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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione II
1.
Martedì 19 luglio 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Follegot Fulvio, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULLO SCHEMA DI DECRETO LEGISLATIVO RECANTE DISPOSIZIONI COMPLEMENTARI AL CODICE DI PROCEDURA CIVILE IN MATERIA DI RIDUZIONE E SEMPLIFICAZIONE DEI PROCEDIMENTI CIVILI DI COGNIZIONE (ATTO N. 376)

Audizione del dottor Paolo Vittoria, Presidente aggiunto della Corte di cassazione, di rappresentanti del Consiglio nazionale forense, dell'Unione nazionale Camere civili e dell'Associazione italiana degli avvocati civilisti, nonché dei professori Ferruccio Auletta, ordinario di diritto processuale civile presso l'Università Federico II di Napoli, Paolo Biavati, ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Bologna, Antonio Carratta, ordinario di diritto processuale civile presso l'Università Roma Tre, Giorgio Costantino, ordinario di diritto processuale civile presso l'Università Roma Tre, Sergio Menchini, ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Pisa, Bruno Sassani, ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Roma Tor Vergata, e Giuseppe Trisorio Liuzzi, ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Bari:

Follegot Fulvio, Presidente ... 3 21 24 27
Alpa Guido, Presidente del Consiglio nazionale forense ... 7
Auletta Ferruccio, Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università Federico II di Napoli ... 4
Biavati Paolo, Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Bologna ... 10
Capano Cinzia (PD) ... 21 24
Carratta Antonio, Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università Roma Tre ... 11 24
Costantino Giorgio, Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università Roma Tre ... 14 24
Faggiotto Manola, Coordinatrice della commissione studi dell'Associazione italiana degli avvocati civilisti ... 8
Ferranti Donatella (PD) ... 22
Menchini Sergio, Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Pisa ... 15 25
Menoni Renzo, Presidente dell'Unione nazionale camere civili ... 8
Molteni Nicola (LNP) ... 23
Paolini Luca Rodolfo (LNP) ... 23
Sassani Bruno, Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Roma Tor Vergata ... 17 26 27
Torrisi Salvatore (PdL) ... 22 25
Trisorio Liuzzi Giuseppe, Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Bari ... 19 26 27
Vittoria Paolo, Presidente aggiunto della Corte di cassazione ... 6 26
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A.

COMMISSIONE II
GIUSTIZIA

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 19 luglio 2011


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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE
FULVIO FOLLEGOT

La seduta comincia alle 12,05.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del dottor Paolo Vittoria, Presidente aggiunto della Corte di cassazione, di rappresentanti del Consiglio nazionale forense, dell'Unione nazionale Camere civili e dell'Associazione italiana degli avvocati civilisti, nonché dei professori Ferruccio Auletta, ordinario di diritto processuale civile presso l'Università Federico II di Napoli, Paolo Biavati, ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Bologna, Antonio Carratta, ordinario di diritto processuale civile presso l'Università Roma Tre, Giorgio Costantino, ordinario di diritto processuale civile presso l'Università Roma Tre, Sergio Menchini, ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Pisa, Bruno Sassani, ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Roma «Tor Vergata», e Giuseppe Trisorio Liuzzi, ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Bari.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sullo schema di decreto legislativo recante disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione (Atto n. 376), l'audizione del dottor Paolo Vittoria, Presidente aggiunto della Corte di cassazione, di rappresentanti del Consiglio nazionale forense, dell'Unione nazionale Camere civili e dell'Associazione italiana degli avvocati civilisti, nonché dei professori Ferruccio Auletta, ordinario di diritto processuale civile presso l'Università Federico II di Napoli, Paolo Biavati, ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Bologna, Antonio Carratta, ordinario di diritto processuale civile presso l'Università Roma Tre, Giorgio Costantino, ordinario di diritto processuale civile presso l'Università Roma Tre, Sergio Menchini, ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Pisa, Bruno Sassani, ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Roma Tor Vergata e Giuseppe Trisorio Liuzzi, ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Bari.
Ringrazio gli auditi, anche a nome del presidente Giulia Bongiorno, della disponibilità dimostrata nell'accogliere l'invito della Commissione.
Avverto che il presidente dell'Associazione nazionale magistrati ha comunicato l'impossibilità di partecipare all'audizione odierna per sopravvenuti e improrogabili impegni; tuttavia, egli resta disponibile a essere sentito nelle giornate del 26 e 27 luglio e a inviare un contributo scritto contenente le valutazioni dell'Associazione nazionale magistrati sullo schema di decreto in questione.
A tale proposito, ricordo che domani scade il termine entro il quale la Commissione può esprimere il parere.


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Do, ora, la parola agli auditi per le loro relazioni.

FERRUCCIO AULETTA, Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università Federico II di Napoli. Siccome tra qualche minuto dovrò allontanarmi, parlerò per primo. Lascerò, poi, delle note alla Commissione. Dunque mi limiterò a esprimere a grandi linee le mie impressioni sullo schema di decreto.
Innanzitutto, visto che dalle conversazioni a cui ho avuto modo di partecipare non mi è sembrato ovvio, vorrei premettere che, a mio avviso, questo schema di decreto è abbastanza pregevole dal punto di vista tecnico perché denota una chiara discontinuità rispetto alla produzione legislativa più recente. Vi è un problema di fondo relativo alle idee e all'implementazione dello schema che, però, non attiene alla tecnica in quanto tale; infatti, sotto questo aspetto, credo che lo schema sia un prodotto migliore rispetto agli altri che lo hanno preceduto.
Peraltro, molti problemi che derivano da questo schema risultano, per il legislatore delegato, ineliminabili perché legati alla capacità della delega. Infatti, uno dei punti fondamentali è il seguente: il censimento dei procedimenti regolati dalla legislazione speciale poteva o meno contenere i procedimenti speciali che avessero già una regolazione in base a uno dei tre riti verso i quali i procedimenti censiti dal delegato erano da ricondursi? Per esempio, le controversie agrarie, già regolate dal rito del lavoro, erano materia che rientrava nell'ambito della delega?
La risposta al quesito, visto che il rito ad quem era già quello contemplato dal legislatore, potrebbe far assumere una qualità diversa al testo, rispetto a quella che potrebbe avere sulla base della delega. Difatti, se questa non era materia delegata, il testo di per sé non poteva avere la capacità di un testo unico, alla quale, invece, sembra aspirare. Peraltro, questa aspirazione non si può compiere perché viene di volta in volta realizzata a danno di altri testi veramente unici, come accade in maniera emblematica rispetto al Testo unico delle espropriazioni. Difatti, si trapianta nello schema il giudizio di opposizione contenuto nel Testo unico sull'espropriazione, nel quale naturalmente l'interprete va a cercare l'appendice della tutela giurisdizionale, e si scrive lo stesso procedimento nel nuovo testo di destinazione, di modo che da questo momento in avanti l'interprete ha bisogno di due fonti, ovvero il testo unico sulle espropriazioni, nel quale saprà di dover cercare l'appendice di tutela giurisdizionale, e il nuovo testo.
Questo esempio emblematico mostra che occorre definire il senso di questo decreto legislativo, ovvero stabilire se deve essere un testo unico o meno. La mia risposta è negativa perché non mi sembra che la delega militasse in questa direzione, quindi, tendenzialmente, espungerei tutta la materia già regolata dalla legislazione speciale in base a uno dei riti di riconduzione (per usare il lessico della delega).
Un secondo tema molto importante è che questo schema mette sullo stesso piano tre modelli molto diversi. Nello specifico, mette sullo stesso piano modelli del II libro del codice con un modello del IV libro. Ora, i modelli del II libro del codice comprendono due norme, agli articoli 339 e 440, che implicano che sia il processo ordinario di cognizione che quello del lavoro possono, in casi previsti dalla legge, non avere un secondo grado di merito, così come consentito dalla Costituzione. Viceversa, nel modello del IV libro il legislatore descrive una sequenza di fasi che avvengono davanti a giudici diversi - quello monocratico e d'appello - in cui lo schema sembra essere non scindibile, per cui l'appello fa blocco unico con la fase sommaria che si svolge davanti al giudice adito per primo. L'idea che questi tre modelli - due dei quali con l'appello dispensabile e l'altro con l'appello indispensabile - siano sullo stesso piano è inaccettabile sotto il profilo costituzionale.
Innanzitutto, come spiegato nella relazione, non è convincente la tesi che una cosa è la cognizione sommaria e un'altra è deformalizzazione, la quale sarebbe, invece, compatibile con la cognizione piena. In realtà, la deformalizzazione è compatibile


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con la cognizione piena, ma per accidente, ovvero non è garantita, nel senso che il controllo che avviene normalmente attraverso l'appello cosiddetto «aperto» è l'unico in grado di garantire, regolarmente, una formalizzazione con un sufficiente grado cognizione. L'idea di potere assumere modelli del II libro, eventualmente senza appello, e del IV libro - modello del sommario, anche questo senza appello - non è corretta. Ecco, su questo bisogna focalizzare l'attenzione perché apre un problema di costituzionalità molto grave.
Del resto, in una sentenza della Cassazione del 2008, resa sull'articolo 19 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, che è altra cosa, mi sembra vi siano delle motivazioni - estese, peraltro, da un magistrato della Cassazione che ha una sensibilità per i temi costituzionali, se non altro perché da tanti anni assistente di studi presso la Corte costituzionale - che smentiscono radicalmente gli assunti della relazione, in base alla quale è possibile avere un sommario in unico grado, come varie volte viene fatto; ciò prescindendo dal fatto che attualmente il sommario è un'opzione per l'attore che lo sceglie; invece, d'ora in avanti potrà essere l'unica via di tutela giurisdizionale. Pertanto, se attualmente, per l'attore che lo sceglie, l'idea di un sommario senza appello potrebbe essere passata per autoresponsabilità, dal punto di vista del convenuto continuerebbe a non spiegarsi, perché questi non avrebbe mai la garanzia di potere avere un'adeguata precostituzione delle forme del procedimento. In futuro questo sarà un modello unico e per certi versi necessario, quindi non è possibile immaginare che sia rimossa una fase come quella dell'appello aperto.
Ci sono, infine, soluzioni che riguardano i singoli procedimenti che risultano, a volte, scarsamente convincenti. Tuttavia, queste sono valutazioni sul piano dell'opportunità, sulle quali non dovrebbe esprimersi di chi osserva tecnicamente la stesura dello schema.
A ogni modo, una riforma che giunge a prevedere, per un procedimento fino a ieri regolato in base alla Camera di consiglio ex articolo 737 e seguenti (come può essere il disciplinare notarile), la disciplina degli articoli 702 e seguenti perché - come si dice nella relazione - questo contribuisce a un maggior dettaglio normativo del procedimento, mi sembra francamente paradossale, specie se si osserva che nella legge notarile (e una recente sentenza della Cassazione, peraltro, la interpretata in maniera abbastanza letterale) non è garantito ricorso per Cassazione ex articolo 360, n. 4. Infatti, mi sembra - ripeto - paradossale che la riforma consista nel rimuovere il procedimento in Camera di consiglio verso il sommario, ritenendo che questo aumenti il tasso di dettaglio in una materia nella quale l'articolo 360, n. 4 non è garantito perché la legge notarile - interpretata, da ultimo, in maniera pressoché letterale della Corte di cassazione - non consente il controllo delle nullità.
Infine, vorrei fare una piccolissima annotazione per dire che, se i modelli del II libro tollerano che non vi sia l'appello - perché questo è il principio di emergere dagli articoli 339 e 440 - mi sembra che il profilo vada adeguatamente considerato anche per i modelli del IV libro. Infatti, la mancata attenzione a questo dato induce il paradosso di avere addirittura giudizi di opposizioni a sanzioni amministrative che potrebbero - per come è scritto attualmente lo schema di decreto - avere e non avere il secondo grado di giudizio. Mi riferisco, per esempio, alla frequente infrazione prevista dall'articolo 7 del codice della strada, commessa da chi fa scadere il «grattino», punita con una sanzione di 24 euro, nel minimo; ebbene, in base all'articolo 440, visto che non è norma esclusa, la materia sarebbe inappellabile se condotta secondo il rito del lavoro perché vi è, ratione valoris, un limite di appellabilità per le sentenze che riguardano domande di valore inferiore a 25,82 euro (le vecchie 50.000 lire).
Da un certo punto di vista, mi sembra, quindi, vi sia una sostanziale irrazionalità nella gestione del secondo grado di giudizio, che va più adeguatamente considerata.
Vi ringrazio e vi chiedo ancora scusa.


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PAOLO VITTORIA, Presidente aggiunto della Corte di cassazione. In occasione di altre audizioni davanti a questa Commissione, l'Ufficio del massimario presso la Corte ha redatto un parere, che vi consegno, nel quale sono state espresse le valutazioni sull'operazione programmata dal legislatore e sono formulate alcune proposte di integrazione e modifica del testo di decreto licenziato dal Governo.
Dal canto mio, vorrei svolgere alcune brevi osservazioni.
Una buona parte dei procedimenti presi in considerazione dallo schema di decreto delegato è caratterizzata dal costituire mezzo di attuazione della tutela giurisdizionale dei diritti contro atti della pubblica amministrazione; si tratta, quindi, di procedimenti che presentano una struttura oppositoria. Riguardo a questo tipo di controversie la tecnica di legislazione finora preferita è stata di accompagnare la disciplina del procedimento davanti alla pubblica amministrazione con un'apposita regolazione del successivo giudizio davanti al giudice ordinario, con l'effetto di creare nuovi moduli processuali a mano a mano diversi tra loro. Ora, la specificità di alcuni di questi modelli è data dall'intenzione del legislatore di costringere in spazi ristretti e talora soffocanti la tutela giurisdizionale, che non si può fare a meno di riconoscere. Quando non è questa l'esigenza che spinge a legiferare, l'unica ragione di introdurre specificazioni rispetto a un modulo uniforme può essere rinvenuta nella necessità di dotare il giudice dei poteri di cui deve disporre affinché la tutela giurisdizionale della situazione soggettiva controversa risulti effettiva. Per ridurre a unità sul piano del giudizio almeno una parte delle multiformi controversie di questo tipo, sarebbe dunque sufficiente, a mio avviso, come per il rito abbreviato previsto dall'articolo 119 del codice del processo amministrativo, dire a essi applicabile un modulo procedimentale al ricorso del tipo del procedimento sommario, dichiarando il giudice dotato di poteri necessari a realizzare la completa tutela del diritto riconosciuto.
Il Governo, con la formulazione del decreto delegato, ha ritenuto di non impegnarsi sulla strada della riduzione dei procedimenti civili e di battere la diversa strada della ricognizione dei procedimenti esistenti e della loro distribuzione tra i tre modelli del processo di cognizione ordinario, del processo del lavoro e di quello sommario. Ne è risultato una sorta di utile testo unico di tali procedimenti, senza che si sia potuta attingere, però, una completa autonomia rispetto ai testi dettati a disciplina dei diversi procedimenti amministrativi, come notava il professore Auletta, ai quali l'utente è, dunque, rinviato per avere un quadro preciso delle controversie cui il rito riprodotto si applica. Se affiancate le une alle altre, le discipline dettate per controversie che gravitano sulla stessa area di rapporti - come quelle contemplate negli articoli 15, 16 e 17 - mostrano, a mio avviso, una sconcertante varietà di soluzioni, che non facilita la gestione di questo contenzioso.
Nello specifico, i tipi di controversie sono tre, l'allontanamento di cittadini di Stati dell'Unione europea, l'espulsione di cittadini di altri Stati e il riconoscimento della protezione internazionale. Orbene, tra essi emergono queste differenze: il termine per proporre ricorso è di 20 giorni nel primo caso; di 60, nel secondo; di 30, nel terzo; il ricorso del decreto del giudice che fissa l'udienza nel primo caso segue le regole del procedimento sommario, mentre nel secondo e nel terzo questi atti sono notificati dalla cancelleria; il primo e il terzo giudizio sono definiti con decisione appellabile, mentre è inappellabile quella resa nel secondo; il termine per ricorrere per Cassazione nel primo e nel secondo caso è quello ordinario, nel terzo è ridotto a metà; infine, diverso è il regime della sospensione dell'esecutività del provvedimento impugnato che nel primo caso deve essere chiesta con il ricorso e l'efficacia è sospesa fino alla decisione, con l'eccezione di due ipotesi; nel secondo caso non si fa menzione dell'istanza di sospensione; nel terzo la proposizione del ricorso sospende l'efficacia tranne in tre ipotesi, in cui la


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sospensione va chiesta con il ricorso e l'ordinanza che non la concedesse non è a sua volta impugnabile.
Questa diversità dei limiti crea difficoltà in un campo così difficile come quello degli immigrati e degli stranieri sia a chi si rivolge al giudice sia al giudice che deve amministrare il procedimento.
Pertanto, concludo dicendo che è auspicabile che l'operazione tentata con l'articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69 segni un'inversione di rotta rispetto alla consuetudine legislativa di introdurre nuove discipline del giudizio in occasione dell'emanazione di leggi di settore.
Per il resto, rimando al parere scritto. Se vi sono domande su singoli punti, possono essere rivolte alla dottoressa Acierno.

GUIDO ALPA, Presidente del Consiglio nazionale forense. In giornata il Consiglio nazionale forense consegnerà le osservazioni di dettaglio al testo predisposto. Si tratta di una proposta che l'avvocatura - in particolare l'Unione delle Camere civili e il Consiglio nazionale forense - ha sempre considerato con grande favore e da molti anni sottoposto all'attenzione del legislatore. Ritenevamo, pertanto, che il legislatore, prendendo atto di queste istanze, potesse produrre un risultato molto più incisivo di quello che oggi abbiamo a disposizione. Premetto anche che il Consiglio nazionale forense non è stato preventivamente consultato dal Ministero della giustizia, quindi non ha avuto modo di esprimere anticipatamente le sue osservazioni.
Da un punto di vista di carattere generale, il testo è assolutamente pregevole nel senso che è scritto con una tecnica certamente migliore rispetto ai testi presentati ultimamente nell'ambito della riforma. Tuttavia, a nostro modo di vedere, contiene due profili che debbono essere corretti.
In primo luogo, il testo antepone al coordinamento delle disposizioni tre modelli, a cui si dovrebbero riportare i procedimenti speciali - il procedimento di cognizione ordinaria, quello sommario di cognizione e quello del lavoro - che non sono stati sempre considerati con molto favore dall'avvocatura. Mi riferisco, in particolare, al procedimento sommario di cognizione che, a nostro avviso, non è stato praticato con diffusione, secondo le aspettative che in esso erano state investite; ciò implica che questo rito, probabilmente, non è il più adatto per semplificare e migliorare il funzionamento della giustizia civile.
In secondo luogo, stante il coordinamento delle norme contenute in leggi speciali, ci sembra che si sia in presenza - com'è già stato rilevato - più di un testo unico che di un'opera diretta a semplificare la normativa esistente. Ciò, forse, è dovuto al fatto che la legge di delega era circoscritta e non attribuiva agli estensori poteri tali da ottenere un'effettiva semplificazione dei riti con l'abrogazione quelli speciali, considerati ormai marginali, che complicano l'amministrazione giustizia piuttosto che agevolarla.
È, inoltre, preoccupante l'aspetto segnalato dal professor Auletta, ovvero che questo testo possa preludere alla soppressione di gradi di giudizio perché questo - che pure è, dal punto di vista costituzionale, questione largamente dibattuta - dovrebbe essere oggetto di una riforma organica e non, invece, parte marginale di un testo che ha, per la verità, finalità ben diverse e più circoscritte rispetto a quella della soppressione di gradi del processo.
In conclusione, riteniamo che questo sia soltanto il primo segmento di una riforma volta a semplificare effettivamente i riti. Si tratta certamente di un segmento importante, ma non essenziale per realizzare una riforma della giustizia compiuta perché riteniamo che questa debba partire, prima ancora che dalla modificazione dei testi, dalla risorse economiche, dal completamento della pianta organica e del progetto di processo telematico, dalla qualificazione dei magistrati e - se mi è consentito - degli avvocati e, infine, dal coinvolgimento degli avvocati nella giurisdizione.


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Da questo punto di vista, il Consiglio nazionale forense si augura che la Camera approvi al più presto anche la riforma sulla professione forense.

RENZO MENONI, Presidente dell'Unione nazionale delle camere civili. Come ricordava il professor Alpa, le cui parole condivido integralmente, l'Unione nazionale delle Camere civili aveva espresso grande soddisfazione quando aveva visto la delega dell'articolo 54. Infatti, cavallo di battaglia storico dell'Unione è proprio l'unificazione e la semplificazione dei riti nell'ottica dell'unificazione della giurisdizione. Certo, la delega era timida in partenza; tutti ce ne rendiamo conto perché faceva salvi molteplici procedimenti speciali, da quelli in materia di cambiali e assegni bancari a quelli della legge 20 maggio 1970, n. 300, a quelli in materia di famiglia e di procedure concorsuali. Si disse, comunque, all'epoca che, sebbene timido, era pur sempre un inizio. L'assoluta delusione è subentrata quando si è visto questo decreto poiché non si ha nessuna riduzione o semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, al contrario di quanto è scritto nel titolo del decreto, che, anziché accorpare e ridurre, canonizza e disciplina minutamente ben 28 - se non ho contato male - riti speciali. Si continua, quindi, esattamente al contrario di quello che si è dichiarato, nella folle corsa alla proliferazione dei riti con quello che in sostanza è - già è stato detto - un testo unico.
Di più, direi che si tratta di un mini codice di procedura civile. Infatti, è vero che ci sono solo 35 articoli, ma - li ho contati mentre venivo in treno a Roma - hanno ben 264 commi; solo l'articolo 33 ne ha 42, che, a loro volta, sono suddivisi in lettere. Si tratta, quindi, proprio di una specie di mini codice di procedura civile.
Sui punti specifici, ci sono illustri cattedratici, oltre che il presidente aggiunto della Corte di cassazione, che sanno esprimersi meglio di me.
Condivido perfettamente quello che ha detto il dottor Vittoria, infatti anche io mi ero annotato la domanda sulla necessità di prevedere tre - dico addirittura quattro - riti distinti per l'ipotesi degli articoli 14, 15, 16 e 17, cioè in materia di stranieri e di provvedimenti nei loro confronti. Lo stesso vale anche per le tre ipotesi degli articoli 19, 20 e 21 in materia elettorale. Non si poteva e non si potrebbe almeno fare uno sforzo di accorpamento?
Non volendo annoiare la Commissione e l'uditorio, concludi dicendo che l'Unione nazionale delle Camere civili auspica che il Parlamento voglia veramente e seriamente porre mano a un provvedimento di riduzione e di semplificazione dei riti, nell'ottica finale dell'unificazione della giurisdizione.
Infine, vorrei esprimere fortissime riserve e contrarietà - ancora una volta richiamo quanto ha dichiarato il presidente Alpa - circa il rito sommario, che non piace gli avvocati civilisti perché sacrifica il contraddittorio e le garanzie della difesa. Per contro, a fronte dell'attuale situazione in cui esiste solo la scansione dell'articolo 183, sesto comma - quindi i famosi 30, più 30, più 20 giorni - parlare di un processo civile semplificato mi sembra assurdo perché non capisco cosa si voglia semplificare ancora, se si vuole mantenere la garanzia del contraddittorio e della difesa. D'altra parte, nell'apertura dell'anno giudiziario il procuratore generale della Cassazione ha ricordato che la motivazione è la garanzia essenziale di tutti i provvedimenti ed è importantissimo che ci sia, quindi, una garanzia estesa dei provvedimenti.

MANOLA FAGGIOTTO, Coordinatrice della commissione studi dell'Associazione italiana degli avvocati civilisti. Porto i saluti dell'Associazione italiana avvocati civilisti e del suo presidente che, purtroppo, oggi non è potuto essere presente.
L'Associazione italiana avvocati civilisti manifesta grande apprezzamento per questa prima opera di riordino dei riti, tenendo presente i limiti stessi della delega, per cui, di fatto, non è stata creata l'opera che tutti noi pensavamo o quantomeno desideravamo che fosse realizzata.


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Ciò detto, il riordino o il ricompattamento - come dice il professor Consolo in un articolo - dei riti è un'operazione che coglie degli obiettivi fondamentali per quanto riguarda l'efficienza e la funzionalità della giustizia civile, in particolare del processo. Di fatto, tale riordino permette, innanzitutto, di eliminare tutte quelle pronunce di mero rito; in secondo luogo, supera tutte le difficoltà interpretative che le varie norme speciali originano; inoltre, facilita, in particolare, l'attività degli avvocati perché è molto più agevole individuare il giudice davanti al quale si deve incardinare la causa e non osservare i vari termini e scansioni processuali; infine, in qualche modo, esso veicola l'attenzione da parte sia del giudice sia degli stessi avvocati sull'oggetto fondamentale del processo, ovvero sul diritto che è oggetto di tutela, non sul rito in sé.
Tuttavia, manifestato questo apprezzamento, abbiamo colto alcune criticità.
In primo luogo, si evince nel testo che nel ricondurre i singoli riti differenziati a uno dei tre modelli previsti dal codice di procedura civile sono state mantenute alcune regole processuali di carattere speciale. Mi riferisco, in particolare, ai termini diversificati di proposizione del ricorso, nonché ai diversi termini per la notifica, alle differenti modalità di costituzione delle parti o alla differenziata disciplina della sospensione del provvedimento impugnato. Il risultato è che gli schemi procedimentali non sono uniformi. Si sono, dunque, create delle specialità nelle specialità, rendendo, attraverso queste differenziazioni, più complicata la tutela giurisdizionale.
Ora, è vero che il comma 4, lettera c), della delega dispone che la riconduzione del singolo rito a uno dei tre modelli indicati non può comportare l'abrogazione delle disposizioni che attribuiscono al giudice poteri ufficiosi, ovvero quelle finalizzate a produrre effetti non conseguibili con le norme del codice di procedura civile; ciò nonostante, riteniamo che questa limitazione di carattere sostanziale vada interpretata nel senso di mantenere solo quelle norme processuali che prevedono delle specifiche tutele di tipo sostanziale, non procedurale.
Peraltro, questo va tenuto presente anche per quanto riguarda l'origine dell'introduzione dei riti speciali, che, com'è noto, è stata effettuata dal legislatore in base all'esigenza di garantire una tutela differenziata, in ragione, però, della specificità delle situazioni di diritto sostanziale controverse ed è proprio in questa ottica che andavano mantenute solo quelle norme che garantivano questo principio. Questo aspetto va, dunque, limato e riconsiderato.
Quanto al rito sommario di cognizione, che è quello che più ha attirato l'attenzione di coloro che si sono occupati dello schema di decreto legislativo, vi sono delle perplessità in merito alla prevista non appellabilità della decisione. Infatti, mentre il procedimento sommario di cognizione di cui agli articoli 702-bis e seguenti è facoltativo, quello introdotto dall'articolo 54 è, di fatto, obbligatorio e vieta la conversione nel rito ordinario, come contenuto nella delega. Qualora in base alle richieste istruttorie delle parti sarebbe necessario procedere con il rito ordinario, questo non sarebbe possibile perché è vietato. Avremmo, quindi, un processo regolato da un potere smisurato del magistrato, dal punto di vista della discrezionalità, per cui le parti si troverebbero completamente prive di tutela, dal momento che non possono neppure far valere le ragioni disattese nel grado di appello.
Vorrei, poi, sottolineare, con riferimento al procedimento per la liquidazione degli onorari e dei diritti degli avvocati, che c'è una recentissima pronuncia della Corte di cassazione a sezioni unite dell'11 gennaio 2011, n. 390 che riguardava un procedimento relativo a un'opposizione a decreto ingiuntivo per somme relative a prestazioni giudiziali civili, svolto ai sensi della legge 13 giugno 1942, n. 794. In quel caso la Corte di cassazione ha stabilito che la decisione emessa dal giudice con la forma della sentenza andava comunque soggetta ad appello, con ciò cassando la sentenza della Corte d'appello, che aveva ritenuto


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inammissibile il gravame ai sensi dell'articolo 30 della legge, con la motivazione che, siccome, di fatto, sia le parti che il giudice, al di fuori di un provvedimento formale, si erano comportati nel corso del processo come se fosse un processo ordinario di cognizione, la decisione resa con la forma della sentenza andava a soggetta ad appello. In definitiva, un domani potrebbe capitare che - mi scuso con i signori magistrati - la Corte di cassazione o altro giudice possa avvalorare la circostanza che, se nell'ambito del processo ci si comporta come se si fosse di fronte a un processo ordinario di cognizione, al di là dei limiti della delega, sarebbe possibile l'appello, vanificando la previsione che impedisce la conversione nel rito ordinario. Insomma, se lo ha stabilito la Cassazione a Sezioni unite, mi chiedo cosa potrebbe accadere in futuro.
L'Associazione ha lasciato una nota scritta su questi temi. Ad ogni modo, concludo dicendo che ciò che traspare da questa opera pregevole e condivisibile è che bisogna stare attenti perché l'esigenza della celerità del processo non deve far perdere di vista il principio che esso deve essere prima di tutto giusto. E il processo è giusto quando, oltre a essere garantito il contraddittorio, sono garantite anche tutte garanzie costituzionali. Raccomandiamo, quindi, alla Commissione una maggiore attenzione, specie nei casi in cui non è permesso il controllo sulla decisione.

PAOLO BIAVATI, Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Bologna. Innanzitutto, ringrazio la Commissione dell'invito. Anche io ho preparato alcune note scritte, che vi lascio.
Per una rapidissima considerazione di questo schema, credo che si debba partire dall'obiettivo politico che ci si intende porre e che, secondo me, deve essere quello della maggiore riconduzione a unità possibile dei riti civili. Mi trovo in estrema sintonia con alcuni degli interventi che mi hanno preceduto, come quello del presidente Vittoria. Occorre, dunque, avere la consapevolezza che non possiamo continuare a moltiplicare i riti speciali di fronte alle nuove emergenze di diritto sostanziale. Da questo punto di vista, dobbiamo porci nell'ottica dell'articolo 54 e capire come lo schema sta cercando di tradurre la delega in un testo normativo. A questo fine, esaminerò rapidamente tre aspetti che meritano di essere analizzati.
Il primo punto è stabilire se gli adattamenti che lo schema e lo stesso articolo 54 prevedono per i riti diversi dall'ordinario siano razionali rispetto allo scopo. In secondo luogo, occorre vedere se i singoli procedimenti manifestino o meno un livello di adattamento razionale. Infine, è necessario riesaminare la scelta di incasellare i singoli procedimenti in questa o in quella categoria.
Dal primo punto di vista, per quanto riguarda il rito del lavoro, non mi stupisce che vi sia un'ipotesi di adattamento, specie se penso a quello che è stato fatto con il rito locatizio. Tutto sommato, abbiamo già nell'ordinamento una versione del rito del lavoro privata delle norme specificamente lavoristiche. Lo schema aggiunge, però, qualcosa su cui, forse, si potrebbe avere qualche perplessità; è il caso, per esempio, della disposizione limitativa di cui al quarto comma dell'articolo 2. Da questo punto di vista, mi piacerebbe confrontarmi con gli estensori per capire il perché di certe scelte; poi, forse, conoscendone la motivazione, potrei capire e riconoscere che hanno ragione. Invece, leggendo il testo, restano delle perplessità.
Per quanto riguarda il sommario, più volte evocato, premetto che non sono affatto sfavorevole al rito sommario, che ha grandi potenzialità. Non dimentichiamo, poi, che anche l'articolo 700 del codice di procedura civile un tempo era una norma a cui manuali dedicavano tre righe e che l'articolo 281-sexies, relativo alla discussione orale, non esisteva e solo adesso sta cominciando ad affermarsi. Bisogna, quindi, lasciare passare il tempo affinché i giudici non scelgano più il commodus discessus del processo ordinario per evitare di decidere in fretta e affinché gli avvocati si abituino. Insomma, non si possono introdurre dei riti, lasciarli in vigore


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due anni e poi cancellarli, ma bisogna dare il tempo di sperimentarli, con tutti i limiti del caso.
Ora, il rito sommario ha due valvole di sicurezza: il passaggio all'ordinario e l'appello. Così concepito, questo rito è, secondo me, a cognizione esauriente per una fattispecie semplice che può meritare l'accesso al giudicato. Se, però, si eliminano l'una o addirittura entrambe le stampelle, il problema diventa delicatissimo. Attualmente, una stampella è tolta dalla delega; infatti, purtroppo, la delega obbliga a un sommario - come è stato giustamente riferito - non modificabile, senza il passaggio all'ordinario. Ciò significa che, per evitare rischi di incostituzionalità, si debba necessariamente conservare l'altra stampella. Esprimo, pertanto, alla Commissione il mio forte dubbio circa la legittimità di un sommario senza appello. Più precisamente, potrei anche immaginare un sommario senza appello, ma con la possibilità di passare all'ordinario; viceversa, senza nessuna delle sue valvole, non è possibile.
Detto questo, vorrei esaminare i singoli riti. Ovviamente non entro nel dettaglio perché mi porterebbe via troppo tempo. A questo proposito, ho lasciato qualche indicazione nel testo scritto. Non c'è dubbio che alla prima impressione questo testo - certamente pregevole sul piano della tecnica normativa, come hanno riconosciuto tutti - conduce non a una semplificazione immediata, ma a una situazione di riti adattati di volta in volta. Peraltro, non sempre l'adattamento dipende dal diritto sostanziale - sul quale non avrei nulla da dire - poiché a volte vi sono adattamenti processuali, a mio avviso, non necessari. Non avendo il tempo di analizzarli tutti, mi limito a indicare questo aspetto come ipotesi generale di lavoro.
Inoltre, vi è il problema della scelta fra i diversi modelli. In merito a questo, ho due perplessità.
La prima, che ho già anticipato, riguarda l'impossibilità, a mio avviso, di un sommario senza impugnazione. Ciò significa che quei riti vanno ricondotti allo schema ordinario. Credo che questa sia l'unica soluzione possibile.
La seconda concerne l'impiego del rito del lavoro nei casi in cui la competenza è necessariamente anche del giudice di pace. Ricordo a me stesso - perché, evidentemente, per i presenti è ben chiara - l'ordinanza del 16 settembre 2008, n. 21418 della Cassazione a proposito del rito, poi superato, in merito agli incidenti stradali e alle lesioni, quando si discuteva se il giudice di pace se ne poteva occupare. Ebbene, la Cassazione affermò che quando si tratta di giudice di pace non può passare il rito del lavoro. Mi domando, allora, se il legislatore delegante e delegato stia tendendo conto di questo aspetto. È vero, del resto, che il legislatore può smentire la Corte di cassazione; tuttavia, l'indicazione mi sembra significativa. Laddove vi sia la competenza del giudice di pace, si determinerebbe, quindi, un ritorno al rito ordinario perché il rito del lavoro, secondo me, non potrebbe essere utilizzato.
Sulla base dei miei studi, vorrei fare un ultimissimo riferimento all'articolo 8, comma 3 dello schema, che, in materia di procedimenti di aiuto di Stato, immagina l'obbligo del giudice di proporre il procedimento pregiudiziale d'urgenza davanti alla Corte di giustizia. Ecco, ho l'impressione - ma vorrei confrontarmi su questo punto - che il procedimento pregiudiziale d'urgenza non si applichi alla materia degli aiuti di Stato. Senza essere troppo tranciante, credo si tratti di un errore del legislatore contenuto nella legge del 2008, che forse varrebbe la pena di verificare ed eventualmente correggere.

ANTONIO CARRATTA, Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università Roma Tre. Ringrazio la Commissione dell'invito a questa audizione. Ho esaminato lo schema di decreto legislativo a partire dai limiti posti dalla legge delega. Al di là delle scelte di opportunità che, di volta in volta, il legislatore delegato ha compiuto, secondo me, il confronto va fatto, appunto, con la legge delega. Da questo punto di vista, ho individuato almeno


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quattro punti che, in qualche maniera, possono far sorgere un dubbio di eccesso di delega.
La prima questione - già emersa ampiamente nelle relazioni di chi mi ha preceduto - è quella di rendere questo decreto una sorta di testo unico sui riti speciali esistenti fuori dal codice di procedura civile. Non c'è dubbio, infatti, che dalla lettura del testo dello schema di decreto legislativo emerga l'impressione che sia un testo unico; ma la legge delega indicava questo? Secondo me, già in questa scelta del legislatore delegato vi è qualcosa che va oltre la volontà del legislatore delegante, che non intendeva individuare tre modelli di riferimento ai quali ispirarsi per delineare i diversi riti speciali all'interno di un testo unico, né tantomeno voleva individuare i tre riti ai quali ricondurre quelli speciali esistenti fuori dal codice.
Pertanto, il fatto che il legislatore delegato non abbia seguito le indicazioni della legge delega, secondo me, fa dubitare del rispetto della volontà del delegante. Questa scelta di fondo non è di opportunità, bensì sostanziale e determinante poiché può anche condizionare i successivi interventi. Peraltro, nella relazione che accompagna questo schema di decreto legislativo si afferma che il legislatore delegato non ha potuto fare di più perché la legge delega poneva dei limiti. Io credo, però, che il legislatore delegato sia andato oltre i limiti. Infatti, come affermava l'avvocato dell'Unione nazionale Camere civili, dall'articolo 5 all'articolo 32 dello schema di decreto legislativo vi sono 28 riti speciali. Ogni articolo disciplina un rito. In realtà, quindi, questo testo finisce per essere una raccolta e non una riduzione e una semplificazione dei riti speciali.
Aggiungo, peraltro, un particolare, che forse è sfuggito, ma che era già nella legge delega. I riti speciali introdotti ex novo nelle materie richiamate dallo schema di decreto legislativo - quindi i 28 riti ai quali si faceva riferimento prima - si applicheranno alle controversie che nasceranno dal momento in cui entrerà in vigore il decreto legislativo. Viceversa, per le controversie già pendenti continuerà ad applicarsi il vecchio rito speciale. Alla fine, avremo, quindi, 28 riti più 28. Allora, paradossalmente, per effetto di questa scelta di fondo - che, ripeto, non è, secondo me, di mera opportunità, ma di non conformità alla volontà del legislatore delegante - si determina più che una riduzione e una semplificazione, addirittura una moltiplicazione dei riti speciali.
Per altre considerazioni rinvio al testo scritto. Tuttavia, vorrei ricapitolare le altre principali questioni.
Difatti, un altro punto che, secondo me, fa sorgere un problema di rispetto dei limiti posti dalla legge delega - strettamente legato alla prima questione - riguarda cosa doveva essere salvato del rito speciale di provenienza. In effetti, la legge delega affermava di ricondurre i riti speciali ai tre riti indicati, salvando le disposizioni speciali che individuavano poteri ufficiosi istruttori più ampi e le norme processuali speciali che individuavano effetti che le norme del codice non potevano consentire.
Ora, sui poteri istruttori ufficiosi, nulla quaestio. In realtà, nelle materie prese in considerazione non si verifica mai quest'ipotesi. Si verifica spesso, invece, l'altra ipotesi. In questo caso, il legislatore delegato ha interpretato quest'indicazione della legge delega salvando tutte le norme processuali che prevedessero effetti di natura squisitamente processuale nel rito di provenienza. Di fatto, però, in questa maniera, si salva il rito speciale. Infatti, il rito speciale si distingue da quello generale proprio perché contiene delle norme processuali speciali che lo diversificano dal rito ordinario. Di conseguenza, aver salvato delle norme speciali processuali del rito di provenienza ha determinato, di fatto, questo elenco di 28 riti ricondotti al modello, ma non al rito di riferimento, come indicato legislatore delegante.
Credo, quindi, che questa non sia stata la volontà del legislatore delegante, che intendeva salvare l'essenza della tutela giurisdizionale differenziata che si è succeduta dagli anni Settanta in poi - basti considerare il rito del lavoro come mo


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dello di riferimento della tutela giurisdizionale differenziata - e che introduceva, accanto a norme di natura processuale diverse dal rito ordinario, altre norme con l'obiettivo di garantire effetti di natura sostanziale per le parti. Si pensi, per esempio, all'aumento dei poteri istruttori del giudice, finalizzati a consentire la parità sostanziale all'interno il processo di parti che, fuori del processo, non hanno questa parità. Anche in questo caso vi è, secondo me, una non conformità alla volontà del legislatore delegante.
Un ulteriore aspetto concerne la scelta del rito di destinazione - mi piace chiamarlo in questo modo, anche se, in realtà, è più propriamente un modello di destinazione - tra rito ordinario, rito del lavoro e procedimento sommario. Ora, sulla scelta del rito ordinario, nulla quaestio. Il problema si pone quando si è scelto il rito del lavoro o il procedimento sommario. Difatti, la legge delega indicava che la scelta del rito del lavoro doveva essere fatta in presenza dell'esigenza o di assicurare poteri istruttori ufficiosi più ampi oppure di concentrazione del procedimento. La questione si pone, in particolare, in merito alla nozione di concentrazione, che è un concetto teorico non individuabile facilmente sul piano della pratica o nella legislazione. In effetti, il legislatore delegato ha scelto delle controversie da ricondurre al rito del lavoro rispetto alle quali si può dubitare che esista il presupposto dell'esigenza di concentrazione. Nel testo scritto ho portato diversi esempi. In questa sede mi limito a riportare il caso delle controversie previste dal codice della privacy, all'articolo 152, in cui è chiaramente delineato il rito ordinario a cognizione piena davanti al tribunale in composizione monocratica. Sfugge, sinceramente, da dove emerga nell'articolo 152 l'esigenza della concentrazione di natura processuale, quindi non si comprende perché il legislatore abbia scelto, in quella fattispecie, il rito del lavoro.
Lo stesso discorso vale per le opposizioni alle sanzioni amministrative. Anche in questo caso, non si comprende la scelta del rito del lavoro perché non si ravvisa l'esigenza di concentrazione. Tra l'altro, ciò determina anche un problema di compatibilità dell'utilizzo di questo rito quando la competenza sia del giudice di pace, come rilevava prima il professor Biavati.
Ancora più grave, poi, è il problema rispetto alla scelta del rito sommario. Com'è stato già rilevato, il procedimento sommario diventa rito necessario per determinate controversie. Anche in questo caso, però, occorre considerare la volontà del legislatore delegante. L'articolo 54, quarto comma, riconosce espressamente che questa scelta va effettuata quando emergano dalla controversia esigenze di semplificazione della trattazione o dell'istruzione della causa. Il punto era, dunque, delicatissimo. Il legislatore delegato non sembra, invece, aver colto questo aspetto. Nella scelta delle controversie si sarebbero dovute individuare tipologie rispetto alle quali, effettivamente, vi era un presupposto di questo tipo, ovvero cause che non richiedessero un'istruzione o una trattazione ordinaria. Non mi pare, però, che il legislatore delegato abbia agito in questi senso. Infatti, se pensiamo a tutte le controversie che riguardano l'immigrazione o il riconoscimento dello status di rifugiato, non è facile cogliere dove sia la semplificazione dell'istruzione.
Aggiungo, peraltro, che nella scelta del procedimento sommario, proprio il fatto di non aver tenuto conto che il punto di riferimento erano le cause in cui si poteva arrivare alla decisione attraverso una trattazione semplificata era alla base della decisione del legislatore delegante di non consentire la conversione del rito, altrimenti non avrebbe avuto senso l'esclusione della conversione dal sommario al rito ordinario. Quindi, questa scelta era vincolante nella selezione delle controversie da ricondurre al procedimento sommario perché solo queste potevano essere effettivamente trattate con quel procedimento e non avrebbero richiesto la conversione nel rito ordinario.
Se a questo, poi, aggiungiamo che in alcuni casi il legislatore delegato esclude l'appellabilità dell'ordinanza che chiude il


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primo grado del procedimento a cognizione sommaria vi è un ulteriore vizio di eccesso di delega. Secondo me, infatti, la legge delega non consentiva al legislatore delegato di intervenire anche sulla disciplina dei riti di destinazione; difatti, la legge delega non contiene una parola in questo senso. Questo pone, inoltre, anche un problema di effettività della tutela giurisdizionale, quindi di conformità sia con l'articolo 24, primo comma, della Costituzione, che soprattutto con l'articolo 3. Non si capisce, appunto, per quale ragione in determinati casi si ammetta l'appello avverso l'ordinanza che chiude un giudizio sommario e in altri casi no.
L'ultimo punto è sempre a proposito del rispetto dei limiti la legge delega. Nella scelta che il legislatore delegante consentiva al legislatore delegato circa i riti da prendere in considerazione per la riconduzione ai tre indicati, escludeva alcune materie - e su questo, nulla quaestio - ma anche tutti quei riti che non fossero autonomamente disciplinati dalla legge speciale. In altri termini, doveva prendere in considerazione solo i riti speciali che non contenevano nella disciplina speciale già il riferimento a un rito del codice.
Tuttavia, il legislatore delegato non ha rispettato questa indicazione in tre ipotesi: il rito agrario, la disciplina sui protesti e l'opposizione alle sanzioni amministrative. In questi casi, mi pare, infatti, non vi fosse bisogno di prendere in considerazione questi riti speciali perché già nella disciplina di provenienza c'era il riferimento all'applicazione delle norme del codice di procedura civile.
Mi si obietterà che avere preso in considerazione il rito agrario per ricondurlo al processo del lavoro non cambia nulla perché già nella disciplina di provenienza vi era il riferimento al rito del lavoro. Ciò nonostante, in questo schema di decreto legislativo si modifica - come dicevo prima - in alcune parti la disciplina del rito di destinazione, contrariamente alla volontà del legislatore delegante, che non intendeva apportare questi cambiamenti. Di riflesso, quindi, questa modifica va ad alterare anche la disciplina processuale contenuta nella legge speciale di provenienza.

GIORGIO COSTANTINO, Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università Roma Tre. La ringrazio, presidente, di avermi convocato su questo tema estremamente importante. Lei diceva che domani scade il termine per l'emanazione del parere. Ecco, questa è un'occasione di enorme importanza culturale e storica, anche se i tempi e i limiti della delega inevitabilmente strozzano la discussione.
Questo tema è importante perché noi processualisti, che studiamo e ci occupiamo di questi argomenti, cerchiamo di mettere ordine, di classificare e di capire; viceversa, è normale che il Parlamento - come diceva prima il presidente Vittoria - prenda una legge di settore e vi introduca la norma processuale in base all'esigenza di razionalizzare e tutelare, ottenendo, però, solo l'illusione di creare isole felici. Peraltro, questo non accade solo adesso. Se prediamo, per esempio, l'articolo 1 del regio decreto 14 aprile 1910, n. 639 troviamo abolite tutte le forme speciali degli Stati preunitari per la riscossione dei crediti pubblici; tuttavia, a maggio dello stesso anno, vi erano già altre leggi per la riscossione dei crediti pubblici.
Questa occasione rappresenta, dunque, un fatto storico di enorme importanza nel nostro Paese. Va ricordato anche che nel 1942, quando fu redatto il codice, erano pronti solo i primi tre libri; siccome, però, c'era la guerra e occorreva fare presto, furono raccolti e inseriti nel IV libro tutti i procedimenti speciali (il decreto ingiuntivo, legge del 1922, corretta nel 1934; lo sfratto e quant'altro). Neppure allora fu realizzata, quindi, un'opera di razionalizzazione e unificazione; difatti, Virgilio Andrioli sosteneva che il IV libro fosse l'UPIM della procedura civile.
Sui limiti della delega si sono espressi tutti gli intervenuti che mi hanno preceduto.
Un ulteriore grosso problema per gli avvocati concerne le diverse versioni succedute


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alla riforma. Abbiamo il processo ordinario precedente al 1995, quello del 1995-2006, del 2006-2008 e del 2008-2009. Prima, invece, quando si faceva una riforma si introducevano le norme transitorie per consentire l'adeguamento ai cambiamenti. Certo, è difficile fare il pit stop e cambiare le ruote in corsa, ma è un problema tecnico che si deve affrontare, altrimenti impazziscono sia l'avvocato sia soprattutto i magistrati di Cassazione, che devono esprimere giudizi diversi in relazione a periodi diversi. Insomma, è difficile agire in questo contesto.
Una seconda questione riguarda i procedimenti speciali che stanno nei codici, e sono molti. Tre - famiglia, fallimento e lavoro - non li tocchiamo. Tuttavia, in questo ambito vogliamo fare una razionalizzazione sulla base di un criterio serio? Come si fa? Dovete mettere assieme i procedimenti speciali, inserendoli in queste tre caselle: ordinario, sommario e lavoro. Occorre considerare i diritti e stabilire che, per esempio, quelli relativi al pagamento di somme di danaro rientrano in una categoria; quelli relativi alla gestione di qualcosa, in un'altra; quelli della personalità in un'altra ancora e via dicendo. Invece, è stato seguito un criterio diverso, considerando le leggi, che non seguono, però, un criterio razionale poiché rispondono alle esigenze politiche e storiche che via via si sono affermate.
Nel 1927, la buonanima di Francesco Carnelutti diceva che, se vogliamo l'industria automobilistica, dobbiamo introdurre un procedimento speciale per far pagare chi vende le automobili. Quando si sono aperte le frontiere americane all'importazione di prosciutti è stata fatta la legge per la tutela dei prosciutti DOC. Possiamo, dunque, mettere l'etichetta storica sopra ogni legge. Per contro, bisogna lavorare sui diritti, non sulle leggi. Altrimenti, si mettono insieme le leggi, ottenendo un collage, con le conseguenze indicate da chi è intervenuto prima di me. Non si è provveduto neanche ad aggiustarle e unificarle; abbiamo, quindi, termini, competenze e meccanismi diversi.
Il presidente Vittoria sosteneva che in molti casi si tratta di opposizioni ad atti amministrativi che impongono il pagamento di una somma di denaro. Perché, allora, l'opposizione alle ordinanze-ingiunzioni per violazioni al codice della strada o altro va con il rito del lavoro e l'opposizione all'ingiunzione amministrativa va con quello ordinario? Perché stanno in leggi diverse. Certamente, visto che una è del 1910 e l'altra del 1981; tuttavia, il contenuto della tutela è lo stesso. Per quale ragione, allora, ciò accade?
Questa è, quindi, un'occasione perduta. La Commissione domani può rammaricarsi dell'opportunità persa oppure può provare ad apportare le correzioni da più parti segnalate.
D'altra parte, questo è un lavoro tecnico, serio e di altissimo livello. Tutti i progetti preparati dei nostri colleghi - Liebman, Tarzia, Vaccarella, Proto Pisani - contengono una parte per unificare la tutela sommaria, ognuno secondo le proprie scelte. Tuttavia, questo non è stato fatto. Si facciano, però, almeno queste correzioni per evitare che vi siano termini diversi e che - come diceva poc'anzi Antonio Carratta - questo decreto porti, non a una semplificazione e riduzione, ma all'ennesima moltiplicazione dei riti.
D'altronde, credo che un effetto di questo decreto sarà, senza dubbio, il rilancio dell'editoria giuridica e del turismo processuale perché andremo a fare convegni in tutta Italia per illustrarlo. Noi, però, non vogliamo soltanto questo.

SERGIO MENCHINI, Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Pisa. Innanzitutto, ringrazio dell'opportunità di partecipare ai lavori della Commissione. Il fatto di parlare dopo i molti colleghi che mi hanno preceduto facilita il mio discorso. Credo, infatti, si debbano prendere le mosse dal quadro di questo schema di decreto. È un dato assodato che la scelta fatta dal legislatore delegato sia timida e che, pur con una tecnica descrittiva della norma - com'è stato rilevato dai più - apprezzabile, vada nel senso non della riduzione e della


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semplificazione dei riti, bensì della redazione di un testo unico che accorpa 28, come dicono, anche se a me sembrano 29, riti diversi.
Tali riti hanno, oltretutto, regole diverse, anche nei casi in cui un tentativo minimo di omogeneizzazione e uniformità poteva essere compiuto. Non sto a ripetere quanto hanno già detto gli altri. Tuttavia, si poteva intervenire sui termini per promuovere i procedimenti di opposizione, la regolamentazione dell'inibitoria contro i provvedimenti amministrativi impugnati, il termine per le modalità di costituzione in giudizio e via dicendo.
Detto questo, mi chiedo il perché di questa scelta. Come ha detto giustamente Giorgio Costantino, si tratta di una scelta che prescinde dall'oggetto della tutela perché guarda la legge. Io credo che essa derivi da un' interpretazione assolutamente timida e restrittiva della delega, che poneva due limiti, quello di guardare alla struttura dei procedimenti e quello di evitare di intervenire sulle norme che comportassero regole processuali speciali. Invece, nel momento in cui si guarda alla struttura, prescindendo dai diritti, evidentemente si attribuiscono regole disomogenee a situazioni sostanziali pressoché identiche. Penso, per esempio, ai diversi riti contro i provvedimenti amministrativi ricondotti in senso lato (sanzioni amministrative, codice della strada e quant'altro).
Inoltre, quando si legge - com'è scritto con estrema chiarezza nella relazione - dell'impossibilità di intaccare ogni norma speciale in quanto produce un effetto processuale speciale, si è già compiuta la scelta di riproporre riti vecchi, semplicemente riorganizzandoli. Infatti, se quel limite è intangibile, per cui ogni norma processuale speciale produce un effetto speciale, si chiude il discorso e la scelta diventa obbligata, generando questo risultato.
Certamente questa non era l'unica strada possibile. A mio avviso, si potevano leggere, infatti, i limiti alla delega in modo completamente diverso, guardando - come ha detto qualcuno prima di me - al contenuto dei rimedi, quindi agli aspetti fondamentali del procedimento, come le questioni dell'onere della prova; dei poteri ufficiosi del giudice, non solo istruttori; dei contenuti delle tutele e dei provvedimenti giurisdizionali interinali e definitivi, che potevano essere inseriti, e via discorrendo. Ciò, però, non è stato fatto.
Tuttavia, partiamo da questo dato per cercare di mettere a fuoco i problemi. Dopo aver compiuto questa scelta, ci si può fermare a questo punto, prendendone atto, oppure si può cercare di costruire per il futuro.
Posto che la scelta sia questa, credo si debba comunque approfondire l'argomento successivo. Detto con estrema chiarezza, un giorno prima della scadenza del parere è difficile assumere posizioni di un certo tipo, se non arrendersi e prestare le armi, come diceva Carnelutti, aggiudicato in questo caso al legislatore delegato. A ogni modo, cerchiamo di approfondire e di capire se, pur con il limite della scelta di fondo compiuta dal legislatore delegato, si può ancora compiere qualche intervento minimo. Infatti, a me sembra che vi siano almeno quattro o cinque aspetti su cui invitare la Commissione a riflettere per migliorare questo testo. Almeno questo cerchiamo di farlo.
Il primo - già menzionato - è il problema dell'inappellabilità dei provvedimenti sommari. Si può discutere all'infinito se il sommario di cognizione sia strumento ragionevole per la tutela giurisdizionale dei diritti e per certi tipi di controversie. Ciò nonostante, è certo che se noi costruiamo un sommario obbligatorio per la tutela dei diritti, questo non può non prevedere un rimedio di carattere impugnatorio aperto e restitutorio. Con «aperto» intendo dire che mi consenta di riesaminare in toto la decisione, anche in punto di fatto; cosa che il ricorso in Cassazione non consente; con «restitutorio» intendo che conceda di rimettere in termini le parti quante volte la scelta del rito sommario, in qualche modo, ha pregiudicato o impedito o diminuito le facoltà difensive delle parti.


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Per contro, la scelta dello schema di decreto è di segno opposto perché vi sono dei riti che si svolgono in appello, in primo grado, e quindi inevitabilmente prevedono il ricorso per Cassazione, quindi vi è il controllo unico, e dei riti dichiarati che si svolgono in primo grado con provvedimento non appellabile, come quelli in tema di sanzioni amministrative.
Ebbene, bisogna riconoscere con chiarezza - e scrivere - che questa scelta non è corretta perché va contro idee che stiamo masticando tutti i giorni. Infatti, la Corte di cassazione civile chiede di alleggerire il suo carico e noi, rendendo i provvedimenti inoppugnabili in appello e quindi soltanto ricorribili in Cassazione, la appesantiamo ulteriormente. Quindi, eliminando l'appello e ammettendo solo il ricorso per Cassazione, si va contro l'esigenza di alleggerimento del carico della Corte di cassazione.
Un secondo aspetto - toccato da Antonio Carratta - riguarda un eccesso di delega perché la norma di delega consentiva il procedimento sommario di cognizione così com'è scritto, ma non amputandolo dell'appello. In questo caso, di nuovo ci siamo arresi di fronte alla norma speciale che affermava che il provvedimento era non impugnabile, quindi, in base alla scelta di fondo di non toccare tutto ciò che è speciale, si è lasciata anche la non appellabilità.
Mi sembra che vi sia un contrasto tra due letture; tuttavia, occorre privilegiare quella costituzionalmente più corretta e quindi prevedere il rimedio dell'appello in modo chiaro e netto.
Vorrei citare alcuni punti ulteriori su quali, secondo me, si può ancora intervenire.
La norma di cui all'articolo 4, comma 2, che stabilisce che la decisione sul difetto di rito va presa in prima udienza, è ridicola; è l'eccezione che va dedotta in prima udienza; poi, il giudice prenderà la decisione quando vorrà; non è che l'eccezione decade solo perché non è stata decisa in prima udienza. In questo caso, era meglio dire - come mi pare si volesse, ma è scritto male - che, entro la prima udienza, anche d'ufficio, deve essere rilevata la relativa eccezione, sia che il giudice deciderà in prima udienza o meno.
Un altro aspetto tecnico molto importante su cui intervenire riguarda, poi, le controversie agrarie, per le quali il legislatore ha richiamato il rito di cui all'articolo 2, intervenendo sulla disciplina esistente. Tuttavia, richiamare il rito di cui all'articolo 2 ha significato togliere tutte quelle norme che il legislatore delegato riconosce non valere per le controversie di lavoro. Mi spiego meglio. Sappiamo che il rito del lavoro è deputato anche a risolvere controversie che non sono di lavoro in senso stretto. Allora il legislatore ha fatto la scelta di non applicare le norme per controversie di lavoro. Se, però, ripetiamo questa scelta per le controversie agrarie, il risultato finale è che a queste controversie non si applicano più quelle regole speciali previste nel vecchio sistema, come la rivalutazione automatica di crediti. Ci ritroviamo, di nuovo, davanti a un sistema incostituzionale perché la controversia del lavoratore agrario avrà un assetto di tutela diverso della controversa del lavoratore subordinato. Secondo me, in questo caso vi è un palese errore da correggere.
Chiudo su un ultimo appunto che reputo bisognevole di intervento. Come dicevo prima, il rito sommario è previsto anche per controversie che vengono risolte in un unico grado. Penso agli articoli 22, 23 e 24. È strano, però, che viene riproposta una vecchia norma che stabilisce di applicare a queste controversie il rito sommario, quando poi il comma successivo afferma che si applicano a queste controversie le norme del primo grado. Non capisco come si questo si possa coordinare perché si lascia la vecchia norma e poi si dice, al contempo, che si applica il rito sommario. C'è, quindi, una palese distonia tra le due previsioni che forse meriterebbe di essere corretta, almeno in questo sprint finale.

BRUNO SASSANI, Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Roma Tor Vergata. Mi sembra ci sia veramente


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molta carne al fuoco, come mi sembra che, arrivati a questo punto, non vi sia molto altro da fare. Pertanto, lascerò da parte le critiche radicali a questa operazione, che ha semplicemente moltiplicato i riti in una maniera esponenziale. Del resto, sto scrivendo sull'argomento e sto scoprendo che la moltiplicazione e la complicazione dei riti è arrivata alle stelle con questo lavoro.
A ogni modo, vorrei discutere di alcuni aspetti che forse ancora si potrebbero affrontare. Vorrei, quindi, ribadire alcuni punti già trattati, per rafforzarli.
In primo luogo, vorrei riprendere il problema dell'appello, che non ha senso. In linea generale, bisogna cercare di unificare la disciplina dell'appellabilità e dell'inappellabilità.
Rispetto alla questione dell'unificazione dei riti delle espulsioni, dei trattamenti sanitari obbligatori e della protezione internazionale - come ha detto il presidente Vittoria - vi è una moltiplicazione dei riti, dei termini e delle forme che non ha senso in una materia sostanzialmente unitaria. Lo stesso vale - anche questo è stato già detto, ma va ribadito perché forse si può fare ancora qualcosa - per i riti elettorali. Infatti, gli articoli 19, 20 e 21 moltiplicano le tecniche di soluzione delle controversie in materia di riti elettorali, che è un ambito sostanzialmente unitario.
A quanto detto da chi mi ha preceduto vorrei aggiungere qualche considerazione su alcune norme particolari.
L'articolo 9, che regola il procedimento in materia di applicazione delle disposizioni del codice della protezione dei dati personali, riscrive il vecchio articolo 152; tuttavia, è stata espunta la possibilità di risarcimento dei danni, congeniale a questo tipo di procedimento. Nel vecchio caso, infatti, si regolava anche la richiesta di risarcimento danni, attirandola nel rito speciale. Ora, invece, occorre proporre la richiesta di risarcimento danni con rito ordinario, facendo scattare l'articolo 4, per cui viene meno novantanove volte su cento l'applicabilità dell'articolo 9. Non capisco perché ciò sia avvenuto; forse si può ancora porre rimedio.
L'articolo 11 concerne il procedimento di impugnazione del provvedimento in materia di registro e di protesti. Una volta, nella legge 12 febbraio 1955, n. 77, si parlava puramente e semplicemente di controversie; adesso si costruisce la fattispecie come «controversie aventi a oggetto l'impugnazione avverso il rigetto delle istanze», scordandosi, però, dei termini. Infatti, è la prima volta che trovo, in una normativa, un'impugnazione che non ha termine. Ho controllato se per caso vi fosse qualche termine nella legge a quo da cui è stato estratto questo articolo 11, ma non ci sono termini perché la norma era costruita in maniera diversa. Ora la si chiama impugnazione, senza, però, indicare i termini entro cui si può proporre.
In merito al giudizio di Cassazione, vi sono varie norme, tutte evidentemente intese a prevedere una procedura accelerata rispetto a quella ordinaria. Tuttavia, in alcuni casi si dice che la Cassazione giudica in Camera di consiglio, mentre in altri si dice che l'udienza viene fissata tempestivamente. Ora, ci vuol molto a unificare, di fronte alla Corte di cassazione, il rito prevedendo il procedimento in Camera di consiglio? Che senso ha la pubblica udienza nei casi in cui è evidente l'urgenza, come in materia elettorale?
Un altro problema del giudizio innanzi alla Corte di cassazione concerne i termini, che sono ridotti alla metà. In Cassazione esiste, però, il termine di 5 giorni, quindi non si capisce quale sia la metà. Perché, dunque, dare tanto lavoro al presidente Vittoria e alle Sezioni unite che poi debbono risolvere in via interpretativa e solennemente questi aspetti quando la legge li potrebbe fissare in maniera molto semplice?
A proposito dell'impugnazione dei provvedimenti disciplinari della legge notarile abbiamo veramente superato il limite del pensabile. Questo, infatti, è un vero patchwork. Buona parte della disciplina resta nella legge notarile (come le legittimazioni ad agire e i termini) e un'altra parte è riscritta nell'articolo 23, il quale va a regolare anche i provvedimenti cautelari. La situazione è, dunque, complessa


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perché vi sono provvedimenti cautelari della Commissione notarile e del giudice. La norma manca, quindi, assolutamente di coordinamento e non si capisce se si possono fare o meno reclami oppure se c'è l'applicabilità del rito cautelare uniforme o meno, data la specialità della materia. Se si deve regolare questo tipo di controversie, sarebbe opportuno regolare anche il cautelare.
Del resto, non è la sola norma in cui si pongono problemi in merito al cautelare. C'è un'altra - evocata dal professor Biavati - nella quale appare ancora più delicata questa questione. Mi riferisco all'articolo 8, in materia di opposizione ai provvedimenti di recupero degli aiuti di Stato. Il professor Biavati sostiene che, a monte, le cose stanno diversamente; la legge italiana, però, prevede il rinvio pregiudiziale, quindi ci dobbiamo attenere a questo. Ora, il rinvio pregiudiziale si ha se viene concessa la sospensione dell'efficacia del titolo amministrativo o giudiziale europeo di pagamento; può concedere la sospensione il giudice ed evidentemente si tratta di un provvedimento cautelare. Ebbene, quale regime si applica in questo caso? Se applichiamo il 669-terdecies, cioè la norma sul reclamo cautelare, ci troviamo davanti a un bivio. Infatti, nell'ipotesi più semplice che il giudice in prima istanza non conceda la sospensione e, dopo il reclamo, la conceda il giudice del cautelare, chi deve fare il rinvio pregiudiziale, il giudice del reclamo o quello di prima istanza? E se, invece, non ci sono ipotesi di rinvio pregiudiziale perché, per esempio, c'è un errore del destinatario, la norma dice che il giudice che concede la sospensione deve fissare l'udienza per il merito. In questo caso, l'applicabilità del 669-terdecies, cioè del reclamo cautelare, lascerebbe al giudice del reclamo il compito di fissare l'udienza non per sé, ma per un altro giudice; il che mi pare abbastanza assurdo.
Vorrei fare un'ultima considerazione in merito al patchwork relativo ai provvedimenti disciplinari a carico dei notai, che capisco abbia dato molto da fare, data la complessità dell'intero meccanismo. Peraltro, anche questo aspetto è stato evocato stamattina da Ferruccio Auletta. In questo caso, il legislatore ha scritto una norma che elimina il numero 4 dell'articolo 360, in merito alla ricorribilità per nullità della sentenza o del procedimento, dai motivi di ricorso in Cassazione. Quindi, contro la decisione della Corte d'Appello sul reclamo avverso il provvedimento disciplinare è ammesso ricorso per Cassazione nei soli casi previsti dai numeri 3 e 5 dell'articolo 360 del codice di procedura civile. In pratica, si sopprime il vecchio procedimento, disciplinato dall'articolo 737, con pronuncia, quindi, in Camera di consiglio, lo si formalizza, dando rilievo alle nullità, e poi si impedisce di portare le nullità in Cassazione. Trovo che questo sia assurdo perché, probabilmente, questa norma aveva un senso nel sistema precedente, ma non lo ha più nel momento in cui si impongono dei termini e delle regole e poi si nega la possibilità di far valere la violazione di queste stesse regole.

GIUSEPPE TRISORIO LIUZZI, Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Bari. Rivolgo, innanzitutto, un ringraziamento alla Commissione per l'invito che mi è stato rivolto. Parlando per ultimo, mi trovo inevitabilmente a ripercorrere quanto è stato già detto in precedenza. Il mio intervento non vuole essere un intervento di sintesi. Tuttavia, procederò, anche per ragioni di tempo, per gradi.
L'obiettivo di tutti, anche per rispondere a un'esigenza da più parti avvertita, era quello di ridurre tutti i diritti a unità. Tuttavia, come ha detto Giorgio Costantino, questa è stata un'occasione persa perché, in realtà, questo non è accaduto.
Le responsabilità vanno attribuite sicuramente alla legge delega perché fissa alcuni criteri e principi direttivi che non hanno portato verso questa direzione. Penso alla previsione di mantenere i criteri di competenza e di composizione dell'organo giudicante; all'esclusione di tutti i procedimenti in materia di fallimento, persone, minori, assegno, cambiale, codice della proprietà industriale e codice


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del consumo; alla mancata previsione di cosa deve accadere sul procedimento camerale, di cui all'articolo 737, quando ha a oggetto controversie contenziose (mi chiedo, per esempio, che fine faccia la legge Pinto); e ancora alla mancata regolamentazione di tutta la disciplina transitoria del processo ordinario poiché - come ricordava Giorgio Costantino - ogni riforma ha mantenuto il rito precedente per cui ancora oggi abbiamo cause disciplinate con la legge anteriore al 1995. Per fortuna, quelle disciplinate dalla legge anteriore al 1950 sono ormai escluse.
Certamente, la legge delega non ha favorito questa operazione. D'altra parte la stessa legge delega ha elevato a modello un rito - il procedimento sommario di cognizione - che deve farsi ancora apprezzare sul campo. Difatti, se il professor Biavati gradisce questo rito, so che c'è una grande preoccupazione da parte degli avvocati proprio per quell'istruzione sommaria poco utilizzata. Pertanto, prendere a modello un rito, del quale non si sa ancora, a livello pratico, se sortirà gli effetti sperati, mi fa pensare al rito commerciale, introdotto nel 2003 come previsione del modello al quale tutto il processo civile ordinario avrebbe dovuto ispirarsi e che, però, questa stessa legge delega, nell'ultimo comma dell'articolo 54, ha abrogato. In sintesi, quindi, la legge delega non ha certamente favorito l'unificazione dei riti. Lo schema di decreto legislativo mi sembra che, ugualmente, non favorisca questo obiettivo.
Il professor Menchini, l'avvocato Faggiotto e il professor Carratta ricordavano l'interpretazione restrittiva data dal legislatore delegato al principio dell'articolo 54, lettera c). Un'interpretazione proposta da Francesco Paolo Luise in un incontro al Consiglio nazionale forense di qualche settimana fa è che, obiettivamente, si è favorito il mantenimento di questi riti. Infatti, sostenere che bisogna mantenere per ogni rito speciale le norme processuali significa, in buona sostanza, conservare il rito speciale che, rispetto al processo ordinario, è diverso proprio per l'iter e non perché vi sia un giudice speciale.
Come ricordava l'avvocato Menoni dell'Unione nazionale delle camere civili, vi sono 28 riti; secondo Sergio Menchini sarebbero addirittura 29. In ogni caso, sono tantissimi, quindi, alla fine, l'unificazione dei riti non c'è stata. Da parte del legislatore delegato c'è stata una scelta di questo tipo, con diversi errori. Per esempio, come ricordavano Menchini e Carratta, vi è la questione delle controverse agrarie, che erano disciplinate perfettamente e completamente da tutte le norme del processo del lavoro e che oggi, invece, perdono diverse norme. Immagino tutte le problematiche che possono presentarsi quando intervengono questioni di lavoro nell'ambito dei contratti agrari. In quel caso, infatti, qual è la disciplina applicabile? Quella del 439, quindi l'intera disciplina del processo del lavoro, oppure quella prevista oggi, che esclude alcune norme?
Da più parti si è anche detto che non vi è stata una semplificazione. Il presidente Vittoria, ricordando gli articoli 15, 16 e 17, mostrava come i termini per proporre il ricorso siano diversi. In realtà, però, non si tratta solo di quelle tre norme, perché se facciamo una rapida analisi - poi lascerò un testo scritto - vediamo, per esempio, che per quanto riguarda i procedimenti collocati nell'ambito del processo del lavoro vi è l'opposizione all'ordinanza di ingiunzione, termine di 30 giorni; verbale di accertamento, 60 giorni; opposizione a sanzioni amministrative in materia di stupefacenti, 10 giorni e via dicendo. Per non parlare, poi, di tutto il resto che sta nel processo sommario.
Abbiamo, quindi, diversi termini per proporre ricorso, per la costituzione e anche per l'impugnazione perché non sempre l'appello è di 30 giorni - uno è di 10 giorni, l'altro di 20 - e lo stesso ricorso per Cassazione non è sempre di 60 giorni. Ora, io faccio l'avvocato, oltre che il professore universitario, e sono spaventato perché questa situazione crea problemi e si ripercuote sul contenzioso. Vi sarà, infatti, un aumento del contenzioso, non certamente un'opera di semplificazione.


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Ecco, vi sarebbero tanti altri punti da affrontare. A ogni modo, vorrei soffermarmi sull'aspetto dell'appellabilità perché mi sembra importante sottolineare che non si può pensare di favorire un'accelerazione e una riduzione dei tempi del processo riducendo le garanzie delle parti, soprattutto quelle costituzionalmente garantite. Penso, appunto, alle impugnazioni, che costituiscono una parte essenziale del diritto di difesa e non possono assolutamente essere eliminate. Ora, nel momento in cui - lo ricordava anche Paolo Biavati - abbiamo un processo sommario di cognizione che prevede questi due aspetti, ovvero la possibilità di andare al rito ordinario e l'appello, tolta la possibilità di andare al rito ordinario, resta l'appello.
Se esaminiamo la legge delega - come ricordava anche Sergio Menchini - l'unica possibilità per ridurre l'operatività del rito sommario di cognizione è evitare il passaggio al rito ordinario, ma nulla si dice sull'articolo 702-quater. Ciò significa che c'è un eccesso evidente di delega in quelle tre ipotesi nelle quali si prevede la non impugnabilità, a maggior ragione che una di esse - non ricordo quale; mi sembra quella in merito all'espulsione dei cittadini degli Stati non europei - non era neanche prevista nella legislazione di provenienza; tuttavia, la norma è comunque incostituzionale in maniera evidente perché resta appellabile l'espulsione nei confronti dei cittadini degli Stati membri dell'Unione europea.
Chiudo con un'ultima osservazione. Non sono d'accordo con chi considera questo testo pregevole. Si tratta di un testo che, anche per le ragioni esposte, non si può definire tale; credo, infatti, che meriti tutte le critiche che gli sono state rivolte.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

CINZIA CAPANO. Il professor Trisorio Liuzzi ha anticipato la mia prima domanda perché volevo, appunto, chiedere quali fossero i punti di pregevolezza di questo provvedimento, visto che, per come sono andate le audizioni, mi sono sfuggiti gli elementi di valore. Provò, quindi, a ricapitolare quello è emerso dalla maggior parte degli interventi.
Innanzitutto, vi era un limite nella legge delega, ma, nonostante questo limite, il legislatore delegato avrebbe potuto tentare quantomeno di dare attuazione al compito di razionalizzazione, se non a quello di riduzione e semplificazione che gli era stato affidato. In realtà, questa razionalizzazione non è stata fatta neanche sotto la forma di un testo unico, ma più che altro di una raccolta che ha proceduto, peraltro, con una tecnica quasi da scippo, inserendosi in altri testi unici, come per le espropriazioni, e attingendo alla materia processuale, immettendola nel corpo di questa operazione di unificazione.
L'effetto è stato non solo di non ridurre e non semplificare, ma di moltiplicare e complicare, portando alcune differenziazioni di riti improntati non più a una tutela giurisdizionale differenziata - come ci spiegava prima il professor Costantino - in relazione ai diritti, ma ai titoli delle varie leggi speciali che vengono, in qualche modo, raccolte, fino a presentare veri e propri problemi di costituzionalità, come quello relativo alla mancata previsione dell'appello per il processo sommario. Su questo ultimo punto, a parte la speranza che possa avere un futuro, resta il fatto che il processo sommario è un rito «a piacere suo», nel senso che non ha regole; queste vengono, infatti, di volta in volta stabilite dal giudice, la cui decisione, in caso di mancato appello, rimane, per giunta, inappellabile.
Mi chiedo, allora, prima che tutto ci travolga, che cosa è possibile fare. Mi domando, cioè, se, nonostante i limiti, pacificamente riconosciuti, della delega - peraltro il Partito democratico li aveva più volte rilevati al momento della discussione e in quello dell'approvazione della legge 18 giugno 2009, n. 69 - è possibile effettuare un intervento di contenimento dei guasti. Del resto, se corriamo il rischio, evidenziato dal professor Carratta, di trovarci a gestire non più 29 riti, bensì 29 più 29, e se


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siamo in preda a un processo di proliferazione di riti - segnalo, infatti, che prolificano altri riti da altre parti; per esempio, nell'ultima manovra finanziaria è stato introdotto un ulteriore rito nelle cause previdenziali perché è previsto l'accertamento tecnico preventivo - chiedo al relatore se non sia il caso di chiamare il Governo a una riflessione.
Chiedo, inoltre, a tutti gli auditi se è materialmente possibile con quella delega, ottenendo una proroga, riuscire a riscrivere il decreto legislativo, in modo da ridurre significativamente i guasti prodotti, magari stabilendo il principio della differenziazione in base alla tutela giurisdizionale, quindi ai diritti, e non alle leggi, ed eliminando le storture più evidenti.

SALVATORE TORRISI. Anch'io mi associo ai ringraziamenti e agli apprezzamenti per le audizioni che si sono svolte e per i considerevoli contributi su una questione di straordinaria importanza per il funzionamento del processo civile.
Gli auditi hanno messo in evidenza luci e ombre di questo provvedimento; invero, più ombre che luci. Purtroppo, ci troviamo - come è stato detto - alla vigilia di una scadenza. Ora, a mio giudizio, questa Commissione, su un tema del genere, certamente troverà il modo di lavorare e formulare un parere unitario con un alto profilo tecnico, visto che su queste questioni non c'è una divisione - dico forse una cosa ovvia - ideologica sul piano delle appartenenze politiche, trattandosi, appunto, di una questione tecnica, che deve presentare un profilo di forte qualità sul piano della legislazione.
Del resto, tutti gli esperti che sono stati sentiti oggi hanno dato un contributo importante. Non riporto tutti i rilievi presentati, che sono probabilmente condivisibili, provenendo da soggetti che hanno una competenza specifica e quindi l'autorevolezza per porre le critiche che hanno proposto.
Noi, come Commissione - lo dico agli onorevoli Ferranti e Capano, ma anche agli amici della Lega presenti - abbiamo due possibilità. La prima è verificare se siamo ancora in tempo per avviare una fase di interlocuzione con il Governo e con l'ufficio legislativo che ha predisposto il decreto. In seconda istanza, se questo non fosse possibile, possiamo rispettare il termine e preparare un parere che comprenda tutti i rilievi più significativi che gli esperti auditi oggi hanno formulato alla Commissione. Credo che non vi siano altre possibilità. Quindi, tenteremo la prima strada con il Governo, verificando se è possibile un approfondimento. Poi, se questa interlocuzione non dovesse avere esito favorevole, non ci resta stendere, insieme agli uffici, un parere che ribadisca tutte le questioni centrali evidenziate oggi dagli auditi.

DONATELLA FERRANTI. Non ho domande poiché credo che vi siano stati degli interventi molto esaurienti. Del resto, vi sono anche delle relazioni scritte, che ci aiuteranno ulteriormente. Pertanto, il mio intervento è volto a precisare e ribadire quanto ha detto la collega Capano circa la posizione del nostro gruppo. Vorrei, poi, rispondere a qualche segnalazione emersa dagli interventi, circa la scadenza del termine prevista per domani. Lungi da noi l'idea di fissare un'audizione in prossimità della scadenza, tengo a ribadire che, d'intesa con il relatore, che ha mostrato sin da subito la disponibilità, abbiamo richiesto immediatamente le audizioni, ma purtroppo la Camera ha avuto - come ben sapete - altre emergenze a causa della manovra finanziaria. Peraltro, abbiamo dato priorità a questo parere rispetto a quello sul codice antimafia, che pure è di imminente scadenza.
Vorrei, inoltre, precisare - lo dico al presidente e ai colleghi della Lega presenti - che avevamo richiesto, per oggi, una seduta concentrata, con la presenza del rappresentante del Governo proprio perché, nell'imminenza della scadenza e trattandosi dell'attuazione di una delega, credo che la problematica più grave sia stata proprio, come abbiamo sentito anche dal Presidente del Consiglio nazionale forense, la mancanza di interlocuzione. Volevamo, quindi, avere un'opportunità di dialogo,


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vista anche la presenza di una rappresentanza dell'accademia, della magistratura e dell'organismo dell'avvocatura. Tuttavia, il Governo è assente. Confidiamo, quindi, sulla capacità e la forza del relatore, onorevole Torrisi, per ottenere non solo, se possibile, una proroga del termine per consentire un adeguato approfondimento, ma anche un'interlocuzione con il Governo e con i rappresentanti dell'ufficio legislativo del Ministero della giustizia.
Del resto, la stessa critica è stata già avanzata con riferimento al codice delle leggi antimafia, laddove si è ravvisata la medesima carenza di interlocuzione.
Ecco, dato che c'è stato l'impegno congiunto di tutti gli auditi, che ringraziamo per il contributo e per gli elaborati scritti, credo ci debba essere da parte nostra un impegno per far sì che lo slogan della semplificazione dei riti, che a detta dei nostri interlocutori non si può dire attuato, si concretizzi. Chiedo, quindi, l'adesione degli altri gruppi al fine di impegnarci tutti per produrre, almeno nell'ambito del diritto processuale civile, un provvedimento decoroso.

NICOLA MOLTENI. Vorrei formulare solo alcune considerazioni, visto che nemmeno io ho domande da sottoporre agli auditi, che ovviamente ringrazio della presenza e dell'esposizione esauriente. Come sempre capita, abbiamo avuto per l'ennesima volta la dimostrazione che le audizioni sono un momento fondamentale, nel quale emergono, tra l'altro, alcune criticità, utili alle persone intelligenti - in questo caso spendo anche una parola per il relatore - per cogliere i margini di miglioramento di un provvedimento e, nello specifico, di uno schema di decreto in merito al quale le aspettative erano e sono ancora oggi particolarmente accentuate da parte non solo degli operatori del diritto, ma anche dei cittadini.
Sono emerse alcune critiche, che mi permetto di definire costruttive perché da tutti i soggetti intervenuti sono state suggerite delle soluzioni e delle indicazioni che dovranno essere necessariamente tenute in considerazione. Mi spiace dell'assenza del Governo e in modo particolare dei sottosegretari che hanno sempre seguito tutti i provvedimenti con la massima attenzione e puntualità. Sicuramente avranno avuto altri impegni, però credo che su questo tema - anche per il significato politico che lo stesso Ministro ha voluto attribuire a questo provvedimento, come al codice delle leggi antimafia - fosse necessaria e opportuna la partecipazione dei sottosegretari affinché questo momento potesse diventare già occasione di interlocuzione non solo con gli esperti della materia, ma anche con le forze politiche e con il relatore.
Pertanto, colgo gli elementi positivi, critici e costruttivi che sono emersi e, proprio perché questa è una riforma, sentita, voluta e necessaria, sono assolutamente convinto che il relatore saprà trasporre al Governo i rilievi evidenziati. Credo, inoltre, che della doppia soluzione prospettata dal relatore - ovvero riuscire ad avere, nei tempi rapidissimi che ci sono prospettati, un'interlocuzione con il Governo per poter immediatamente modificare il decreto oppure la soluzione successiva, che reputo più fattibile, anche con il contributo delle forze politiche e quindi della Lega, di rendere un parere con tutte le condizioni - la seconda rappresenti la strada più facilmente percorribile. Siccome stiamo parlando di una riforma attesa e voluta da tutti, mi auguro che vi sia il contributo di tutte le forze politiche, indipendentemente dall'appartenenza partitica, poiché la gente e gli operatori del diritto chiedono questo decreto. Spero, quindi, che da parte di tutte le forze politiche vi sia l'onestà intellettuale e politica che consenta di consegnare lo schema di decreto migliore possibile.

LUCA RODOLFO PAOLINI. Vorrei formulare una breve chiosa per comunicare al relatore che, secondo me, l'ideale sarebbe rinviare, se è possibile. Ricordava poco fa il professor Costantino che nel 1942 il IV libro nacque come l'UPIM del diritto processuale perché c'era una guerra. In questo momento, per fortuna, non vi sono guerre, anche se la situazione


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politica non è delle più tranquille e neppure quella economica; a ogni modo, forse dovremmo valutare, come Commissione, se non sia il caso di formulare un parere articolato. Del resto, mi sembra quasi di dover procedere a una nuova stesura; infatti, se prendiamo per buone - e secondo me lo sono in grandissima parte - le numerose osservazioni che abbiamo sentito oggi, non so se sia materialmente possibile redigere un parere articolato in un giorno. Insomma, vediamo di trovare una soluzione.
Peraltro, ho trovato molto interessante il contributo del professor Carratta che ha parlato di mancato rispetto della delega. Credo che anche il relatore debba sottolineare questo aspetto perché il legislatore voleva una semplificazione, mentre qui mi pare che, in assenza di una disciplina transitoria, abbiamo 28 riti nuovi che si affiancano ai 28 preesistenti. Siamo, quindi, di fronte a una confusione che darà adito a inevitabili contraddizioni giurisprudenziali. Insomma, rischiamo, per la fretta, di peggiorare la situazione. Credo, quindi, che sia opportuno un ripensamento e che in questo ambito non vi siano né destra, né sinistra: un buon codice di procedura civile non ha colore. In conclusione, invito il relatore e il presidente ad attivarsi per trovare una soluzione che, secondo me, non può prescindere dal prenderci ancora tempo, se è possibile. In caso contrario, li invito a sensibilizzare il Governo in merito all'opera di acquisizione, elaborazione e omogeneizzazione dei rilievi che abbiamo ascoltato oggi.

CINZIA CAPANO. Esiste la possibilità di intervenire di nuovo, a delega immutata, in tempi brevissimi, con un'azione che quantomeno differenzi in base ai diritti e non alle leggi? Provo a riformulare la domanda. È possibile, attraverso il confronto auspicato anche dal relatore con l'ufficio legislativo, sulla base di tutti gli elementi che ci avete fornito oggi, scrivere un decreto legislativo più fedele alla delega?

PRESIDENTE. Do la parola agli auditi per le loro repliche.

GIORGIO COSTANTINO, Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università Roma Tre. Come dicevo alla fine del mio intervento, vi sono tre possibilità. Abbiamo studiato il testo dello schema di decreto. Alcuni di noi sono venuti da fuori. L'ufficio legislativo ha avuto mesi per fare questo lavoro ed è uscito questo risultato, anche con la dimidiazione di un termine di cinque giorni. Ora vi sono tre possibilità; o lo si rimanda indietro per riscriverlo; o si cerca di correggere gli errori più evidenti, come la varietà di termini, l'introduzione di una disciplina transitoria, rivedere l'appellabilità del procedimento sommario. Insomma, le correzioni che ciascuno di noi ha indicato.
Tuttavia, occorre tenere presente che noi siamo stati invitati il 9 e il 10 luglio. Ciascuno di noi ha individuato delle proposte su questioni abbastanza evidenti. È vero, peraltro, che l'ufficio legislativo ha avuto anche a disposizione consulenti esterni; mi risulta, però, che i loro consigli e suggerimenti non siano stati tenuti in conto. Quindi, neppure questi difendono questo schema di decreto.
La terza possibilità è, infine, accettarlo così com'è.

ANTONIO CARRATTA, Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università Roma Tre. In merito alla domanda dell'onorevole Capano, bisogna intendersi. Se l'obiettivo è salvare lo schema di decreto legislativo, vanno apportate, ovviamente, delle correzioni. Su questo non c'è dubbio. Invece, se l'obiettivo è quello di arrivare a un'effettiva semplificazione dei riti, c'è un'impostazione di fondo nello schema di decreto legislativo che mi pare difficile da correggere. Se a questo aggiungiamo, poi, anche i limiti della legge delega, è evidente che il risultato non potrà essere eccellente. Si tratterà, quindi, comunque, di un'occasione perduta.
Pertanto, sommessamente, mi chiedo se effettivamente il Parlamento voglia raggiungere questo obiettivo fondamentale e assolutamente necessario. Se così fosse, si


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potrebbe lavorare non solo spostando i termini di scadenza della delega, ma anche eliminando alcuni limiti e chiarendo alcune indicazioni contenuti nella legge delega. Ecco, probabilmente questa sarebbe la strada per raggiungere l'obiettivo della semplificazione dei riti che tutti ci auguriamo.

SERGIO MENCHINI, Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Pisa. A noi sembra che il punto focale sia l'interpretazione di quella norma circa il rispetto degli effetti processuali speciali. Infatti, se quella norma la leggiamo come l'ha letta chi ha steso questo provvedimento, ovvero che ogni disposizione speciale è norma a effetto processuale speciale, significa arrivare inevitabilmente alle conclusioni a cui è giunto questo schema, cioè di mantenere 29 riti diversi differenziati al loro interno. Del resto, la scelta della non appellabilità dei provvedimenti sommari è la conseguenza di questo elemento perché, di fronte alla norma vecchia che sosteneva la non appellabilità, conserva la non appellabilità perché si tratta di una norma processuale speciale. Insomma, se si accetta questo impianto, la soluzione potrebbe essere intervenire con i pochi correttivi indicati e chiudere la questione.
Per contro, vi potrebbe essere la volontà di rileggere questa norma, visto che la delega non imponeva questa scelta - questo è il punto che, secondo me, occorre considerare con chiarezza - compiuta discrezionalmente dal legislatore delegato. Infatti, la delega poteva essere letta in modo diametralmente opposto, consentendo di ottenere effettivamente una riduzione e una semplificazione dei riti, pur con i limiti che tutti abbiamo indicato. Sarebbe stato, comunque, un intervento importantissimo, se la delega fosse stata utilizzata leggendo quella norma nel modo che alcuni di noi - molti, invero - hanno proposto, ovvero ritenendo insuperabili soltanto alcuni aspetti fondamentali della tutela (onere della prova e contenuto dei rimedi), a quel punto si poteva fare un'opera di effettiva riduzione e semplificazione. Viceversa, la scelta di fondo è stata questa, compiuta la quale tutto il resto è stato consequenziale.

SALVATORE TORRISI. Vorrei ringraziare i nostri giuristi anche di questa seconda tornata di interventi, auspicando un ripensamento da parte del Governo. Non so se sia addirittura il caso di intervenire sulla legge delega, facendo passasse l'interpretazione che proprio la legge delega ha provocato i limiti di intervento presso il legislatore delegato. Tuttavia, in tal caso, il ragionamento sarebbe di più ampio respiro perché occorrerebbe un nuovo intervento anche da parte del Parlamento. A ogni modo, cercheremo di avere un'interlocuzione con il Governo e con il sottosegretario Alberti Casellati, che ha seguito questa materia. Vedremo cosa emergerà dall'interlocuzione con il Governo; ciò nonostante, per ottimizzare l'importante incontro di oggi, credo che la Commissione nella sua autonomia debba preparare un suo parere, utile qualora non si ottenga un esito positivo dal confronto con il Governo, che raccolga tutte le osservazioni che i giuristi auditi a supporto della Commissione hanno sviluppato. Allora, in questo spirito di grande collaborazione - che è anche molto bello perché la Commissione parlamentare competente lavora insieme ai tecnici, ai giuristi e agli esperti - vi chiedo se è possibile avere una sintesi delle vostre proposte. Vi chiedo forse troppo, costringendovi a un'ulteriore attività lavorativa, che è, però, a supporto del Parlamento e nell'interesse degli italiani. Tale sintesi ci sarebbe utilissima perché, se non dovesse avere uno sbocco positivo l'interlocuzione con il Governo, domani dovremmo rendere un parere che, vista la complessità della materia, anche se ognuno di noi qualcosa di diritto comprende, richiede uno sforzo notevole. Quindi, se ci poteste fornire un ulteriore strumento di riflessione e di lavoro, vi saremmo particolarmente grati. Del resto, vi chiediamo questo contributo nel tentativo di riuscire a realizzare qualcosa di utile in relazione a un provvedimento da tutti atteso.


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BRUNO SASSANI, Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Roma Tor Vergata. Posso provare a riepilogare le questioni minimali emerse stamattina, almeno tentiamo di apportare gli aggiustamenti possibili. Propongo una sintesi per la chiarezza di tutti.
L'articolo 4, comma 2 è mal formulato sia sotto il profilo tecnico che sotto quello linguistico: «l'ordinanza prevista al comma 1 viene pronunziata dal giudice anche d'ufficio non oltre la prima udienza di comparazione delle parti». Infatti, si pone un problema di eccezioni, non di pronuncia.
In merito all'appellabilità, quando stiamo nell'ambito del rito sommario non ha senso distinguere ordinanze inappellabili e appellabili. Io sono per l'appellabilità di tutte. Comunque, si faccia una scelta.
Riguardo ai vari riti in materia di espulsione, di protezione internazionale, di trattamenti sanitari obbligatori (articoli 16, 17 e 18) sono dei mini codici che - come ha detto il presidente Vittoria - vanno assolutamente unificati.
Ugualmente, la materia elettorale va unificata. Gli articoli 19, 20 e 21 assorbono buona parte del decreto legislativo, moltiplicando termini, riti e forme, quindi vanno unificati.
Anche il rito di Cassazione va unificato, innanzitutto per i termini. Infatti, non è pensabile impugnare per Cassazione con termini di 20, 30 e 60 giorni. Va regolato, inoltre, unitariamente il rito di Cassazione, prevedendo la Camera di consiglio in tutti i casi. Non ha senso, in alcuni contesti, parlare di udienza in via d'urgenza.
Sulle controversie agrarie è stato già detto molto. Occorre eliminarle dallo schema perché sono già compiutamente regolate, mentre questa è una mezza regolamentazione che lascia fuori una buona parte dei diritti acquisiti dai lavoratori agrari, distruggendo decenni di conquiste.
Ancora, in relazione al rito cautelare, dove vi sono provvedimenti cautelari veramente speciali, questi vanno regolati. Infatti, non è possibile che non sappiamo quale disciplina applicare loro.
Aggiungo un altro aspetto che prima ho omesso e che ci copre di ridicolo in sede comunitaria e nel mondo del diritto internazionale. Le controversie aventi a oggetto l'attuazione di sentenze e provvedimenti stranieri di giurisdizione volontaria di cui all'articolo 67 della legge 31 maggio 1995, n. 218 sono regolate da rito ordinario di cognizione di fronte alla Corte d'Appello. Ciò significa che per una controversia del genere occorre aspettare sei anni di fronte alla Corte d'appello di Roma. È vero che in precedenza la Corte di cassazione aveva detto che si applica il rito ordinario, ma la dottrina aveva criticato questa posizione in maniera compatta. Parlo non solo della dottrina italiana, ma soprattutto di quella di diritto comunitario e di diritto internazionale privato. Insomma, non ci possiamo coprire di ridicolo, attribuendo a questa materia che ha bisogno di una pronta decisione il rito ordinario delle nostre Corti d'appello, che dura dai quattro agli otto anni.
Infine, all'articolo 28 vi è un'espressione che mi ha fatto saltare dalla sedia. È un problema di punta di penna, proprio per non coprirci di ridicolo. L'articolo 28 «delle controversie in materia di rettificazione di attribuzione di sesso» recita «quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato». Ora, come si fa ad autorizzare qualcosa con sentenza passata in giudicato?
Chiedo a chi può di modificare questo obbrobrio.

PAOLO VITTORIA, Presidente aggiunto della Corte di cassazione. Bisogna correggere delle imperfezioni circa il regime di procedimenti cautelari nel disciplinare notarile. Inoltre, del nostro parere, vi sono alcune altre indicazioni di modificazioni da apportare.

GIUSEPPE TRISORIO LIUZZI, Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Bari. In questo spirito, occorrerebbe unificare i termini per la proposizione dei ricorsi nelle varie situazioni.


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Prevediamo per tutti 30 o 60 giorni, evitando di utilizzare termini diversi.

BRUNO SASSANI, Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Roma Tor Vergata. Vi invito a fare attenzione su questo perché in alcuni casi i termini sono rimasti nelle norme a quo, mentre in altri sono stati trasferiti. Anche questo è un aspetto singolare. Infatti, in alcuni casi i termini sono indicati nel rito, quindi nell'articolo del decreto legislativo; in altri casi, invece, bisogna andare a guardare la legge da cui il rito proviene. Anche questa è un'unificazione da realizzare.

GIUSEPPE TRISORIO LIUZZI, Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Bari. L'esigenza di unificare i riti nasce anche da una considerazione. C'è, infatti, un procedimento che ho scritto, ma che non ricordo, in cui, nell'opera di eliminazione, è stato rimosso il termine per ricorrere perché si era ritenuto di lasciarlo nella legge di provenienza, che è stata modificata, eliminando il termine per proporre ricorso. Vi è un procedimento senza un termine perentorio, quindi si potrebbe proporre ricorso sine die. Da qui l'esigenza di definire un unico termine per proporre ricorso.

PRESIDENTE. Ringrazio gli autorevoli ospiti intervenuti. Dichiaro conclusa l'audizione con cui si conclude questa indagine conoscitiva.

La seduta termina alle 14,15.

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