale, anche allo Stato comunità, un'interlocuzione, dunque, rivolta non solo all'amministrazione, ma anche all'intera collettività nazionale.
In questo sistema pluri-istituzionale, che moltiplica i centri di potere politico su diversi livelli, l'evoluzione della Corte costituisce in un certo senso un ritorno alla


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Costituzione, soprattutto nei rapporti interistituzionali, perché si è fortemente accentuato il profilo dell'ausiliarietà nei confronti del Parlamento e delle Assemblee regionali e locali, sanzionato anche da recenti disposizioni normative. La realizzazione di un sistema ordinamentale pluri-istituzionale rende ancor più necessaria la salvaguardia dell'indipendenza della terzietà e dell'imparzialità dei magistrati contabili. È, infatti, coessenziale al corretto svolgersi della dinamica democratica dei rapporti fra le istituzioni che le funzioni della Corte siano svolte con le menzionate garanzie.
Peraltro, nell'ottica di offrire un servizio di giustizia adeguato, imparziale e attento alla tutela delle pubbliche finanze, appare opportuno soffermarsi sull'opportunità di valutare forme di partecipazione più piena delle supreme magistrature dello Stato, fra cui la Corte dei conti, alle risoluzioni dei conflitti di giurisdizione in considerazione del fatto che le vigenti disposizioni consentono il ricorso dinanzi alle sezioni unite della Corte di cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti per i soli motivi inerenti alla giurisdizione.
In proposito si auspica che, nell'ottica di una complessiva riforma della giustizia, si focalizzi l'attenzione anche sull'opportunità di provvedere in tale ambito forme di coinvolgimento della Corte dei conti mediante istituzione ex novo di un organismo a composizione paritaria deputato alla risoluzione dei conflitti di giurisdizione sul modello francese del Tribunale dei conflitti, ovvero mediante integrazione delle sezioni unite della Corte di cassazione limitatamente alle funzioni connesse alle soluzioni di tali conflitti con magistrati appartenenti anche alla suprema magistratura contabile.
Con riferimento alla tematica della responsabilità civile dei magistrati l'articolo 14 del disegno di legge introduce nella Costituzione l'articolo 113-bis. Tale disposizione introduce e costituzionalizza una responsabilità diretta dei magistrati per atti compiuti in violazione dei diritti, alterando l'equilibrio introdotto con la legge n. 117 del 13 aprile 1988 «Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati», la quale contempla, invece, una responsabilità diretta dello Stato per comportamenti, atti e provvedimenti giudiziari posti in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni o per diniego di giustizia, prevedendo poi un'azione di rivalsa da parte dello Stato nei confronti del magistrato.
La vigente disciplina, inoltre, prevede che nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non possono dare luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove.
In sostanza, con il disegno di legge costituzionale in esame l'azione di risarcimento del danno diverrebbe diretta nei confronti del magistrato e tale responsabilità si estenderebbe allo Stato. L'azione non sarebbe limitata alle sole ipotesi di comportamenti tenuti da magistrati con dolo o colpa grave, ma verrebbe concessa in tutti i casi di violazione dei diritti.
Non vi sarebbe, inoltre, alcun riferimento alla cosiddetta clausola di salvaguardia contenuta nell'articolo 2, comma 2, della legge n. 117 del 1988, secondo cui, appunto, non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto, né quella di valutazione del fatto o delle prove.
Le considerazioni svolte non vogliono evidenziare una contrarietà di principio a ipotesi di revisione dell'attuale disciplina della responsabilità dei magistrati, ma intendono rappresentare i rischi derivanti da interventi normativi, peraltro di natura costituzionale, tale quindi da configurare un notevole irrigidimento del sistema, che possano determinare distorsioni nel funzionamento dell'ordinamento.
La Corte costituzionale, in sede di giudizio di ammissibilità del referendum agli allora articoli 55, 56 e 74 del Codice di procedura civile, che limitavano fortemente la responsabilità civile del magistrato, ha precisato che la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e


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limiti alla responsabilità dei magistrati, soprattutto in considerazione dei disposti costituzionali appositamente dettati per la magistratura a tutela della sua indipendenza e dell'autonomia delle sue funzioni.
Il principio è stato poi ribadito dalla Corte costituzionale, la quale ha, peraltro, precisato che il principio dell'indipendenza è volto a garantire l'imparzialità del giudice, assicurandogli una posizione super partes che escluda qualsiasi, anche indiretto, interesse alla causa da decidere.
A tal fine la legge deve garantire l'assenza, in egual modo, di aspettative, di vantaggi e di situazioni di pregiudizio preordinando gli strumenti atti a tutelare l'obiettività della decisione. La disciplina dell'attività del giudice, perciò, deve essere tale da rendere quest'ultima immune da vincoli che possono supportare la sua soggezione formale o sostanziale ad altri organi mirando, altresì, per quanto possibile, a renderla libera da prevenzioni, timori, influenze che possano indurre il giudice a decidere in modo diverso da quanto a lui dettano scienza e coscienza. In relazione alla peculiarità della funzione giudiziaria, la responsabilità ex articolo 28 della Costituzione va regolata con la previsione di condizioni di limiti a tutela dell'indipendenza e dell'imparzialità del giudice.
Mi basti, appunto, ricordare questi princìpi affermati dalla Corte costituzionale, peraltro trasportabili sic et simpliciter per la stessa attività di controllo della Corte in cui analoghi problemi si pongono e che sono poi più diffusamente sviluppati nello scritto che consegno.
Queste considerazioni, del resto, non escludono la possibilità di rivedere la vigente legge n. 117 del 1988 anche alla luce della sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee riguardante, appunto, il caso dei Traghetti del Mediterraneo SpA, la famosa sentenza del 13 giugno 2006. In questa sentenza, resa dalla Corte di giustizia in sede di pronuncia su questione pregiudiziale, il giudice comunitario ha ritenuto contrastante con il diritto comunitario una «legislazione nazionale che escluda in maniera generale la responsabilità dello Stato membro per i danni recati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un'interpretazione di norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale», e «che limiti la sussistenza di una tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente», come precisato appunto da altra sentenza del 30 settembre 2003.
Una tale pronuncia della Corte di giustizia è, quindi, perfettamente in linea con i princìpi più volte affermati dalla Corte costituzionale che ho innanzi richiamato e che ritiene necessario prevedere condizioni e limiti alle responsabilità dei magistrati, non necessariamente, invece, a quella diretta dello Stato, a tutela dell'indipendenza e dell'autonomia delle loro funzioni tanto da dichiarare con sentenza n. 468 del 1990 l'illegittimità costituzionale dell'articolo 19, comma 2, della legge n. 117 del 1988, nella parte in cui, quanto ai giudizi di responsabilità civile dei magistrati relativamente ai fatti anteriori al 16 aprile 1988 e proposti successivamente al 7 aprile 1988, non prevede che il tribunale competente verifichi con rito camerale la non manifesta infondatezza della domanda ai fini della sua ammissibilità al fine di lasciare senza una disciplina specifica, e quindi con assoggettamento alle previsioni generali dell'articolo 2043 del codice civile (Risarcimento per fatto illecito), la materia della responsabilità civile dei magistrati in considerazione della caducazione della precedente disciplina derivante dall'esito del referendum popolare.
D'altro canto, il Consiglio d'Europa, con raccomandazione n. 12 del 2010 del Comitato dei ministri, ha escluso qualsiasi forma di responsabilità civile dei magistrati precisando che l'interpretazione


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della legge, l'apprezzamento dei fatti o la valutazione delle prove effettuate dai giudici per deliberare su affari giudiziari non deve fondare responsabilità disciplinare o civile tranne che nei casi di dolo e colpa grave e prevedendo che soltanto lo Stato, che abbia dovuto concedere una riparazione, può richiedere l'accertamento della responsabilità del giudice attraverso un'azione innanzi al tribunale.
Dall'esame della suesposta giurisprudenza emerge con chiarezza la necessità di conciliare la completa tutela risarcitoria dei diritti in favore dei cittadini, da un lato, e, dall'altro, la tutela dei magistrati da iniziative risarcitorie pretestuose, che potrebbero avere effetti intimidatori sull'esercizio stesso dell'azione delle magistrature.
Appare, quindi, fortemente auspicabile, pur volendo metter mano all'attuale disciplina della responsabilità civile dei magistrati, confermare la previsione di una responsabilità solo indiretta degli stessi considerato anche che, nei casi dei Paesi membri dell'Unione europea, si va dal judicial immunity del Regno Unito al regime di responsabilità limitata indiretta, con l'eccezione della Spagna che, pur prevedendo una responsabilità diretta dei magistrati, la sottopone al vaglio preliminare di un tribunale per verificarne i presupposti soggettivi di dolo e colpa grave.
Resterebbe, ovviamente, salvo l'obbligo dello Stato di esercitare in un secondo momento la propria azione di rivalsa nei confronti del magistrato responsabile del fatto lesivo. A tale proposito potrebbe essere utilmente utilizzata la Corte dei conti, da sempre giudice della responsabilità dei pubblici dipendenti che a tal fine metterebbe a disposizione della collettività il proprio bagaglio di conoscenze e di technicality in tema di risarcimento di danno erariale.

CARLO FEDERICO GROSSO, Professore ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Torino. Innanzitutto ringrazio queste importanti Commissioni di avermi voluto invitare a questo incontro.
La prima considerazione che vorrei svolgere è che si tratta di discutere il tema della riforma della giustizia. Infatti, il Governo con questo disegno di legge ha predisposto una riforma costituzionale della giustizia, che il Parlamento si accinge ad affrontare. Tuttavia, non so se sia veramente la riforma della giustizia che si attendono i cittadini o sia un riequilibrio dei rapporti fra politica e magistratura Ho l'impressione che questa riforma affronti soprattutto questo secondo problema e non so, francamente, quanto i cittadini siano interessati, in termini di urgenza, a questo profilo della riforma. Certamente i cittadini avrebbero bisogno di una giustizia che finalmente tornasse a funzionare.
Sappiamo benissimo, signor presidente, frequentando quotidianamente la aule di giustizia, che vi sono moltissime difficoltà sia per noi, come avvocati, che per i magistrati nel portare a conclusione in tempi rapidi ciò che è un servizio per i cittadini. Auspico, quindi, che il Parlamento riesca quanto prima ad affrontare questo secondo problema, che mi sembra assolutamente prioritario.
Rispetto alla riforma costituzionale, mi soffermerò molto rapidamente su alcuni punti che il disegno di legge del Governo propone alla nostra attenzione.
Il tema fondamentale è la separazione delle carriere. Tuttavia, non mi soffermerò particolarmente su questo aspetto. Personalmente, sono contrario da sempre alla separazione delle carriere e non riesco a cambiare opinione. Non sono contrario per un motivo di carattere ideologico, ma, secondo la mia prospettiva, sul terreno di un bilanciamento dei pro e dei contro. Come spiega molto bene la relazione al disegno di legge, la separazione delle carriere costituisce il punto di approdo di un processo che ha trovato la sua attuazione nell'articolo 111, nuova versione, della Costituzione, relativa al giusto processo.
Per garantire la terzietà del giudice e la assoluta uguaglianza delle parti nel processo è, quindi, necessaria questa importante


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riforma. Invece ho l'impressione che la terzietà del giudice e l'uguaglianza delle parti possa essere garantita anche attraverso altri provvedimenti e altre misure. Vi sono, infatti, secondo me, alcune controindicazioni a una separazione così netta. Sotto un primo aspetto, separare il pubblico ministero dal giudice, quindi farne un ordine a sé, rischia di porre le premesse per un ritorno al suo assoggettamento al potere esecutivo. Se, invece, si riuscisse a garantire comunque l'indipendenza dell'ufficio del pubblico ministero, questo rischierebbe di portare a un'altra possibile conseguenza negativa molto pericolosa, cioè quella di creare un corpo autonomo potentissimo e separato, tutto sommato, dagli altri corpi dello Stato, costituito dalle Procure della Repubblica. Ebbene, questo sbocco sarebbe davvero un vantaggio per la nostra democrazia? In ultima istanza, credo che la possibilità di travaso tra l'esercizio delle funzioni di giudice e quelle di pubblico ministero aiuti quest'ultimo a tenersi lontano dalla mentalità del poliziotto e a rimanere ancorato a quella cultura della giurisdizione delle garanzie a cui tutti teniamo.
Ho detto questo in apertura, pur rendendomi ovviamente conto delle ragioni che sono a sostegno di questa scelta. Oltretutto, le Camere penali da tempo difendono questa soluzione, mi limito, quindi, a questa osservazione.
Affronto, ora, i temi che mi premono di più. Innanzitutto, questa riforma viene a modificare profondamente la posizione e il ruolo del pubblico ministero nell'ambito del nostro ordinamento giuridico. Vi sono alcuni punti che toccano in profondità il ruolo della Procura della Repubblica nel nostro Paese.
Comunque, anche separando le carriere, si dice che si intende assicurare piena indipendenza all'ufficio del pubblico ministero. Sotto questo aspetto, comincio con l'osservare che l'enunciazione dell'indipendenza dei giudici e dell'ufficio del pubblico ministero appare configurata, nel nuovo testo costituzionale, in modo assolutamente diverso. Nella relazione, peraltro, si dà anche la spiegazione della ragione per cui si fa questa scelta. I giudici continuano a essere tutelati individualmente, come ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere dello Stato e si stabilisce che siano soggetti soltanto alla legge, invece i pubblici ministeri non sono più soggetti soltanto alla legge, non sono più tutelati individualmente, ma sono - ammesso che veramente si tratti di una tutela - tutelati soltanto come ufficio.
Il terzo comma dell'articolo 104 della Costituzione, come proposto dall'articolo 4 del disegno di legge di revisione costituzionale dispone che l'ufficio del pubblico ministero sia autorganizzato secondo le norme dell'ordinamento giudiziario che ne assicurano l'autonomia e l'indipendenza. Quindi, l'autonomia e l'indipendenza sono assicurate all'ufficio. Allora, il problema è chi ci garantisce sull'autonomia e sull'indipendenza di ciascun operatore giudiziario pubblico ministero all'interno dell'ufficio?
Capisco che possa esserci un'esigenza forte di coordinamento fra i singoli pubblici ministeri operanti nella stessa procura o anche nell'ambito di procure diverse, però, in questo modo, la Costituzione, rinviando a una disciplina di legge ordinaria, senza riferimento alla libertà e all'indipendenza di ciascun pubblico ministero e senza riconoscere le garanzie di ciascun pubblico ministero di essere comunque tutelato rispetto alla volontà della maggioranza dei colleghi, del capo e via dicendo, rappresenta un grosso pericolo in ordine alla libertà di ciascun magistrato chiamato a svolgere quella funzione.
Inoltre, la legge ordinaria dell'ordinamento giudiziario deve comunque garantire l'autonomia e l'indipendenza. Tuttavia, nell'ipotesi in cui si introducano dei paletti non del tutto coerenti con il principio di autonomia e indipendenza, fino a che punto, con questo meccanismo di garanzia attuato attraverso una legge ordinaria, si riuscirà veramente a tutelare fino in fondo tale principio?
Questi due aspetti, a mio avviso, destano perplessità e preoccupazione. Indubbiamente, il nettissimo stacco della tutela dell'autonomia del pubblico ministero rispetto


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a quella dei giudici, crea, secondo me, inquietudine. Infatti, ci potrebbe essere un'evoluzione nel senso di un controllo dell'ufficio del pubblico ministero. Certo, è solo un rischio, ma nel momento in cui si tocca la Costituzione, lasciare aperto questo rischio mi lascia estremamente perplesso.
Il secondo aspetto, che mi lascia altrettanto perplesso, riguarda l'articolo 10. Si tratta di un problema che qualche anno fa è divenuto attuale nel dibattito politico, ovvero quello dei rapporti fra pubblico ministero e polizia giudiziaria. Tutti sappiamo come si dipana il dibattito in ordine a questi rapporti. Confesso che con un pubblico ministero che comincia a non essere più garantito fino in fondo nella sua indipendenza individuale e forse anche nella sua indipendenza come ufficio, questo ulteriore strappo per cui nella parte iniziale dell'indagine - nella relazione si parla di «preindagini» - il pubblico ministero rischia di essere dipendente dalle scelte operate della polizia giudiziaria mi sembra un ritorno indietro molto pericoloso.
Del resto, questo principio era già nel nostro codice di procedura penale: è stato modificato dal codice penale più liberale del 1989. Perché si vuole tornare indietro? Qui evidentemente le mie preoccupazioni si sommano, perché rimane comunque la dipendenza gerarchica di coloro che fanno parte della polizia giudiziaria dal potere esecutivo, e quindi un rischio ulteriore.
Il terzo punto, che si somma ai due precedenti, l'articolo 11 e l'articolo 13 del disegno di legge in esame, che vengono non proprio ad intaccare, ma comunque a toccare il principio di obbligatorietà dell'azione penale. So benissimo per quali ragioni si cerca di programmare in qualche modo l'esercizio dell'azione penale nel nostro Paese. Tutti quanti abbiamo di fronte ciò che accade: è stata accusata di essere una potenziale scelta discrezionale autonoma quella operata da ciascun pubblico ministero in ordine alla individuazione del processo da privilegiare, e quindi la necessità di determinare dei criteri. Però come viene configurata nel disegno di legge governativo che ho letto con molta attenzione questa determinazione di criteri?
L'articolo 11, che novella l'articolo 110 della Costituzione, stabilisce che a livello costituzionale il Ministro della giustizia riferisca annualmente alle Camere sullo stato della giustizia, sull'esercizio dell'azione penale e sull'uso dei mezzi di indagine, quindi il ministro riferisce alle Camere. L'articolo 13, che novella l'articolo 112 della Costituzione, aggiunge (è una norma correlata): «L'ufficio del pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge».
In astratto tutto perfetto, è chiaro: il Parlamento è sovrano. Visto nell'ottica della libertà di azione del pubblico ministero, io mi metto dal punto di vista del pubblico ministero, anche se probabilmente come avvocato potrei avere interesse a un controllo maggiore dei pubblici ministeri, anche se non sempre ovviamente. Quale è il rischio? Il rischio è un ministro che fa la sua relazione e il Parlamento, cioè il potere legislativo, la politica, che decide ogni anno ciò che deve essere perseguito e ciò che non deve essere perseguito.
Davvero un principio del genere a livello costituzionale si concilia con l'indipendenza della magistratura nella persecuzione degli illeciti penali da un lato, e dall'altro con un corretto esercizio delle scelte di priorità? Mi rendo conto che parlo a degli autorevoli parlamentari, ma davvero è opportuno assegnare alla legge, cioè al Parlamento, questa scelta filtrata esclusivamente dall'intervento del ministro? Dialettica Esecutivo-Parlamento: e dove sta la magistratura, dove stanno i Procuratori generali, il Procuratore della Repubblica, il Consiglio superiore della magistratura? La magistratura è completamente estranea a questa determinazione di priorità: è una scelta opportuna?
Non è mio compito stabilire o dire se la scelta sia opportuna o non lo sia, ma ho l'impressione che dalla somma dei tre principi che ho testé evidenziato scaturisca una modificazione profondissima dello


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status del potere del pubblico ministero. Devo dire che personalmente sono nettamente contrario a questa opzione. Penserei che sarebbe opportuno, anche se si vuole imboccare questa strada, fare più attenzione alla tutela della indipendenza di quell'ufficio attraverso delle opportune modificazioni di queste scelte, che mi sembrano veramente radicali.
Ho letto altre proposte di legge che sono abbinate al disegno di legge governativo che propongono scelte ancora più radicali, che però evidentemente mi sembrano ancora più criticabili. Questa profonda modifica dello status dei poteri del pubblico ministero quindi ritengo desti preoccupazione.
Passo ad esaminare il secondo punto: il Consiglio superiore della magistratura, tema indubbiamente molto delicato. Anche qui, purtroppo, non sono favorevole all'opzione proposta dal disegno di legge. La spaccatura in due del CSM - prima domanda che pongo - davvero costituisce lo sbocco inevitabile della separazione delle carriere? Non mi sembra, anche perché molti che hanno parlato da anni della separazione delle carriere mai hanno ritenuto che la separazione delle carriere dovesse automaticamente produrre la spaccatura dell'organo di autogoverno della magistratura.
Spezzare significa inevitabilmente indebolire. Se vogliamo indebolire il Consiglio superiore della magistratura, spaccarlo significa fare il primo passo. L'obiettivo è questo evidentemente, altrimenti non capisco.
Seconda osservazione: il secondo comma dell'articolo 105 della Costituzione, come modificato dall'articolo 6 del disegno di legge. Si dice espressamente in Costituzione - e capisco perché lo si dice - che i Consigli superiori non possono adottare atti di indirizzo politico, né esercitare funzioni diverse da quelle previste dalla Costituzione.
So benissimo quale è l'obiettivo e quale la ragione. Mi domando se assegnare al Consiglio superiore della magistratura e costringerlo ad operare soltanto sul terreno delle funzioni tipiche burocratiche amministrative (uffici, scelta dei capi, non c'è più nemmeno la disciplina, quindi si toglie una parte importante) significa burocratizzare il CSM, ridurlo a un normale organo di funzionamento amministrativo.
Ho avuto l'esperienza di vivere dall'interno per quattro anni la vita di questo organo. Per carità, non sono tutte rose e fiori: c'erano molti profili che potevano essere criticati e corretti. Mi domando però se davvero costituisca un'esigenza primaria dello Stato, un'esigenza della politica quella di dire ai consiglieri del CSM che non possono esprimere pareri sui provvedimenti legislativi, che non possono fare pratiche a tutela dei magistrati. E perché?
Ricordo che quando ero al CSM molte volte ero abbastanza divertito del tempo che soprattutto la componente togata impiegava nell'elaborazione di questi pareri e nella gestione di queste pratiche, che ritenevo avessero uno sbocco molto limitato, nel senso che la politica avrebbe potuto benissimo prenderle e metterle nel cassetto, anzi ho sempre ritenuto che la politica desse pochissima importanza a queste iniziative del CSM.
Ma perché togliere dalla dialettica possibile delle opinioni l'opinione di un organo ufficiale? Questo non lo capisco, perché stabilire in Costituzione questo significa degradare l'organo. Un organo di normale attività amministrativa allora perché deve continuare ad essere presieduto dal Capo dello Stato? Mi pare che anche questa sia una contraddizione.
Sono anche perplesso dell'alterazione dei rapporti numerici fra componenti laici e componenti togati: 50 per cento e 50 per cento significa attribuire di fatto la maggioranza ai laici, perché in caso di parità prevale il voto del vice presidente. Ha veramente senso? Trasformare l'organo di autogoverno in organo di governo francamente mi sembra una misura esclusivamente punitiva.
Quanto alla nomina dei componenti togati previo sorteggio, capisco che bisogna stroncare il correntismo esasperato, è un'esigenza, ma davvero questo è l'unico modo per stroncare il fenomeno? O non


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ha anche questo punto un significato meramente punitivo? Per questo motivo anche su questo terreno io sono estremamente perplesso.
Svolgo poche battute su altre tre norme. L'articolo 9 mi sembra corrispondere effettivamente a un'esigenza, anche se toccare il principio di inamovibilità del magistrato significa indebolirne l'indipendenza. Parlo anche per l'esperienza di quel periodo, ormai lontanissimo, in cui ho fatto parte dell'organo di autogoverno della magistratura. La difficoltà di coprire le sedi disagiate deve essere affrontata e, quindi, occorre uno strumento per costringere i magistrati ad affrontare sedi come Gela o Agrigento. Pur con alcuni costi, dunque, questa norma è indubbiamente opportuna.
Sulla responsabilità civile dei magistrati è ovvio che i magistrati, come ogni altro operatore giuridico o di altro tipo, debbano essere chiamati a rispondere. Nutro solo una preoccupazione in merito.
Quando sento affermare che il medico, se sbaglia, deve pagare e che l'avvocato, se sbaglia, deve pagare, lo ritengo giusto. Anche il magistrato, se sbaglia, deve pagare, ma c'è un principio, una peculiarità, che lo distingue: il magistrato sceglie sempre tra una parte e l'altra e per esperienza so che la parte soccombente ritiene sempre che il magistrato abbia commesso un'ingiustizia. Il rischio di azioni nei confronti dei magistrati è, dunque, estremamente elevato, molto più di quello del medico e dell'avvocato.
Non so se questa norma che introduce in maniera tanto ampia e indiscriminata la responsabilità del magistrato tenga adeguatamente conto di questo rischio oggettivo. Il principio di responsabilità è un principio generale, ma non vorrei che il timore di essere costretti a pagare intimidisca e condizioni la scelta.
In merito all'appellabilità delle sentenze, prevista dall'articolo 12 sono d'accordo su un punto: l'appello non deve essere assolutamente cancellato, perché è una garanzia. Personalmente, nutro alcuni dubbi sull'opportunità di stabilire la non appellabilità delle sentenze di proscioglimento, anche se, come avvocato, potrei avere un interesse in tal senso, nel momento in cui riuscissi a ottenere una sentenza di assoluzione in primo grado e di vederne la definitività.
Anche in questo caso sappiamo che cosa ha stabilito la Corte costituzionale con riferimento alla legge ordinaria, ma il principio rimane quello della parità tra le parti. Se tale parità sussiste, ha davvero senso introdurre questa differenziazione.

PRESIDENTE. Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

PIERLUIGI MANTINI. Ringrazio naturalmente tutti gli autorevolissimi auditi. A mio avviso la decostituzionalizzazione c'è. È un dato oggettivo. Possiamo ripercorrere tutti gli articoli e vedere che si rinvia a legge ordinaria. Non è semplice sostenere il contrario.
Sulla questione dell'obbligatorietà dell'azione penale rivolgo una domanda non solo al professor Lanzi, ma anche a chi è intervenuto sul punto e, naturalmente, al professor Grosso.
A me sembra che obiettivamente tutti noi sentiamo che il principio di obbligatorietà penale rischi, per alcune latitudini, di diventare un feticcio, ma che un rimedio più realistico è forse quello di consentire agli uffici di tener conto della particolare tenuità del fatto e anche della prognosi sul processo, al fine della sistemazione delle priorità dell'agenda processuale.
Mi sembra un contenuto che allarga e dà legittimità a una prassi razionale, che serve per il buon andamento dell'azione penale. Riconoscere questo punto potrebbe creare un effetto di «allentamento» di tale obbligatorietà così stringente, mentre invece io, che non sono contrario alle relazioni annuali sulla giustizia, all'intervento per vie generali del Parlamento e che, peraltro, devo confessare di non essere neanche mai stato di cultura federalista, vedo un problema nella legge annuale, che indica le priorità dei reati.
Se solo per un attimo compissimo questo sforzo, ne vedremmo tutte le difficoltà.


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Davvero sul piano penale le priorità nell'esercizio del magistero punitivo acquistano una loro fisionomia sulla base della geografia territoriale. Vi è un federalismo criminale, vi sono zone del Paese in cui sono prioritari alcuni reati che non lo sono in altre.
È inutile che porti gli esempi, perché i presenti ne sono perfettamente coscienti. È chiaro che alcune priorità presenti in alcune zone del Paese non vi sono in altre e che, quindi, non avrebbe molto senso emanare una legge di carattere generale.

RITA BERNARDINI. Volevo rivolgere una domanda al professor Lanzi sulle riforme contenute in questo disegno di legge costituzionale che riguardano responsabilità civile dei magistrati, separazione delle carriere, obbligatorietà dell'azione penale e Consiglio superiore della magistratura. Ad avviso del professor Lanzi, è necessario intervenire con legge costituzionale o si può intervenire anche, visti i tempi residui di questa legislatura, con legge ordinaria?

DONATELLA FERRANTI. Cercherò di rispettare l'invito della presidente di intervenire per domande, perché alcune considerazioni che hanno svolto i relatori mi trovano d'accordo e, quindi, evito i commenti.
Vorrei rivolgere alcune domande sia al professor Lanzi sia al professor Grosso e al presidente Giampaolino.
Il professor Lanzi ha obiettato all'affermazione che hanno svolto diversi relatori in queste audizioni sulla decostituzionalizzazione, affermando che, in realtà, la decostituzionalizzazione non c'è quando esiste un perimetro che traccia i princìpi fondamentali della Costituzione.
La domanda è soprattutto con riferimento al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale. Per quanto riguarda il pubblico ministero mi trovo sulle posizioni che ha rappresentato il professor Grosso e, quindi, ravviso un rischio concreto. Si afferma che l'Ufficio del pubblico ministero «è organizzato secondo le norme dell'ordinamento giudiziario che ne assicurano l'autonomia e l'indipendenza», ma poi c'è uno svuotamento in altre norme. Tuttavia, non sto qui affrontando questa discussione, quindi su questo punto non vado oltre.
Con riferimento all'obbligatorietà dell'azione penale, francamente, non vedo tracciato nel progetto legislativo il perimetro di princìpi fondamentali. Si parla, infatti, di obbligatorietà dell'azione penale, ma secondo i criteri stabiliti dalla legge. Tuttavia, la legge non è poi chiamata, ad esempio - faccio un'obiezione a quanto diceva il professor Lanzi a proposito delle prassi, e quindi delle disfunzioni possibile per motivi di coordinamento, dei procuratori della Repubblica - a dare un criterio riferito alle modalità. La Costituzione potrebbe prevedere che, ferma restando l'obbligatorietà dell'azione penale, la legge stabilisce dei paletti, un metodo uniforme, mentre la proposta è in bianco e la stessa cosa riguarda la polizia giudiziaria.
Evidenzio l'assoluta incongruenza nell'equiparare, proprio nella logica delle diverse posizioni, pubblico ministero e giudice - vogliamo distinti e terzi i giudici rispetto al pubblico ministero che svolge le indagini - mentre in questo disegno di legge costituzionale quando si parla della polizia giudiziaria si elimina l'avverbio «direttamente» e, addirittura, si parificano il giudice e il pubblico ministero che dispone della polizia giudiziaria secondo criteri stabiliti dalla legge.
Vogliamo, allora, posizioni distinte, che però non ci fanno più comodo quando vogliamo parlare della polizia giudiziaria perché a quel punto non ci interessa, dimentichiamo le diversità di funzioni - uno svolge le indagini e l'altro celebra il processo - e anche lì la delega è data in bianco. Trovo, allora, un'incongruenza rispetto a quello che il professore ha rappresentato come esigenza che un'obbligatorietà dell'azione penale sia effettiva ed esercitata attraverso criteri trasparenti, non arbitrari e comunque non omogenei sul territorio.
Ritengo, tuttavia, che sia ancora più grave - le circolari dei procuratori della Repubblica sono verificabili dai cittadini e


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dal Consiglio superiore della magistratura - e vorrei conoscere il suo parere a questo proposito e anche quello del professor Grosso se lo ritiene, il fatto che in questo caso i criteri non siano prefissati, quindi non ci sarebbe quel principio della sintesi che mi è molto piaciuto, professore, tra principio democratico, e quindi potere della maggioranza parlamentare, e garanzia costituzionale. Io mi riconosco in questo suo principio come finalità del legislatore costituzionale, ma francamente da cittadino, sia che governi una maggioranza di destra sia che governi una maggioranza di sinistra, non mi sento garantito.
È stato analizzato anche da parte nostra come gruppo l'esercizio effettivo dell'obbligatorietà dell'azione penale. Mi pare che a questo proposito il professor Grosso abbia sostenuto che effettivamente il problema esiste perché questo disegno di legge fa riferimento all'esistenza di differenziazioni, discrezionalità, compiti rimessi al procuratore e al pubblico ministero, sensibile ad aspetti diversi: quale potrebbe essere una soluzione, invece, conforme al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale effettiva e però non rimessa alla maggioranza politica del momento o al Ministro della giustizia?
Lei ha sostenuto, inoltre, che la separazione delle carriere non è conforme a questa impostazione, che potrebbe esserci un'alternativa con riferimento alla separazione delle funzioni o comunque delle distinzione più effettiva delle funzioni: vorrei conoscere, qualora ritenga ci sia, una soluzione alternativa.
Professor Lanzi, mi ha colpito il suo discorso sul criterio dell'eleggibilità per sorteggio per quel 50 per cento del CSM a proposito del fatto che è un criterio sperimentato nell'università. Mi permetto di osservare, e questa è anche una domanda, che sono criteri sperimentati nelle commissioni di concorso; mi pare che il CSM si configuri come ben altro, come un organo di rappresentatività. A questo proposito gradirei una risposta anche dal presidente Giampaolino. Anche voi, come magistratura, avete un consiglio di rappresentanza e vorrei capire se è a conoscenza di altri organi rappresentativi - come il CNEL e tanti altri - i cui membri sono eletti con estrazioni a sorte.
Mi permetto, inoltre, di contraddire la sua osservazione sul fatto che alcuni non sarebbero rappresentativi in quanto non capaci: non si tratta della capacità tecnica di fare il magistrato, ma della capacità di rappresentare la volontà e di svolgere attività di rappresentanza dell'organo, per cui non procederei a questa assimilazione.
Mi rivolgo ancora al presidente Giampaolino: a proposito del ridurre l'organo di autogoverno - ne ha parlato già il professor Grosso - della magistratura a mero organo di amministrazione trasferimenti e delle nomine, vorrei sapere se nel panorama costituzionale degli altri organi di riferimento della magistratura amministrativa ha una sua incongruenza oppure se danno fastidio soltanto i pareri del CSM come organo del riferimento della magistratura ordinaria.
Ancora al presidente Giampaolino vorrei chiedere come si articolano le diverse funzioni di giurisdizione per la magistratura contabile e quale sarebbe la disparità di rappresentazione che ne deriverebbe con quella ordinaria.

MANLIO CONTENTO. Al professor Lanzi vorrei chiedere, sul suo riferimento alla possibilità di esplicitare i criteri in relazione all'esercizio dell'azione penale, se può fornirci qualche ulteriore indicazione visto che ha fatto cenno ad alcuni di essi. Vorrei che ci rendesse più edotti in questa direzione.
Al presidente Giampaolino vorrei chiedere se ritiene che ricondurre esclusivamente alla Corte disciplinare gli illeciti disciplinari di tutti i magistrati possa essere un'idea e se, eventualmente, la condivide, premesso che io condivido la sua affermazione in relazione alle istanze riferite alla giurisdizione.
Al professor Grosso vorrei, infine, chiedere se rinviene differenze tra l'attuale stesura dell'articolo della Carta costituzionale che si riferisce ai compiti costituzionalmente affidati al Consiglio superiore della magistratura e quelli ricompresi


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nella formulazione proposta dal disegno di legge governativo.
La seconda questione è in relazione all'inamovibilità del pubblico ministero. A questo proposito le chiedo se rinviene differenze tra l'attuale articolo 107 della Costituzione che si riferisce alla magistratura nel suo complesso e il 107 risultante dalla modifica, che non tocca assolutamente la prerogativa di inamovibilità anche nei confronti dei pubblici ministeri.

PRESIDENTE. Do la parola agli auditi per la replica.

ALESSIO LANZI, Professore ordinario di procedura penale presso l'Università degli studi di Milano. In premessa vorrei dire che è stato molto interessante, a livello personale, aver sentito la relazione del professor Grosso. Posso dire che non sono d'accordo su niente. Non posso neanche rispondere punto per punto, ma mi limito a riconoscere che, evidentemente, abbiamo due concezioni diverse dello Stato e dell'ordinamento.
Non potrei nemmeno articolare una risposta punto per punto perché abbiamo, e non da oggi, una visione completamente diversa dei poteri, degli equilibri e via dicendo. Detto questo, rispondo volentieri alle domande che mi sono state poste.
Inizio con l'onorevole Mantini, che mi chiede se ammetto che vi sia la decostituzionalizzazione. Certo, ma questo non è un termine negativo, bensì una necessità per consentire gli equilibri fra garanzia costituzionale e potere democratico. L'onorevole Mantini parlava della pericolosità di una legge nazionale che volesse stabilire i criteri per l'esercizio dell'azione penale, laddove, viceversa, è anche la localizzazione geografica che dovrebbe consentire di adottare dei criteri adeguati. A questo punto, mi riallaccio anche alla domanda specifica dell'onorevole Contento.
Fermo restando quello che ho già detto (ossia che rispetto a un esercizio localizzato da parte di un organo amministrativo giudiziario, ma non giurisdizionale, come la Procura della Repubblica in prospettiva di singole discipline è comunque meglio, dato che la situazione ottimale purtroppo non esiste, quella della legge nazionale), i criteri che potrebbe prevedere la Costituzione per specificare la decostituzionalizzazione sul punto potrebbero, innanzitutto, tener conto anche di realtà locali. Penso, quindi, a una legge dello Stato che dica: in relazione a determinate situazioni geografiche specificamente indicate, è preferibile privilegiare determinati tipi di azione penale. Questo può essere fatto a livello di legge centrale.
Per quanto concerne i criteri da specificare nella stessa Costituzione, io sarei favorevole a ipotizzare - a scanso di equivoci - criteri che considerino la scarsa offensività del fatto, il tempo trascorso dalla commissione del reato in relazione alla situazione processuale che si è creata per la notizia di reato, ma anche criteri relativi a settori di criminalità. Per esempio, relativamente alle indagini per 416-bis, bisognerà privilegiare determinate tipologie di reato in quanto rientrano in una prospettiva complessiva di estrinsecazione del fenomeno criminale, a prescindere dal titolo di reato, ma, appunto, nella prospettiva del tipo di settore.
Per quanto concerne la domanda dell'onorevole Bernardini, l'esperienza recente ci dice che le riforme che toccano le strutture del sistema non si riescono a fare con legge ordinaria. Basti pensare all'inappellabilità delle sentenze di assoluzione, che la Corte costituzionale ha bocciato. Il legittimo e dovuto, per me, depotenziamento dell'ufficio del pubblico ministero sarebbe difficile allo stato attuale della Costituzione. Di conseguenza, se si vuole intervenire e toccare i capisaldi del sistema, credo che, nell'interesse di tutti, sia preferibile la legge costituzionale. Che, poi, dati i tempi della legislatura e le contingenze politiche, questa legge non potrà trovare sbocco e approvazione, è un altro paio di maniche. Ad ogni modo, il discorso teorico che siamo chiamati a svolgere va nel senso di indicare i princìpi e le direttive e poi sarà il legislatore - quale che sarà - a recepire determinati ordinamenti.


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Rispetto all'onorevole Ferranti, che si richiamava al fatto che la decostituzionalizzazione non ci sarebbe se vi fosse il rispetto del perimetro, ribadisco che la decostituzionalizzazione c'è e io ritengo giusto che ci sia. Il perimetro è quello che consente che la decostituzionalizzazione non determini una prevaricazione del potere democratico sulla garanzia costituzionale. Il problema è, allora, proprio il perimetro.
A questo proposito, l'onorevole Ferranti indica come pericoloso e non conservativo del perimetro il tema dell'obbligatorietà dell'azione penale e la disciplina della polizia giudiziaria. Ecco, stabiliti i princìpi, credo che poi questi debbano essere adeguati alle contingenti situazioni. Riguardo al perimetro dell'obbligatorietà dell'azione penale, una volta che si ribadisce fermamente questa garanzia del pubblico ministero, se si vuole intervenire, è necessaria una riforma che preveda la possibilità di criteri a livello costituzionale. Ripeto quello che abbiamo già detto, anche sulla base di quello che mi è stato chiesto, io sarei favorevole a un'indicazione dei criteri di massima in Costituzione. Del resto, questa è una aggiunta al dettato già esistente, che però non ne inficia la validità.
Per quanto concerne la polizia giudiziaria, il giudice rimane un potere dello Stato a livello singolo. Infatti, il potere giudiziario è un potere debole, per derivazione illuministica, in relazione agli altri poteri dello Stato, perché non è il potere di un organo; non è la magistratura il terzo potere dello Stato. Il potere giudiziario è del singolo giudice perché si tratta di un potere diffuso. Questo è il principio che in Costituzione andrebbe finalmente e definitivamente chiarito, e che, peraltro, già a livello dottrinale è stato ipotizzato.
Una volta chiarito questo, non è che non ci piace più - intendo ai costituenti, io mi tiro fuori perché sono semplicemente un tecnico che esprime delle valutazioni - il criterio della diversità dei ruoli e si parificano i due ruoli sulla gestione della polizia giudiziaria. In questo caso è la legislazione ordinaria. In udienza preliminare il GUP - che è un giudice, quindi deve essere terzo, imparziale, esercita il potere giurisdizionale e via dicendo - ha nell'ambito delle norme processuali poteri investigativi, poteri di accertamento, poteri di assumere notizie. Questo necessariamente lo farebbe con la polizia giudiziaria, anzi lo può fare (oggi lo fa e potrà farlo ancora di più un domani, nel caso di questa riforma) con la polizia giudiziaria. Non è un tornare all'antico e non significa affermare, come immagine di facciata, che si è detto che sono due categorie distinte che poi tornano uguali con riferimento alle attività di polizia giudiziaria. È chiaramente la norma processuale che, a seconda delle esigenze processuali, indica o meno i criteri per esercitare queste attività. Quanto alla circostanza che il pubblico ministero perderebbe il dominio della polizia giudiziaria, lo diceva il collega professor Grosso, ma evito di spendere parole sul punto.
Si richiamava, inoltre, il tema della sorteggiabilità degli eletti, sostenendo che io ho fatto riferimento alle esperienze universitarie, ma in quel caso si tratta di commissioni di concorso e non di un organo di governo. I target chiaramente sono diversi, ma il problema di fondo è quello di evitare lo strapotere di determinate correnti nella magistratura o di determinate baronie nell'università. Pertanto, è uguale la situazione di partenza, la legittimazione di base, diverse sono le finalità. Tuttavia, nella misura in cui quello che ci interessa o che dovrebbe interessarci è abolire il fenomeno dello strapotere di una parte sull'altra, i criteri possono benissimo essere mutuati da un ambito nel quale, mutatis mutandis, ci sono altre forme di strapotere, ma sempre di strapotere si tratta, a mio giudizio.
Sul fatto che possa essere sorteggiato un soggetto non rappresentativo delle esigenze della categoria, ancorché tecnicamente preparato, ognuno può dire la sua. Bisogna capire se le esigenze della categoria sono le esigenze del singolo, della corrente o dello scambio di favori. Le esigenze possono essere tante. Possiamo dire che il criterio della sorte, alea maxima, dea bendata, a livello di indipendenza,


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è molto più adeguato della votazione condizionata da determinate appartenenze.

LUIGI GIAMPAOLINO, Presidente della Corte dei conti. Ritengo che le domande che mi sono state poste trovano una più diffusa trattazione, oserei dire, nell'atto scritto da me depositato.
Vorrei solo ricordare che vi è stata la recente sentenza n. 16 del 2011 della Corte costituzionale a proposito del Consiglio di presidenza della Corte dei conti, nel quale vi sono quattro membri di elezione della categoria dei magistrati e quattro eletti dalla Camera e dal Senato. In realtà, non è proprio una parità in quanto vi è una componente di ufficio, del Presidente, del Procuratore generale, del Presidente aggiunto, che rende maggioritaria la presenza della magistratura. Comunque, la sorte qui non interviene.
Ora, nella sentenza della Corte costituzionale questi organi (non solo questo della Corte dei conti) sono stati definiti «organi di garanzia» e, in un inciso, la Corte aggiunge: «impropriamente detti organi di autogoverno». Questa è la recente affermazione della Corte costituzionale.
Circa la separazione delle carriere, onorevole Ferranti, io ho fatto presente come l'articolo 108 della Costituzione sia del tutto tenuto fuori dal progetto costituzionale in oggetto. La Corte dei conti - è per questo che nell'intervento orale mi sono attenuto a una specifica illustrazione della posizione e della funzione della Corte - costituisce, come è stato detto in dottrina, un potere che ha in sé stesso le due funzioni di controllo e giurisdizionale. Il pubblico ministero non è altro che un magistrato della Corte che svolge tutte e due queste funzioni. Si tratta di una peculiarità dell'istituto, che addirittura rimonta a schemi preunitari, ma soprattutto è tenuto presente anche in Francia, da cui la nostra Corte dei conti ripete il modello, almeno quella più recente, mentre presso la stessa comunità europea si pensa all'istituzione, ai fini anche del controllo, di una figura analoga.
Il problema è che la Corte dei conti va vista nella sua specialità e nella sua completezza di funzioni, l'una imprescindibile dall'altra poiché il momento di chiusura è questo della giurisdizione e deve trovare, nell'ambito della stessa Corte, quindi di un magistrato procuratore generale, il momento di sintesi di tutto il sistema, che è quello della garanzia delle pubbliche risorse.
Onorevole Contento, circa la Corte di disciplina, nel documento che ho depositato, al quale rinvio, troverà una diffusa trattazione del punto. Dal momento che davanti alla Corte dei conti attualmente il procedimento di disciplina non assurge al livello giurisdizionale, ma è un procedimento essenzialmente disciplinare, personalmente non potrei che augurarmi una situazione di questo tipo, ovviamente mutatis mutandis e con tutte le problematiche che le Commissioni andranno ad affrontare e che sono anche accennate nel mio atto, ad esempio la problematica della tipizzazione degli illeciti. Naturalmente questo comporterà una configurazione peculiare della Corte di disciplina, laddove si dovesse estendere l'organo, ma ancor prima che l'organo la qualità e il livello del procedimento, che attualmente è solo amministrativo, mentre per i magistrati ordinari è di natura giurisdizionale.

CARLO FEDERICO GROSSO, Professore ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Torino. Non ho avuto il piacere di ascoltare la relazione del collega Lanzi. Avevo visto su internet che il collega sarebbe stato sentito questa mattina e ho pensato che sarebbe stato divertente, essendo sicuro che avremmo svolto considerazioni assolutamente opposte, conoscendolo da tempo ed essendo suo amico.
È anche positivo, comunque, che all'interno delle università ci siano diverse sensibilità. Il professor Lanzi, per esempio, è favorevole al sorteggio nei concorsi universitari, mentre io lo considero un abominio, l'abbandono di una scelta razionale basata sulla stima delle persone.


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Entro nel merito delle domande che mi sono state poste. L'onorevole Mantini ha affrontato il tema molto importante della particolare tenuità del fatto, che nello sviluppo del principio di inoffensività io ritengo fondamentale. Se noi inserissimo a livello costituzionale il principio di inoffensività e magari anche quello dell'irrilevanza del fatto particolarmente tenue, ciò sarebbe assolutamente positivo.
Passo al secondo punto, sempre su osservazione dell'onorevole Mantini. Esiste effettivamente una geografia criminale e i criteri di priorità non possono non tenere conto della diversa peculiarità delle situazioni. È un argomento in più per prendere le distanze dal criterio di programmazione generale che viene ipotizzato nel progetto di legge.
Sono stato chiamato solo indirettamente in causa dall'onorevole Ferranti sul tema delle deleghe in bianco. Il punto è molto delicato; in almeno tre norme il disegno di legge di riforma costituzionale rinvia alla scelta delle leggi ordinarie e non sappiamo che cosa disporranno tali leggi. Come si può emanare una riforma costituzionale in cui non vengono delineate con precisione tutte le situazioni? Dal punto di vista metodologico è un grossissimo rischio.
Non ho affrontato, per esempio, specificamente il problema, quando mi sono occupato dei rapporti tra PM e Polizia giudiziaria. Ho dato per presupposto che la legge ordinaria avrebbe risolto in una determinata maniera i rapporti, ma sarebbe bene che comunque in Costituzione venissero fissati paletti per una chiarezza della scelta costituzionale.
Sull'esercizio effettivo dell'obbligatorietà e su quale soluzione possa essere alternativa a quella prospettata è difficile rispondere, però, indubbiamente, se si vuole affrontare il problema di una scelta casuale del singolo pubblico ministero, forse alcuni criteri possono essere adottati. Indipendentemente dalla legge, proprio a Torino era stato Vladimiro Zagrebelsky ad aver proposto anni fa all'interno della procura che dirigeva alcuni criteri e lo stesso procuratore Maddalena si era dichiarato favorevole a questo tipo di scelta.
Mi sembrerebbe una strada praticabile quella di affidare alla magistratura, ai capi degli uffici, eventualmente coordinati dal CSM, la scelta generale di alcune priorità che tenga conto anche della geografia criminale. Potrebbe essere una scelta. Anche su di essa ho alcune perplessità, ma indubbiamente mi tranquillizza di più rispetto alla scelta che propone il progetto di riforma costituzionale in oggetto.
L'onorevole Contento, il relatore, mi ha posto due domande. L'individuazione dei compiti del CSM nell'attuale Costituzione focalizza certamente in modo positivo i compiti burocratici, ma non pone divieti. È questa la grossa differenza. Inoltre, nella prassi di funzionamento del CSM e attraverso una determinata legislazione si è arrivati a interpretare in un dato modo le funzioni del CSM.
C'è discussione, c'è dibattito, però il dato è questo: nell'attuale progetto si vuole porre il divieto di andare oltre i compiti burocratici. È questa la grande differenza. A me non piace questa opzione nuova e ritengo che il CSM debba e possa a pieno titolo intervenire a determinati livelli di dibattito sulle idee.
In quanto all'inamovibilità, oggi vige il principio assoluto di inamovibilità, mentre il progetto prevede una deroga. Ho già affermato che capisco le ragioni per cui questa deroga venga prevista e ritengo che siano ragioni serie. Un rischio esiste evidentemente, però credo che il tema della necessità di coprire le sedi dove non ci sono magistrati esiga comunque una riflessione e uno sforzo di attenzione. Questa parte di riforma, tutto sommato, nonostante i rischi, mi vede favorevole.

PRESIDENTE. Ringrazio, anche a nome del presidente Bruno, gli intervenuti e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta, sospesa alle 12,15, è ripresa alle 12,25.


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Audizione del dottor Raffaele Sabato, componente dell'ufficio direttivo del Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE) del Consiglio d'Europa, e dei presidenti emeriti della Corte costituzionale professor Cesare Ruperto e professor Cesare Mirabelli.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul disegno di legge C. 4275 cost. Governo, recante «Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione» e delle abbinate proposte di legge C. 199 cost. Cirielli, C. 250 cost. Bernardini, C. 1039 cost. Villecco Calipari, C. 1407 cost. Nucara, C. 1745 cost. Pecorella, C. 2053 cost. Calderisi, C. 2088 cost. Mantini, C. 2161 cost. Vitali, C. 3122 cost. Santelli, C. 3278 cost. Versace e C. 3829 cost. Contento, l'audizione del dottor Raffaele Sabato, componente dell'ufficio direttivo del Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE) del Consiglio d'Europa, e dei presidenti emeriti della Corte costituzionale professor Cesare Ruperto e professor Cesare Mirabelli.
Ringrazio anche a nome del presidente Bruno i nostri ospiti per la presenza e mi scuso per il margine ristretto di tempo con il quale abbiamo chiesto la loro disponibilità.
Do la parola al dottor Sabato.

RAFFAELE SABATO, Componente dell'ufficio direttivo del Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE) del Consiglio d'Europa. Ringrazio i presidenti della I e della II Commissione anche a nome dei componenti dell'Ufficio direttivo del Consiglio consultivo dei giudici europei, per aver voluto includere il rappresentante italiano in seno a questo organismo europeo tra i partecipanti a questa importante indagine conoscitiva.
Desidero spendere due parole di presentazione dell'organo che rappresento.
Sino a che l'Unione europea, nei limiti istituzionali che la connotano, non avvierà concrete riflessioni in materia di ordinamento giudiziario, credo sia il Consiglio d'Europa l'organizzazione internazionale che ha dettato i principali standard in materia di ordinamento giudiziario. Parlo di Consiglio d'Europa sia come organizzazione internazionale che riunisce 47 Stati con 800 milioni di cittadini sia come sistema di tutela giuridica che si ricollega, in sostanza, all'articolo 6 della Convenzione europea con la tutela giurisdizionale della Corte di Strasburgo.
Proprio in questa direzione, nel 2000, per creare un'istanza consultiva che potesse fornire pareri al Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, il Comitato dei ministri stesso istituì un Consiglio consultivo di giudici europei formato da magistrati giudicanti in servizio negli Stati membri che potesse occuparsi delle questioni relative all'indipendenza e alla professionalità dei magistrati. Analogo organismo è stato istituito nel 2005 per raggiungere finalità relative all'attività del pubblico ministero.
Tali organi hanno delle peculiarità importanti in quanto sono gli unici esistenti in un'organizzazione internazionale costituita da magistrati. Rendono pareri che hanno spesso formato oggetto di approfondimenti attraverso confronti con gli Stati membri e conferenze internazionali. I riconoscimenti ricevuti sono importanti e con una delibera del Vertice di Varsavia del 2005 i Capi di Stato e di Governo hanno assunto l'impegno di farne uso. Nel 2009 il Consiglio consultivo dei giudici europei ha ricevuto il premio «Giustizia nel mondo».
Ho menzionato in premessa questi parametri per dire che all'attività di pareri il Consiglio consultivo aggiunge un'attività di collaborazione con gli Stati membri e in questo ambito credo che si inserisca questa odierna gradita partecipazione ai lavori delle Commissioni. Il mio compito, quindi, non potrà essere altro che ripercorrere sommariamente i tratti del disegno di legge costituzionale n. 4275 del Governo all'esame delle Commissioni riunite I e II, alla luce di questi standard.
Le fonti cui dobbiamo riferirci sono state sino a poco tempo fa due: la raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa n. R(94) 12 sull'indipendenza


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ed efficienza del ruolo dei giudici del 1994 e la raccomandazione n. Rec(2000)19 del 2000 sul ruolo del pubblico ministero della giustizia penale. Queste raccomandazioni hanno la forza giuridica a esse riconosciuta dall'articolo 15, lettera b), dello Statuto del Consiglio d'Europa.
La raccomandazione del 1994 è stata recentemente sostituita dalla raccomandazione n. CM/Rec(2010) 12, approvata il 17 novembre 2010. Ho messo a disposizione delle Commissioni il relativo testo accompagnato da una mia presentazione recentemente apparsa su un periodico giuridico. Non farò altro, quindi, che ripercorrere velocemente questo testo con l'intesa che non tratterò degli argomenti relativi allo statuto del pubblico ministero, anche alla luce dell'interessante giurisprudenza della Corte di Strasburgo, alla separazione delle carriere e ai rapporti tra giustizia e polizia giudiziaria in quanto è a mia conoscenza che è calendarizzata, nell'ambito di questa indagine conoscitiva, l'audizione del mio collega, dottor Antonio Mura, omologo componente dell'ufficio direttivo del Consiglio consultivo dei procuratori europei.
I pareri del Consiglio consultivo sono stati sintetizzati recentemente in una Magna Carta dei giudici, approvata anch'essa a Strasburgo il 17 novembre. Anche di questo testo, per evitare la produzione di pareri, ho messo a disposizione delle Commissioni una traduzione italiana.
Il ruolo del Consiglio superiore della magistratura italiano costituiva un modello già per la precedente raccomandazione del 1994, che affermava «l'autorità competente in materia di selezione e carriera dei giudici dovrà essere indipendente dal governo e dall'amministrazione. Per garantire la sua indipendenza dovranno essere previste disposizioni per assicurare, per esempio, che i suoi componenti siano designati dall'ordine giudiziario e che l'autorità decida autonomamente sulle proprie norme di procedura». La medesima raccomandazione disponeva che gli Stati dovessero costituire per legge «un organo speciale competente per l'applicazione delle sanzioni e delle misure disciplinari» con pieno rispetto delle garanzie dell'articolo 6 della Convenzione europea e con possibilità di gravame dinanzi a un organo apicale della giurisdizione.
L'autorità incaricata di nominare l'organo disciplinare «potrà e dovrà» essere il medesimo organo indipendente competente per il reclutamento composto maggioritariamente da magistrati eletti democraticamente all'interno della categoria.
Nel memorandum esplicativo della nuova raccomandazione del 2010 si recepiscono i princìpi della precedente raccomandazione del 1994 e si riconosce che quella raccomandazione ha condotto alla creazione, nella maggior parte oramai degli Stati membri del Consiglio d'Europa, di Consigli superiori della magistratura competenti - cito l'articolo n. 34 del memorandum - «fra l'altro, in materia di selezione, carriera, formazione professionale, procedimenti disciplinari e management dei tribunali». Ne deriva che a questi Consigli superiori della magistratura, la cui funzione non è meramente amministrativa, ma «di garantire l'indipendenza della magistratura e del singolo giudice», la raccomandazione dedica un intero capitolo, il capitolo IV.
Con queste norme, quindi, la raccomandazione tende all'incremento delle garanzie in essere negli Stati membri tanto da essere preceduta da un considerando che espressamente indica l'impossibilità di utilizzare le norme della raccomandazione per diminuire maggiori garanzie eventualmente esistenti.
La raccomandazione è ispirata a un principio, quello che l'esistenza dei Consigli superiori non è di per sé una garanzia di indipendenza in difetto di norme che regolino la loro composizione assicurando che i magistrati non siano minoranza e siano scelti da parte dei loro colleghi nel rispetto del pluralismo.
Una prima riserva, quindi, che forse, in paragone rispetto a questi standard, può muoversi al testo dell'articolo 105 della Costituzione che è proposto dal testo del disegno di legge del Governo, deriva dal fatto che il nuovo testo vorrebbe attribuire al CSM funzione di carattere amministrativo. Così è detto esplicitamente nella relazione


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di accompagnamento, addirittura vietandosi al Consiglio di esercitare - è questo il testo della norma - «funzioni diverse da quelle previste dalla Costituzione». La norma, a mio parere, va contro l'impianto complessivo della raccomandazione, che sostanzialmente configura il CSM come un organo di garanzia dell'indipendenza dei magistrati e non di semplice amministrazione.
Da questo riconoscimento deriva che ai Consigli superiori spettano dei cosiddetti inherent power, dei poteri cioè coessenziali al ruolo da svolgere nell'ordinamento. In particolare, richiamando l'elaborazione del Consiglio consultivo e l'esperienza di cooperazione bilaterale internazionale, la raccomandazione, all'articolo 8, afferma che «quando i giudici ritengono che la loro indipendenza sia minacciata, debbono essere in grado di poter ricorrere al Consiglio superiore della magistratura o altra autorità indipendente, o devono disporre di strumenti impugnatori effettivi», ciò che conferma a livello internazionale l'inherent power dei Consigli superiori nazionali di occuparsi di quelle che in Italia definiamo «pratiche a tutela».
Poiché il relativo potere non è attribuito ad altro organo nel disegno di legge costituzionale, l'alternativa sarebbe quella di applicare l'ultima frase della norma che ho citato - «disporre di strumenti impugnatori effettivi» - per prefigurare solo rimedi giurisdizionali.
Un altro inherent power deve essere riconosciuto nella formazione dei magistrati, come abbiamo detto, o almeno nella supervisione di un istituto autonomo di formazione, una scuola della magistratura, rispetto al quale, secondo l'assetto preferibile (richiamo l'articolo 57 della raccomandazione), il CSM deve esercitare funzioni di supervisione, essendo esclusa la competenza del Ministero della giustizia o di altre autorità politiche. Questo in quanto la formazione deve essere riguardata come strumento per l'indipendente esercizio della giurisdizione.
Anche da questo punto di vista, il nuovo articolo 105 della Costituzione sembrerebbe disallineato rispetto al modello. L'acquis del Consiglio d'Europa non necessita ma neppure sconsiglia - qui bisogna essere precisi - che il CSM accentri in sé la funzione disciplinare e, comunque, i princìpi che ho citato prevedono che l'organo disciplinare emani dall'autogoverno o, in alternativa, sia un organo inserito nella giurisdizione ordinaria.
Da questo punto di vista, anche il nuovo articolo 105-bis della Costituzione, che prefigura una Corte di disciplina di promanazione elettiva, per metà di elezione parlamentare, avulsa sia dall'autogoverno che dal sistema di giustizia ordinaria, sembra disallineato.
Non posso soffermarmi - ma ho messo a disposizione un testo scritto che potrò eventualmente integrare - sulla delicatezza di alcuni profili relativi al procedimento disciplinare. Mi limito soltanto a richiamare oralmente che il proposto ultimo comma dell'articolo 105-bis della Costituzione, introdotto dal disegno di legge, limiterebbe l'impugnazione delle decisioni della nuova Corte disciplinare a soli motivi di legittimità, ciò a differenza dell'attuale articolo 24 del decreto legislativo n. 109 del 2006, che invece prevede l'impugnazione in Cassazione con le forme del ricorso in Cassazione previste dal codice di procedura penale.
Anche questa limitazione, che sostanzialmente prevede un solo ricorso di legittimità di fronte a un giudizio che è già in unico grado, pare in contrasto con il paragrafo 69 della raccomandazione del 2010 che, al pari della precedente raccomandazione del 1994, prevede il pieno diritto di impugnare, senza irragionevoli limitazioni. Cito, poi, in nota al testo scritto che ho consegnato alla presidenza, una serie di altri testi secondari che affermano la stessa cosa.
Analoghe riserve mi sembra di poter formulare sulla volontà, in questo testo, di eliminare la funzione attualmente prevista dall'articolo 10 della legge del 1958 sul Consiglio superiore della magistratura di fornire pareri sui disegni di legge concernenti l'ordinamento giudiziario e altri oggetti attinenti. A questo riguardo vorrei richiamare la norma del paragrafo 9 della Magna Carta


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secondo cui la magistratura deve essere coinvolta in tutte le decisioni che si riflettono sull'esercizio delle funzioni giudiziarie, decisioni tra cui è ricompresa effettivamente anche - e cito - «la legislazione». In estrema sintesi, a differenza di quello che si propone con il disegno di legge costituzionale del Governo italiano, il modello europeo di CSM è quello di un organo a competenza ampia - e le due parole «competenza ampia» figurano nella rubrica di uno dei testi che ho messo a disposizione delle Commissioni - addirittura estesa a questioni organizzative e di bilancio della giustizia come nell'esperienza di alcuni Paesi del nord Europa.
Non mi soffermo sulle questioni di dettaglio relative a struttura e composizione del Consiglio superiore della magistratura già trattate e da trattare da parte di autorevoli giuristi. La scissione in tre nuovi organi - CSM giudicante, CSM requirente e Corte di disciplina - che si ricollega per volontà del legislatore alla netta separazione delle carriere, cui pure il disegno di legge costituzionale tende, rende comunque evidente, e ciò colpisce, che il nodo cruciale sembra rinvenirsi nel fatto che la componente elettiva di magistrati è estremamente ridotta, addirittura ricorrendosi al computo dei capi di corte, membri di diritto, per sostenere che la maggioranza dei componenti sia comunque dei magistrati.
La raccomandazione del 2010, le cui disposizioni, come detto, non possono essere invocate in peius, chiarisce che l'esistenza dei Consigli superiori non è garanzia da sola di indipendenza e che sono necessarie norme sulla composizione, chiarisce inoltre che sono eleggibili al CSM anche pubblici ministeri negli ordinamenti in cui il pubblico ministero ha uno statuto simile a quello del giudice; quindi, a mio avviso, induce a ritenere che la proposta scissione del CSM in due, pur essendo attestata dalla prassi costituzionale di qualche Paese europeo - ove però vi è netta differenziazione di statuto tra pubblico ministero e giudice - sembra poco confacente al nostro Paese in cui tale differenziazione non sussiste e non viene introdotta.
Quanto alla composizione, la Magna Carta, al paragrafo 13, prevede un concetto di autogoverno in senso stretto, in conformità non alle tradizioni di diritto continentale, ma in conformità alle tradizioni di common law, secondo cui - e cito - «il Consiglio deve essere composto... esclusivamente di magistrati». Quindi, siamo a un livello superiore rispetto alla raccomandazione di provenienza del Comitato dei ministri che, invece, come detto, prevede una rappresentanza sostanziale di magistrati.
Gli standard europei, d'altro lato, non si nascondono le «attese dei cittadini relative alla depoliticizzazione dei Consigli superiori della magistratura». Questa citazione proviene da un parere del Consiglio consultivo dei giudici europei. Tuttavia, questi standard esprimono preferenza, piuttosto che per l'eliminazione del metodo elettivo, per interventi che regolino le modalità di campagna elettorale, le quali soltanto possono menomare la fiducia del pubblico nella giustizia.
Negli standard stessi, comunque, compare in verità la tecnica dell'estrazione a sorte, ma da contemperare con un'adeguata rappresentanza anche territoriale. Va detto, però, sempre senza nascondersi le attese dei cittadini, che gli standard europei ostano parimenti anche alla designazione di componenti non togati dei CSM da parte di autorità politiche. Si auspica la designazione da parte di autorità imparziali e, qualora comunque si tratti di nomine parlamentari, che esse concernano non parlamentari e siano effettuate a forte maggioranza qualificata. Si prende atto, dunque, del problema della depoliticizzazione a tutto tondo.
Avviandomi alla conclusione, mi restano da trattare due o tre questioni di dettaglio. Per quanto concerne il nuovo testo dell'articolo 106 della Costituzione, che amplierebbe la nomina elettiva dei giudici, bisogna riconoscere che questo sistema di nomina, al di là di pochissime eccezioni, non è attestato dalla prassi europea ed è sconfessato dai paragrafi 44


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e seguenti della raccomandazione del 2010, che sostiene con chiarezza il sistema della selezione per merito sotto la supervisione dell'organo di autogoverno. Il parere numero uno si diffonde - io non posso qui richiamare tali ragioni - sulle ragioni che ostano, in base alle regole dello stato di diritto, a nomina su base politica.
Quanto al nuovo testo dell'articolo 107 della Costituzione, credo possiamo innanzitutto prescindere dall'esame del se o meno l'aggiunta al primo comma costituisca, come si dice nella scheda illustrativa, una deroga o un'eccezione alla preesistente parte del primo comma, nel senso che, per ragioni organizzative sarebbe consentita la mobilità giudiziaria. La tesi ovviamente sottostante a chi configura un'eccezione in questa proposta nuova norma è che rispetto a trasferimenti per ragioni organizzative si immagina che il giudice non possa fruire delle garanzie di difesa che pur sono contenute nella prima parte del primo comma.
Debbo richiamare che la raccomandazione - lo ripeto, testo con valenza giuridica, seppure di soft law - al paragrafo 52 espressamente chiarisce che ogni trasferimento debba avvenire (cito) «o con il consenso del giudice o per sanzione disciplinare o in seguito a riforma organizzativa del sistema» - e sottolineo la parola sistema - «giudiziario». Quindi si immagina la possibilità di grandi riforme e grandi ristrutturazioni degli uffici. Tuttavia, vi sono precisi princìpi che anche in questa materia riconoscono che i provvedimenti di trasferimento, al pari di tutti i provvedimenti del CSM, debbano essere sottoposti a impugnazione in sede di giustizia.
Per quanto concerne, nel nuovo testo dell'articolo 110, la previsione della riserva al Ministro della giustizia della funzione ispettiva, debbo dire che in materia non esistono princìpi codificati, nel senso che nei testi del Consiglio d'Europa non troviamo norme, in quanto la relativa sezione del Piano d'azione globale per la giustizia non è stata ancora sviluppata. Tuttavia, il tema degli ispettorati vi figura, per cui non è da escludersi che nei prossimi anni si sviluppino princìpi in questo settore, princìpi che in questo momento vanno ripresi dalla cooperazione multilaterale e bilaterale che il Consiglio d'Europa attua. Nell'ambito di questa cooperazione, nel testo che ho sottoposto all'attenzione delle Commissioni, è richiamato che in alcuni Paesi addirittura i Consigli superiori della magistratura hanno costituito e intendono costituire propri ispettorati, come esigenza di conoscenza dei fenomeni parallela ed eventualmente contraddittoria rispetto a una diversa conoscenza che possa essere acquisita dal ministero.
Qualora della costituzionalizzazione della funzione ispettiva si volesse dare una lettura, che non credo sia possibile, secondo la quale essa sia solo strettamente funzionale all'esercizio dei poteri ministeriali - ciò che in Italia oggi non è, in quanto in base all'articolo 8 della legge n. 195 del 1958 il CSM stesso si avvale dell'ispettorato presso il Ministero della giustizia, che è composto di magistrati - direi che non è immaginabile un sistema nel quale le competenze ispettive rientrino o siano funzionali esclusivamente all'esercizio dei poteri ministeriali. Il CSM italiano, a tal uopo, già con una risoluzione del 18 novembre 1995 invocava la costituzione, per legge, di un proprio ispettorato.
L'ultima notazione che mi permetto di sottoporre riguarda il nuovo articolo 113-bis della Costituzione, laddove si vorrebbe stabilire una responsabilità civile diretta dei magistrati. Sottopongo all'attenzione delle Commissioni sia gli standard minimali che sono quelli di emanazione del Comitato dei ministri, di matrice governativa, del Consiglio d'Europa, sia gli standard ulteriori dettati come standard giudiziari. Secondo gli standard minimali, nella raccomandazione del 2010 è detto - articolo 67 - che la responsabilità civile del giudice può essere accertata solo da un tribunale e (cito) «solo su rivalsa dello Stato preventivamente convenuto dal cittadino cui sia stata concessa una riparazione».
A mente dalla Magna Carta dei giudici - standard ulteriore - cito «il rimedio agli errori giudiziari deve essere individuato in un adeguato sistema di impugnazioni. Qualsiasi rimedio per le altre disfunzioni


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della giustizia dà luogo esclusivamente a responsabilità dello Stato. Non compete al giudice, eccetto che in caso di dolo, l'essere esposto a qualsiasi responsabilità personale e ciò neppure a seguito di rivalsa dello Stato». Quindi si può vedere che nella Magna Carta sostanzialmente è immaginata una sorta di immunità simile a quella di cui usufruiscono i giudici di alcuni Stati europei di common law o nuove democrazie in cui i giudici fruiscono di ampie prerogative di immunità.
Quanto alla prassi, io direi che questa norma, a differenza delle altre, rappresenterebbe un unicum nel panorama della giustizia europea, in quanto una responsabilità civile diretta sostanzialmente non è attestata. È forse il caso di chiarire, ma sicuramente sarà stato già chiarito - ricordo che anche il CSM su questa materia ha fornito un parere su uno dei disegni di legge in materia di responsabilità civile dei giudici - che le sentenze della Corte di giustizia del Lussemburgo Köbler e Traghetti del Mediterraneo, che spesso vengono richiamate per dire che è la Corte del Lussemburgo a volere che si risponda per gli errori giudiziari, se correttamente lette significano che lo Stato risponde dell'errore giudiziario, senza che le sentenze trattino in alcun modo di come l'eventuale condanna dello Stato possa o debba poi essere ribaltata sul singolo giudice in errore.

PRESIDENTE. Nel dare la parola al professor Cesare Ruperto, presidente emerito della Corte costituzionale, ricordo che, a prescindere dalle relazioni, gli auditi potranno integrare i loro interventi rispondendo alle domande che saranno loro rivolte da parte dei commissari.

CESARE RUPERTO, Presidente emerito della Corte costituzionale. Se il presidente lo consente, preferirei intervenire in seguito per rispondere alle domande e alle osservazioni poste dai componenti delle Commissioni.

PRESIDENTE. La presidenza lo consente. Do la parola al professor Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale.

CESARE MIRABELLI, Presidente emerito della Corte costituzionale. Ringrazio innanzitutto per l'invito ad essere ascoltato in un luogo che è rappresentativo della sovranità popolare. Ringrazio i Presidenti e i componenti delle Commissioni per l'attenzione che possono dedicare al mio intervento.
Svolgerò poche osservazioni, spero con adeguata sintesi, ovviamente come manifestazione di opinione personale. Può apparire banale, ma iniziando dalla stessa intitolazione che il disegno di legge del Governo attribuisce alla parte di Costituzione che viene toccata; si passa dalla «magistratura» alla «giustizia» e dall'«ordinamento giurisdizionale» agli «organi» e alla «giurisdizione» (in questo caso mantenendo la precedente dizione).
A me pare che questo sia un allargamento del campo. È una visione più ampia rispetto alla quale spero che non sia considerata eccentrica questa considerazione. Se si va al di là dell'aspetto nominalistico, forse vi è l'opportunità di inserire una norma che riguardi complessivamente gli attori della giurisdizione e ne integri la indicazione, una norma cioè riferita all'avvocatura. Osservo che in altre proposte di legge all'esame delle Commissioni è presente questa indicazione, dunque mi permetterei di segnalare una formula più sobria e forse più incisiva (non oso dire più esatta): «L'avvocatura libera e indipendente assicura la difesa nel processo essenziale per l'esercizio della funzione giurisdizionale». Anche in altre Costituzioni, soprattutto in quelle di ispirazione lusitana, è presente questa dizione e talvolta come riconoscimento del ruolo svolto dall'avvocatura nella difesa dei diritti in periodi nei quali si manifestava un autoritarismo di Stato.
Segnalo anche che in alcune Costituzioni è presente una menzione dell'avvocatura pubblica, non per interferire o per disciplinare l'assetto organizzativo e istituzionale di questo settore, ma per sottolineare che la giurisdizione esiste laddove esiste anche una difesa, ossia una difesa tecnica.


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Illustro ora un criterio con il quale si può giungere a modificazioni costituzionali, un criterio anch'esso opinabile, ma che a me pare opportuno. Si tratta di verificare se sia necessaria la revisione costituzionale per raggiungere gli obiettivi che le scelte politiche intendono perseguire. Laddove la Costituzione vigente consente, nella latitudine delle sue espressioni, una normativa ordinaria che rispecchi gli indirizzi politici di fondo che si vogliono assumere, a me parrebbe buon criterio mantenersi nell'ambito della legge ordinaria e non della revisione costituzionale.
Sollevo questo aspetto perché uno dei punti forti della riforma che viene prospettata, quello della separazione delle carriere, è, a mio giudizio, un elemento che può essere attuato nel sistema, indipendentemente da una modifica costituzionale, ma naturalmente con l'attribuzione delle garanzie previste dall'attuale disciplina costituzionale, tra cui l'indipendenza del pubblico ministero. Sono elementi di garanzia che derivano, da una parte, dall'osservanza dei princìpi supremi dell'ordinamento costituzionale, in qualche misura sottratti anche al potere di revisione, e, dall'altra, dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati europei.
Ho sentito alcuni accenni nella relazione di chi mi ha preceduto, orientati più al Consiglio d'Europa che non all'Unione europea, ma vi è un'identità di indirizzi in questo senso, cioè quello di assicurare fortemente ed essenzialmente la garanzia dell'indipendenza degli apparati di giurisdizione. Uso questo termine, in parte inappropriato, a garanzia dell'imparzialità del giudice e del giudizio e, quindi, anche degli attori che in esso compaiono.
La separazione delle carriere può essere attuata con modulazioni diverse e non richiede una revisione della Costituzione. Potrebbe essere addirittura opportuna per semplificare le linee di accesso alla magistratura e valorizzare differenze di professionalità che possono essere richieste e verificate nell'accesso alla carriera.
Segnalo anche, che forse sotto questo aspetto, se si mantiene una separazione di carriere, ma insieme un'identità di corpo della magistratura, può apparire una superfetazione la distinzione del Consiglio superiore della Magistratura in due Consigli distinti. La moltiplicazione di enti senza necessità è un elemento che forse va tenuto presente, entrando duplicazioni.
Del resto, la rappresentanza o rappresentatività dei diversi corpi della magistratura può essere distinta all'interno del Consiglio. Come elemento di mera opportunità da valutare segnalo se l'esistenza di un Consiglio separato per i pubblici ministeri non finisca per avere un effetto non voluto di accentuazione di un elemento di sottocorporazione che riguardi questa categoria di magistrati e, quindi, di una visione comune, con l'esclusione della possibilità di verifica anche di chi esercita la giurisdizione delle professionalità, della carriera, delle promozioni e dell'attribuzione di funzioni direttive a componenti che fanno parte della carriera del pubblico ministero.
Per quanto riguarda il sistema elettorale, l'ipotesi che viene formulata a livello costituzionale è quella del sorteggio degli eleggibili ai fini delle votazioni. Anche questo elemento può trovare spazio in una legge ordinaria. Irrigidirlo in una norma costituzionale a me sembra eccessivo rispetto all'obiettivo che si vuole raggiungere e che sembrerebbe evidente, ossia quello di superare un assetto orientato su aggregazioni di corrente attraverso uno strumento elettorale che scardini nelle candidature tale meccanismo.
Ripeto che la scelta dei sistemi elettorali è aperta alla legislazione ordinaria. Si sono avute successioni di norme anche in questo ambito dettate dal legislatore ordinario che potrebbe nuovamente intervenire su questa strada, anche più incisivamente e compiutamente.
Una diversa considerazione, invece, ritengo di svolgere riguardo alla Corte di disciplina. Se si ritiene di sganciarla dalla funzione amministrativa del Consiglio superiore della magistratura, superando anche alcuni elementi di difficoltà che si sono palesati talvolta nei procedimenti che hanno prima origine nella fase amministrativa e poi uno sbocco, spesso con


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fattispecie analoghe, nella fase della giurisdizione disciplinare, la costituzione di un'apposita Corte di disciplina separata dal Consiglio superiore può avere un senso e un significato apprezzabili.
Anche in questo caso porrei un dubbio e un elemento di riflessione, ovvero se non sia opportuna una Corte di disciplina per le magistrature, per le giurisdizioni, che, da una parte, unifichi competenze che sono attribuite anche a diversi Consigli delle differenti magistrature e, dall'altra, introduca nella valutazione la presenza di elementi esterni rispetto a una specifica corporazione.
Per quanto riguarda il trasferimento per esigenze di servizio, mi permetterei di esprimere un'opinione che può apparire parzialmente diversa da quelle che ho potuto ascoltare nel precedente intervento. Ritengo che il principio di inamovibilità sia una delle maggiori garanzie e un presidio assoluto individuale per ciascun giudice anche nei confronti dell'organo che ne amministra la carriera e i trasferimenti, ma ritengo anche che la garanzia non possa tradursi in un privilegio assoluto.
Qualora vi siano forti esigenze di servizio dovrebbe essere possibile procedere con opportune garanzie al trasferimento o all'attribuzione di altre funzioni di grado diverso, dovendo soddisfare necessità organizzative oggettive. Le strozzature nella dotazione di personale che si verificano nelle Corti d'appello rispetto ai tribunali possono imporre anche interventi di questo tipo.
Anche su questo punto mi permetto di richiamare l'attenzione sul fatto che la legge ordinaria, indipendentemente da una modifica costituzionale, a mio avviso, consentirebbe di articolare le esigenze per le quali, con le garanzie necessarie ed appropriate, il Consiglio superiore della magistratura debba provvedere, per un'esigenza di servizio che possa essere manifestata, promossa e richiesta dal Ministro responsabile dell'andamento complessivo della giustizia; si tratta di una materia che a mio avviso il legislatore ordinario potrebbe agevolmente disciplinare.
Segnalo anche in questo caso un rischio, un'attenzione da avere rispetto alla tendenza a rinunciare alla legge. È frequente che il rinvio alla legge avvenga in alcuni casi in maniera tale da rimettere al legislatore la disciplina di settore non possa apparire una sorta di decostituzionalizzazione delle garanzie. Lo rilevo quale che possa essere poi la valutazione da dare nel merito, per quanto riguarda i criteri di esercizio dell'azione penale e per un altro nodo che appare critico, quello del rapporto con la Polizia giudiziaria, che non dipenderebbe più dal giudice o dal pubblico ministero.
Sono due aspetti nei quali il rinvio alla legge pone problemi dal punto di vista delle fonti e, quindi, sotto questo aspetto comporta una decostituzionalizzazione implicita ed elementi che possono essere, invece, di carattere sostanziale. L'adozione di criteri impone scelte di ragionevolezza, può essere ambulatoria nel tempo, può significare la scopertura di aree dalla penalità (nel perseguire questo obiettivo sarebbe più opportuno procedere a una sostanziale e forte depenalizzazione) e questo può finire con l'incidere sul principio di eguaglianza qualora in determinate aree del Paese o in determinati contesti vi sia la persecuzione di determinati reati e in altre aree no.
Comprendo anche le ragioni che possono portare a manifestare l'esigenza che non ci sia una discrezionalità implicita di fatto, determinata dall'impossibilità di perseguire tutti i reati ed affidata a scelte soggettive o di ciascun pubblico ministero, o di ciascun ufficio del pubblico ministero, ma non mi pare questo il rimedio appropriato.
Segnalo, infine, un punto di attenzione che a me pare manifesti una lacuna ed è quello relativo ai poteri del Ministro. La dizione della Costituzione generica e residuale mi pare diventata nel tempo esangue perché, in relazione al Consiglio superiore della magistratura, che ha svolto sempre un'opera meritoria non solo di garanzia dell'indipendenza della magistratura, ma anche di cooperazione nell'organizzazione - formulo, dunque, quest'osservazione con


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delicatezza e rispetto e che ha introdotto la categoria dell'organizzazione della giurisdizione come elemento distinto e diverso dall'organizzazione di servizi, che ha reso incerta l'azione dei confini con i poteri del Ministro; sono state, talvolta, rese dubbie e grigie le aree nelle quali si esercita il potere paranormativo regolamentare che pure il Consiglio ha. Mi pare possa essere precisato il punto di equilibrio nei rapporti tra Ministro responsabile dell'organizzazione e Consiglio superiore. Mi chiedo, allora, se non possa essere approfondita e adeguata la specificazione dei poteri che spettano al Ministro, il quale altrimenti ha una responsabilità rispetto a strumenti che non è in grado di mettere in campo.
Questo riguarda anche un altro elemento, che consiste nella facoltà oggi prevista di promuovere l'azione disciplinare. Mi chiedo se a questa facoltà non si possa o non si debba accompagnare anche l'esercizio dell'azione disciplinare che, altrimenti, è esclusivamente rimesso all'attività di indagine, di istruttoria e di effettivo sostegno in giudizio da parte del procuratore generale della Cassazione. Se esiste questa diarchia nella titolarità dell'azione disciplinare, per legge imputata al procuratore generale senza previsione costituzionale, ma la cui titolarità costituzionale spetta al Ministro, a me pare che questi dovrebbe avere la libertà di governo degli strumenti attraverso i quali l'azione viene a essere concretamente esercitata.
Per quel che riguarda la funzione ispettiva, viene inserita nella Costituzione, e anche in questo caso tale funzione era già prevista dalla legge. A mio giudizio un'attenzione a tutto campo dovrebbe essere data, proprio per quello che riguarda i servizi relativi all'organizzazione e al funzionamento della giustizia, a quali sono i poteri del Ministro e quali di questi poteri si combinano con il Consiglio superiore. Mi pare che ci sia un'estensione di letture e di precisazioni per quello che riguarda la magistratura e il Consiglio superiore, ma anche che sia un po' rattrappita la definizione dei poteri del Ministro.
Ora, il nostro è un modello organizzato in settori che costituiscono insiemi; in altri modelli ciascun organo di giurisdizione si autoamministra e non esiste se non in funzione di parziali garanzie, una strutturazione centrale per cui anche le risorse sono affidate al potere di gestione e alla responsabilità di ciascuna Corte. Così non è nel nostro sistema e bisognerebbe trarne le conseguenze coerenti.
Da parte mia rimango disponibile a rispondere a ogni domanda che potrà essere posta, sperando di essere stato sufficientemente chiaro.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendono porre quesiti o formulare osservazioni.

MANLIO CONTENTO. Avrei bisogno soltanto di un chiarimento in relazione alla composizione del Consiglio consultivo dei giudici europei del Consiglio d'Europa. Confesso che non conosco come vengono designate le rappresentanze all'interno di questo Consiglio, e quindi mi sembrava opportuno chiedere al dottor Sabato se poteva renderci edotti sotto questo profilo. Ho l'impressione, ma potrei sbagliarmi, che sia una composizione che in molte parti è di provenienza degli stessi Consigli superiori della magistratura.

PRESIDENTE. Volevo porre io una domanda al presidente Ruperto. Presidente, questa all'esame delle Commissioni è una riforma, ovviamente, di ampio respiro, che interviene su tantissimi temi; vorrei chiedere qual è la sua opinione rispetto ai punti che ritiene più significativi del progetto di riforma in materia, ad esempio di separazione delle carriere oppure se c'è qualche altro punto qualificante sul quale vuole soffermare la sua attenzione, quali l'obbligatorietà dell'azione penale oppure la modifica del CSM. Scelga pure lei su cosa vuole intervenire.

CESARE RUPERTO, Presidente emerito della Corte costituzionale. Molti suggerimenti provenienti dai due colleghi che mi hanno preceduto - ricordo che anche il


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professor Mirabelli da giovane è stato magistrato - mi sembrano ragionevoli e mi trovano concorde. Direi, quasi tutti quelli del professor Mirabelli, il quale mi ha preceduto nella presidenza della Corte costituzionale. E solo qualcuno del dottor Sabato, il quale ha svolto certamente una magistrale relazione ma con una visione del nostro sistema giudiziario assai differente dalla mia, e non solo perché fin troppo europeistica. Io percepisco la realtà, anche per la mia età e per i 53 anni di esperienza con la toga di giudice addosso, in modo alquanto diverso, e sento di dover dire che, complessivamente, vedo in una luce favorevole questo disegno di legge costituzionale, al contrario di molti altri miei colleghi. Ma non posso non sottolineare - concordando con loro - che si tratta di un progetto elefantiaco quanto caotico, nato e portato avanti sotto l'evidente egida della fretta, che si esprime anche - mi si passi l'espressione - in una certa «rozzezza» dell'articolato. Per cui, comunque, ne andrebbe innanzitutto ristrutturata l'articolazione. A tale riguardo mi permetterò di dare qualche modesto suggerimento, anche onde eliminare i bis e i ter di alcuni articoli, che in una Costituzione così elegante come la nostra, ammirata in tutto il mondo per la sua forma curata, non stanno davvero bene.
Il primo bis che eliminerei è quello figurante nell'articolo 14, con cui viene inserita la «sezione II-bis», sulla responsabilità dei magistrati, contenente il solo articolo 113-bis. Trattasi infatti, secondo me, di materia da riservare al legislatore ordinario, perché la norma costituzionale che sancisce la responsabilità diretta esiste già: è l'articolo 28 della Costituzione, applicabile anche agli uffici giudiziari, come sembra pacifico dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 2 del 1968. Mi spiace per il collega che mi ha preceduto, secondo cui nessuno degli Stati europei prevede la responsabilità diretta dei magistrati. Ma - a parte che qualcuno, come la Spagna, invece la prevede, e a parte ogni discussione sulla sua meritevolezza - in Italia il principio è stato opportunamente introdotto dai padri costituenti e dunque non ha bisogno di altre affermazioni costituzionali. La sua attuazione, ripeto, va riservata al legislatore ordinario, che del resto è già intervenuto nel 1988. Se poi, come anch'io credo, l'intervento si è dimostrato inadeguato, non resta che rifare la legge n. 117, seguìta, - come ben noto - ad un referendum popolare. Nel qual caso, occorrerà tener presente la già citata sentenza della nostra Corte, dove si sottolinea che l'attività dei magistrati è essenzialmente diversa da quella degli altri dipendenti dello Stato. E, naturalmente, non si potranno ignorare neppure le due istruttive decisioni pronunciate dalla Corte di giustizia europea nel 2003, la Köbler e la Traghetti mediterranei. Che molti hanno anche qui citato, ma alcuni dimostrando di non averle lette attentamente, perché in realtà esse non obliterano il concetto di colpa grave quale parametro per la responsabilità, ma dicono che va valutata dai giudicanti in un quadro ampio e, comunque, va affermata, quando si riscontri una «manifesta violazione del diritto». Da tener presente è anche - io credo - la norma dettata dal codice civile, mi pare nell'articolo 2236, a proposito della responsabilità dei professionisti intellettuali, che rispondono solo in caso di dolo o colpa grave, quando la loro prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà.
Un altro bis che dovrebbe essere soppresso, è quello relativo alla norma inserita dall'articolo 7 del progetto dopo l'articolo 109 della Costituzione, istitutiva della Corte di disciplina della magistratura. A mio avviso, una tale istituzione sarebbe sacrosanta, perché giustifico - e mi scuso col collega Mirabelli - quanti ritengono insopportabile una giurisdizione domestica con riguardo alle infrazioni disciplinari dei magistrati, oggi sottoposte al giudizio degli stessi loro colleghi, i quali hanno una prevalenza schiacciante nell'attuale CSM. Anche se poi, nel merito, questi non sbagliano più di altri, come forse avrà potuto constatare lo stesso mio caro amico Mirabelli quando era vicepresidente di tale organo.


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Ma, tutto ciò precisato, non mi sembra sia necessario, e nemmeno opportuno, che una tale Corte venga regolata a livello costituzionale. Sul piano costituzionale, basta sottrarre alle competenze del CSM, come oggi previste dall'articolo 105, i provvedimenti disciplinari: il che è stato già fatto con l'articolo 6 del progetto. Poi, potrà essere il legislatore ordinario a istituire codesta Corte, disciplinandola quanto alla sua organizzazione, alle guarentigie dei suoi componenti nonché al procedimento davanti ad essa. Se invece si volesse comunque conservare alla nuova disposizione il livello costituzionale, allora riterrei che essa dovrebbe trovare sede dopo il secondo comma dell'articolo 107 della Costituzione quale attualmente strutturato.
Un altro punto su cui non concordo con i colleghi che mi hanno preceduto, è quello relativo alla separazione delle carriere: dizione, peraltro, a mio avviso sbagliata, perché in realtà si tratta piuttosto di separazione dei «ruoli». Sistema che, del resto, è rimasto a lungo vigente in Italia: dall'ordinamento giudiziario del 1865 sino a quello del 1941, infatti, i pubblici ministeri rimasero collocati in un ruolo separato da quello dei giudici. E sino al r.d.l. n. 511 del 1946, sulle guarentigie della Magistratura, furono anche alle dipendenze del Ministro Guardasigilli: quando entrai io in Magistratura, nel 1950, ancora si avvertivano i riflessi psicologici di tale provvedimento legislativo.
Ma su questo ed altri punti del progetto ho cercato sommessamente di sottoporre a codeste Commissioni alcuni suggerimenti, nell'esame articolo per articolo del progetto medesimo, secondo uno schema che, se me lo consentono gli onorevoli Presidenti, vorrei ora passare ad illustrare.
Comincio dall'articolo 1, che contiene due commi. Nulla da dire sul comma 1, coerente con la modifica del CSM, ove si insistesse sullo sdoppiamento di questo. Quanto al comma 2, che cambia la rubrica sia del Titolo IV sia delle due sezioni che lo compongono, concordo pienamente con la sostituzione del termine «Magistratura» in «Giustizia», anche se in tal modo viene rotta la simmetria con le rubriche dei titoli precedenti (Parlamento, Governo e via dicendo). Il termine «Giustizia» mi piace moltissimo. E non solo perché, come è noto, venne usato dall'ammiratissima Costituzione di Weimar, ma anche perché esprime in modo bello e solenne il fine della funzione dei magistrati; mentre la parola «Magistratura» si riferisce unicamente all'insieme di essi. Mi permetto invece di dissentire sulla modificazione della rubrica delle due singole sezioni e con quanto ha affermato - mi par di aver letto - il relatore on. Pecorella, secondo cui il mutamento ne sarebbe consequenziale. Io non ravviso tale consequenzialità, perché non scorgo il nesso necessario; e ritengo, inoltre, tecnicamente più precise e concludenti le attuali rubriche. Quindi, nel comma 2 lascerei la lettera a) e leverei le lettere b) e c).
Passo ora all'esame dei due successivi articoli, che mi sembrano strettamente collegati fra loro.
L'articolo 2 sostituisce il secondo comma dell'articolo 101 della Costituzione, disponendo che «I giudici costituiscono un ordine autonomo e indipendente da ogni potere e sono soggetti soltanto alla legge». Quali le novità? Si trasferisce nell'articolo 101 il primo comma dell'articolo 104, facendo riferimento non più alla «magistratura» bensì alla sola categoria dei «giudici». E poi, si sopprime l'aggettivo «altro», evidentemente al fine di impedire che si possa riconoscere la qualità di «potere» all'ordine stesso dei giudici: ciò che, secondo me, non va bene. Io, senza con ciò voler tradire le finalità della riforma - e semmai al fine, anche, di eliminare i diffusi sospetti che questa venga fatta in odio ai magistrati - manterrei inalterata la formula «ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere». Lasciando così alla dottrina di continuare a discettare sul problema, già oggetto di discussione nell'Assemblea costituente, se tale ordine sia o non sia un potere e, prima ancora, se i padri costituenti abbiano realmente aderito alla teoria classica della divisione dei poteri, o se invece - come personalmente ritengo con i più - nella Costituzione, piuttosto che tre


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poteri, siano ravvisabili una pluralità di poteri. È poi superfluo precisare che qui si tratta della sola indipendenza istituzionale, perché l'indipendenza funzionale è sancita già con la formula «I giudici sono soggetti soltanto alla legge», usata nel secondo comma dell'attuale articolo 101.
In definitiva, allora, io sommessamente proporrei di stralciare sì dal primo comma dell'attuale articolo 101 la porzione di testo che il disegno di legge lega al secondo comma dell'attuale articolo 101; ma di collocarla nel primo comma dell'articolo 102, combinandola con la formula attualmente figurante in questa. La quale, perciò, finirebbe col suonare così: «La funzione giurisdizionale precedente dizione inutilmente sostituita dal progetto con "giurisdizione" è esercitata da giudici ordinari istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario, i quali costituiscono un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere».
Se si accettasse questo suggerimento - su cui comunque pregherei le Commissioni riunite di riflettere - l'attuale articolo 104, amputato del suo primo comma, potrebbe acquisire l'intero contenuto degli articoli 104-bis e 104-ter - inseriti dall'articolo 5 del disegno di legge - fusi tra loro in un testo equivalente a quello attualmente previsto, ma tenendo conto delle novità strutturali del CSM. Al qual proposito io sono dello stesso parere del professor Mirabelli. Infatti, mi sembra inutile e anzi nocivo, per gli esiti che potrebbe avere, il proposto sdoppiamento dell'organismo. Anche a me sembra che l'istituzione di un doppio Consiglio Superiore non sia necessariamente consequenziale alla separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, introdotta dall'articolo 4 del disegno di legge, su cui tornerò fra poco. Secondo me, infatti, mantenendone l'attuale unicità sotto la presidenza del Presidente della Repubblica, basterebbe scinderlo in due sezioni, con un vice presidente per ciascuna, scelto tra i membri eletti dal Parlamento. Si eviterebbe, così, non solo la creazione di nuovi «carrozzoni» - mi si passi l'espressione, che vuol semplicemente richiamare l'idea del conseguente immancabile spreco di risorse -, ma anche la necessità di interventi esterni per dirimere i conflitti che inevitabilmente sorgerebbero, più o meno spesso, fra i due corpi. Conflitti che, se fra semplici sezioni, potrebbero essere risolti in seduta comune, nell'assemblea generale dei componenti di entrambe, convocabile solo dal Presidente della Repubblica, sempre e solo da lui presieduta.
Quanto alla struttura delle due sezioni del Consiglio, ritengo che, riservando al legislatore ordinario la disciplina del numero e dei criteri di elezione dei loro componenti, sia da stabilire a livello costituzionale soltanto il preciso equilibrio interno fra magistrati e laici. Sul punto - una volta accantonata la proposta, per me ottimale, della triplice fonte di provenienza: dal Parlamento, dal Presidente della Repubblica e dalla Magistratura - sono nettamente favorevole alla soluzione accolta dal disegno di legge, della parità. Una parità, alterata soltanto dalla presenza del membro di diritto in entrambe le sezioni, cioè del primo presidente e del procuratore generale della Corte di Cassazione, rispettivamente nella prima e nella seconda sezione. Tale presenza è necessaria ma anche sufficiente, a mio sommesso avviso, per rassicurare i singoli magistrati che la loro indipendenza sarà sempre e comunque ragionevolmente garantita. Laddove la schiacciante maggioranza prevista dall'attuale articolo 104 è stata sinora fonte di non pochi inconvenienti all'interno stesso della Magistratura, oltre che nei rapporti col Parlamento e col Governo. Mi sento di poterlo affermare, essendo entrato in Magistratura circa un decennio prima dell'entrata in funzione del CSM, e avendo dunque una visione diacronica della realtà, all'interno di essa, abbastanza più estesa di tanti altri.
Riformulando come sopra suggerito l'articolo 104 della Costituzione, verrebbe meno la diversa sistemazione operata dall'articolo 4 del disegno di legge, che, nel primo comma, ne muta radicalmente il contenuto distinguendo le due categorie dei magistrati, introducendo poi nel secondo comma la separazione delle carriere e nel


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terzo affidando alle norme dell'ordinamento giudiziario l'organizzazione dell'ufficio del pubblico ministero. A mio avviso, la disposizione del primo comma andrebbe eliminata siccome del tutto superflua, mentre quelle degli altri due commi più correttamente andrebbero trasferite anch'esse nell'articolo 102, a completamento del disposto di cui ho già parlato.
Sull'operata separazione delle carriere (rectius, dei ruoli) ho già prima espresso un giudizio nettamente positivo, in contrasto con l'opinione della stragrande maggioranza dei miei ex colleghi. Mi preme aggiungere ora, che anch'io nel passato, e precisamente sino all'introduzione del nuovo codice di procedura penale, la pensavo come loro. E addirittura negli anni settanta del secolo scorso, mentre ero presidente dell'Unione magistrati italiani, organizzai un grande convegno sul P.M. (cui parteciparono millecinquecento persone) per contrastare la rinascente tendenza a ripristinare la separazione dei ruoli. Tendenza, che si avvaleva dell'autorità dell'allora presidente della Repubblica Giovanni Leone, il quale l'aveva caldeggiata nella stessa Assemblea costituente, in contraddittorio con Piero Calamandrei e a stregua della tesi da lui sempre sostenuta quale penalprocessualista, del pubblico ministero organo del potere esecutivo. Il mio pensiero è mutato a séguito della parificazione fra accusa e difesa, operata dal nuovo codice di procedura penale e costituzionalizzata con la successiva modificazione dell'articolo 111. Parificazione che ha reso ineludibile il problema ora risolto dal disegno di legge n. 4275.
Dopo questa digressione, riprendo l'esame di tale disegno.
Il successivo articolo 5 introduce gli articoli 104-bis e 104-ter, sui quali mi sono già soffermato, suggerendone l'eliminazione per assorbimento nell'articolo 104 con diverso contenuto. Per cui passo all'articolo 6, che sostituisce l'attuale articolo 105, relativo alle competenze del Consiglio Superiore, ristrutturato in due commi. Il primo, che ne ripete esattamente il disposto, solo eliminando il riferimento ai provvedimenti disciplinari, attribuiti - come già visto - ad apposita Corte; il secondo, che introduce il divieto di «adottare atti di indirizzo politico» e di «esercitare funzioni diverse da quelle previste nella Costituzione».
Da approvare mi sembra, in base a quanto ho già detto, l'eliminazione dei provvedimenti disciplinari dalle competenze del CSM. Inaccettabile trovo, viceversa, la formulazione del secondo comma, tesa a impedire la politicizzazione dell'organo attraverso una norma negativa, da una parte inutile e dall'altra poco rassicurante per la tutela effettiva dell'indipendenza dei singoli magistrati. Io suggerirei di eliminarlo così come risulta formulato e, invece, di prolungare il testo del primo comma, aggiungendo dopo la parola «le promozioni» questa espressione: «e ogni altro atto necessario per la salvaguardia dell'indipendenza dei magistrati, esclusi in ogni caso gli atti di indirizzo politico». Aggiunta anch'essa inutile, forse, ma che potrebbe dissolvere le perplessità che l'esaminato comma suscita: eliminandola, infatti, si lascerebbe all'organo la possibilità di intervenire anche in polemica col Parlamento e il Governo, ma solo quando davvero necessario per difendere detta indipendenza. Per quanto poi concerne in particolare i pareri, mi sembra che dovrebbe essere la legge ordinaria a regolarne il regime, salvo a riconoscerne il valore costituzionale nel caso, e solo nel caso, che il Consiglio superiore ne sia richiesto dal Parlamento o dal Guardasigilli (mentre, in caso diverso, essi debbono avere lo stesso valore giuridico che hanno i pareri espressi da ogni altro organo dello Stato o dai semplici cittadini, peraltro tenendo conto dell'autorevolezza della fonte). Non è certo superfluo ricordare che diversa è per esempio la posizione, in proposito, del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, che - ai sensi dell'articolo 99, secondo comma, della Costituzione - «ha l'iniziativa legislativa e può contribuire alla legislazione economica sociale», sia pure «secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge».


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Mi piacerebbe che tutti ci tranquillizzassimo su questa benedetta riforma, mi rivolgo al collega Sabato. Perché c'è troppo nervosismo in giro. Capisco che trattasi di nervosismo giustificatissimo, ma solo perché si è ormai creato un inammissibile muro contro muro. In verità, le riforme non andrebbero varate, e pure le critiche ad esse non andrebbero rivolte, sotto pressione di impulsi emotivi, ma ragionandovi su freddamente e pensando anche alle generazioni future. Il che implica che occorre - in ciò concordo ancora col presidente Mirabelli - limitare al minimo il livello costituzionale della disciplina, accordando dunque largo margine al legislatore ordinario. Non dimentichiamo che in Italia abbiamo una Costituzione rigida. La quale, non deve impedire oltre misura gli interventi del legislatore ordinario, cui va lasciato il compito di aggiornare la realtà normativa secondo le esigenze delle nuove generazioni.
Procedendo nell'esame del progetto, rilevo che il suo articolo 7 introduce l'articolo 105-bis della Costituzione, devolvendo la pronuncia sui provvedimenti disciplinari a una «Corte di disciplina della magistratura giudicante e requirente». Ho già detto che l'eliminazione dell'attuale regime di giurisdizione domestica in materia, mi trova del tutto concorde. Ne risulterebbe infatti rafforzato lo stesso prestigio dei magistrati di fronte all'opinione pubblica, la quale sinora è stata diffidente sui provvedimenti disciplinari pronunciati dal Consiglio Superiore. Qui mi limito ad aggiungere che, onde eliminare anche codesto inelegante articolo bis, la disposizione - se non si accetta il mio suggerimento di limitarla a prevedere soltanto l'istituto, demandandone tutta la disciplina alla legge ordinaria - si potrebbe trasferire nell'articolo 107, dopo il secondo comma, che mi sembra il luogo di elezione.
Passando all'articolo 8, per il quale nel secondo comma dell'articolo 106 della Costituzione le parole: «per tutte le funzioni attribuite ai giudici singoli» sono soppresse, mi dichiaro pienamente concorde anche su questo. Non vedo infatti perché la Repubblica debba avvalersi di magistrati onorari soltanto monocratici, che semmai sono i più pericolosi. Ho avuto esperienze personali di collegi misti, e ho visto che nella collegialità i magistrati onorari si trovano meglio di quando giudicano monocraticamente, perché nella discussione fra loro valorizzano il proprio buonsenso.
Passiamo all'articolo 9, che modifica il primo comma dell'articolo 107 della Costituzione Con la lettera a) si pluralizza la parola «Consiglio superiore». Il che sembra ovvio, se si insiste sullo sdoppiamento dell'organismo. E dunque se questo rimane unico, giusta come ho già suggerito, la norma dell'articolo 107 rimane come prima; se invece esso viene sdoppiato, tutti i riferimenti non possono che essere al plurale.
Opportuna, anzi necessaria, ai fine del regolare andamento dell'apparato giudiziario, mi sembra poi l'eccezione prevista dalla successiva lettera b) al principio di inamovibilità. Principio derogabile, per entrambe le categorie di magistrati, unicamente dall'organo di garanzia, e solo in casi di particolare necessità.
Veniamo all'articolo 10, per il quale «il giudice e il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite della legge». Mi sembra chiara l'intenzione dei redattori del testo di snaturare gli attuali rapporti tra la polizia giudiziaria e la Magistratura, in particolare i pubblici ministeri, cui si vorrebbe togliere il potere di disporne direttamente. Ma secondo me tutto ciò non va bene, anche perché dà la sensazione di una odiosa quanto ingiustificata diffidenza verso la Magistratura. Credo dunque che l'avverbio «direttamente» sia da ripristinare, salvo l'opportuno riferimento alla legge, che deve regolare l'uso del relativo potere da parte dei magistrati. In ogni caso, peraltro, la parola «modalità» non mi sembra congrua: preferirei «norme»: dunque, «secondo le norme stabilite dalla legge». Espressione, questa, che consente al legislatore ordinario di modulare al meglio quel potere, così da impedire eventuali abusi da parte dei magistrati stessi e, insieme, possibili interferenze del potere esecutivo nello svolgimento delle indagini


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di competenza della polizia giudiziaria. Mi pare che giaccia già nel Parlamento un progetto di legge in materia.
L'articolo 11, sostituendo l'articolo 110 della Costituzione, costituzionalizza, nel primo comma, la funzione ispettiva del Ministro della Giustizia. Secondo me, va benissimo. Si tratta di una funzione che già da lungo tempo viene esercitata, col favorevole riconoscimento di tutti; ed è giusto che nessuno, un domani, neppure il legislatore ordinario, possa impedire che si continui a esercitarla. Nel secondo comma, poi, si attribuisce allo stesso Ministro della Giustizia il potere-dovere di riferire annualmente al Parlamento «sullo stato della Giustizia, sull'esercizio dell'azione penale e sull'uso dei mezzi di indagine». Ebbene, circa il rapporto annuale alle Camere «sullo stato della giustizia», mi sento di esprimere un avviso totalmente favorevole; né sono d'accordo sulla proposta avanzata al riguardo dal presidente Mirabelli. Ritengo infatti un bene che le Camere ricevano periodiche informazioni, non solo attraverso le relazioni annuali dei presidenti della Suprema Corte e delle Corti d'appello, ma anche direttamente dal Guardasigilli, il quale ha una cabina diversa d'osservazione. Dissento, però, sull'estensione del riferimento specifico all'«esercizio dell'azione penale» e all'«uso dei mezzi dell'indagine». Riferimento espresso, che ritengo inutile perché già implicito nell'espressione «stato dello giustizia»; ma anche inopportuno, perché la specificazione fa sorgere il sospetto che si voglia interferire, attraverso codesta relazione, sull'uso in concreto, da parte dei pubblici ministeri, dei mezzi di indagine e del conseguente modo in cui questi esercitano nei singoli casi l'azione penale.
Passiamo ora all'articolo 12, che aggiunge all'articolo 111 della Costituzione un comma, in cui si prevede che «contro le sentenze di condanna è sempre ammesso l'appello, salvo che la legge disponga diversamente in relazione alla natura del reato, delle pene e della decisione»; mentre «le sentenze di proscioglimento sono appellabili soltanto nei casi previsti dalla legge». Trattasi di questione ormai annosa, e sentita da tutti, me compreso. Anch'io - mi è doveroso dire - ritengo giusto che, se un cittadino venga assolto in primo grado, contro la sentenza si abbia soltanto il rimedio del ricorso di legittimità in cassazione. Ho il ricordo del tempo in cui le sentenze delle corti di assise, dunque le più gravi, venivano pronunciate in unico grado di merito, senza che i cittadini avvertissero in ciò nulla di allarmante. Si potrebbe dire anzi che adesso si leggono al riguardo più critiche di allora, per i pasticci che talvolta si ha la sensazione di avvertire. Quindi, da questo punto di vista, non avrei nulla da opporre alla proposta riforma. Solo che, prima di compiere una scelta costituzionale di tale portata, mediterei più a lungo: riflettendo, in particolare, sulle argomentazioni addotte dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 26 del 2007, che ha dichiarato l'illegittimità degli articoli 1 e 10, comma 2, della legge n. 46 del 2006; e, comunque, aspettando la ormai indilazionabile riforma del codice di procedura penale, che dovrà rivedere tutto il sistema delle impugnazioni. Se in quella sede non si vorrà addirittura abolire l'appello, per adesso non costituzionalmente obbligato, allora sì che si potrebbe pensare a un regime differenziato tra sentenze di condanna e sentenze di proscioglimento. E qualora poi la Corte delle leggi, alla prima occasione, non mutasse l'avviso espresso con la citata decisione - che per la verità non mi ha trovato del tutto concorde - passerei alla scelta costituzionale operata con l'articolo 12 in esame.
Il successivo articolo 13 del progetto sostituisce l'articolo 112 della Costituzione, disponendo che «L'ufficio del pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge».
Dunque opportunamente si è conservato tale obbligo, superando le critiche provenienti da qualche parte; e solo si è cercato di porvi dei paletti. Ma cosa significa precisamente «secondo i criteri stabiliti dalla legge»? La risposta non mi sembra facile, a meno che non si intenda far riferimento a semplici criteri di priorità.


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Ma allora ci sarebbe da domandarsi ancora, come si farebbe a stabilirli astrattamente per legge, o attraverso la rigida previsione di determinate fattispecie penali, senza evitare che nella realtà concreta ne risultino poi ingiustizie o inconvenienti gravi. Secondo me, non si può non lasciare il dovuto spazio al titolare dell'azione penale; prevedendo a livello costituzionale, soltanto che la legge stabilisca i modi dell'esercizio di questa. Così il legislatore ordinario potrebbe avere anche la possibilità di individuare, cum grano salis, alcune priorità fra le tante prospettabili in astratto. Non va dimenticato che, in date circostanze, per alcuni reati minori l'esercizio immediato dell'azione potrebbe dimostrarsi nel concreto più necessario che per reati più gravi. E allora mi permetto di proporre la sostituzione della parola «criteri» con quella più comprensiva ed elastica di «modi» o «modalità».
Quanto all'articolo 14, ho già detto che secondo me va soppresso, lasciando così libero il legislatore ordinario di disciplinare in modo più aderente al principio già enunciato nell'articolo 28 della Costituzione la responsabilità dei magistrati; a proposito della quale, debbo ora precisare che ho sempre avuto la sensazione che la legge n. 117 del 1988 abbia eluso la volontà popolare, espressasi col precedente referendum.
Nulla quaestio sull'articolo 15, che si limita a dettare una norma transitoria, volta a tranquillizzare almeno alcuni dei tanti critici della riforma. Forse sarebbe opportuno, peraltro, aggiungere un secondo comma, riguardante il regime dei provvedimenti disciplinari in attesa che entri in funzione l'istituenda Corte di disciplina.
L'ultimo articolo, cioè il 16, che abolisce la vacatio legis come normalmente avviene per il cosiddetto decreto catenaccio, lo sopprimerei o lo modificherei, semmai allungando la vacatio: nella specie non trattandosi di attuazione bensì di modificazione della Costituzione vigente. Fra l'altro, si cancellerebbe così un altro sintomo di quella apparente frettolosità (e sciatteria) dei riformatori, cui accennavo all'inizio del mio discorso.

PRESIDENTE. Presidente Ruperto, la ringraziamo per la sua analisi letterale, che sarà sicuramente utile. Do la parola al dottor Sabato per una breve replica.

RAFFAELE SABATO, Componente dell'ufficio direttivo del Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE) del Consiglio d'Europa. Grazie, presidente. L'onorevole Contento ha colto uno dei passaggi che ho saltato nel testo scritto, quello relativo al fatto che il Consiglio consultivo dei giudici europei - lo specificherà meglio anche il mio collega dell'omologo Consiglio consultivo dei procuratori europei, che sarà audito in altra data dalle Commissioni - è composto di giudici in servizio, quindi non distaccati presso altri enti o sedi, designati dai rispettivi organi di autogoverno.
Peraltro, vorrei sottolineare al relatore, che immagino poi farà uso soprattutto del testo scritto che ho messo a disposizione, che, prevenendo questa tipologia di osservazione, che mi trova ovviamente consapevole, ho cercato nel testo e anche nell'esposizione orale di distinguere i due livelli di standard cui ho fatto riferimento, quelli delle raccomandazioni, che sono, come ho riferito, minimali e che promanano, invece, dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, il quale è organo espressione dei Governi, e gli altri, quelli della Magna Carta e dei pareri, che esprimono i pareri delle magistrature.

PRESIDENTE. Ringrazio gli intervenuti anche a nome del presidente Bruno e delle Commissioni e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,45.

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