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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione II
8.
Giovedì 17 febbraio 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Follegot Fulvio, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA ATTUAZIONE DEL PRINCIPIO DELLA RAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO

Audizione del presidente della corte d'appello di Roma, Giorgio Santacroce, del presidente della corte d'appello di Ancona, Paolo Angeli, del presidente della prima sezione penale della corte d'appello di Firenze, Emilio Gironi, del procuratore generale presso la corte d'appello di Torino, Marcello Maddalena, del presidente della corte d'appello di Cagliari, Grazia Corradini, e del presidente della corte d'appello di Brescia, Graziana Campanato:

Follegot Fulvio, Presidente ... 3 9 26 28 35
Angeli Paolo, Presidente della corte d'appello di Ancona ... 17 19
Campanato Graziana, Presidente della corte d'appello di Brescia ... 20 33
Corradini Grazia, Presidente della corte d'appello di Cagliari ... 12 31 35
Ferranti Donatella (PD) ... 28 35
Gironi Emilio, Presidente della prima sezione penale della corte d'appello di Firenze ... 19 23 34
Maddalena Marcello, Procuratore generale presso la corte d'appello di Torino ... 9 31
Palomba Federico (IdV) ... 26 35
Paolini Luca Rodolfo (LNP) ... 27
Samperi Marilena (PD) ... 26
Santacroce Giorgio, Presidente della corte d'appello di Roma ... 3 28
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Futuro e Libertà per l’Italia: FLI; Italia dei Valori: IdV; Iniziativa Responsabile (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): IR; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

COMMISSIONE II
GIUSTIZIA

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 17 febbraio 2011


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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE FULVIO FOLLEGOT

La seduta comincia alle 14,05.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del presidente della corte d'appello di Roma, Giorgio Santacroce, del presidente della corte d'appello di Ancona, Paolo Angeli, del presidente della prima sezione penale della corte d'appello di Firenze, Emilio Gironi, del procuratore generale presso la corte d'appello di Torino, Marcello Maddalena, del presidente della corte d'appello di Cagliari, Grazia Corradini, e del presidente della corte d'appello di Brescia, Graziana Campanato.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla attuazione del principio della ragionevole durata del processo, l'audizione del presidente della corte d'appello di Roma, Giorgio Santacroce, del presidente della corte d'appello di Ancona, Paolo Angeli, del presidente della prima sezione penale della corte d'appello di Firenze, Emilio Gironi, del procuratore generale presso la corte d'appello di Torino, Marcello Maddalena, del presidente della corte d'appello di Cagliari, Grazia Corradini, e del presidente della corte d'appello di Brescia, Graziana Campanato.
Ricordo che martedì scorso sono stati sentiti il dottor Giovanni Canzio, presidente della corte d'appello di L'Aquila, la dottoressa Manuela Romei Pasetti, presidente della corte d'appello di Venezia, il dottor Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria.
Martedì 22 febbraio prossimo termineremo l'indagine con le audizioni del presidente della corte d'appello di Palermo, dottor Vincenzo Oliveri, del procuratore generale della Repubblica di Caltanissetta, dottor Roberto Scarpinato, del presidente del tribunale di Napoli, dottor Carlo Alemi, del presidente della corte d'appello di Trento, dottor Francesco Abate e del il presidente della corte d'appello di Trieste, dottor Mario Trampus.
Do la parola ai nostri ospiti per lo svolgimento della relazione.

GIORGIO SANTACROCE, Presidente della corte d'appello di Roma. Grazie presidente, ringrazio lei e i componenti della Commissione per avermi invitato a questa audizione. Spero di poter dare un contributo utile al problema del cosiddetto «processo breve», ma meglio si direbbe forse, al problema della prescrizione processuale che si vuole attuare con questa proposta di legge, alla luce della mia esperienza prima di consigliere e presidente della Corte suprema di Cassazione e poi di presidente della corte d'appello di Roma.
Questa, che è considerata la più grossa corte d'appello d'Europa, proprio sul tema della durata ragionevole processo ha potuto confrontarsi in più occasioni con i


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colleghi stranieri. Da tre anni a questa parte, infatti, nel mese di ottobre i presidenti e i procuratori generali delle corti d'appello delle capitali dei ventisette Paesi dell'Unione europea sono soliti riunirsi per mettere a confronto le esperienze giudiziarie delle diverse corti d'appello delle capitali europee, allo scopo di acquisire e di sviluppare una comune cultura del processo (di appello innanzitutto, ma, con il tempo, il discorso ha finito per estendersi anche alle altre fasi del processo), che possa facilitare un'armonizzazione legislativa e giudiziaria capace di realizzare una giustizia di qualità in seno all'Unione europea.
Fin dal primo incontro avvenuto a Parigi nell'ottobre 2008 abbiamo scoperto che scarti troppo profondi tra uno Stato e l'altro dell'Unione europea sarebbero il sintomo di distonie difficili da giustificare in un contesto di Stati caratterizzati dallo sviluppo di un comune spazio di sicurezza, giustizia e libertà, e con un sempre più ricco bagaglio di tradizioni convergenti nello spirito unitario accentuato dal Trattato di Lisbona.
Abbiamo scoperto in particolare che un interscambio processuale fruttuoso può avvenire non solo tra ordinamenti appartenenti a una stessa famiglia giuridica, ma anche tra sistemi di common law e di civil law, tra i quali pure sussistono differenze rilevanti di norme e di istituti, e quindi di sottostanti scelte di politica legislativa e diversità di orientamento e prassi giurisprudenziali.
Il tema specifico della ragionevole durata del processo è stato oggetto del secondo incontro organizzato a Roma presso la corte d'appello da me presieduta nell'ottobre 2009, nel corso di un convegno articolatosi nell'arco di due giorni presso l'Aula Magna, che per l'occasione fu ribattezzata «Aula Europa».
Alla cerimonia di apertura del convegno, che era intitolato «Il principio della durata ragionevole del processo e la sua applicazione ai giudizi di appello», parteciparono lo stesso Ministro della giustizia, onorevole Alfano, autorevoli esponenti del Consiglio superiore della magistratura e i principali vertici degli enti locali territoriali, dal presidente della regione Lazio al presidente della provincia al sindaco di Roma.
Nell'occasione rilevammo, con riferimento al processo di appello, che possono divergere, ad esempio, il tipo di decisioni impugnabili, i modi di esercizio del diritto all'impugnazione, gli effetti della proposizione dell'impugnazione; ma che tutte queste divergenze non impediscono a un legislatore lungimirante, che voglia occuparsi seriamente della giustizia nell'ottica della durata ragionevole del processo, di prendere a prestito ciò che ritiene utile ai suoi scopi senza sentirsi troppo vincolato alla tradizione giuridica consolidata del proprio Paese, rivolgendo lo sguardo anche a ordinamenti di diversa tradizione giuridica che hanno già affrontato e risolto in modo più efficace di noi gli stessi problemi.
Il Convegno ebbe il privilegio di ospitare tra gli altri anche il Vice Presidente della Corte di giustizia del Lussemburgo e il giudice Vladimiro Zagrebelsky, allora componente della Corte europea dei diritti dell'uomo, che è stato audito anche da questa Commissione.
Il giudice Zagrebelsky, nell'illustrare le linee fondamentali della giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull'argomento, evidenziò due punti che a me sembrano fondamentali per una corretta impostazione del problema del processo breve.
Il primo è che la Corte di Strasburgo, nel valutare la ragionevole durata di una procedura, è portata a commisurare i tempi necessari con riferimento all'esecuzione della decisione giudiziaria finale e non allo svolgersi del processo nelle sue diverse fasi o nei suoi diversi gradi.
Il secondo punto è che la Corte in questa valutazione non è interessata a considerare separatamente le singole fasi e i singoli gradi del procedimento, ma la sua valutazione riguarda la procedura nel suo complesso. È la durata complessiva a dover essere ragionevole, non le singole fasi in cui si sviluppa il processo.
Il giudice Zagrebelsky ebbe occasione di rilevare che non è irrilevante il fatto che


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la procedura si sia sviluppata attraverso varie fasi e attraverso vari gradi, ma la durata del procedimento in una fase o grado non è mai stata presa in considerazione di per sé, tanto che non esiste una giurisprudenza relativa alla durata del procedimento di primo grado o alla durata del procedimento in grado di appello.
Non è esatto quindi sostenere che le norme sul processo breve ci consentano di adeguarci all'Europa, perché la Corte europea dei diritti dell'uomo non ha mai sentenziato che per accorciare la durata dei processi sia necessario interrompere bruscamente il corso del loro svolgimento solo perché non si è riusciti a concluderli entro i rigidi termini prefissati dell'articolo 5 della proposta di legge, buttandoli praticamente nel cestino dopo un certo lasso di tempo.
Non posso che ribadire qui quanto ho scritto nella relazione inaugurale dell'anno giudiziario 2011 con riferimento ai guasti provocati dalla legge n. 89 del 2001 (cosiddetta «legge Pinto»), che, in mancanza di opportune e adeguate modifiche, sicuramente non soddisfa più le esigenze che mirava a soddisfare.
In particolare ho messo in evidenza che non esistono standard di durata media ragionevole per tutti i processi, ma esistono solo criteri orientativi, essendo necessario tener conto della diversità delle varie situazioni, della complessità intrinseca delle cause, dell'oggetto e perfino del comportamento delle parti.
Qualunque durata prefissata in astratto vista da Strasburgo potrebbe rivelarsi in concreto eccessiva o troppo breve. La ragionevole durata è solo un aspetto dell'efficienza e quindi della competitività del sistema giustizia, per cui pensare di ingabbiare la decisione del giudice in tempi rigidi e predeterminati, decorsi i quali scatta automaticamente l'estinzione del processo, fatica ad essere credibile e costituisce anzi un'anomalia che non trova riscontro in nessun Paese europeo, tanto meno della giurisprudenza della Corte di Strasburgo che semmai dice il contrario.
Ciò premesso, considero necessario far precedere l'indicazione specifica e meramente orientativa dei dati statistici che ho a puro titolo orientativo presentato e che depositerò, che investe i costi della prescrizione processuale, da alcune considerazioni preliminari che attengono all'inquadramento giuridico dell'istituto e alle sue concrete possibilità di funzionamento.
Va da sé che le nuove norme, ove fossero introdotte, dovrebbero valere per il futuro, e per raggiungere effettivamente l'obiettivo richiederebbero alcune condizioni che attualmente non ci sono. Occorrerebbero cioè dei contrappesi in grado di fronteggiare i costi della prescrizione processuale.
Per quanto riguarda i contrappesi, rifacendomi al Progetto Riccio che riguarda proprio la durata irragionevole dei processi, si è pensato che per poter incidere - si tratti poi di prescrizione sostanziale o di prescrizione processuale - il riferimento dovrebbe essere fatto a una revisione delle procedure di notifiche e degli avvisi, all'esigenza di una rivisitazione del sistema delle impugnazioni soprattutto per quanto riguarda l'appello.
La Corte costituzionale ha infatti ripetutamente affermato che nella Costituzione non si trova enunciato il principio del doppio grado di giurisdizione e la stessa Corte di Strasburgo ha messo in evidenza come l'appello rappresenti una sorta di sistema eccezionale nella maggior parte degli ordinamenti sia di civil law che di common law.
Dall'esperienza dell'incontro europeo tenutosi a Roma due anni fa abbiamo scoperto che nel sistema inglese il giudice di primo grado diventa il giudice della stessa ammissibilità dell'appello proposto contro la sua sentenza. L'idea che il giudice che ha fatto la sentenza diventi contemporaneamente il giudice dell'ammissibilità dell'impugnazione può destare da noi fortissime perplessità, ma il collega inglese ha candidamente dichiarato:«da noi il sistema funziona e finché funziona non lo cambieremo».
Occorrerebbero quindi provvedimenti idonei di organizzazione e di legislazione senza i quali i cittadini verrebbero irragionevolmente penalizzati, interrompendo


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il corso di procedimenti magari già iniziati, che non si è riusciti a concludere nei tempi previsti da questo progetto, perché i giudici non dispongono dei mezzi materiali per velocizzare i processi loro assegnati.
Il processo breve a ben guardare è un processo interrotto in itinere, che contrasta con le finalità di una disciplina intesa a regolare la durata ragionevole del processo, che non può essere quella di limitare il corso della giurisdizione interrompendo bruscamente i processi nel loro svolgimento, ma semmai quella di studiare il modo di concluderli nel minor tempo possibile.
Pensare, come ho letto in un resoconto stenografico, che il meccanismo dell'estinzione del processo serva da volano perché i giudici organizzino nel migliore dei modi i tempi di svolgimento del processo, significa non aver presente l'attuale organizzazione degli uffici giudiziari, le vistose scoperture che attualmente li caratterizzano, l'assenza di quegli strumenti materiali che sono essenziali e indispensabili per velocizzare la macchina della giustizia.
Non penso tanto all'abusato tema della informatizzazione degli uffici giudiziari, che pure da noi è solo agli inizi, ma penso anche alla disponibilità di locali, di personale, di magistrati e di funzionari. Per consentire di accorciare i tempi di durata dei processi occorrono risorse materiali e umane indispensabili per rispettare i termini previsti.
Con le attuali scoperture di organico, che ho evidenziato in tutta la loro drammaticità nella relazione inaugurale dell'anno giudiziario, è diventato difficile assicurare la formazione dei collegi giudicanti e la regolare trattazione dei processi già fissati nei ruoli di udienza.
Non ho mancato di segnalare più volte sia al Ministro della giustizia che al Consiglio superiore della magistratura il profondo senso di disagio provocato da un massiccio esodo, che ha determinato un vuoto d'organico con quello che si è determinato per effetto dei noti interventi dell'ultima manovra di finanza pubblica, ribadendo l'impossibilità materiale di assicurare la durata ragionevole dei processi in corso al di là di qualsivoglia soluzione di ottimizzazione organizzativa e prassi virtuosa sperimentabili.
Faccio presente che attualmente la corte d'appello di Roma ha 9 presidenti di sezione in meno rispetto a un organico di 21, ha 23 scoperture cioè 23 consiglieri che mancano più 3 consiglieri della sezione lavoro. Attualmente, molti di questi sono stati trasferiti ad altro ufficio, altri per effetto dei tagli entro la fine del mese di novembre hanno naturalmente abbandonato la magistratura. È chiaro che funzionare con un numero così massiccio di persone in meno rende particolarmente difficile la vita di una corte d'appello.
Sul piano tecnico-giuridico mi chiedo poi come sia possibile conciliare la prescrizione processuale con quella sostanziale, e cioè che maturi una causa di estinzione del processo prima che operi una causa di estinzione del reato oggetto di quel processo. Va da sé che, se matura prima la prescrizione processuale, quella sostanziale diviene ipso facto inoperativa, per cui è difficile conciliare le due forme di prescrizione.
La prescrizione processuale avverrebbe poi con buona pace delle parti lese e della residua fiducia dei cittadini nella giustizia, in contrasto con i princìpi fondamentali della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), secondo cui è diritto di ogni persona e della comunità vedere esaminate del merito e nel rispetto del contraddittorio le questioni sottoposte alla giurisdizione, segno evidente che a livello europeo alla necessità dell'accelerazione del processo deve accompagnarsi l'esigenza di garanzia del processo.
Per le vittime del reato esiste poi una specifica decisione quadro del Consiglio dei ministri dell'Unione europea del 15 marzo 2001, che mira a realizzare a trecentosessanta gradi un sistema articolato di misure di assistenza alle vittime del reato prima, durante e dopo il procedimento penale, individuando uno standard minimo di diritti che ogni Stato deve garantire alle vittime del reato.


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Per dare concreta attuazione a questa finalità con riferimento alle vittime del reato, il Ministro della giustizia provvide a istituire nell'aprile del 2001 una commissione di studio sui problemi e sul sostegno da dare alle vittime dei reati.
La commissione, che ho avuto l'onore di presiedere quando era Ministro della giustizia l'onorevole Castelli, aveva il compito di elaborare un progetto di legge quadro, che nel rispetto di talune cadenze temporali fissate dalla decisione comunitaria, desse vita a un testo articolato di norme, alcune di carattere programmatico altre di carattere più specifico, in modo da realizzare un assetto normativo istituzionale della tutela sostanziale e processuale delle vittime dei reati all'interno dello spazio giuridico europeo.
Non se ne è fatto nulla. Il progetto era stato elaborato dalla commissione nei termini prefissati, ma non si sono trovati i finanziamenti necessari a renderlo concretamente operativo. Resta il fatto che il processo breve cancellerebbe ogni garanzia di tutela delle vittime del reato, prestandosi a non pochi rilievi sotto il profilo della compatibilità con la normativa comunitaria.
È senz'altro un'anomalia che la prescrizione processuale riguardi tutti i processi senza distinzione fra loro, il che si pone ancora una volta in contrasto con la giurisprudenza della Corte europea, che, sia pure agli effetti della legge Pinto, che costituisce il solo e unico versante sul quale questa Corte è chiamata a misurarsi in ordine alla ragionevole durata del processo, considera ogni procedura singolarmente, l'una diversa dall'altra, così da applicare a ognuna regole diverse di valutazione.
In quella giurisprudenza si tiene conto di una molteplicità di fattori per commisurare o parametrare la durata ragionevole del processo. Si tiene conto innanzitutto della complessità di ciascuna causa, che non è legata esclusivamente alla gravità del reato o alla sanzione applicabile; si tiene conto della natura e della serietà del suo oggetto con riferimento all'imputazione formulata, alle difficoltà del suo accertamento probatorio, al numero degli imputati e delle persone offese, alcune o molte delle quali costituitesi parte civile.
Si tiene conto, inoltre, del numero dei testimoni da ascoltare, degli accertamenti tecnici da espletare, del comportamento tenuto dalle parti private, del possibile ostracismo opposto da alcuni difensori, della proposizione di istanze istruttorie dilatorie, dei tempi inevitabili imposti dal codice di rito nei singoli passaggi riguardo al deposito di singoli atti, alla chiusura delle indagini preliminari, ai tempi tecnici delle notifiche e della trasmissione degli atti dal giudice di primo grado al giudice di appello, e di tanti altri fattori.
La prescrizione processuale oltretutto rimetterebbe in libertà imputati accusati di reati gravi come quelli di rapina, di reati per i quali magari il periodo di detenzione non è cominciato prima della fase delle indagini preliminari, ma nel corso della stessa o addirittura al momento della chiusura, quando è stata esercitata l'azione penale e si è acquisita la qualità di imputato.
Tutto questo vanificherebbe la giustizia da dare alle vittime, che la attendono anche se in ritardo, nonché ogni sforzo nella lotta contro la corruzione, che è uno dei reati per i quali è previsto un limite edittale massimo inferiore ai dieci anni, e opererebbe come una sorta di inedita amnistia impropria o di depenalizzazione di fatto.
Che si tratti di un'amnistia, sia pure sui generis, è in fondo riconosciuto dagli stessi proponenti della legge, che escludono l'applicabilità delle norme sul processo breve quando «l'imputato dichiara di non volersi avvalere dell'estinzione del processo». Cioè si fa riferimento alla rinunciabilità alla prescrizione processuale previsto dall'articolo 5, comma 10, della proposta di legge, che è un meccanismo tipico dell'amnistia.
La falce dell'estinzione si avvertirebbe soprattutto in appello, e i dati che ho presentato rivelano come la famosa asticella dei due anni da noi verrebbe ampiamente superata. In una corte d'appello particolarmente in sofferenza come quella


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di Roma circa il 55 per cento dei processi andrebbero in prescrizione, senza contare che un'eventuale declaratoria di estinzione del processo di primo grado potrebbe rifluire in appello sub specie di denuncia dell'illegittimità costituzionale dell'intera disciplina della prescrizione processuale, sotto il duplice profilo dell'irragionevolezza intrinseca della legge o della violazione dell'articolo 111 della Costituzione con riferimento all'inviolabilità dell'esercizio del diritto di difesa inteso in senso ampio.
Non a caso la Corte costituzionale nella sentenza n. 317 del 2009 ha rilevato che il processo non è giusto, se è carente sotto il profilo delle garanzie, e quindi non conforme al modello costituzionale quale che sia la durata.
Non è senza significato che la Corte di Strasburgo abbia più volte condannato l'Italia non solo per la biblica lentezza dei processi, ma anche per il mancato rispetto di diritti fondamentali quali il diritto al processo e il diritto a ottenere una decisione.
Il modo in cui viene attualmente disciplinato questo istituto da noi è in contrasto con la disciplina europea, che vuole comunque garantire il diritto al contraddittorio anche al contumace e che prevede addirittura (sentenza Dorigo della Cassazione della I sezione penale) che anche in presenza di una sentenza passata in giudicato la Corte possa chiedere la celebrazione di un nuovo processo nei confronti di chi è stato «illegittimamente», se così possiamo dire, dichiarato contumace.
Gli effetti e quindi le ricadute dell'estinzione dell'azione penale per decorso del termine sull'assetto organizzativo degli uffici sono parecchi. Innanzitutto il contenimento dei tempi di definizione potrebbe scoraggiare l'introduzione di attività di indagine che richiedano tempi lunghi, con la prospettiva di una minore analiticità dell'accertamento.
Il magistrato potrebbe trovarsi di fronte al dilemma di dover scegliere tra un approfondimento istruttorio che esige tempi lunghi, penso ad una perizia complessa o una rogatoria internazionale, con il rischio o la certezza di incorrere nella prescrizione processuale, e l'opzione di omettere accertamenti indispensabili sia per l'accusa che per l'esercizio del diritto di difesa, per evitare l'estinzione del processo.
Verrebbe ulteriormente ridotto il ricorso ai riti cosiddetti «alternativi», che non hanno avuto il successo auspicato, quali il patteggiamento, il giudizio abbreviato, perché tanto si sosterrebbe che a svolgere una funzione acceleratoria sia sufficiente la prescrizione processuale.
Potrebbero risentirne inoltre la qualità delle indagini e la correttezza delle decisioni a scapito dell'accertamento sostanziale cui deve tendere il processo penale, come ci ha ricordato ripetutamente, fin dal 1992, la Corte Costituzionale. C'è il rischio di una pioggia di censure di legittimità costituzionale che investirebbe le Corti di Appello all'indomani dell'entrata in vigore della nuova normativa per paralizzarne gli effetti.
Il fattore più grave e drammatico sarebbe però il nuovo assetto organizzativo imposto all'interno di ciascun ufficio giudiziario dal dover concentrare, a causa della prescrizione processuale, ogni sforzo sulla durata ragionevole del giudizio penale a scapito del giudizio civile.
È ovvio, infatti, che il timore di incorrere nella prescrizione processuale spingerebbe i capi degli uffici a potenziare esclusivamente il settore penale, e quindi a spostare in massa quasi la metà dei magistrati e delle unità del personale amministrativo dal settore civile a quello penale, con tutte le inevitabili conseguenze che si ricollegano a questa scelta obbligata: proteste degli avvocati, allungamento oltre ogni ragionevole limite dei rinvii delle cause civili (a Roma siamo giunti a rinviarle fino al 2014, ma già si rilevano sforamenti per cui si arriverà al 2015).
Per quanto riguarda la norma transitoria che ammette l'estinzione per i processi in corso relativi a reati commessi fino al 2 maggio 2006, si è in presenza di un'altra anomalia. Si è detto che la data coincide con quella prevista dalla legge sull'applicazione dell'indulto, la legge


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n. 241 del 2006, ma è palese che i due istituti non hanno niente in comune sia perché operano in momenti diversi, sia perché l'indulto presuppone una sentenza definitiva di condanna e quindi la conclusione del processo e la pronuncia di una sentenza, mentre il processo breve tende a evitare che si arrivi alla conclusione del processo e alla pronuncia di una sentenza.
La delimitazione dei tempi previsti dalla norma transitoria dell'articolo 9 (due anni dal provvedimento con il quale il PM ha esercitato l'azione penale e due anni e tre mesi nei casi di nuove contestazioni) è diversa dal termine previsto dal nuovo articolo 531-bis del codice, sancito per la conclusione del giudizio di primo grado, e questa diversità è priva di qualsiasi giustificazione razionale.
È evidente che, più che una norma transitoria, quella dell'articolo 9 è una norma derogatoria, perché prevede termini diversi da quelli previsti per il regime ordinario nell'articolo 5 e, peraltro, per il solo giudizio di primo grado. Anche qui non si capisce perché non sia previsto anche per il giudizio di appello.
È quindi sostanzialmente una norma retroattiva di difficile giustificazione sul piano costituzionale, perché, come ben spiegato dal professor Azzariti, che è stato audito da questa onorevole Commissione il 16 settembre 2010, è una norma viziata da irragionevolezza.
Una riforma della giustizia penale nell'ottica della ragionevole durata del processo non può attuarsi, a mio avviso, se non ribaltando l'attuale impostazione di politica giudiziaria intesa a privilegiare sempre e comunque il diritto processuale penale anziché a valorizzare e potenziare il diritto penale sostanziale, nell'illusione che sia sufficiente cambiare le norme della procedura per riformare in termini di efficienza il contenzioso penale.
Nelle relazioni inaugurali di questi ultimi tre anni mi sono sforzato di individuare quelle che secondo la mia esperienza di giudice di merito e di giudice di legittimità sono le riforme che veramente servono, quelle dall'anima eminentemente deflattiva, perché necessarie a far recuperare efficienza al servizio giustizia e senza le quali la durata ragionevole del processo è destinata a diventare un mito irraggiungibile.
Ho avanzato alcune proposte di riforma nelle relazioni del 2009, del 2010 e del 2011, che ho già provveduto a consegnare a questa Commissione, così come anche i dati con riferimento al dibattimento a Roma.
Ho preso infatti in considerazione essenzialmente il tribunale e gli uffici giudiziari di Roma senza far riferimento ai tribunali del distretto, anche se quelli di Latina, Civitavecchia e Velletri sono tra i più corposi tribunali dell'Italia centrale. Mi è sembrato però che un dato come quello fornito da Roma fosse il più emblematico e significativo di tutti.
Si è dunque scoperto che circa il 27,5 per cento dei processi attualmente in fase di dibattimento cadrebbero sotto la scure della estinzione per prescrizione processuale, mentre più ridotto è l'ambito di applicazione del processo breve nei processi in sede di GIP/GUP, dove si avrebbero il 5,93 per cento di processi estinti.
Il dato più preoccupante è comunque quello riguardante la corte d'appello perché qui verrebbe estinto il 55 per cento delle pendenze complessive delle sezioni penali ordinarie, pari a 23.839 processi alla data del 31 dicembre 2010. Ringrazio ancora dell'attenzione e mi scuso se mi sono dilungato troppo.

PRESIDENTE. Grazie. Ricordo che sono presenti i rappresentanti dei gruppi, i quali riferiranno agli altri commissari che potranno anche avvalersi del resoconto stenografico.

MARCELLO MADDALENA, Procuratore generale presso la corte d'appello di Torino. Per accelerare i tempi dico subito che non ho preparato un testo scritto e che le considerazioni espresse dal presidente della corte d'appello di Roma sono sicuramente condivise da me e, credo, da quasi tutti i magistrati. Vorrei fare alcune osservazioni in merito alle varie problematiche.


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Il primo punto è indubitabilmente il fatto che qualunque persona responsabile si deve porre il problema della ragionevole durata dei processi sotto due ordini di profili, innanzitutto quello dei tantissimi processi che in un modo o nell'altro - parlo solo del penale perché del civile non mi intendo - finiscono con la prescrizione. Al riguardo, ho calcolato e segnalato nel mio intervento all'ultima inaugurazione dell'anno giudiziario che a Torino nell'ultimo anno sono finiti in prescrizione, (comprendendo le archiviazioni per prescrizione, che non superano neanche la fase delle indagini preliminari e quelle tra indagini preliminari, udienza preliminare, primo grado e appello), complessivamente 10.000 processi. Si deve assolutamente tener conto di questo dato di 10.000 prescrizioni all'anno.
Il secondo punto su cui è doveroso riflettere è quello delle condanne subìte dall'Italia per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo.
Sennonché, il meccanismo indicato dalla proposta di legge, che trae origine anche da una proposta avanzata in modo diverso dal torinese Fassone nella scorsa legislatura, in teoria potrebbe andar bene - per me non va bene - solo se questo meccanismo fosse idoneo a incrementare in maniera decisa il numero dei processi definiti rispettando i tempi previsti.
Se quindi per miracolo esistesse una bacchetta magica e con questa norma si ottenesse non la prescrizione processuale ma un improvviso aumento della produttività di tutti i magistrati e di tutte le strutture giudiziarie, questo potrebbe essere anche un discorso valido.
A mio avviso però la proposta di legge è sbagliata proprio in questo: infatti, eccettuati i casi assolutamente particolari e individuali che pure ci sono, come evidenziato dal resoconto della Commissione europea sulla produttività dei magistrati, con questa proposta di legge un magistrato non può improvvisamente aumentare la sua produttività da cento a trecento, perché le sue capacità continuano ad essere le stesse ed è sbagliato il pensare che questo derivi solo - è lì l'errore di fondo - da neghittosità e negligenza dei magistrati. Al contrario!
Non considero possibile questo aumento perché questo dato, che vede 10.000 prescrizioni a Torino e non so quante in tutta Italia, riflette semplicemente un fatto: il principio di obbligatorietà dell'azione penale si scontra con il principio dell'impossibilità del suo esercizio per tutti i casi e, per la forza della natura che è superiore alla volontà degli uomini, quando il principio di obbligatorietà si scontra con il principio di impossibilità prevale indubbiamente il secondo, perché non essendo dotati di bacchetta magica non abbiamo modo di superare il principio dell'impossibilità.
In questa situazione, dunque, tale normativa appare da un lato molto discutibile sul piano dei princìpi, dall'altro paradossalmente foriera di un boomerang perché sembra molto difficile sul piano dei princìpi riuscire a conciliare una prescrizione processuale con la prescrizione sostanziale, perché vorrebbe dire che nello stesso momento in cui lo Stato riconosce di avere ancora interesse a far valere la pretesa punitiva si tronca il processo, lo si tronca cioè anche nei casi in cui quella pretesa punitiva potrebbe essere fatta valere e questo è l'assurdo: si tronca non quello che è impossibile fare, ma quello che è possibile fare.
La norma generale e astratta valevole per tutti i posti, per tutti i siti, per tutte le situazioni viene a significare infatti doversi fermare anche laddove si potrebbe salvare e lo Stato avrebbe interesse. E questa è una cosa che - a me pare - non vada bene.
Mi chiedo poi - questo lo valuterà il Parlamento - anche sotto il profilo dell'interesse dello Stato di evitare condanne della Corte dei diritti dell'uomo, se questo meccanismo sia sufficiente ad evitarle soprattutto per quanto riguarda i processi in cui ci sono parti civili, che, a seguito della dichiarazione di estinzione, dopo magari cinque o sette anni si troveranno a dover ricominciare tutto da capo per fare l'azione in sede civile. Mi sembra assurdo


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che in questo caso si debba ricominciare senza tenere conto del tempo in cui l'azione è stata esercitata presso la sede penale.
Credo che la ragione principale della mia convocazione risieda nel fatto di essere stato l'autore della famosa o, per meglio dire, famigerata circolare che porta il mio nome, che feci in un determinato momento cedendo al principio dell'impossibilità. Avendo constatato, infatti, che le udienze di alcuni processi venivano fissate in date in cui il reato sarebbe risultato già prescritto e che tutto si risolveva quindi solo in un cumulo di lavoro inutile (per le notifiche, per le citazioni, ecc.) dato che, in partenza, il reato era già da considerarsi prescritto; avendo dunque constatato questo e avendo ritenuto che questo fosse il massimo della follia e che fosse necessario trovare una soluzione, predisposi quella circolare.
Una cosa è stato però fare quel provvedimento una tantum, riuscendo per un certo periodo a fare più processi non destinati alla prescrizione, una cosa è inserire in un ordinamento un meccanismo permanente come sarebbe questo, un meccanismo che viene inserito stabilmente nel codice, che in base alla mia conoscenza avrebbe un effetto boomerang perché significherebbe ridurre grandemente il ricorso ai riti alternativi, che a Torino hanno un grosso successo perché più del 50 per cento dei processi si definisce con il rito alternativo.
Se infatti un difensore ha la prospettiva di poter presentare al cliente la ragionevole possibilità che andando al dibattimento si ottenga la prescrizione processuale, considererà inutile patteggiare o fare il processo abbreviato. Questo meccanismo inoltre incentiverebbe di gran lunga l'opposizione al decreto penale di condanna, che è il massimo degli strumenti deflattivi del processo, che realizza immediatamente la pretesa punitiva e rispetto al quale, almeno a Torino i dati questo ci dicono, le opposizioni sono relativamente scarse. Se però si prospetta una prescrizione processuale prima della prescrizione sostanziale, si incentivano le opposizioni e quindi si moltiplicano i processi da fare.
Immagino, inoltre, che nella prospettiva di poter conseguire la prescrizione processuale i difensori - se fossi difensore legittimamente lo farei - cercheranno di gonfiare l'istruttoria dibattimentale allungandone i tempi, ad esempio non accettando più - come adesso molto spesso accade - la lettura degli atti concordata tra le parti e facendoli ripetere tutti, e caricandola di richieste istruttorie, che il giudice può considerare irrilevanti, ma che, badate bene, non è così facile negare. Esiste infatti la spada di Damocle di essere accusati in Cassazione di non aver assunto una prova che poteva essere rilevante, rischiando l'annullamento. Per evitarlo, quindi, spesso si sceglie di farne il doppio.
Aggiungo che, così come è formulata, la norma non è chiara sul momento di decorrenza al termine delle indagini preliminari, perché non si capisce bene se si consideri il termine delle indagini quando si fa l'avviso ex articolo 415-bis, quando sono decorsi i termini del 415-bis, se si effettuino le indagini richieste dall'indagato e l'iter si prolunghi. È chiaro che questo disincentiverebbe il pubblico ministero a effettuare quelle indagini, perché nel frattempo decorre già il termine per il primo grado, e questo potrebbe essere pericoloso. Anche sotto questo profilo a me pare quindi che la proposta di legge non vada bene.
Esiste, infine, un problema di criteri di priorità - priorità non significa troncare - da adottare sia durante la fase delle indagini preliminari, sia durante il dibattimento di primo grado, sia durante il processo di appello dove, come evidenziato dal presidente della corte d'appello di Roma, si forma un collo di bottiglia, per cui si vedono andare in prescrizione condanne in primo grado a cinque o sei anni solo perché non si riesce a ottenere l'udienza.
Non è questa la sede per indicare le mie idee al riguardo, ma questo è un problema che resta da risolvere. Non credo che quello indicato sia il criterio per


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risolvere questi problemi, che bisogna riconoscere che esistono e che devono essere risolti, ma non è questo il modo.

GRAZIA CORRADINI, Presidente della corte d'appello di Cagliari. Ringrazio in primo luogo l'onorevole Commissione per aver invitato anche un rappresentante della giustizia sarda ad offrire un contributo in merito alla proposta di legge che stiamo trattando.
La Sardegna ha la presunzione di vantare di essere stata la culla del Regno d'Italia, ha sempre onorato il Paese con un notevole tributo di sangue anche in epoche recentissime, però soffre di tutti i mali della giustizia italiana in misura molto superiore a quella dei distretti del nord, ha sempre avuto pochissime risorse, molto inferiori a quelle degli altri distretti più centrali e più beneficiati, ha gravissime vacanze di organico perché non vi è autosufficienza dei magistrati sardi.
Gli organici del personale amministrativo sono estremamente ridotti e hanno subìto un tracollo quasi mortale, che ci ha messo quasi in condizione di non poter funzionare in virtù dell'articolo 6, comma 12, del decreto legge n.78 del 2010, in materia di stabilizzazione finanziaria, di cui contestiamo non le scelte, perché vi era sicuramente necessità, ma i risultati ottenuti. Esso ha infatti abolito la disposizione che consentiva, anche per quanto attiene al settore della giustizia, il rimborso per l'uso del mezzo proprio per il personale contrattualizzato inviato in applicazione.
In Sardegna, dove non funzionano i mezzi pubblici e praticamente non esistono treni, questo impedisce di poter mandare in applicazione personale, perché non esistono mezzi che consentano di raggiungere il luogo di lavoro e non possiamo pretendere che il personale utilizzi la propria macchina spendendo tutto il suo misero stipendio per coprire gli uffici della Sardegna.
I problemi della giustizia sarda sono quindi forse più grandi di quelli del resto dell'Italia. Un ulteriore problema gravissimo è l'informatizzazione. Non ci si accusi di non aver fatto niente ed attualmente la regione Sardegna ci sta dando un aiuto perché non abbiamo neppure i computer.
Dobbiamo però prendere atto del fatto che il Ministero della giustizia ha iniziato le sperimentazioni al nord e ha completamente trascurato il sud. Ho i registri generali del primo grado che non sono compatibili con quelli del secondo grado e un dipendente di un'agenzia di viaggio che venisse negli uffici giudiziari della Sardegna si vergognerebbe della nostra situazione, ma non abbiamo avuto nessun aiuto, anche se ora la regione Sardegna sembra intenzionata ad aiutarci.
Nonostante questi disservizi, la genialità italiana esiste anche in Sardegna. Nell'anno 2010 abbiamo ottenuto risultati eccezionali e il debito giudiziario, in Sardegna come nel resto d'Italia, è stato ridotto. In Sardegna abbiamo incrementato la produttività del 30 per cento in un anno sia nelle corti d'appello che nei tribunali. Ovviamente è stato il massimo sforzo possibile, che è stato ottenuto in base a un uno scatto di orgoglio della magistratura sarda, che è riuscita a ottenere questi risultati.
Nel 2010 quindi è stato ottenuto qualcosa in più. Ci dispiace dunque che oggi ci si venga a parlare del processo breve quando tutta la magistratura italiana e in particolare quella sarda, che ha ottenuto i risultati più brillanti di tutta l'Italia, è riuscita a ridurre questo debito.
Le iniziative assunte in sede locale anche nell'ambito delle prassi virtuose hanno consentito di tenere aperti tutti gli uffici giudiziari della Sardegna attraverso il ricorso a numerosi espedienti. Abbiamo stagisti, cassintegrati, personale che impieghiamo utilizzando la fantasia italiana, perché il personale in servizio è assolutamente insufficiente. Ai capi degli uffici viene quindi chiesto di ricorrere a tutti questi espedienti, di cercare sponsor per qualunque cosa, ma non è facile perché il giudice deve conservare l'indipendenza e quindi la ricerca dello sponsor è molto limitata.
I suggerimenti per uscire dalla situazione sono quelli ben noti che provengono


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anche dal Consiglio superiore della magistratura, dall'Associazione degli avvocati, dall'Associazione nazionale magistrati. Per quanto riguarda la Sardegna una delle iniziative che da tempo si auspica è la revisione delle circoscrizioni degli uffici giudiziari.
In Sardegna esistono sezioni distaccate di tribunali e tribunali con un numero di magistrati inferiore a 10 che non sono in grado di funzionare, con una dispersione di energie che, se fossero accentrate nei tribunali centrali più importanti, consentirebbero un notevole aumento della produttività pari anche al 50 per cento.
Di questo si parla da trenta anni, ma le lobby locali impediscono di attuare queste iniziative, che sono quelle di cui abbiamo bisogno e che consentirebbero la riattivazione di una maggiore produttività e il recupero dell'efficienza.
Devo dire che agli operatori giudiziari italiani non interessa il modello che vuole scegliere il legislatore. In Europa abbiamo due modelli base: quello anglosassone, che riserva la giustizia ordinaria alle sole controversie di rilievo, per cui si può andare dal giudice solo per le cose che contano, quindi non può rivolgersi al giudice il debitore incallito che voglia ritardare il pagamento, e il modello dell'Europa continentale, che invece prevede il numero degli operatori in relazione al numero delle cause.
È evidente che il modello continentale comporta delle nuove risorse perché, se abbiamo 6 milioni di cause e un numero di giudici inadeguato ad affrontare quel numero di cause, dobbiamo impiegare altre risorse.
Il modello anglosassone che riserva alla giustizia le controversie di rilievo sarebbe a costo zero. Il legislatore scelga il modello che preferisce, ma da questa situazione non si può uscire se non copiando uno dei due modelli europei. È vero, il sistema italiano non funziona ma sono stati pubblicati tutte le statistiche e i rapporti europei e la giustizia italiana risulta avere la più alta produttività in Europa in relazione agli abitanti e al numero dei magistrati. E anche come qualità il livello del sistema italiano è molto alto, perché l'Italia conosce tutti provvedimenti motivati, mentre la Francia ha il modello ordinatorio e il modello tedesco è a sentenza eventuale, per cui il giudice emette solo il dispositivo e, se la parte vuole impugnare, deve chiedere la sentenza e pagare. L'Italia ha dunque una qualità elevata perché deve motivare tutti i provvedimenti comprese le ordinanze e i decreti.
La ragionevole durata chiaramente non è compatibile con i numeri, con la quantità e con la qualità della giustizia italiana. Le recenti modifiche legislative e la nuova mediazione che fra poco entrerà in vigore sono dei palliativi. Gli operatori del diritto che sono in grado di fare previsioni valutano anche positivamente questo intervento, ma chiaramente potrà risolvere qualche centinaia, migliaia o anche decine di migliaia di cause, ma ne abbiamo 6 milioni, quindi è un palliativo che non consentirà di ottenere risultati in termini di deflazione e di ragionevole durata del processo.
Le condanne della CEDU riguardano l'Italia quasi esclusivamente per la non ragionevole durata dei processi penali e per il giudizio contumaciale penale, che non è ammesso negli altri Paesi europei (sono tantissime le condanne per il giudizio contumaciale).
Il Governo e il legislatore italiano si devono fare carico di questi problemi, copiando eventualmente dai modelli europei, perché siamo in Europa, abbiamo modelli europei di giustizia che funzionano mentre come magistrati ci vergogniamo di fare parte di questo assetto ordinamentale, che non ci consente di ottenere risultati positivi nonostante un notevole impegno di energie e di preparazione.
I magistrati italiani infatti sono preparati, studiano in continuazione e la loro qualità è eccezionale così come anche la quantità di lavoro prodotto, eppure abbiamo questa anomalia della durata irragionevole del processo di cui ci vergogniamo.


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La prescrizione è una beffa per le parti lese che attendono giustizia e che in Sardegna hanno spesso reso la loro deposizione a rischio della loro vita o comunque della serenità della loro famiglia, perché sono frequenti le intimidazioni nei confronti dei testimoni anche con l'uso di ordigni. Le parti lese che hanno reso le loro dichiarazioni in questa situazione si trovano poi con il processo prescritto.
La magistratura non comprende la disposizione ordinamentale che vieta ai magistrati ordinari di prima nomina di svolgere funzioni monocratiche, quando quelle stesse funzioni sono svolte da magistrati onorari che non hanno superato nessun concorso di secondo grado come quello della magistratura e non hanno neppure seguito un tirocinio ampio (mediamente è di diciotto mesi).
Come anche in Sicilia e in altre regioni del sud, a Lanusei, a Tempio, a Nuoro siamo rimasti senza pubblici ministeri, GIP e GUP proprio perché i magistrati di prima nomina non potevano essere mandati alle funzioni monocratiche di pubblico ministero, GIP e GUP monocratico civile e penale.
Per quanto riguarda le riforme processuali, sul versante del processo civile è stato fatto sicuramente poco. Si sarebbe potuto fare molto di più utilizzando il principio di abuso di diritto anche processuale di origine comunitaria, che ormai è insinuato in tutti i rami dell'ordinamento italiano e quindi introducendo vere sanzioni che vadano ben oltre quelle del carico delle spese processuali nel caso di manovre dilatorie proprie della mentalità italiana.
È indispensabile abolire la contumacia, che ha provocato tante condanne all'Italia da parte della CEDU, anche per consentire al nostro Paese di porsi in un'ottica europea. Il 95 per cento dei processi italiani in corte d'appello sono contumaciali, per cui la parte non si presenta e cerca in tutti i modi di far rinviare il procedimento, di sottrarsi alle notifiche con ogni mezzo. Se il Governo e il legislatore italiani non intendono aumentare le risorse per la giustizia penale, devono farsi carico di depenalizzare una buona fetta dei reati: da queste due lame della forbice non si può uscire.
La tendenza invece è contraria, perché il legislatore nell'ultimo periodo ha introdotto nuove ipotesi criminose che impegnano l'autorità giudiziaria in centinaia di migliaia di processi per reati magari puniti con semplici sanzioni pecuniarie. Prima di introdurre una nuova serie di reati o anche una singola previsione criminale, è necessario operare un programma di riequilibrio come avviene nel resto dell'Europa: non si può aumentare il carico senza riequilibrare prima le risorse ovvero depenalizzare altri reati che nel frattempo hanno perso rilevanza sociale.
Anche sul piano civilistico le cose non sono andate meglio e sono stati introdotti reclami, per esempio è stato introdotto l'appello contro le sentenze dei giudici di pace emesse secondo equità. Nessuno sentiva il bisogno di questo appello, per cui noi magistrati non siamo riusciti a capire queste misure sebbene operiamo da tanto tempo, per cui vorremmo che qualcuno ce le spiegasse.
In Sardegna ci sono 593 processi civili pendenti da prima del 1995, che sono pari al 5,3 per cento del totale e hanno tutti il bollino rosso. In tutta Italia sono stati introdotti i bollini rossi, gialli, verdi, e tutte le cause e tutti i processi sono monitorati: non è che non abbiamo attenzione per i processi, ho già detto che ci vergogniamo di questa situazione e chiediamo aiuto per uscirne, non facendo morire i processi, però, ma facendoli.
Abbiamo i bollini controllati, monitorati, e chiediamo un aiuto per poter risolvere i processi con il bollino rosso perché sono un numero notevole. In tutti i tribunali esistono programmi, privilegiando i processi con il bollino rosso sia nel civile che nel penale: bollino rosso, processo a rischio, legge Pinto, cui si cerca di dare la precedenza; ma non è neppure possibile perché la precedenza assoluta spetta ai detenuti, ai processi che rischiano di prescriversi, ai processi di


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grande rilevanza sociale come ad esempio gli abusi sessuali o i maltrattamenti in ambito familiare.
Nonostante tutte queste scelte, in corte d'appello in Sardegna siamo riusciti a ottenere buoni risultati, a fissare tutti i processi per violenza sessuale, per stalking, per maltrattamenti, quindi riteniamo di eliminare nell'arco di un anno tutto l'arretrato sotto questo profilo. Dei programmi sono stati fatti ma noi chiediamo di essere aiutati, non affossati.
Personalmente ho un curriculum professionale di rilievo, nella mia carriera ho fatto anche il pubblico ministero, esperienza molto importante in alternativa a quella di avvocato, per cui sono in grado di vedere la situazione da più punti di vista. Ho fatto il giudice in tutti i gradi, anche nella I Sezione penale della Corte di Cassazione per quasi sei anni, e poi sono tornata al merito e ho svolto tutte le funzioni, anche quelle specializzate.
Credo quindi di avere un osservatorio particolarmente importante, da cui posso rilevare che la soluzione non è funzionale alla risoluzione dei problemi relativi alla ragionevole durata del processo.
Devo svolgere, anche sotto questo profilo e in termini ancora più critici, le osservazioni che sono state a suo tempo proposte contro la legge n. 251 del 2005, nota come ex Cirielli, poi in parte corretta dalla Corte costituzionale, che ha modificato in corso d'opera i termini di prescrizione dei reati senza però diminuire i carichi di lavoro, perché i reati prescritti devono essere esaminati ugualmente e l'imputato deve essere prosciolto anche in quei casi.
Non significa quindi che i processi non si fanno e si eliminano, perché anche in Cassazione si esaminano prima di dichiarare la prescrizione, quindi non si risparmia granché con la prescrizione. Il giudice comunque la vede con sofferenza come un fallimento della sua funzione.
La legge sulla prescrizione breve del 2005 era accompagnata da altre misure che hanno previsto l'aumento delle pene per i reati in conseguenza della recidiva e non solo non ha ridotto il carico di lavoro, ma lo ha notevolmente aumentato e ha fatto esplodere le carceri. Non dimentichiamoci che oggi le carceri stanno esplodendo per gli effetti delle disposizioni che hanno obbligato ad applicare la recidiva in tantissimi casi e hanno aumentato le pene. A cinque anni di distanza, questa esplosione delle carceri è anche conseguenza in buona parte di quella legge.
Qui non è in discussione il potere del legislatore di modulare i termini di prescrizione come meglio ritenga, però non può farlo in corso d'opera cioè per i processi in corso, accorciando i termini in relazione ai quali i giudici che erano impegnati a seguirli avevano programmato la loro attività.
L'organizzazione delle udienze penali da parte del presidente della sezione e dell'ufficio avviene necessariamente dando la precedenza ai processi con i detenuti, a quelli di prossima prescrizione, per cui la diminuzione dei termini di prescrizione per i processi in corso comporta necessariamente il decesso dei processi, se non viene supportata da altre misure.
Per agire secondo ragionevolezza e per finalità apprezzabili di giustizia, poiché in effetti riconosco che non tutti i termini di prescrizione sono ragionevoli, questi potrebbero essere modificati per il futuro e accompagnati da una previsione con altri accorgimenti diretti a diminuire il restante carico di lavoro dei giudici, attraverso ad esempio la depenalizzazione di altri reati, come avviene in tutti i Paesi europei.
Non è funzionale al buon andamento della giustizia e alla diminuzione dei termini di prescrizione dei reati un'accelerazione necessaria di una fetta di processi, lasciando immutate le risorse, poiché con le stesse risorse non si possono ottenere gli stessi risultati. Si possono aumentare del 5 o 10 per cento, non certo del 100 per cento.
L'amnistia non è mai stata gradita dai magistrati, che l'hanno applicata perché rispettano la legge, ma non è servita a rimettere in sesto i carichi di lavoro. Questo è quello che si racconta, ma ai magistrati l'amnistia non è gradita, poiché ha sconvolto i processi lavorativi in atto


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impedendo e frantumando i risultati di qualsiasi programmazione, pur accuratamente studiata e perseguita.
Tutti i tribunali e tutte le corti d'appello hanno in atto una programmazione del lavoro e qualsiasi intervento in corso d'opera rovina il lavoro di anni. Ci stiamo ancora leccando le ferite dei risultati veramente negativi della legge ex Cirielli.
Il legislatore può fare quello che ritiene, noi non lo contestiamo, ma la norma transitoria non accompagnata da altri strumenti crea un tracollo, cioè ci impedisce di rialzare la testa. Attualmente la giustizia italiana sta cercando di rialzare la testa e Il Sole 24 Ore ha pubblicato immediatamente la notizia di un recupero del 10 per cento per una struttura al collasso quale quella italiana: un risultato strabiliante perché con un piccolo aiuto si può arrivare anche al 50 per cento, si può arrivare in tre o quattro anni a risolvere il debito giudiziario italiano, se la giustizia viene supportata dagli strumenti adeguati.
La sovrapposizione degli istituti della prescrizione del reato e della prescrizione del processo nell'ambito della stessa fase non è accettabile. Se si vuole adottare il modello tedesco con la prescrizione per mancato rispetto del termine di fase del processo, al quale pare essersi ispirata anche l'attuale proposta di legge - ne abbiamo discusso, abbiamo fatto tanti convegni già qualche anno fa quando si cominciava a parlarne -, si deve fermare la prescrizione del reato alla fase delle indagini e prevedere la prescrizione per fasi del processo.
Potrebbe essere anche un buon modello e personalmente non sono critica nei suoi confronti, ma non si può fare operare insieme la prescrizione del reato e la prescrizione dei termini di fase del processo.
Il termine di sei anni e mezzo potrebbe essere anche adeguato per i reati minori, ma nella proposta di legge si arriva a reati puniti fino a dieci anni. Per questa fascia di reati con la nostra attuale struttura non è pensabile una simile previsione: la maggior parte dei reati morirebbe. Non abbiamo una struttura in grado di seguire questi termini.
Come già evidenziato dal collega Santacroce, le corti d'appello stanno facendo i processi del 2005-2006 e quindi l'introduzione della nuova normativa, anche se applicata soltanto ai nuovi processi, porterebbe sicuramente a morte la maggior parte dei processi delle corti d'appello. Sarebbe quindi la distruzione di tutto il lavoro fatto in primo grado.
Il primo grado si potrebbe forse attrezzare e la morte in primo grado potrebbe essere limitata percentualmente per i processi a citazione diretta, perché, se c'è l'udienza preliminare, due anni non bastano perché l'udienza preliminare attualmente dura due anni.
Le corti d'appello si stanno ancora riprendendo dal disastro della ex Cirielli. L'Europa ci chiede di ridurre i termini di processi, ma più volte ci ha condannato per mancanza di considerazione dei diritti e degli interessi delle vittime dei reati e per il sistema di sostanziale impunità che scaturisce dai condoni e dalle amnistie più o meno mascherate. Anche in materia tributaria ci ha bacchettato pesantemente.
La nuova normativa, inoltre, anche senza la disposizione transitoria, sulla quale è meglio calare un velo pietoso perché in base alla dottrina e alla giurisprudenza siamo tutti d'accordo nel ritenere che sia incostituzionale in modo macroscopico, porterebbe a interrompere tutti i programmi in atto negli uffici giudiziari e a ripartire da zero, scegliendo i processi già perenti, quelli a rischio di prescrizione, quindi distruggendo tutto il lavoro che ha prodotto risultati positivi nel 2010.
Per i reati commessi fino al 2 maggio 2006 c'è l'indulto - non lo condivido ma c'è -, una misura molto più congrua perché consente di non aggravare il sistema carcerario, non viola i diritti delle vittime, è accompagnata da preclusioni soggettive quindi tiene conto anche della personalità dell'imputato, ed è revocabile.


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Non si sente quindi il bisogno della perenzione del processo per i reati per i quali è già previsto l'indulto.
Condivido invece alcune delle modifiche contenute nella proposta di legge al testo della legge Pinto, perché ritengo che possano essere positive. Ma è l'impianto della proposta di legge che getta nello sconcerto laddove le risorse spese per pagare la riparazione per l'ingiusta detenzione potrebbero ben più proficuamente essere impiegate per rimettere in moto le strutture giudiziarie che arrancano.
L'introduzione del decreto del giudice monocratico potrebbe però essere anche positiva, sempre che il numero delle opposizioni sia limitato. Con una previsione di opposizione del 10 per cento potrebbe rivelarsi una misura molto positiva.
Nell'ottica di un risparmio delle risorse dello Stato potrebbe essere positiva anche l'introduzione del contributo unificato, che è stata molto criticata, ma anche l'analoga introduzione per quanto riguarda le ingiunzioni davanti al giudice di pace di cui si è parlato in tutte le inaugurazioni dell'anno giudiziario ha quasi azzerato le opposizioni.
Appare positiva la riduzione per legge a un quarto della riparazione nel caso di procedimenti definiti con rigetto o di cui sia evidente l'infondatezza. Su altri aspetti non sono pienamente d'accordo, ma sulla modifica della legge Pinto individuo alcuni aspetti positivi.
Ringrazio ancora la Commissione per avermi consentito di portare la voce della Sardegna.

PAOLO ANGELI, Presidente della corte d'appello di Ancona. Buongiorno a tutti. Credo di potermi limitare ad affrontare alcuni aspetti della proposta di legge per la quale oggi siamo auditi.
Questa proposta si articola in tre parti: la prima è sostanzialmente la modifica della legge Pinto, la seconda è la modifica delle regole sulla prescrizione dei reati o dei processi, la terza è la disposizione transitoria. Non percorrerò tutti i passaggi, ma desidero soltanto rassegnare alcune conclusioni alle quali siamo giunti nel mio distretto cercando insieme ai colleghi magistrati di focalizzare alcuni problemi.
Comincio subito dalla norma transitoria che nell'ottica del sistema è solo un dettaglio: la sua eccessiva enfatizzazione - questa è l'unica valutazione politica che faccio perché lascio ai politici il loro compito - fa correre il rischio che passi l'idea di un'accettabilità del progetto in presenza di una norma che lo proietti verso il futuro.
Non è così: la norma transitoria è una disposizione inaccettabile, ma non dobbiamo pensare che, risolvendo il problema della norma transitoria attraverso una sua eventuale modifica, il resto della legge possa andare avanti. La legge non è accettabile in nessuno dei suoi passaggi e non lo è a prescindere dalle stesse misure organizzative e dagli stanziamenti.
Abbiamo fatto riunioni tra colleghi, discusso insieme e attinto le conclusioni che ora rappresento. Tale proposta è devastante non solo per i processi in corso ma anche per quelli futuri. Non può mai essere accettabile che il costo maggiore di una lentezza processuale o di una qualche disfunzione ricada direttamente e fragorosamente su coloro che non possono avere nessuna responsabilità di quei ritardi e di quelle disfunzioni, in primis le persone offese, premiando invece in modo clamoroso i colpevoli che ne hanno sfruttato i meccanismi e i tempi.
Prevedere sotto l'etichetta del processo breve una prescrizione processuale che si sovrappone a quella sostanziale - è stato già detto in maniera estremamente puntuale e io condivido tutto quello che è stato detto - già peraltro rimaneggiata e abbreviata e alla disciplina dei termini per le indagini, che scadono come alimenti deperibili, è cosa del tutto priva di qualsiasi aggancio con la manifesta esigenza di rendere brevi i tempi processuali.
Su questa esigenza siamo tutti d'accordo. Nella mia Corte ho 9.000 procedimenti penali pendenti e con un organico di 7 magistrati che non ci sono tutti non so nemmeno quando verranno fissate le udienze.


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Ritengo che questa ipotesi normativa sia del tutto controproducente sotto lo stesso profilo della brevità, perché incentiva ogni possibile tattica dilatoria per poter raggiungere quell'agognato limite temporale oltre il quale magicamente il processo si estingue distribuendo iniquamente danni, beffe e premi.
Ci si chiede chi mai sarà disposto ad accedere a riti deflattivi (giudizio abbreviato e patteggiamento), a dare il consenso all'acquisizione di atti di indagine o alla lettura dei verbali di prova assunti dinanzi al collegio diversamente composto, a rinunciare all'audizione non necessaria di un testimone; chi rinuncerà a opporre il decreto penale che è stato evocato giustamente e a impugnare la sentenza di condanna anche nei casi di pena molto lieve, visto che la posta in gioco è quella di lucrare una radicale impunità.
Se il processo dura tanto, c'è poi anche la remunerazione della sua irragionevole durata con il pagamento di somme che in un piccolo distretto come il mio ha portato a un ammontare di 1.715.950 euro. Ma se invece questi soldi fossero investiti per far funzionare la giustizia, le cose sicuramente andrebbero meglio!
Quando si è parlato per la prima volta della legge Pinto al Consiglio superiore della magistratura si è detto che avremmo dovuto votare questa legge perché non atteneva a fatti strutturali di disfunzione del nostro ordinamento e che altrimenti non saremmo entrati in Europa. Adesso però che corriamo il rischio di essere cacciati via perché siamo morosi, che cosa facciamo? Facciamo una nuova proposta di modifica di questa normativa, che comporta l'enfatizzazione del processo nel processo, che è un disastro.
Ogni tanto mi capita di incontrare i miei colleghi della sezione civile incaricata di trattare la legge Pinto, che mi dicono di aver pensato a una best practice che effettivamente mi convince, ma dopo due o tre mesi questa soluzione si dimostra impossibile perché c'è un tale incremento di ricorsi per cui non sappiamo più cosa fare.
Facciamo quindi la legge Pinto sulla legge Pinto e fra poco faremo la legge Pinto della legge Pinto della legge Pinto come modificata: non è una prospettiva allettante!
Le conseguenze in termini di impatto sul sistema sono di immediata percezione. Gli addetti ai lavori sanno che vedremo moltiplicarsi dibattimenti e impugnazioni, il che potrà determinare la paralisi dello strumento processuale e la totale inidoneità dello stesso a perseguire le finalità di accertamento dei reati cui dovrebbe essere preposto.
L'intera procedura finisce per essere dominata dal dio tempo, Cronos, la divinità che divora i suoi figli e che diventa, una volta per tutte, croce e delizia dei processi, una croce per chi attende giustizia e profonde forze e speranze nelle aspettative di una giusta risoluzione delle controversie, una delizia per chi vede allontanarsi per sempre la resa dei conti.
Il processo appare come una corsa contro il tempo nell'ottica non solo delle scelte difensive ma anche di quelle del giudice: l'ammissione di un mezzo istruttorio potrà essere pesantemente influenzata dal tempo che rimane a disposizione prima che cali definitivamente il sipario. Dobbiamo porci questo problema.
Non può essere mai accettabile però sostituire a una sentenza che arriva tardi una sentenza che non arriva mai e cioè una giustizia negata. L'articolo 9 della proposta di legge prefigura un'amnistia mascherata e generalizzata per i reati ivi contemplati con riferimento alla pena edittale e al tempo di commissione del reato, per i quali è stata esercitata l'azione penale e non si è giunti a sentenza. In termini di incidenza si tratta comunque di una percentuale piuttosto bassa di processi, nel mio distretto circa l'8 per cento per quanto riguarda i giudizi di primo grado.
Andando però a vedere i giudizi di appello quando la normativa sarà a regime, ci renderemo conto che i processi che cadranno sotto questa scure saranno molto più numerosi.
Questo cosiddetto processo breve realizza una sorta di amnistia perpetua immanente al processo. Basti evidenziare che


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la corte d'appello cui appartengo non è e non sarà assolutamente in grado di rispettare il termine di due anni nei tre casi di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, dalla pronuncia della sentenza di primo grado per la definizione del giudizio d'appello.
In Corte sono pendenti 9.000 procedimenti a cui non si applica la nuova normativa. Solo per smaltire le sopravvenienze in Corte, che sono oltre 3.200 nonostante la regione sia piccola, occorrerebbe utilizzare almeno 8 magistrati a tempo pieno e pretendere da ciascuno di essi oltre 400 sentenze l'anno, oltre ai provvedimenti deliberati, alle rogatorie, agli incidenti di esecuzione, alle misure di prevenzione, alle procedure per risarcimento da ingiusta detenzione, il che è del tutto irragionevole tenendo conto dei cosiddetti carichi esigibili.
Anche a voler prescrivere tutti i reati relativi ai procedimenti pendenti e non regolati dalla cosiddetta legge sul giusto processo, nel giro di pochissimi anni il sistema imploderebbe nuovamente.
Non sarà inopportuno evidenziare poi che nel suddetto termine perentorio di due anni vanno considerati i tempi necessari per i gravosi adempimenti successivi alla pronuncia di primo grado, ma precedenti al momento in cui il giudice di appello entra nella materiale disponibilità del fascicolo processuale. Si pensi al tempo richiesto per la redazione della motivazione, per l'eventuale avviso di deposito, per l'eventuale notifica dell'estratto contumaciale; si pensi al termine per appellare, alle notizie di ciascun atto di impugnazione e a tutte le altre parti processuali, alla preparazione del fascicolo da parte della Cancelleria di primo grado, all'inoltro a quella dell'impugnazione, ai tempi dell'iscrizione.
Questi sono i dati concreti sui quali il legislatore deve fare attenzione perché non possiamo ipotizzare uno strumento magnifico, teoricamente perfetto, che in concreto non si può usare. Vogliamo tutti che la giustizia sia rapida, ma dobbiamo perseguire questo obiettivo in modo credibile e serio, evitando che n giorno ci possa essere ascritto come titolo di demerito anziché di merito.
Su questi tempi incidono pesantemente anche altri problemi connessi con la carenza del personale di cancelleria, con la situazione di collasso in cui versano gli uffici UNEP. È in atto una continua lotta tra la corte e il tribunale per stabilire chi debba andare a chiamare le cause in udienza perché non c'è nessun commesso.

EMILIO GIRONI, Presidente della prima sezione penale della corte d'appello di Firenze. Da noi non ci sono più da molto tempo!

PAOLO ANGELI, Presidente della corte d'appello di Ancona. Sì, però voi avete la possibilità di avere contatti con qualche «ente di beneficenza» per cui utilizzate persone che vi vengono assegnate dalle regioni, cassintegrati, eccetera, mentre io non sono riuscito ad ottenerlo.
Vi posso garantire che per me che sono nato in un'altra epoca e che credo di aver fatto il giudice in un determinato modo, chiedere a un politico di darmi una persona per chiamare una causa è un atto non di umiliazione perché non sono orgoglioso, ma contrario ai princìpi e alle regole della giustizia e della magistratura.
La magistratura deve essere indipendente anche in questo. Io tutto sommato se lo vado a chiedere, metto la mia faccia e la mia faccia resiste, ma, se a chiederlo è qualcuno che lo fa nei distretti dell'Italia meridionale, in Calabria o altrove, ci sono gravissimi problemi di credibilità e di compromissione.
Dovrebbe essere evidente dunque che, quand'anche si riuscisse con grande impegno e fatica a superare l'ostacolo temporale previsto per l'emissione della sentenza di primo grado, il processo si infrangerebbe inevitabilmente sullo scoglio del termine fissato per l'appello.
Da parecchio tempo parliamo dell'imbuto nell'appello. Quando si fecero tutte queste polemiche era in discussione la questione dei tre gradi di giurisdizione. Mi chiedo quindi perché non pensare seriamente


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all'eliminazione di un grado di giurisdizione. Certo, noi perderemmo il posto, andremmo in pensione forse meritatamente, ma il termine fissato per l'appello non si potrà comunque mai rispettare e quindi a regime ci saranno una serie di prescrizioni, una serie di rinunce alla giurisdizione.
Prima è stato ricordato in maniera esemplare il diverso significato della prescrizione sostanziale e della prescrizione processuale ed è in quell'ottica che dobbiamo ragionare.
Non riusciamo a comprendere, con riferimento al processo penale, il senso e l'utilità del meccanismo di cui all'articolo 1, comma 3-sexies, che prevede una sorta di canale privilegiato per il processo ad istanza di parte. È infatti facile prevedere che esso sarà spesso utilizzato dai protagonisti di controversie bagatellari, sistematici frequentatori delle aule di giustizia, sottraendo così tempo prezioso ai procedimenti di maggiore rilevanza.
Non desidero aggiungere altro perché ho detto abbastanza e ho già rubato molto tempo alla Commissione. Spero soltanto che la passione con la quale le ho raccontato queste cose, che sono parte della mia vita, le ricordi lei, presidente, che non è un magistrato e appartiene a una cultura sicuramente migliore della nostra, ma diversa dalla nostra.

GRAZIANA CAMPANATO, Presidente della corte d'appello di Brescia. Grazie presidente per avermi invitato, dandomi l'occasione di mettermi a confronto con voi ed anche con i colleghi che ho sentito così appassionati, ma anche razionali, nell'illustrare il loro punto di vista. Credo che questo sia un momento importante per noi e spero che la Commissione terrà conto delle nostre osservazioni.
Si evidenzia da una parte l'esigenza di una ragionevole durata del processo, su cui siamo tutti d'accordo, riconoscendo che è un valore e costituisce addirittura un diritto umano. Ci piacerebbe tanto dare una risposta di giustizia celere come avveniva quaranta anni fa quando abbiamo cominciato e come non avviene più oggi.
D'altra parte, però, credo che, per essere proposte, le leggi debbano rispettare un criterio di fattibilità: nessuna persona di buon senso farebbe un progetto che non riuscirebbe a realizzare, perché sarebbe tempo perso.
In questo caso non si tratta solo di tempo perso, perché per mandare al macero tanti processi quanti ne avete definiti voi occorre ulteriore lavoro. Non c'è infatti un cestino che aspetti questi processi, ma c'è un lavoro per mandarli in questo cestino e nessuno al mondo potrebbe ritenere razionale che si lavori per dire che non si deve lavorare.
Si tratta infatti non dell'estinzione di un reato per prescrizione, ma di un'improcedibilità che avete definito «prescrizione processuale» perché è scattata l'«ora x», ma per dichiarare questo noi dobbiamo lavorare sui tanti processi pendenti. Credo inoltre che, se non lo faremo in fretta, saremo ugualmente soggetti alle condanne, perché per definire le questioni processuali occorre arrivare in tempo anche a dire questo.
Non potremo scegliere quindi di lasciare da parte quanto è destinato a quel cestino e fare il resto da giudicare: dovremo fare in fretta anche quello. Questo induce a evidenziare un'irrazionalità, come capirebbe anche una persona comune, che non penserebbe mai di operare in questo modo.
Avete sentito dire come tutti gli uffici abbiano gravi carenze (anche a Brescia) e in particolare le corti d'appello. Non è vero che solo le aree del sud o la Sardegna soffrano: forse non lo pensereste se non vedeste i grafici che ho allegato alla relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario, ma Brescia, nella mitica Lombardia orientale, soffre delle stesse carenze ed è sorella povera assieme a Venezia del mitico nord-est.
Questo perché due aree un tempo povere sono diventate ricche e imprenditoriali e hanno un bisogno di risposta di giustizia molto maggiore di un tempo. Nessuno si è preoccupato di questo, mentre sarebbe ora che qualcuno lo facesse.


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Il circondario di Brescia ha una popolazione di circa 3 milioni e 250 mila imprese, è composto da 5 tribunali (Brescia, Bergamo, Cremona, Crema e Mantova), è una delle zone più ricche, più industrializzate e più calme d'Italia. Sono arrivata pochi mesi fa e mi sono molto meravigliata che, nonostante questa situazione di sorella povera come organico e, quindi, di cattiva risposta di giustizia, Brescia non sia insorta a chiedere con più forza una modifica del suo organico.
Cerco di sensibilizzare gli enti locali, le persone che incontro perché credo che sia una battaglia da condurre; non voglio arrendermi sebbene per trenta o quaranta anni non si sia ottenuto niente, perché non possiamo nasconderci la gravità della situazione.
Dai grafici - se avrete la bontà di vederli - si nota anche che Brescia dà una cattiva risposta ma ha un'alta produttività ed eccellenze tra i magistrati, nel foro, nella dirigenza amministrativa; è una delle corti che produce di più.
Pur producendo in rapporto al numero dei propri giudici, non produce abbastanza per garantire una buona risposta di giustizia in un territorio in cui non c'è solo famiglia o minori, ma ci sono imprese, immigrati, rapporti di lavoro, una grande crisi, quindi problemi di tipo commerciale, fallimenti, e la cattiva e ritardata giustizia incide anche sull'economia in modo molto pesante.
Ritengo non che si debba avere maggiore attenzione per le popolazioni e i territori ricchi perché sarebbe eticamente non sostenibile, ma che si debba avere un occhio concreto per osservare le situazioni diversificate dei nostri vari territori.
Non voglio ribadire tutte le osservazioni espresse in tema di diritto e di costituzionalità della proposta di legge, ma voglio semplicemente dire che una legge di questo tipo, che non accelera i processi ma lo stabilisce solo sulla carta, che ci fa lavorare per buttare processi nel cestino, avrà effetti devastanti sulla situazione bresciana. Siamo qui per affermare in modo molto chiaro che saremo anche ritenuti responsabili di questa cattiva risposta, perché fin d'ora sappiamo che tantissimi processi non si potranno fare.
Abbiamo una pendenza di oltre 10.000 processi penali con un limitato organico di magistrati, ma in certe statistiche questa pendenza è di quasi 19.000. Dico questo per sottolineare che questi dati non li abbiamo ricavati noi: da quest'anno provengono dalla Direzione di statistica ministeriale e non da noi, quindi non sono frutto di un errore nostro, ma probabilmente c'è qualcosa che non va se da una parte mi si dice che ho più di 10.000 processi e dall'altra 19.000, e questa discrepanza mi obbliga a contarli tutti.
Mettiamo pure che siano 10.000 e non 19.000, che sarebbe una cosa terribile perché ci chiediamo in quanti anni potremmo smaltirli con il nostro organico di 32 magistrati tra civile, penale, lavoro e presidente). I calcoli dimostrano che non potremo rispettare i famosi due anni per esaurire i processi, a meno di non operare una drastica selezione di quelli che andranno a sentenza e degli altri - una grande parte - che butteremo nel cestino.
Sappiamo già che questa normativa ci metterà nelle condizioni di fare una pessima figura e magari di essere anche sottoposti a un procedimento disciplinare, perché qualcuno ci accuserà di non aver fatto abbastanza. Poi ci difenderemo e magari verremo prosciolti, ma questo provocherà ulteriore ansia e ulteriore fastidio.
La norma interviene poi anche sui processi civili. Può darsi che il nuovo rito, essendo più agile perché prevede l'accesso alla giustizia da parte del singolo interessato senza la necessità dell'avvocato, con un intervento con decreto motivato del presidente o di un magistrato delegato senza bisogno di contraddittorio, ci faccia lavorare meno.
Poiché però tutte le volte che è prevista un'opposizione, soprattutto in civile, quando si tratta di soldi, tutti i soggetti scontenti utilizzano questa opportunità e poiché i soggetti scontenti sono oltre il 50 per cento (la metà delle cause che ci provengono con la legge Pinto viene respinto), ritengo che avremo un doppio


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lavoro: la prima fase celere e non costosa per l'utente, la seconda fase camerale, con l'intervento dell'avvocato e la convocazione delle parti. Con la fortuna che hanno le corti d'appello anche di fronte ai reclami in materia di famiglia, sicuramente avremo un aggravio di lavoro, ma comunque mi auguro sempre che la legge non tocchi questi punti.
Se però la legge interverrà su queste procedure, è ragionevole anche pensare che una prima battuta senza contraddittorio delle parti possa servire. È quindi una preoccupazione che espongo alla Commissione, ma non proporrei mai una battaglia contro, perché può darsi che la normativa così come viene proposta la modifica sia anche accettabile.
Se dobbiamo valutare come la legge organizza, stabilisce e definisce i tempi di durata dei processi, dai quali deriveranno le nostre responsabilità e possibili esposizioni disciplinari, non c'è molta ragionevolezza per quanto riguarda il processo penale. La fase del primo grado va dalla definizione dell'imputazione alla pronuncia; la fase dell'appello va da quella pronuncia all'altra pronuncia, ma in mezzo ci sono i tempi per il deposito della sentenza, per l'appello, per le notifiche che possono essere di difficile esecuzione, per la consegna dei fascicoli che a volte richiede anche mesi o persino un anno.
Alla corte d'appello resta quindi un anno per organizzare il suo lavoro. Dice bene la presidente Corradini, che evidentemente ha già organizzato il suo lavoro, che i fascicoli sono stati tutti pesati, con il bollino rosso (noi ci abbiamo messo le stelline) perché abbiamo lo stesso sistema di lavorare, forse perché siamo donne, abbiamo parti di carriera comuni e abbiamo imparato in tanti uffici come si lavora.
Sappiamo che ci sono tutti questi processi e che questa normativa provocherà uno tsunami, perché il nostro sistema di lavoro, le nostre buone pratiche, i nostri escamotage e la nostra fantasia che ci consente di sopravvivere, verranno messi in discussione.
Non ci spaventiamo comunque di questo. Se avessimo dotazioni, personale e mezzi, saremmo pronti a rinnovarci, perché è compito del giudice rinnovarsi completamente e accettare una nuova impostazione: è che noi non abbiamo i mezzi e dopo incontri, tavoli di confronto tra di noi e con i consigli dell'ordine che hanno compiti anche in materia di organizzazione dei ruoli delle udienze, condivisioni, incontri di giudici di primo grado, di secondo grado, priorità della legge ma anche nostre specifiche, piani di lavoro che sono costati tempo anche a me in questi pochi mesi in corte d'appello, tutto questo potrebbe essere vanificato.
Se la legge fosse giusta e razionale, saremmo pronti a rifare tutto da capo. La corte d'appello di Brescia come le altre soffre di mancanza di personale. Una delle prime cose che mi sono state dette dal Ministero appena arrivata, quando chiedevo qualche computer, è stato di parlare con il direttore della tale banca, che ne aveva da eliminare. Francamente andare appena arrivata da un direttore di banca «col cappello in mano» mi è sembrata una condizione di grande umiliazione, ma poi i funzionari di cancelleria lo hanno fatto e i computer sono arrivati. Tuttavia, non è possibile andare avanti in questo modo!
Lo stesso avviene con il personale perché avevamo i comandi, ma stanno per essere eliminati perché costano per l'indennità di giustizia. Si tratta di personale pagato da enti locali, quindi solo una fetta viene pagata dal Ministero, ma non ci sono soldi nemmeno per questo e dobbiamo chiederli in prestito ai comuni, alle province, alla regione. Alcuni tribunali della mia corte d'appello hanno una convenzione con gli studenti maggiorenni delle scuole superiori, che fanno gratuitamente la chiamata dei processi. Altre attività vengono fatte dai pensionati, ai quali gli avvocati pagano i contributi per gli eventuali infortuni e la provincia qualche euro per il panino o per l'autobus, mentre loro lavorano gratis.
Chi non ha a disposizione questo personale si trova ancora peggio.


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Qualche anno fa la corte d'appello di Brescia aveva una scopertura del 50 per cento del personale amministrativo, oggi del 25, ma perché tutte le corti d'appello hanno avuto l'azzeramento degli organici, quindi per legge oggi abbiamo una scopertura minore, domani avremo un processo breve per legge.
Ci sarebbero tante altre cose da dire, tante sono state dette e forse non possiamo neanche dire tutte quelle che abbiamo in testa in questo momento.

EMILIO GIRONI, Presidente della prima sezione penale della corte d'appello di Firenze. Premetto che sono qui in rappresentanza della corte d'appello di Firenze in sostituzione del presidente Drago, che nei giorni scorsi ha inviato una lettera di scuse segnalando la propria impossibilità di presenziare e che invia il suo saluto alla Commissione.
Non vorrei ripetere un'analisi generale della proposta di legge, che è già stata ampiamente compiuta, e mi limito quindi ad aderire alle analisi espresse perché ritengo che anche la somma delle opinioni possa essere una valida indicazione per il legislatore, qualora queste siano concordanti e univoche. Cito quindi alcuni dati a conforto di queste analisi che considero indicativi, anche se sono stato incaricato di questo lavoro due giorni fa e ho dovuto lavorare con tempi molto ristretti.
Comincio indicando il dato relativo alla corte d'appello di Firenze. Sappiamo che la norma transitoria non riguarda la fase dell'appello, ma è utile fare una proiezione per il futuro di quello che può accadere nelle corti.
Abbiamo quindi verificato che, su un totale di 6.800 processi pendenti alla data dell'11 febbraio 2011, si dovrebbero dichiarare già oggi estinti, qualora la disciplina fosse già a regime, 2.127 processi, mentre altri 1.597 sono pressoché prossimi al termine finale e si possono dare per defunti.
Alla tipologia dei bollini rossi, verdi, gialli che è stata evocata prima, si deve aggiungere il bollino nero, che alla corte d'appello di Firenze riguarderebbe circa il 50 per cento dei processi, perché questo famoso imbuto fa sì che si lavori accanitamente nei giudizi di primo grado, per poi vedere vanificato il processo nella fase dell'appello.
Anche la scelta di «gettarli nel cestino», come è stato detto, non è indolore, perché il comma 4 dell'articolo 531 del codice, giustamente, stabilisce che, decorsi i termini di cui ai commi precedenti, quando dagli atti risulti evidente che il fatto non sussiste, che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato, il giudice pronuncia una sentenza di assoluzione e di non luogo a procedere, il che vuol dire che deve essere compiuto un esame del merito di ogni processo, per cui anche questa deiezione nel cestino è tutt' altro che indolore. Questo permette di evidenziare come si finisca per lavorare nelle fasi precedenti per poi vanificare il lavoro nelle fasi successive.
Sono stati invece richiesti e acquisiti i dati relativi all'incidenza della norma transitoria sul lavoro dei tribunali, cioè la fase in cui questa norma transitoria opererebbe, che credo sia importante riportare perché sono diversificati tra le varie sedi, ma testimoniano come la falcidia sarebbe notevole specialmente in quelle maggiori.
Per quanto riguarda il tribunale di Firenze, ad esempio, il numero complessivo dei processi certamente estinguibili ai sensi dell'articolo 9, comma 1, della proposta di legge è stato stimato ad oggi in 1.249, mentre altri 2.000 si approssimano al termine per l'estinzione, e il superamento del termine massimo appare pressoché la regola per i processi con udienza preliminare, che è necessario distinguere da quelli a citazione diretta.
Per il tribunale di Prato nella relazione che ho consegnato stamattina c'è un'indicazione inesatta, perché il dato è stato erroneamente riferito a una disciplina a regime quando chiaramente non poteva invece che attribuirsi alla norma transitoria. Il dato è di 24 procedimenti di competenza monocratica su 1.916 e di 3 su 50 di competenza collegiale.


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Per il tribunale di Pisa in senso assoluto i dati sono apparentemente poco significativi, ma in percentuale invece raggiungono il 4,43 per cento. Per il tribunale di Pistoia è stata segnalata la possibilità di estinzione di 26 processi di competenza monocratica e di 3 di competenza collegiale.
Per il tribunale di Siena il dato è significativamente maggiore, perché 261 processi sarebbero destinati con certezza all'estinzione per quanto attiene la competenza monocratica su 948 (circa un quarto), ma non è stata effettuata alcuna stima precisa per quelli di competenza collegiale, perché è stato impossibile rilevare la data di deposito della richiesta di rinvio a giudizio.
In ogni caso, è stata indicata una percentuale approssimativa dei processi destinati all'estinzione nell'ordine del 35-40 per cento. Minore è invece quella del tribunale di Grosseto, che è stata indicata in termini percentuali nell'ordine del 5 per cento e in termini assoluti in 75 processi. Per il tribunale di Lucca invece l'estinzione riguarderebbe una percentuale del 20-30 per cento per quelli di competenza monocratica e tra il 30 e il 50 per cento per quelli di competenza collegiale.
Altrettanto significativo è il dato di Livorno, per cui la stima indica come avviabili all'estinzione 24 processi su 104, quindi una percentuale prossima al 25 per cento per la competenza collegiale, e 69 su 1.695 per quelli di competenza monocratica.
È stato però anche significativamente segnalato come i processi di competenza dibattimentale estinguibili riguardino materie di grande rilevanza sociale, essenzialmente reati fallimentari o contro la pubblica amministrazione, sfruttamento della prostituzione, e come particolari problemi riguardino i procedimenti per decreto a causa delle frequenti e pressoché generalizzate difficoltà di notifica, con la correlativa necessità di svolgere laboriose ricerche e il conseguente ritardo nella celebrazione degli eventuali giudizi di opposizione.
Per il tribunale di Montepulciano il dato numerico è poco significativo, ma la pendenza è notoriamente bassa, quindi sono 8 processi di competenza monocratica e 5 di competenza collegiale.
Queste differenze tra i vari tribunali sono chiaramente spiegabili oltre che con i diversi carichi di lavoro e la non razionale distribuzione delle sedi giudiziarie (ho citato l'esempio del tribunale di Montepulciano di cui da anni si invoca la soppressione, ma che nessuno ha mai pensato di sopprimere), anche con le carenze di organico che in alcune sedi sono rilevanti e si protraggono da lungo tempo. Questo spiega la maggiore sofferenza degli uffici maggiori come quelli di Firenze e Livorno.
Ho raccolto anche dei dati relativi ai processi civili in due tribunali. Per il tribunale di Firenze sono stati segnalati 13.092 processi pendenti da oltre due anni e destinati a superare il limite della ragionevole durata ai sensi dell'articolo 1, comma 3-ter, della proposta di legge; il tribunale di Livorno ha fatto analoga segnalazione per 911 processi.
Per quanto attiene il civile e i meccanismi processuali introdotti dalla proposta di legge, mi limito a rilevare come sia agevole prevedere un pressoché generalizzato ricorso alla richiesta di sollecita definizione del giudizio, di cui all'articolo 1, comma 3-quinquies, della proposta di legge, con conseguente corsia preferenziale da assegnare in base alle norme transitorie a detti processi, postergazione di quelli residui e notevole incremento delle azioni ai sensi della legge Pinto, con relativo aumento sensibile del contenzioso civile e dell'onere finanziario per lo Stato.
Vorrei poi indicare alcune problematiche di carattere generale che da tecnico ho ritenuto di individuare nella formulazione delle norme e anche in linea di principio per quanto attiene all'impostazione generale della proposta di legge.
Come è già stato unanimemente rilevato, non si capisce come si possa far convivere da un punto di vista teorico e pratico la prescrizione sostanziale del reato con l'introduzione di questo istituto


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dell'estinzione o perenzione processuale, che non voglio chiamare prescrizione processuale perché desidero segnare il netto discrimine fra la prescrizione, che è istituto sostanziale, e questa perenzione o estinzione, che è un fatto del tutto interno al processo.
Vorrei anche richiamare l'irragionevolezza di una norma che accorcia così significativamente i tempi del processo a fronte della legge ex Cirielli, che ha invece per molte fattispecie allungato i termini processuali.
Sappiamo che quella manipolazione legislativa piuttosto strana ha accorciato i termini di prescrizione per alcuni reati, ma li ha anche enormemente estesi per altri. Ci chiediamo come sia concepibile che lo stesso legislatore che cinque anni fa ha fatto quel tipo di normativa, estendendo enormemente i tempi di prescrizione, per esempio, per i recidivi qualificati, possa a distanza di cinque anni disciplinare la materia in modo del tutto diverso e quindi con una chiara contraddizione di sistema.
Manca nella proposta di legge una specifica disciplina per i processi con udienza preliminare. Ho già segnalato la grande differenza che esiste fra i processi con decreto di citazione diretta e i processi con udienza preliminare, che vengono omologati a quelli con citazione diretta, senza tener conto della maggior durata fisiologica dei primi. Questo dato non può essere ignorato e questi non possono essere considerati in un unico calderone quando le tipologie dei riti sono completamente diverse.
Segnalo anche una differenza lessicale nella formulazione dei commi 1 e 2 dell'articolo 531-bis del codice, perché mentre nel comma 1 si dice più di due o di tre anni, nel comma 2 c'è un termine secco e il «più» sparisce e non si capisce, laddove può avere però un rilevante significato perché per un giorno può saltare un processo. È bene quindi chiarire se quel «più» debba comparire anche nel comma 2.
Formulo poi riserve sulla determinazione dei termini di estinzione in base alla sola misura della pena edittale massima, perché questo criterio appare poco razionale e potrebbe facilmente incorrere, in un'ottica di attuazione dell'articolo 111 della Costituzione, quindi del principio di ragionevole durata del processo, in censure di legittimità costituzionale.
Molto più ragionevole e razionale sarebbe invece una distinzione dei termini di fase in base alla effettiva complessità del processo, parametrata non sulla durata della pena edittale massima ma, per esempio, sul numero delle parti, sui capi di imputazione, sulle difficoltà probatorie, sulla necessità di accertamenti tecnici, che è notoriamente connessa a certe tipologie di processo, oppure prevedere distinte categorie di reati.
Il criterio della pena edittale massima è invece irragionevole, perché sappiamo che un processo con pene edittali gravissime come un omicidio volontario è spesso gestibile in modo estremamente semplice e in tempi anche molto compressi, mentre un processo con pene edittali nettamente minori, come un omicidio colposo per colpa professionale o un disastro colposo, richiede tempi lunghissimi, come nel caso del disastro ferroviario di Viareggio, per il quale solo adesso con l'incidente probatorio si stanno disponendo le perizie.
Tutti coloro che conoscono la materia sanno dunque che a incidere non è la durata della pena edittale ma la complessità parametrata sui dati citati, che trovano rispondenza nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Segnalo ancora la mancata sterilizzazione dei tempi intercorrenti per gli adempimenti processuali tra le varie fasi e i gradi del giudizio, quali ad esempio il termine per la redazione della sentenza che addirittura sospende il termine di prescrizione, ma invece non inciderebbe su questa normativa, i tempi per gli adempimenti relativi alle notifiche della sentenza, alla presentazione degli atti di impugnazione.
Sarebbe molto più ragionevole per i gradi di impugnazione sostituire il termine a quo, che ora è indicato nella data di pronuncia della sentenza impugnata, con


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la data in cui gli atti pervengono all'ufficio destinatario, perché solo da quel momento si può sanzionare un ritardo in capo all'ufficio che deve giudicare. Far partire il termine dalla data della sentenza è una norma capestro, che è obiettiva ma si presta a far cadere una sanzione processuale sull'ufficio che non ha nessuna responsabilità nella gestione del processo perché ancora non ha ricevuto gli atti.
Concludo dicendo che se si vuole veramente perseguire il fine dell'accelerazione e della rivitalizzazione del processo penale, senza sacrificio delle esigenze di giustizia sostanziale e non invece perseguire il definitivo affossamento del processo penale, una disciplina di questo tipo non può prescindere dai necessari interventi in termini di dotazioni umane e strumentali, tenendo conto del fatto che tutto ciò comporterebbe un massiccio trasferimento di magistrati ausiliari dal settore civile a quello penale, se non si vuole vedere il processo penale definitivamente fallito.
I dati statistici che ho esposto sono destinati a eventuali precisazioni, che potrebbero essere inviate in un secondo momento, quindi eventualmente faremo pervenire tabelle più precise e aggiornate.

PRESIDENTE. Do ora la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

MARILENA SAMPERI. Desidero ringraziare i presidenti per averci aiutato a entrare nel merito dei meccanismi e delle difficoltà affinché questa comune aspirazione ad avere un processo breve, condivisa da magistratura, cittadini e legislatore, possa avere i presupposti concreti per ottenere il risultato concreto di abbreviarlo.
Vi ringraziamo anche perché ci avete fornito altre indicazioni, perché esistono vie per poter ottenere un processo breve senza vedere necessariamente per legge vanificare il processo stesso. Questa istanza di sollecitazione nel giudizio civile, che naturalmente tutti faranno, costituirà un ulteriore aggravio di lavoro senza alcuna speranza che da questa selezione possa emergere un risultato di reale accelerazione. E anche questo sarà lavoro inutile.
Condividiamo le vostre considerazioni perché queste sono state anche le nostre perplessità, per cui mi spiace che i rappresentanti del Popolo della Libertà non siano presenti, perché gli spunti di riflessione sono stati tanti e quanto ci avete detto impone di confrontarsi con la realtà e le difficoltà concrete ma anche con la responsabilità del legislatore.
Questa è grande perché spetta al legislatore operare semplificazioni e accelerazioni nella procedura attraverso la depenalizzazione di reati di nessun impatto sociale che permetterebbero di ottenere quel risultato.
Nel bilanciamento tra il diritto alla velocizzazione del processo e i diritti fondamentali all'interno della nostra cultura giuridica, quali il diritto alla qualità del processo, (dell'indagine e dell'attività investigativa), e il diritto di ottenere una decisione, credo che i fondamentali diritti alla qualità del processo e alla decisione siano assolutamente mortificati da questo progetto di legge, il cui unico risultato consisterà nel porre una pietra tombale sui processi, senza garantire quel po' di giustizia che, nonostante le condizioni precarie, oggi è garantita. Vorrei conoscere le opinioni degli auditi su tale aspetto. La domanda è retorica ma tenevo ugualmente a porvela.

FEDERICO PALOMBA. Più che porre domande che sarebbe difficile congegnare, tanta è la concordanza di opinioni tra noi e gli illustri rappresentanti della magistratura, vorrei esprimere loro un ringraziamento perché quelle che per noi erano intuizioni e convinzioni, oggi sono diventate realtà attraverso le testimonianze serene e oggettive di gran parte della magistratura.
Riteniamo che sia emerso un grido dei magistrati alla vita del processo, non una rassegnazione alla sua morte anticipata. Una giustizia che non riesce ad affermare se stessa, a individuare il giusto nelle


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situazioni a lei sottoposte è una giustizia che fallisce, ed è giusto e anche positivo rilevare il sentimento di frustrazione che coglierebbe gli operatori della giustizia nell'ipotesi in cui, malgrado un enorme sforzo di produttività - i magistrati italiani sono tra i più produttivi in Europa -, dovessero rassegnarsi al distacco della spina.
Abbiamo rilevato con grande piacere il fatto che i servitori della giustizia e dello Stato che vogliono adempiere alla loro funzione nella maniera migliore abbiano invocato misure per consentire che i processi vivano e non che nascano già a tempo.
Spero che la maggioranza, che ha dissotterrato il processo breve insieme all'ascia di guerra, voglia leggere con attenzione queste serene e obiettive considerazioni, riconoscendo che la giustizia deve essere messa in condizioni di funzionare e non di arrendersi.
Anche a nome del gruppo che rappresento confermo quindi la gratitudine per questi preziosi contributi.

LUCA RODOLFO PAOLINI. Anche a nome della Lega Nord ringrazio gli autorevoli presidenti qui presenti per averci fornito un significativo spunto di riflessione. Personalmente, considero molto più utile l'opinione di chi combatte sul campo di quella teorica di professori anche molto bravi.
Avete fatto tutti un'analisi sostanzialmente negativa e francamente è difficile non riconoscere la ragionevolezza di molte delle cose che avete detto. Desidero fare talune considerazioni a titolo personale.
In Italia spendiamo in termini di PIL quello che spendono gli altri Paesi e abbiamo un numero di magistrati comparabile con quello di altri Paesi. Abbiamo procedure senz'altro più farraginose e ottocentesche, abbiamo il problema della motivazione, il problema della non vincolatività del precedente che in altri Paesi elimina molti problemi.
Abbiamo accertato che la produttività dei magistrati è senz'altro nella media europea o superiore ad essa. Oltre al parere che avete dato sull'eventuale abolizione del grado di appello, che per le questioni bagatellari potrebbe rappresentare una via da percorrere, vorrei conoscere la vostra opinione riguardo alla produttività del personale amministrativo, un aspetto sul quale raramente ci si sofferma.
Provengo dalle Marche e conosco la mia realtà, e spesso si rileva un problema di produttività amministrativa, ovvero di quel fondamentale supporto al magistrato che è importantissimo per eliminare determinati ritardi.
Vorrei sapere se sia possibile intervenire anche in questo settore. La presidente della corte d'appello di Brescia ha dichiarato di aver fatto ricorso a una sorta di volontariato, come accade anche altrove, per cui sarebbe forse opportuno introdurre normative in grado di agevolare questo percorso.
Mi pare che il punto problematico non sia tanto la durata media dell'intero processo, che è di sei anni, ma che in taluni casi possono diventare anche undici, quanto la durata della singola fase processuale. Mi è sembrato molto interessante anche il riferimento alla lotta contro il tempo e al dio Cronos, perché in effetti il primo grado ha il vantaggio di poter contare su un lasso di tempo più ragionevole, però man mano il tempo si accorcia per cui il giudice di appello o di Cassazione potrebbe essere portato a non soffermarsi sulle questioni pur di concludere.
Si ha quindi un effetto opposto a quello che si persegue: la revisione di appello, che dovrebbe essere più ponderata rispetto a quella che si presume erronea,sarebbe paradossalmente meno ponderata per ragioni di tempo.
Sarebbe opportuno che la magistratura, che attualmente non è in ottimi rapporti con il potere politico per varie ragioni, venisse incontro sotto qualche altro profilo. Il numero dei magistrati in assoluto non è così carente, ma molti sono i fuori ruolo, non esistono vincoli che consentano di obbligare il magistrato a prestare servizio in certe sedi e occorrerebbe uno


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sforzo della magistratura per garantire un servizio di giustizia egualmente distribuito sul territorio.
Vi ringrazio di tutti gli spunti che ci avete fornito.

DONATELLA FERRANTI. Desidero rivolgere un particolare ringraziamento ai presidenti e ai procuratori generali per avere accolto l'invito della Commissione. Abbiamo tenuto tanto alla vostra presenza, pur capendo che si trattava di un ulteriore impegno rispetto al vostro lavoro, ma ci premeva ascoltare la voce non solo degli organismi associativi, ma anche di chi può avere uno sguardo più ampio sugli uffici giudiziari che lavorano quotidianamente.
Grazie all'ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, siamo riusciti ad avere anche una ulteriore giornata di audizioni nella prossima settimana. Ovviamente, non potranno essere auditi tutti i rappresentanti dei distretti, ma sicuramente ne interverrà una buona parte. Siamo lieti di constatare che, pur avendo ciascuno un angolo visuale diversificato rispetto al territorio, agli uffici giudiziari, all'esperienza professionale, ci sia stata sostanzialmente una voce unanime su punti critici e costruttivi che dovranno essere valutati.
I lavori parlamentari hanno un andamento molto convulso però le assenze sono integrate dal fatto che dei lavori dell'indagine conoscitiva verrà redatto il resoconto stenografico, che sarà oggetto di attenta lettura da parte di tutti i gruppi.
Vorrei porre una domanda provocatoria, perché è emerso con evidenza come si sovrappongano due tipi di prescrizione: la prescrizione del reato e la prescrizione del processo, che sarebbe un'ulteriore forma di estinzione e quindi di rinuncia al processo, come i tempi siano inadeguatamente calibrati rispetto non solo alla complessità ma anche alla decorrenza, che mangia circa un anno dalla pronuncia della sentenza di primo grado.
Vorrei porre una domanda ipotizzando il caso che ci fosse una revisione delle circoscrizioni giudiziarie, che ci fosse un organico effettivo di 9.000 o 10.000 magistrati come sulla carta e un personale amministrativo potenziato e adeguato, che ci fosse una depenalizzazione o comunque di una rivisitazione del Codice penale in relazione al disvalore sociale delle condotte penalmente rilevanti (è stato infatti rilevato come siano state prodotte dal legislatore nuove fattispecie incriminatrici ma, a parte il decreto «Taglia leggi» con cui, fra l'altro, si è sbagliato a togliere qualcosa che non era stato disposto, nessuno pensi a una seria depenalizzazione).
Vorrei dunque sapere se, qualora tutto questo fosse come sulla carta e magari rivisto e razionalizzato, in base alla vostra esperienza considerereste comunque necessario prevedere l'estinzione di un processo per garantire una durata ragionevole oppure se si potrebbe garantire una durata ragionevole con un processo di qualità e quindi un adeguato accertamento dei fatti.
Vorrei, inoltre, conoscere la vostra opinione su un suggerimento che avevo trovato negli atti di un convegno, in base al quale, qualora il processo duri oltre un limite ragionevole, si potrebbe prevedere una diminuzione di pena in caso di condanna dell'imputato, invece di eliminare il processo tout court e quindi estinguerlo magari mentre si sta svolgendo.

PRESIDENTE. Do ora la parola ai nostri ospiti per la replica.

GIORGIO SANTACROCE, Presidente della corte d'appello di Roma. Sono innanzitutto lieto che sia stata sottolineata la serenità delle valutazioni espresse dai presidenti delle corti d'appello, a conferma di quello che è il nostro atteggiamento nei confronti delle riforme.
Contrariamente a quello che spesso si legge sui giornali, infatti, non ci opponiamo affatto a tutte le riforme, ma vogliamo le riforme che servono, che effettivamente possano far arrivare a una durata ragionevole del processo.
Darò risposte flash alle varie domande. Oggi l'appello è diventato l'imbuto perché a partire dal 2000 per il giudizio d'appello


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non è intervenuta nessuna riforma, sebbene questo sia stato caricato di una serie di incombenze che in passato non aveva.
Per il primo grado sono state realizzate riforme ed è stata creata la figura del giudice monocratico. L'introduzione del giudice di pace ha cercato di apportare una riduzione del carico del giudizio di primo grado, ma per il giudizio di appello, che si è visto caricato di varie incombenze, prima fra tutte quella in ordine alla legge Pinto che prevede una competenza in unico grado delle corti (contro la decisione della corte d'appello si fa ricorso per Cassazione), il numero di magistrati e di personale amministrativo in organico dal 2000 è rimasto lo stesso, anzi si è progressivamente ridotto con gli anni. Questo ha determinato la creazione di un imbuto.
Non abbiamo un filtro per l'appello, punto sul quale vorrei richiamare l'attenzione. L'abbiamo introdotto per il giudizio per cassazione, ma non per il giudizio di appello, per cui da noi non c'è la possibilità che molti appelli vengano dichiarati inammissibili e quindi troncati sul nascere. Bisogna necessariamente andare davanti a un collegio e fare un dibattimento, e solo in quella sede magari constatare l'inammissibilità.
Tra le prassi virtuose che volevo introdurre quando sono stato chiamato alla corte d'appello di Roma c'era la creazione di una sorta di collegio speciale che una volta al mese si occupasse dell'inammissibilità, un po' come la VII sezione penale della Corte di Cassazione. Non mi è stato possibile prima di tutto perché non c'erano i locali per poterlo fare nei giorni feriali - un altro dei grossi problemi della giustizia è quello dell'edilizia giudiziaria che ho sottolineato anche nella relazione inaugurale di quest'anno - e in secondo luogo perché fare un'udienza speciale il sabato non è assolutamente possibile, perché non si trova personale disponibile.
D'altra parte, a tutto il carico che abbiamo nei giorni feriali avremmo dovuto aggiungere le udienze del sabato, che avrebbero riguardato circa 200 processi e la dichiarazione di inammissibilità che si può anche dichiarare in poche righe ma richiede la lettura di 200 fascicoli, impresa non da poco.
Spesso non ci si rende conto che l'imbuto si è verificato in corte d'appello perché tutte le riforme realizzate fino a questo momento hanno riguardato il giudizio di primo grado, recentemente anche il giudizio per cassazione con la legge Alfano del giugno dell'anno scorso e la riforma del processo civile, ma mai nessuno si è occupato del giudizio di appello. Anche nella legge Alfano non è inserita alcuna norma che riguardi il giudizio di appello: tutte le riforme quindi hanno riguardato il primo grado o il giudizio di Cassazione, attraverso una riduzione dei vari termini di impugnazione, di presentazione di istanze varie.
L'onorevole Paolini ha posto il problema del personale amministrativo che è allo stremo, perché è sotto stress in quanto in mancanza di concorsi e di meccanismi di assunzione è ormai in via di esaurimento. Si tratta quindi di un personale vecchio, spesso non aggiornato, per cui bisognerebbe fare dei corsi per l'informatizzazione.
Nella corte d'appello di Roma è stato raggiunto un ottimo risultato nella sezione lavoro perché, d'accordo con il dirigente amministrativo - da noi c'è il problema della doppia dirigenza -, abbiamo istituito una task force di personale amministrativo proveniente da varie aree (civile, penale, lavoro) con uno scopo ben preciso. Al mio arrivo ho infatti constatato uno spaventoso arretrato delle pubblicazioni della sentenza della sezione lavoro, per cui eravamo arrivati quasi a 400.000 sentenze da pubblicare. Nel corso di un anno e mezzo con questa task force si è riusciti a ridurre l'arretrato.
Di questa situazione hanno però risentito gli altri settori (civile e penale) dai quali è stato prelevato quel personale, che ho temporaneamente spostato al settore lavoro per fronteggiare questa situazione. Ci chiediamo fino a quando si potranno adottare queste soluzioni di ottimizzazione, queste best practice, definizione di cui spesso ci si riempie la bocca laddove


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sembrerebbe che con le prassi virtuose si possa far tutto, mentre si può fare fino a un certo punto perché i numeri parlano sempre chiaro: una persona non può diventare due e non può essere «spremuta» oltre determinati limiti.
Ho dichiarato che vedo che le riforme vanno nel senso di modifiche di norme procedurali e non di norme di diritto sostanziale, perché non ci rendiamo conto che dovremmo far sì che una pletora di fatti considerati reati venissero depenalizzati o ridotti a mere infrazioni amministrative.
Essendo stato alla I Sezione penale come i colleghi Gironi e Corradini, mi chiedo infatti se sia ammissibile che la I Sezione penale, che si occupa dei delitti più gravi contro l'incolumità individuale, degli omicidi, di criminalità organizzata, dei delitti di terrorismo, debba occuparsi anche dell'articolo 659 del codice penale, ovvero di molestie e disturbo alle occupazioni e al riposo delle persone, quindi del problema del cane che abbaia e disturba i vicini o del tizio che ascolta CD ad alto volume a una certa ora.
Ebbene, si deve sapere che in Cassazione si fanno cause contro sentenze del giudice monocratico per cui si scomodano cinque giudici per occuparsi di un reato punito con 50 euro di ammenda. In altri Paesi questo reato non esiste perché viene considerato una mera infrazione amministrativa, che qualunque vigile urbano può contestare e per il quale pagare una multa senza dover fare un processo che dura quattro anni e mezzo (questo è il termine di prescrizione finale) per un fatto che riguarda un cane che abbaia.
Questo è soltanto uno dei casi perché, se si scorrono tutto il terzo libro del codice penale e le leggi penali speciali, la maggior parte dei fatti in essi previsti sono mere infrazioni amministrative, ma da noi c'è la cosiddetta «opzione per il penale» perché amiamo buttare tutto sul penale che fa più paura del civile, per cui molti preferirebbero pagare grosse cifre piuttosto che essere portati davanti al giudice penale e magari condannati a 50 euro di ammenda.
È quindi auspicabile una forte depenalizzazione. Ho parlato di revisione dell'appello non per sostenere che l'appello debba essere eliminato, caso in cui comunque perderei il posto di lavoro anche se forse potrei trovare una ricollocazione in Cassazione come presidente di sezione, ma perché spesso l'appello è un'inutile ripetizione del giudizio di primo grado.
Gli avvocati chiedono di risentire gli stessi testimoni che sono stati ascoltati davanti al giudice di primo grado, il che peraltro è incompatibile con un sistema di tipo accusatorio come quello introdotto nel nostro ordinamento in cui ciascun testimone viene sentito attraverso il contraddittorio. L'ipotesi che si debba ripetere questo stesso meccanismo nel giudizio di secondo grado fa accapponare la pelle.
Anche il problema dei notevoli tempi morti non è mai stato preso in debita considerazione. Si afferma sempre che la sentenza deve essere scritta in maniera molto semplificata ma, a parte la difficoltà di alcuni nello scrivere una sentenza in termini semplici, la Corte di Cassazione può annullarla perché la motivazione non è completa, non è esaustiva, per cui in parte diventa colpa di un altro giudice. Una riforma utile del processo penale avrebbe bisogno di considerare tutti questi aspetti.
Le circoscrizioni giudiziarie rappresentano un altro grosso problema da anni dibattuto. Continuiamo ad avere una dislocazione di tribunali, piccoli tribunali e sezioni distaccate in tutto il territorio nazionale. Io ho chiesto da un anno e mezzo al Ministero di sopprimere il giudice di pace di Montefiascone perché non fa nulla e ho spostato a Viterbo la maggior parte delle cause, ma non ho ancora avuto risposte.
Il problema è questo: alcune riforme che si potrebbero fare a costo zero non si fanno, mentre se ne fanno altre che rischiano di complicare le cose. Il processo sommario di cognizione in civile non viene utilizzato se non scarsamente, per cui quello che sembrava la panacea di tutti i mali non è andato avanti: il processo di cognizione in primo grado non si fa e in


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ogni caso in secondo grado il processo torna a essere quello ordinario, non ha una corsia preferenziale. È stata fatta una modifica per il primo grado e non per il secondo. Grazie.

GRAZIA CORRADINI, Presidente della corte d'appello di Cagliari. Vorrei segnalare che l'anomalia italiana non è il numero dei giudici che sono sufficienti e di cui non auspico un aumento perché abbiamo già constatato che i concorsi per un numero di posti superiore a 150-200 non si riescono a coprire. L'alta qualità dei giudici in Italia dipende quindi anche dal fatto che il loro numero non superi un certo livello. L'anomalia italiana è invece il numero delle cause, che è uguale a quello di Francia, Germania e Spagna messe insieme. Mi dispiace rilevare che l'anomalia è inoltre anche il numero degli avvocati italiani, perché abbiamo 250.000 avvocati oltre ai patrocinanti per cui raggiungiamo il mezzo milione di avvocati, pari a quello di quasi tutta l'Europa messa insieme.
Abbiamo 125.000 avvocati iscritti alle magistrature superiori mentre in Francia sono 100, e in quel Paese quando per due volte i loro ricorsi vengono dichiarati inammissibili gli avvocati vengono radiati. Considerate che da noi in Cassazione i ricorsi vengono dichiarati inammissibili nel 70 per cento dei casi, quindi in Italia sarebbero tutti radiati. L'anomalia italiana è dunque dovuta al numero delle cause e al numero degli avvocati.
Il nostro personale è ottimo, è anziano, non è stato riciclato, ma è un personale altamente motivato, veramente eccezionale. È ridotto all'osso perché quando va in pensione vengono ridotti gli organici.
Stiamo già ricorrendo al volontariato e ci sarebbe utile una legge che legittimasse e ratificasse queste condotte. Anche gli anziani solitamente utilizzati come vigili andrebbero benissimo per chiamare le cause e occuparsi dello sportello di informazioni.
Non ho niente contro la perenzione del processo, perché il legislatore deve fare quello che crede. Deve però scegliere il modello tedesco perché ormai è collaudato ed è inutile fare esperienze che abbiamo già capito che non vanno bene.
Anche la prospettiva di prevedere la perenzione non per fasi, ma per la durata globale potrebbe essere positiva, ma prima di introdurla dobbiamo fare tutto il resto: depenalizzazione, revisione delle circoscrizioni, anche interventi a costo zero. Quando il numero delle cause sarà congeniale al numero dei magistrati si potrà fare il processo breve. Attualmente non si può fare ed è irrazionale prevederlo.

MARCELLO MADDALENA, Procuratore generale presso la corte d'appello di Torino. Condivido pienamente le considerazioni di Giorgio Santacroce per quanto riguarda l'appello. Debbo anche dire che già nel 1990 sostenevo che l'appello in penale doveva essere totalmente abolito, perché era assolutamente contraddittorio rispetto al sistema accusatorio. Se infatti il sistema accusatorio si basa sul principio che il giudice decide in base all'assunzione diretta della prova, è assolutamente contraddittorio che poi la decisione definitiva nel merito avvenga sulle carte.
Mi rendo conto tuttavia che dopo di allora il problema è diventato più discutibile perché c'è stata la riforma del giudice unico. Infatti, se abbiamo un giudizio di merito in cui ci priviamo della grossa garanzia della collegialità della decisione in primo e in secondo grado, lasciandola solo alla Cassazione, allora diventa obiettivamente più difficile sostenere l'abolizione dell'appello.
Vorrei tuttavia evidenziare quello che considero non un rimedio, ma un'attenuazione dei guai. In primo grado c'è l'aiuto della magistratura onoraria, che consente di andare avanti alle procure della Repubblica. Sostengo addirittura che attualmente, anche se tutti vorremmo fare di più e di meglio, con il numero di cause che abbiamo a Torino (10.000) i giudici non sono sufficienti.
Dobbiamo fare i conti con il fatto che noi abbiamo il principio di obbligatorietà dell'azione penale che gli altri non hanno, per cui dobbiamo commisurare il numero dei giudici a quello delle cause, non potendo


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ridurre le cause in funzione dei giudici.
Dovremmo pensare quindi a una migliore e maggiore utilizzazione della magistratura onoraria, e far sì che anche gli uffici giudicanti di primo grado facciano un'autorizzazione ai magistrati onorari come quella delle procure della Repubblica, cosa che è resa difficile dalla legge.
Noi a Torino abbiamo in campo 60 magistrati onorari accanto a 60 magistrati togati. In dibattimento i magistrati onorari sono 25-26 e in penale ne vengono utilizzati al massimo solo 3 per una serie di ragioni, compresa una certa resistenza del Foro all'utilizzo dei magistrati onorari.
Ritengo però che quella dell'utilizzazione dei magistrati onorari sia una chiave perché nell'attuale situazione rinunciare a forze lavoro disponibili sulla carta mi sembra un delitto contro il buonsenso. Si risolverebbe anche un grosso problema, perché ho fatto il discorso della prescrizione processuale, però resta il fatto che 10.000 all'anno si perdono per prescrizione sostanziale, per cui è necessario dare una risposta.
Anche qui poi c'è un problema di criteri di priorità. Si è sempre impostata la questione su criteri di priorità sostanziale, che implicano sempre scelte di carattere politico che danno luogo a molte perplessità, alle maggiori perplessità se queste scelte sono fatte dal procuratore della Repubblica, perché allora si afferma che questo entra nell'agone politico.
A me sembra tuttavia possibile ipotizzare di eliminare il problema delle priorità sostanziali o almeno di metterlo in secondo piano e valutare la possibilità di adottare criteri di priorità di natura processuale e di natura ordinamentale.
In tal senso, ci dobbiamo chiedere quali processi il legislatore - non il cattivo procuratore della Repubblica, il Governo attuale o la maggioranza - ritenga più importanti. Indicare ad esempio i processi per cui secondo la legge il giudice di primo grado deve essere collegiale invece che monocratico, vorrà dire indicare un criterio di priorità perché, se per il legislatore si devono utilizzare tre persone invece di una, è perché quel processo sarà stato considerato più importante secondo un criterio che non dipende dal giudizio del «cattivo» procuratore della Repubblica.
I processi collegiali devono avere quindi la maggiore priorità e spesso sono quelli che adesso in dibattimento sono trattati peggio perché, se si deve trovare un'udienza di rinvio, ci si deve confrontare con la disponibilità dei tre componenti e quindi si rimanda di mesi mentre magari con il monocratico si rimanda a una data più vicina.
Se si afferma che l'impegno collegiale e l'udienza prevalgono sul resto, forse è possibile utilizzare anche a legislazione invariata la magistratura onoraria in sostituzione di quella togata nelle udienze monocratiche da citazione diretta, in cui sia impegnato un giudice del collegio.
Il secondo criterio di priorità riguarda i processi che vengono da udienza preliminare, perché, se il legislatore ha previsto un'udienza e un magistrato in più, questi processi hanno la seconda priorità e passano avanti. La terza priorità è quella derivante dal fatto che vi sono processi in materie specialistiche perché, se per giudicare in quelle materie il legislatore vuole una particolare specializzazione, significa che ai relativi processi gli si attribuisce una maggiore importanza.
Il resto è costituito dalla pletora dei processi a citazione diretta, in cui la procura della Repubblica manda i VPO. Creare un analogo canale nella stazione d'arrivo con la magistratura onoraria di GOT ci permetterebbe di incanalare dall'inizio i procedimenti su binari separati secondo queste categorie. La priorità sarebbe determinata non dai cattivi pensieri del procuratore della Repubblica o del presidente di sezione, ma dalla capienza della stazione di arrivo, recuperando un notevole numero di giudici di primo grado, che potrebbero essere utilizzati come GIP o in altri settori e creando questi canali differenziati.
Si prescriverebbero quindi i processi del circuito di serie B, non della magistratura togata, ma in questa situazione mi sembra molto difficile non sfruttare risorse


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esistenti che sarebbero a costo zero, ed escogitare sistemi come quello della prescrizione breve e della prescrizione processuale intersecandosi l'uno con l'altro.
Resta obiettivamente il discorso dell'appello, perché adesso si constata che con questo si produce molto di più e poi si arriva all'appello, ma questo consentirebbe anche di spostare giudici dal primo grado in appello. Fare qualcosa anche per l'appello, quantomeno per garantire dei filtri, è uno dei tanti interventi fattibili.

GRAZIANA CAMPANATO, Presidente della corte d'appello di Brescia. Il procuratore generale Maddalena ha messo in campo un discorso molto difficile da seguire per noi e in assoluto, anche perché fa riferimento a grossi tribunali, a grosse corti d'appello, mentre quando i numeri sono «piccoli» è difficile realizzare questi canali e specializzare.
Non sarebbe comunque risolto il problema dei processi in corte d'appello, che semmai verrebbe ad avere un afflusso ancora maggiore e più accelerato di processi laddove esiste il collo di bottiglia. A Brescia abbiamo il 9,5 per cento di processi ancora in fase di procura, poco più del 16 per cento in fase di primo grado, mentre il 40 per cento dei processi è in fase di appello. Siamo quindi in una situazione disastrosa.
Siccome abbiamo verificato che non si tratta di lavorare di più, anche se razionalizzando si può sempre dare di più, è necessario che qualcosa cambi per dimostrare di fare qualcosa di ragionevole nell'ambito della giustizia. La revisione delle circoscrizioni è una delle cose essenziali.
Gli uffici molto «lavorati» come quello di Brescia non richiamano nessuno, tanto che al tribunale di Brescia sono stati banditi tre posti, ma sono andati tutti deserti. Questo accade a Brescia, a Bergamo, a Treviso, luoghi in cui si pensa di poter vivere bene, ma che sono diventati sedi disagiate.
Un altro problema è rappresentato dalle assenze (per maternità, gravidanza, malattie). Certo, abbiamo i giudici interdistrettuali, ma non riusciamo a recuperarli. Adesso è stata pubblicata una serie di posti vacanti e a Brescia siamo riusciti ad averne uno, ma non riusciamo a coprire il secondo, perché occorre la seconda valutazione.
Nessuno viene ormai a fare questo lavoro perché è un lavoro volante come la babysitter. Questo deve essere quindi riservato ai giovanissimi, che sono costretti ad andare nelle sedi che non riusciamo a coprire, come è stato per i pubblici ministeri.
In un ufficio con carenze di organico le vacanze e le malattie incidono pesantemente. Il mio lavoro consiste nell'usare questa coperta corta e mandare in applicazione un giudice di qua e l'altro di là, e qualcuno figura addirittura in due uffici. Questo è un modo assolutamente irrazionale di lavorare, in cui nessuna impresa potrebbe sopravvivere e, siccome la giustizia è anche un'impresa, non può dare buoni risultati.
Per quanto riguarda il personale, quel poco che ho è veramente eccellente, e la doppia dirigenza lavora molto bene perché mi aiuta a produrre idee. Abbiamo alcuni servizi novità che cerchiamo di produrre e di realizzare, ma è necessario avere tempo per farlo con le eccellenze presenti all'interno dell'ufficio.
È però poco il personale operativo e nei processi occorrono anche gli operatori, da quelli di medio livello che vanno in udienza a quelli che fanno le iscrizioni. Certamente, se si realizzasse una revisione con l'aumento di personale amministrativo e di magistrati e avessimo tutti gli organici coperti, potremmo fare progetti per dare una risposta di giustizia adeguata e ridurre la pendenza.
Sarebbe la soluzione migliore ma credo che sarebbe difficile da attuare in quanto, ad esempio ci mancano 1.200 magistrati, i concorsi non sono stati banditi e anche quando sono banditi non coprono tutti i posti, quindi manca un vivaio di giovani laureati in grado di superare il concorso, che è diventato molto più difficile.
Occorre mettere dei paletti per ricorrere in appello, delle depenalizzazioni,


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garantire un accesso alla giustizia diversificato a seconda della natura del ricorso per bloccare le cause.

EMILIO GIRONI, Presidente della prima sezione penale della corte d'appello di Firenze. Intervengo molto brevemente data l'ora. Anche se non è lo specifico tema dell'audizione, vorrei introdurre una voce dissenziente sulla ventilata proposta di abolizione tout court dell'appello. perché verifico che il numero delle riforme è notevole.
Questo non significa che sia giusta la sentenza di secondo grado ed errata quella di primo grado (può essere l'inverso), però l'esperienza mi induce ad affermare che spesso queste riforme sostanziali derivano anche da una maggiore ponderazione, da una minore emotività, quindi vedo l'appello come un momento di garanzia. Naturalmente può essere più selettivo, ma non ne auspico la soppressione tout court che non considero una conquista.
Vorrei inoltre ricordare che le corti d'appello e alcune in particolare sono gravate anche da un'altra incombenza, quella dell'estradizione e dei mandati d'arresto europei, che ora stanno diventando numerosi.
A Firenze ne facciamo tra i 7 e i 10 al mese, il che comporta una serie di adempimenti notevoli sia per noi giudici che per la Cancelleria (notifiche, avvisi, comunicazioni, rapporti con il Ministero, impugnazioni, continue richieste di scarcerazione e di modifica delle misure cautelari).
Si tratta di un ulteriore aggravio, che viene fronteggiato con le stesse forze che prima fronteggiavano tutto il resto del contenzioso e dato che non c'è una cancelleria ad hoc che faccia questo lavoro, è la stessa cancelleria della corte d'appello che si trova a gestire anche questo lavoro che va intensificandosi nel tempo perché la Toscana è piena di stranieri.
Si è accennato alla necessità di incidere sul diritto sostanziale con le depenalizzazioni, fatto inconfutabile, ma ritengo che si possa intervenire anche con lo strumento processuale. Abbiamo avuto nel tempo un continuo aggravio di adempimenti spesso inutili nel rito penale, con introduzione di pseudo garanzie che non garantiscono nulla e allungano soltanto i tempi processuali.
Se dunque si vuole vivificare il processo, prima di pensare alla sua estinzione è necessario rivedere una serie di passaggi processuali, per esempio avere il coraggio di introdurre delle decadenze anche per le inutilizzabilità. Considero non corretto e sleale aspettare il giudizio di Cassazione per eccepire un'inutilizzabilità che non si è eccepita nel grado di impugnazione e nemmeno nel giudizio di merito di primo grado.
Credo che la strada meno dolorosa sia quindi quella di modifiche radicali del rito penale, che non incidano ovviamente sulle garanzie, ma sopprimano tutti i passaggi assolutamente superflui e dilatori che vengono continuamente introdotti.
Il problema dei tempi riguarda essenzialmente il primo grado. Esiste questo imbuto dell'appello ma, una volta arrivati gli atti, il processo si fa in un giorno. È il primo grado che dura anni anche per i processi di minima importanza, perché, verificando tutti i verbali dei processi che mi arrivano quando li devo fissare o devo guardare i termini di prescrizione, constato come la prima udienza sia di smistamento per gli uffici della Toscana.
Nella prima udienza dunque non si fa nulla, ma si smista il processo a un'altra udienza in cui si ammettono le prove e si rinvia a una terza udienza in cui il teste non arriva, perché è impedito e manda la certificazione. Allora si fissa un'altra udienza, ma cambia il giudice perché intanto è trascorso un anno e mezzo o due anni.
Constato tutti i giorni come anche il processo più banale che si esaurisce con i 50 euro per l'abbaiare del cane duri due o tre anni, ed è veramente ridicolo accorgersi che passano anni in primo grado per poi dichiarare prescritto il processo in appello. Naturalmente l'imbuto dell'appello sussiste, ma deriva dal fatto che ad esempio in questa legge si fa partire il termine dalla data di pronuncia della sentenza di primo grado, mentre se però


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lo si facesse partire da quando arrivano i processi alla corte d'appello, in un anno sarebbero gestibili almeno in una Corte media. Se c'è un anno di tempi morti, quando questi arrivano un anno e già stato speso.
Individuo il problema nel primo grado perché anche chi abbia subìto il furto della macchina deve andare a dichiarare in udienza di averlo subìto perché nessuno lo riconosce pacificamente come vero. Allora quello la prima volta non va, la seconda manda il certificato, la terza viene accompagnato, ma mi sembra assurdo. Alcuni passaggi processuali devono essere modificati se si vuole ottenere un processo di primo grado rapido ed efficiente.

FEDERICO PALOMBA. Vorrei solo dire che noi dell'Italia dei Valori recepiremo tutte le indicazioni pervenuteci e in particolare faremo un'attenta considerazione del problema dell'appello, perché, è vero, abbiamo lavorato sul filtro in Cassazione ma non su un filtro in appello. Le opzioni sono due: l'abolizione dell'appello o una rigorosa determinazione dei casi in cui si può arrivare all'appello.
Infine, un'annotazione politica che mi fa piacere fare anche in ragione della mia lunga appartenenza alla magistratura: rileviamo con soddisfazione come la Lega Nord condivida l'opportunità che questo provvedimento non vada avanti.

DONATELLA FERRANTI. Vorrei porre una domanda, ma forse non avete gli elementi per rispondermi. Avete citato alcuni numeri di impatto nel caso in cui questo provvedimento fosse approvato (ci auguriamo di no), ma vorrei sapere se abbiate anche verificato l'eventualità che siano destinati a perire alcuni processi di grande rilevanza che hanno impegnato forze, richiesto tempi e avuto anche un impatto sociale.

GRAZIA CORRADINI, Presidente della corte d'appello di Cagliari. Certo, perché sono proprio quelli di maggiore impatto sociale, i processi per associazione a delinquere, per bancarotta, eccetera, quelli che durano di più.

PRESIDENTE. Ringrazio gli autorevoli ospiti intervenuti e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 17,20.

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