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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione II
9.
Martedì 22 febbraio 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Follegot Fulvio, Presidente ... 2

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA ATTUAZIONE DEL PRINCIPIO DELLA RAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO

Audizione del presidente della corte d'appello di Palermo, Vincenzo Oliveri, del procuratore generale presso la corte d'appello di Caltanissetta, Roberto Scarpinato, del presidente della corte d'appello di Trento, Francesco Abate, del presidente della corte d'appello di Trieste, Mario Trampus, e del presidente del tribunale di Napoli, Carlo Alemi:

Follegot Fulvio, Presidente ... 2 18 20 24
Abate Francesco, Presidente della corte d'appello di Trento ... 9 22
Alemi Carlo, Presidente del tribunale di Napoli ... 14 23
Bernardini Rita (PD) ... 19 23
Ferranti Donatella (PD) ... 18
Molteni Nicola (LNP) ... 20
Oliveri Vincenzo, Presidente della corte d'appello di Palermo ... 2 20 24
Samperi Marilena (PD) ... 19
Scarpinato Roberto, Procuratore generale presso la corte d'appello di Caltanissetta ... 5 21
Trampus Mario, Presidente della corte d'appello di Trieste ... 12 22
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Futuro e Libertà per l’Italia: FLI; Italia dei Valori: IdV; Iniziativa Responsabile (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): IR; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

COMMISSIONE II
GIUSTIZIA

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 22 febbraio 2011


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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE FULVIO FOLLEGOT

La seduta comincia alle 11,40.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del presidente della corte d'appello di Palermo, Vincenzo Oliveri, del procuratore generale presso la corte d'appello di Caltanissetta, Roberto Scarpinato, del presidente della corte d'appello di Trento, Francesco Abate, del presidente della corte d'appello di Trieste, Mario Trampus, e del presidente del tribunale di Napoli, Carlo Alemi.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla attuazione del principio della ragionevole durata del processo, l'audizione del presidente della corte d'appello di Palermo, Vincenzo Oliveri, del procuratore Generale presso la corte d'appello di Caltanissetta, Roberto Scarpinato, del presidente della corte d'appello di Trento, Francesco Abate, del presidente della corte d'appello di Trieste, Mario Trampus, e del presidente del tribunale di Napoli, Carlo Alemi.
Do la parola ai nostri ospiti per lo svolgimento della relazione.

VINCENZO OLIVERI, Presidente della corte d'appello di Palermo. Devo ringraziare la Commissione giustizia per avere avvertito la sensibilità di sentire i capi degli uffici giudiziari sull'impatto che deriverà da questa proposta di legge che è in itinere.
Mi soffermerò particolarmente sul processo civile breve, che a mio giudizio subirà la maggiore mazzata rispetto al processo penale, anche perché il processo penale arrivato a un certo punto si estingue e tutto finisce, mentre nel processo civile ci sono degli strascichi molto importanti, sui quali è opportuno soffermarsi.
È innanzitutto opportuno sottolineare che l'estinzione di un numero rilevante di processi penali, come prevede la proposta di legge soprattutto per quanto riguarda la materia dei reati commessi fino al 2 maggio 2006 e punibili con pena «indultabile», cagionerà in tutti i tribunali il riversamento di un numero molto consistente di processi, che bloccheranno l'attività processuale civile.
Questa legge prevede tra l'altro che entro sei mesi dalla scadenza del biennio previsto per la ragionevole durata del processo civile, debba essere presentata un'istanza, perché altrimenti la parte perde per il periodo anteriore il diritto all'indennizzo previsto è avrà diritto per quello successivo.
Questa istanza sarà presentata indiscriminatamente da tutti i difensori, che non si faranno sfuggire l'occasione per poter meglio tutelare gli interessi del proprio cliente a danno dello Stato e dei magistrati. Questi vedranno infatti riversare sul proprio tavolo una mole di nuovi processi,


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che renderanno assolutamente ingestibile il servizio giustizia. La proposta di legge prevede che per i processi per i quali il termine è già scaduto entro 60 giorni venga presentata l'istanza.
Vorrei soffermarmi su ciò che succederà nel distretto di Palermo, che è molto significativo. Al 30 giugno 2010 (non dispongo di dati più aggiornati), il distretto di Palermo aveva pendenti 59.775 processi a cognizione ordinaria, di cui almeno il 38 per cento, cioè 23.192, costituito da processi per cause iniziate da oltre due anni. Entro 60 giorni, quindi, i giudici palermitani dovranno teoricamente decidere su 23.000 cause, il che significa che nell'arco di sei mesi ogni giudice deve redigere non meno di 300 sentenze.
Se a tutto questo aggiungiamo che i ruoli dei giudici civili sono super intasati, che c'è un calendario delle udienze che con la novella processuale del 2009 è oggi obbligatorio osservare, tutto questo non cagionerà altro che caos.
Nella proposta di legge non è peraltro chiaro se il termine di sei mesi per la pubblicazione della sentenza si applichi anche nel caso, previsto dalla norma transitoria, dei giudizi in cui siano già decorsi i termini di ragionevole durata. Per quelli per i quali stanno scadendo i termini dei danni entro sei mesi si deve fare la domanda, mentre per quelli già scaduti si deve presentare l'istanza.
La proposta di legge stabilisce che entro sei mesi il giudice debba definire il procedimento e pubblicare la sentenza, mentre sui casi previsti dalla norma transitoria non si dice nulla, per cui teoricamente potrebbe anche slittare in avanti. Siamo però indotti a ritenere che anche su questi nell'arco di pochi mesi debba necessariamente intervenire la decisione.
Non può essere sottaciuta la contraddizione di un legislatore che, da un lato, tende a disciplinare in modo capillare il ruolo di udienza (vedi il calendario di udienza cui accennavo prima) e, dall'altro, trascura di considerare gli effetti devastanti dell'entrata in vigore della norma sul processo a breve, ove non accompagnata da una programmazione di smaltimento dell'arretrato e di un potenziamento degli organici.
Il vero zoccolo duro è infatti costituito dall'enorme arretrato determinatosi, che oggi si vorrebbe cancellare con un colpo di spugna. Siamo a conoscenza delle iniziative legislative già intraprese dal Ministero della giustizia in questo campo, ma personalmente mi astengo da ogni commento e interverrò quando sarà opportuno.
Siamo anche consapevoli delle iniziative intraprese dal Parlamento per quanto riguarda la responsabilità civile dei magistrati, laddove il processo breve civile e penale si va a riagganciare a una norma che prevede che in caso di inosservanza dei termini il giudice incorra in responsabilità di natura non solo disciplinare ma anche civile.
Tirando le fila di tutto questo di cui è necessario valutare l'impatto, qualsiasi magistrato - sfido a trovarne uno diverso - nel momento in cui stanno per scadere i sei mesi si affretterà a tirare fuori una sentenza, qualunque essa sia, con buona pace del cittadino che aspetta giustizia.
Possiamo anche verificare l'altra faccia della medaglia. Disponendo di tempi così ristretti per decidere, avremo una decisione allo stato degli atti, non come il processo penale abbreviato, perché sostanzialmente non si potranno fare consulenze o approfondimenti istruttori, e tutto questo a danno dalla parte più debole.
Questa proposta di legge mal si coordina con la riforma del codice di procedura civile, la n. 69 del 2009. Il processo civile segue infatti una cadenza di termini processuali ben scandita, ovvero la prima udienza, l'udienza in cui vengono concessi alle parti i termini per le controdeduzioni, tutto il tempo necessario per la consulenza tecnica ovvero i tre termini per depositare, replicare e per rispondere alle domande, tutta una sequela di tempi processuali che mal si conciliano con i due anni previsti.
Mi chiedo inoltre perché questa proposta di legge, che vorrebbe allinearsi agli standard europei della CEDU non abbia non abbia tenuto conto della situazione di tutti gli uffici giudiziari non solo palermitani


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ma d'Italia, che sono senza mezzi e personale, senza possibilità di gestire un servizio giustizia degno di questo nome.
Nella mia esperienza di magistrato di estrazione civile, ma essendomi occupato anche di penale, ho constatato come un processo, per poter decollare come fase istruttoria, anche se basato su una prova documentale, non possa mai durare meno di un anno. È necessario però considerare anche i tempi morti del processo, perché nella fase conclusiva bisogna dare alle parti 60 giorni per depositare le comparse conclusionali, 20 giorni per depositare le memorie conclusive per un tempo morto di 80 giorni complessivi.
Entro 60 giorni il giudice deve stendere la sentenza e depositarla, per cui 80 più 60 sono 140 giorni da aggiungere a tutto quello che è intervenuto prima. Non siamo tutti bravi a scrivere le sentenze direttamente in originale: alcuni magistrati (non pochi) scrivono ancora con la penna. La nostra cancelleria ha un personale amministrativo così ristretto che quando vado a portare una minuta di sentenza per depositarla passano sempre non meno di 60-70 giorni nel migliore dei casi.
Non so quindi come si farà a rientrare nei due anni. Se tuttavia il Parlamento approverà la legge, noi essendo soggetti ad essa proveremo ad applicarla, anche se non so come. A quel punto faremo non più giustizia, ma giustizia sommaria, non quanto si aspetta il cittadino.
Purtroppo noi magistrati talvolta ci dilunghiamo, ma parliamo con il cuore e non per fare demagogia. Questa proposta di legge modifica non soltanto il processo civile breve, ma anche la legge Pinto nelle due fasi. Sotto questo profilo bene fa il legislatore nell'allungare i tempi della decisione del ricorso ex lege Pinto, perché adesso diventano 4 più 4, quindi 8 mesi, mentre finora abbiamo avuto 4 mesi per cui prendiamo un certo respiro.
Nella relazione che depositerò agli atti della Commissione è illustrato nel dettaglio tutto quello che vado ad accennare. Si rileva un'incongruenza, un'interferenza fra i due procedimenti. Il processo della legge Pinto, che dovrebbe essere autonomo, stranamente viene a incidere nel processo principale o presupposto, attraverso quella domanda di anticipazione o di trattazione entro sei mesi. Questa è una previsione a mio giudizio irragionevole, ma vedremo cosa succederà dopo.
Per 14 anni sono stato giudice della corte d'assise e giudice di sezione penale. Palermo ha la piaga dei processi di mafia, che sono molto difficili da gestire. Nel processo per l'omicidio del piccolo Di Matteo e altri 29 omicidi dovevo sentire infatti 477 imputati e il processo di primo grado si è concluso dopo due anni di dibattimento.
Tra l'udienza preliminare e la prima udienza dibattimentale erano intercorsi più di sei mesi, e tra la richiesta di rinvio a giudizio e l'udienza preliminare erano decorsi altri sei mesi perché erano 82 imputati, per cui il solo dibattimento si era già mangiato tre anni, un altro anno è stato mangiato per il deposito della sentenza che era costituita da 2.700 pagine, più altri 45 giorni per notificare ai difensori l'avviso di dibattimento.
Difficilmente quindi un processo potrà concludersi in tre, quattro o cinque anni come previsto dalla proposta di legge, men che meno il processo di secondo grado, perché comprende tempi che rientrano nei famosi due anni quali i tempi della pubblicazione della sentenza, della redazione della sentenza, della notifica dell'appello, quelli concessi ai difensori per presentare appello.
Il discorso non riguarda Palermo, perché la corte d'appello di Palermo riesce nel 99,99 per cento dei casi a definire un procedimento anche in un anno o un anno e mezzo. Molti procedimenti di mafia come ad esempio il processo Dell'Utri possono richiedere però tre anni di dibattimento in appello.
In primo grado il processo al giornalista De Mauro è ancora fermo dopo tre anni di dibattimento, perché è spuntato un altro collaboratore all'ultimo momento così come ne spuntavano tanti al processo Dell'Utri. Questi incidenti di percorso difficilmente potranno permettere di definire un giudizio nei ristretti termini previsti.


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Non aggiungo altro, presidente, ma rimando alla relazione scritta perché c'è ancora molto da dire. Grazie.

ROBERTO SCARPINATO, Procuratore generale presso la corte d'appello di Caltanissetta. Dopo avere ricevuto l'invito a questa audizione mi sono premurato di leggere i resoconti stenografici delle audizioni precedenti, per evitare di ribadire argomenti già trattati.
Mi sono dunque reso conto che tutti quelli che mi hanno preceduto hanno fornito a questa Commissione elementi significativi per individuare le cause che determinano il prolungamento dei processi, hanno indicato i rimedi e tutti unanimemente concordano sull'impatto devastante che la proposta di legge in discussione, se approvata, avrebbe sui processi.
Mi limiterò quindi ad approfondire soltanto alcuni aspetti problematici, muovendo dalla mia personale esperienza maturata sul campo. Per 22 anni ho prestato servizio alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo e nel giugno del 2010 sono stato nominato procuratore generale presso la corte d'appello di Caltanissetta. Questo cambiamento di ruolo mi ha proiettato dal mondo della giurisdizione dell'antimafia a quello della giurisdizione ordinaria ed è stato come entrare in un altro pianeta.
Nel misurarmi con una serie di problemi gravi e urgenti ho dovuto prendere atto dell'esistenza nel nostro ordinamento di due diversi modelli penali processuali, quello dell'antimafia e quello dell'ordinario, la cui distanza quanto a efficienza e resa produttiva si divarica ogni giorno di più, rischiando di diventare incolmabile.
Il primo modello, quello dell'antimafia, seppure con significativi limiti, è dotato di struttura organizzativa (le direzioni distrettuali antimafia), di tipologie reato (quelli previsti dall'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale) con termini di prescrizione raddoppiata rispetto a quelli ordinari - su questo punto richiamo la vostra attenzione perché è essenziale - e di procedure dedicate, che vanno dal regime di durata delle indagini preliminari al regime delle intercettazioni e al regime dei termini di custodia cautelare, che consentono di fornire una risposta repressiva di tale livello qualitativo e quantitativo da configurarsi come un know-how italiano che ha fatto scuola a livello internazionale.
Il secondo modello penale processuale, quello della giurisdizione ordinaria, è invece condannato all'inefficienza ed è un modello negativo, perché non solo non ha le risorse del primo, ma è appesantito da una serie di procedure inutilmente macchinose e soprattutto deve operare con tipologie di reato in massima parte inadeguate alla realtà criminale del Paese.
Si tratta cioè di reati che si rivelano tigri di carta, cani che abbaiano ma non possono mordere, declinazioni di un diritto penale privo di effettività, inincidente dal punto di vista repressivo e sociale-preventivo. Non mi trattengo sui primi due punti, la mancanza delle risorse e l'inutile macchinosità delle procedure, sui quali vi sono state già fornite sufficienti indicazioni.
Mi sia solo consentito accennare che quando ci si trova dinanzi alla realtà di Procure della Repubblica come quella del distretto di Caltanissetta, territorio ad altissima densità criminale e mafiosa, con una procura della Repubblica che si sta occupando dei processi sulle stragi, costretti a operare per lunghi periodi con organici di magistrati decurtati dal 50 all'80 per cento, ci si trova nella impossibilità oggettiva di rispettare i termini processuali nella dolorosa necessità di concentrare le poche risorse disponibili prioritariamente sul fronte dei reati di mafia e di quelli più gravi.
Ciò determina una sorta di occulta vampirizzazione da parte della giurisdizione antimafia ai danni della giurisdizione ordinaria. A Caltanissetta e a Palermo, come in molti altri territori giudiziari ad alta densità mafiosa, l'efficienza della giurisdizione antimafia in buona misura è garantita per ragioni di necessità a spese della giurisdizione ordinaria, per il semplice motivo che buona parte dei già


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pochi magistrati in servizio viene destinata ai ranghi della Direzione distrettuale antimafia o applicata a processi antimafia, sottraendola così alla procura ordinaria.
Alla procura della Repubblica di Caltanissetta, ad esempio, la Direzione distrettuale antimafia in questo momento assorbe quasi il 65 per cento dei sostituti in servizio, cioè 9 su 14. Alla procura della Repubblica di Palermo la Direzione distrettuale antimafia assorbe il 40 per cento dei magistrati in servizio. Coloro che restano a occuparsi dei processi ordinari subiscono così il doppio carico dei vuoti nell'organico per la mancata copertura dei posti e dei vuoti determinati dal fatto che i magistrati sono destinati all'antimafia.
Se la proposta di legge di cui stiamo discutendo venisse approvata in breve tempo, ci troveremmo dinanzi a una situazione ingovernabile a causa del meccanismo a cascata per cui i pubblici ministeri non sono in grado di concludere le indagini e di formulare le richieste di rinvio a giudizio per i processi ordinari nei termini.
Ai sensi dell'articolo 531-bis, comma 2, punto terzo, come formulato, a partire dal terzo mese successivo al termine delle indagini preliminari inizierebbero comunque a decorrere i termini di prescrizione processuale per la prima fase di giudizio. Ci troveremmo quindi con processi fermi perché i pubblici ministeri non sono in grado di formulare la richiesta di rinvio a giudizio e con termini di prescrizione che partono lo stesso.
Vorrei concentrare la vostra attenzione su una delle cause strutturali dell'insuccesso del modello penale processuale della giurisdizione ordinaria e nel contempo dell'anomala durata dei processi. A differenza della giurisdizione antimafia, quella ordinaria si trova a operare con tipologie di reato in larga misura inadeguate, perché altamente deperibili a causa dei brevi termini di prescrizione, che non consentono di pervenire in tempo utile a una sentenza definitiva.
A questo proposito, a parte la riduzione dei termini di prescrizione operata per molti reati dalla legge ex Cirielli, occorre considerare che la maggior parte dei reati viene accertata a distanza di anni rispetto alla sua consumazione. Poiché il termine di prescrizione decorre non dalla data dell'accertamento, ma dalla data di consumazione dei reati tranne che per i reati permanenti, le procure e i giudici si trovano a ingaggiare una corsa contro il tempo spesso perdente, perché il tempo residuo utile per pervenire a una sentenza di condanna prima della prescrizione è incompatibile con i tempi processuali.
Tale situazione si verifica anche per molti reati di mafia. Si tratta di reati di agevolazione delle associazioni mafiose (favoreggiamento, trasferimento fraudolento di valori, intestazione fittizia di beni, false fatturazioni), per i quali non è possibile contestare l'aggravante speciale di cui all'articolo 7 della legge n. 152 del 1991, che è un'aggravante speciale che cambia completamente il regime della prescrizione e consente di aumentare la pena base da metà a due terzi.
In molti casi non è possibile contestare questa aggravante per i reati ordinari commessi per agevolare le associazioni mafiose, perché la giurisprudenza ormai prevalente ha stabilito che questa aggravante sussista soltanto quando il comportamento illegale sia posto in essere per favorire l'intera associazione o una sua importante articolazione e non sussista invece quando si vuol favorire un singolo esponente.
In numerosi casi, quindi, abbiamo dovuto dichiarare la prescrizione del reato di intestazione fittizia di un bene, cioè di riciclaggio e di reimpiego di capitali, per cui il mafioso intesta un immobile o un'impresa a un prestanome. Il reato si consuma nel momento in cui l'immobile viene venduto o l'impresa viene costituita, ma noi lo accertiamo a distanza di anni, quando ormai restano soltanto 2, 3 o 4 anni per giungere alla sentenza e, siccome non possiamo contestare l'aggravante di cui al citato articolo 7, perché in molti casi il prestanome vuole favorire il singolo mafioso e non l'organizzazione, noi ci troviamo con un buco enorme nell'ambito del contrasto all'economia criminale, perché


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purtroppo la giurisdizione antimafia questa volta deve agire con gli strumenti della giurisdizione ordinaria.
La giurisdizione antimafia riesce a raggiungere il risultato perché per i reati antimafia è previsto un termine doppio di prescrizione, ma quando per motivi di questo genere che riguardano non soltanto le false intestazioni ma anche l'emissione di fatture false, le truffe, il favoreggiamento, è costretta ad avvalersi degli stessi strumenti di cui si avvalgono i giudici ordinari, è un fallimento totale.
In questo momento abbiamo un buco enorme nel contrasto all'economia criminale, perché nel nostro ordinamento manca il reato di autoriciclaggio e perché il reato di falsa intestazione dei beni, creazione giurisprudenziale che ha creato una sorta di autoriciclaggio, è diventata una tigre di carta.
I reati, tra cui molti di mafia, si prescrivono soprattutto perché la prescrizione breve innesca a sua volta un altro meccanismo perverso, che porta alla patologica dilatazione dei tempi processuali. Mi riferisco all'abuso del processo, cioè all'uso strumentale delle garanzie per prolungare la durata del processo, in modo da arrivare al traguardo finale della prescrizione.
Le statistiche giudiziarie e la realtà criminale del Paese attestano che l'abuso del processo è fenomeno di massa. Se si confrontano le statistiche degli appelli proposti dai pubblici ministeri con quelle degli appelli proposti dagli imputati, si verifica che per quanto riguarda la Sicilia il rapporto è assolutamente sproporzionato. Dal 2007 al 30 settembre del 2010, su un totale di 44.562 appelli il 93 per cento riguarda gli appelli degli imputati e solo il 7 per cento quelli dei pubblici ministeri.
Viene inoltre proposto un ricorso per Cassazione per la quasi totalità delle sentenze penali di condanna confermate in appello. I dati statistici inducono a ritenere che una quota elevatissima di impugnazioni sia motivata esclusivamente da finalità dilatorie volte a conquistare il traguardo della prescrizione.
I dati statistici attestano altresì il successo di queste tecniche dilatorie. Basti considerare che dopo l'approvazione della legge ex Cirielli, che ha ulteriormente ridotto i termini di prescrizione per un'ampia categoria di reati, si è registrata una caduta verticale delle condanne definitive per molti reati.
Le condanne definitive per i reati di corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio sono crollate dalle 1.000 all'anno, registrate sino al 2005, ad appena 130 dal 2006 in poi; le condanne per reati di abuso d'ufficio sono crollate da 1.305 a 45, e lo stesso effetto deflattivo riguarda gran parte dei reati tributari, come il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, di false dichiarazioni, di dichiarazioni fraudolente.
Se questi elementi di riflessione appaiono almeno in parte condivisibili, possiamo concludere che alcune scelte di politica criminale operate in passato hanno contribuito a determinare un prolungamento strutturale e patologico dei termini processuali. Per un motivo che mi pare superfluo esplicitare, l'approvazione di una legge che introducesse nel nostro ordinamento la prescrizione processuale, lasciando intatto l'attuale regime della prescrizione sostanziale, agirebbe da moltiplicatore dei comportamenti di abuso del processo, raddoppiandone le già elevatissime opportunità di successo.
Il traguardo dell'impunità, che in taluni casi potrebbe essere difficile da perseguire per tutti i reati scoperti immediatamente dopo la loro consumazione, per cui il termine di prescrizione è più lungo, potrebbe infatti essere raggiunto ponendo in essere le stesse tecniche dilatorie finalizzate a prolungare i tempi del processo oltre i limiti normativamente prescritti.
Tale duplicazione delle vie di accesso al traguardo finale della prescrizione determinerebbe, a sua volta, una gravissima disincentivazione del ricorso ai riti alternativi, con pesanti ricadute sui dibattimenti e sul relativo prolungamento dei tempi della loro gestione.
L'approvazione di una legge siffatta, a risorse invariate e senza prima essere


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intervenuti con sapiente chirurgia normativa su vari punti dell'ordinamento penale processuale, potrebbe inoltre determinare un'ulteriore crescita di quelle illegalità di massa che costituiscono una peculiarità nazionale priva di termine di paragone in altri Paesi occidentali di democrazia matura, come attestato tra l'altro dalla Commissione europea.
A questo proposito si è soliti ripetere che tutti i cittadini aspirano a una giustizia rapida ed efficiente, ma a mio parere si tratta di una favola retorica, che purtroppo non trova riscontro nella realtà del Paese. L'analisi della realtà ci pone dinanzi a un quadro affatto diverso: questo è un Paese nel quale, come diagnosticato dalla Corte dei Conti, la corruzione ha un fatturato annuo di 60 miliardi di euro; nel 2010 l'evasione fiscale certificata dalla Guardia di Finanza ha raggiunto la quota di 49,245 miliardi di euro.
Si tratta di un Paese in cui, nonostante gli arresti e i sequestri, le mafie continuano a signoreggiare in quasi tutto il sud e a investire nel nord, di un Paese nel quale l'abusivismo edilizio e i reati contro l'ambiente sono fenomeni di massa in vaste aree del territorio.
I soggetti coinvolti nei circuiti illegali non sono soltanto quelli che commettono reati in prima persona, ma anche migliaia di altri soggetti che vivono nell'indotto e grazie all'indotto dell'economia criminale, della corruzione, dell'evasione fiscale, delle mafie, dell'abusivismo edilizio.
Per formulare un solo esempio tra i tanti possibili e far comprendere come questi mondi siano intercomunicanti, basti considerare come le organizzazioni mafiose al nord come al sud si siano specializzate nelle false fatturazioni seriali a favore di imprese che costituiscono fondi neri per pagare la corruzione e poi fanno evasione nei paradisi fiscali.
Esiste dunque un'ampia parte del Paese trasversale ai ceti sociali che non nutre alcun interesse per una giustizia rapida ed efficiente, ma al contrario ha interesse a una giustizia inefficiente. Questo dato criminologico e sociologico deve costituire un'imprescindibile piattaforma di riflessione per il legislatore, per comprendere, muovendo dalla realtà, che talune patologie del processo come la sua irragionevole durata sono anche un riflesso di gravi patologie socioculturali e non soltanto effetti di deficit organizzativi o di improvvide architetture normative.
L'impatto dell'illegalità di massa, nel sommarsi al già esorbitante numero di reati che sono frutto di una legislazione penale italiana inutilmente ipertrofica, si abbatte infatti con un peso schiacciante sul processo penale, un peso che non ha paragoni in nessun altro Paese europeo. Le culture dell'impunità, espressione di questa illegalità di massa, si declinano poi all'interno del processo mediante l'abuso sistematico delle garanzie processuali per fini dilatori.
Se si muove dunque dalla lezione della realtà, ci si rende conto di come per spezzare la perversa spirale cui ho accennato sia necessario recuperare margini di efficienza con soluzioni di razionalizzazione organizzativa processuale, ma come tali soluzioni siano insufficienti, se preliminarmente non si operano scelte volte a garantire l'effettività delle norme e delle sanzioni e a disincentivare tutti i comportamenti finalizzati a prolungare i tempi di gestione del processo.
A tal fine occorre, in primo luogo, riformare l'istituto della prescrizione previsto dal codice penale, prevedendo che essa venga definitivamente sospesa al momento del rinvio a giudizio, come avviene nei Paesi di common law, o quantomeno in caso di condanna con sentenza di primo grado, che attualmente interrompe soltanto la consumazione dei reati permanenti.
Se l'imputato non può contare sulla speranza della prescrizione, non ha motivo di porre in essere tecniche dilatorie se sa di essere colpevole, ma ha tutto l'interesse di patteggiare o di scegliere il rito abbreviato. In tal modo si restituirebbe effettività a un'ampia categoria di reati che oggi sono tigri di carta, si porrebbero le premesse per deflazionare i dibattimenti tramite i riti alternativi e si ridurrebbero i tempi processuali.


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Il secondo intervento legislativo, di carattere strutturale, dovrebbe consistere in una riforma della procedura penale che, lasciando integro il cuore del processo ovvero l'assunzione e la valutazione delle prove nella irrinunciabile pienezza del contraddittorio, sfrondasse il processo penale dei tanti adempimenti di natura soltanto formale, che sono stati ampiamente individuati dalla commissione per la riforma del codice di procedura penale presieduta dal professor Riccio e da altri insigni giuristi come il professor Grevi.
Il regime della notifica, che nel penale determina un'enorme dilatazione dei tempi, potrebbe essere realizzato per la prima volta nelle mani dell'imputato e nelle successive attraverso posta elettronica certificata presso il difensore, con l'obbligo di tutti gli imputati di eleggere il domicilio presso i difensori.
Mi riferisco anche alla necessità di una riforma del sistema delle impugnazioni che elimini alcuni difetti sistemici da tempo individuati come ulteriore causa di indebito allungamento del processo. Secondo le proposte della migliore cultura giuridica, l'appello che abbia una cognizione piena in seguito a un dibattimento di primo grado con l'assunzione della pienezza del contraddittorio e delle prove, potrebbe essere limitato a un appello fatto soltanto per vizio di difetto di motivazione, estrapolandolo dai motivi del ricorso per Cassazione e limitando in questo modo i motivi per ricorrere in Cassazione.
In questo momento, infatti, la Cassazione è assolutamente inflazionata dai ricorsi presentati per qualsiasi motivo per raggiungere la prescrizione, e quindi non riesce ad assolvere il suo compito fondamentale della nomofilachia.
Per limitarmi soltanto all'inventario dei compiti a mio avviso più urgenti che gravano sul legislatore, tralasciando quelli che riguardano il Ministero della giustizia, credo che occorra prendere atto del fallimento di scelte legislative prolungate nel tempo, che continuano a inflazionare un diritto penale sostanziale già ipertrofico, utilizzando la sanzione e la criminalizzazione penale anche per condotte devianti con un tasso di lesività sociale tale da non giustificare il ricorso allo strumento estremamente costoso e oneroso del processo penale.
In questo modo si coltiva soltanto l'illusione repressiva, che nulla è se non un mero esorcismo culturale: l'illusione cioè che sia sufficiente criminalizzare le condotte per cancellarle dalla realtà sociale. Come tutte le illusioni, l'illusione repressiva produce l'effetto boomerang della delusione sociale per uno Stato incapace di far rispettare le sue leggi.

FRANCESCO ABATE, Presidente della corte d'appello di Trento. Rivolgo un ringraziamento non rituale, ma sentito, per questa convocazione, che consente di far conoscere la realtà del distretto di Trento e Bolzano da cui provengo, ma soprattutto fornisce l'occasione di poter esprimere delle valutazioni e dei suggerimenti costruttivi in vista di ulteriori riflessioni che la Camera dei deputati ritengo abbia il dovere di effettuare, senza il timore di essere accusati di invasione di campo in ambiti che non spettano ai magistrati.
Sottoscrivo gli interventi dei colleghi, anche se vengo da realtà diverse per il lavoro, ma non per origine giacché ci accomuna la sicilianità, e condivido in gran parte anche gli interventi precedenti dei quali ho avuto il piacere di leggere i resoconti, in particolare quelli del presidente della corte d'appello dell'Aquila, dottor Giovanni Canzio, e del presidente della corte d'appello di Roma, Giorgio Santacroce, che ho avuto occasione di poter valutare.
Vorrei esprimere alcune osservazioni di carattere generale, con particolare riguardo al tema dell'intervento legislativo sul settore penale già abbondantemente approfondito da chi mi ha preceduto, ma sul quale ritengo di poter aggiungere qualcosa.
Le finalità della legge vengono comunemente indicate nella giusta esigenza di accelerazione dei processi, nell'effetto di deterrenza che l'introduzione dell'istituto della prescrizione processuale avrebbe, in quanto influirebbe di necessità sui tempi


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di tutti gli altri processi. Altre finalità sono il risparmio di uscite dello Stato per i risarcimenti in base alla legge Pinto e, infine, il rispetto di prescrizioni di provenienza europea.
La prima di queste finalità è unanimemente condivisa: tutti vogliamo processi di ragionevole durata ad eccezione delle larghe fasce menzionate dal procuratore Scarpinato, laddove deve però prevalere l'esigenza di chi li vuole celeri. Comprendiamo infatti perfettamente l'esigenza dell'imputato di non sentirsi addosso il peso del processo per un tempo eccessivamente lungo e degli altri soggetti coinvolti nel processo di avere una risposta celere.
Rispetto a questa prima finalità si pone un problema di verifica di congruità dello strumento previsto nell'articolo 5, una norma infilata in mezzo a una serie di disposizioni che, però, è la più importante ed è la vera struttura dell'intervento legislativo. Si tratta di sottoporre questo strumento a una verifica di congruità rispetto all'obiettivo.
La prima osservazione di carattere tecnico-giuridico è che la norma introduce nell'ordinamento processuale un principio opposto al principio esistente in altri ordinamenti: l'estinzione del processo per superamento di limiti di tempo e la contestuale estinzione dell'azione sostanziale. Il ne bis in idem viene dunque espressamente richiamato, laddove l'estinzione del processo comporta l'estinzione dell'azione.
Questo sino ad oggi non accadeva in nessun ramo del diritto italiano e sembra che non sia contemplato in nessun altro diritto europeo - non ho potuto verificarlo -, ma nel campo della procedura civile si prevede espressamente che l'estinzione del processo per qualunque ragione, compresa la rinuncia delle parti agli atti del giudizio, non estingua l'azione.
L'azione si può estinguere per decadenza, per prescrizione sostanziale, ma mai per la prescrizione cosiddetta «processuale»: questo è un principio del diritto civile. Lo stesso accade nel processo amministrativo, nel giudizio contabile. Il nuovo legislatore non arriva al punto di estendere il principio opposto anche al processo civile, perché sarebbe inaccettabile che chi ha subìto un danno in un incidente stradale nel caso in cui la causa superasse i termini si sentisse dire che il processo è estinto.
Paradossalmente, però, lo applica al giudizio contabile, dove dispone con lo stesso meccanismo l'estinzione di una pretesa pubblica di natura risarcitoria, quindi civilistica. Questo dimostra la presenza di idee non del tutto chiare o che nel sistema c'è qualcosa che non va. Si tratta quindi di un principio dissonante ma, siccome il principio opposto è fissato in leggi ordinarie, un'altra legge ordinaria può derogarlo in un altro settore. Ci sarà dunque da chiedersi se tutto ciò non comporti una violazione dei precetti costituzionali, dato che la nostra è ancora una Costituzione rigida e nella gerarchia delle fonti la norma costituzionale deve essere rispettata da tutte le fonti inferiori.
C'è da chiedersi in radice se il principio del giusto processo sia rispettato in un processo che contiene in sé un agente patogeno, ovvero in un meccanismo che contiene già la previsione della propria auto implosione. Mi chiedo se questo sia consentito anche sotto il profilo della tutela delle altre parti del processo. A questo proposito evidenzio una grave lacuna, perché l'estinzione del processo penale non è accompagnata da previsioni relative alla sorte dell'azione civile eventualmente esercitata nel processo penale.
Si è comunque ritenuto di poter superare questo ostacolo. L'autorevole commissione citata dal presidente Canzio si è posta il problema di poter avallare una riforma che prevedesse appunto l'estinzione del processo per non ragionevole durata. La commissione lo ha definito «agente patogeno» dopo averne ammesso la possibilità, per cui mi viene in mente la storiella dell'agente segreto che porta la pasticca di cianuro sotto la lingua e a un certo punto può ingoiarla, perché il nostro processo potrebbe essere esposto a una pasticca di cianuro per cui alla scadenza dei termini sarebbe fulminato.
La commissione tuttavia sosteneva che nel caso in cui si dovesse introdurre questo


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strumento, considerandone l'assoluta anomalia e l'eccezionalità, sarebbero state necessarie alcune precondizioni. La Commissione indicò quindi ben 11 warning, in buona parte richiamati da Oliveri e Scarpinato. Fra questi, in particolare, vi è la fornitura di uomini e mezzi, ovvero di risorse e di riforme strutturali. Il presidente Canzio concludeva rilevando amaramente come nessuno di questi 11 warning fosse stato introdotto in questo disegno di legge.
Nutriamo dunque grosse perplessità su questo agente patogeno, su questa possibile soluzione mortifera del processo, ma è già stato accennato a ricadute e a controindicazioni quali l'incentivazione all'abuso del processo che è stata già approfondita, il mancato coordinamento con la prescrizione sostanziale illustrato in maniera egregia dal procuratore Scarpinato, la disincentivazione dei riti alternativi (a chi converrebbe il rito alternativo potendo contare su una chance ben più soddisfacente come l'estinzione del processo?) che erano precondizione del successo del processo accusatorio, che di riflesso ne viene a risentire, la disincentivazione di indagini complesse specialmente quando incomba anche l'altra prescrizione, l'accentuato clima di conflittualità fra difesa e organi giurisdizionali.
Ci chiediamo che fine faranno le prassi virtuose concordate nei vari tribunali con il concorso delle parti dell'avvocatura più sensibili a queste esigenze, e che succederà se passerà la norma dai contorni ancora poco chiari, che elimina o almeno diminuisce fortemente il potere del giudice di sindacare l'ammissibilità e la rilevanza dei mezzi istruttori proposti dalle parti.
Altre possibili incongruenze sono già state evidenziate, ma si rilevano parecchi equivoci nei passaggi dal pubblico ministero all'organo giurisdizionale, nei tempi dalla pronuncia di primo grado a quella di secondo grado e dall'appello alla Cassazione. Ci sono tempi morti già sottolineati dai colleghi.
Un elemento specifico di ritardo per la Cassazione, con riferimento ai ricorsi contro sentenze della provincia di Bolzano, è legato al bilinguismo. Spesso infatti la Cassazione riceve papiri in lingua tedesca per i quali chiede aiuto ai traduttori della provincia e naturalmente anche questo richiede tempo.
Se questo strumento ci sembra incongruo, è nostro dovere indicare possibili strade alternative, che sono già state in buona parte enunciate. Non posso che ricordare ancora una volta come anche in sede europea sia stato più volte ribadito l'obbligo dello Stato e quindi del Ministero della giustizia e, in genere, dell'apparato di garantire agli organi giurisdizionali tutti i mezzi necessari per espletare presto e bene il proprio compito. Su questo gli interventi non possono certo considerarsi soddisfacenti.
Si è parlato più volte delle possibili ricadute positive di una revisione della geografia giudiziaria. Su questo versante l'ultimo provvedimento importante risale al 1998 con l'istituzione del giudice unico di primo grado, occasione che venne colta al volo per eliminare una serie di uffici periferici che ha avuto effetti positivi sui tribunali medi e medio-piccoli ma non nelle grandi realtà, dove anzi si è rivelato controproducente.
Tale provvedimento legislativo è stato però l'unico caso di attenzione del legislatore verso questa problematica, dopodiché hanno evidentemente prevalso logiche campanilistiche. Si tratterebbe semplicemente di eliminare o accorpare uffici in cui si rilevi una sovrabbondanza di uomini e mezzi.
Per fare questo la strada non è facile: non basta stimare il numero dei procedimenti pendenti sopravvenienti, ma occorre anche pesare i vari procedimenti, laddove il peso dei procedimenti cambia in base al contenuto, all'oggetto, alla materia, al numero degli imputati e delle parti, ma anche all'ambiente in cui tutto ciò accade.
Per quanto riguarda questa strada del peso dei fascicoli qualcosa si sta muovendo a livello di Consiglio superiore della magistratura, struttura tecnico-organizzativa che sta cercando di andare avanti, ma anche in questo campo nulla o quasi nulla è stato fatto ai livelli amministrativi centrali,


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che sarebbero stati indispensabili per poter poi affrontare il tema della migliore ripartizione delle energie sul territorio. Questo sarebbe uno degli snodi essenziali perché una delle cause principali dei ritardi è la sproporzione tra affari da trattare e magistrati e personale a disposizione della maggior parte degli uffici.
Ipotizzare che comminare l'estinzione dei processi penali possa avere un effetto deterrente significa inventare una scorciatoia che può eventualmente comportare rebus sic stantibus semplicemente uno spostamento di risorse dal settore civile al settore penale, con cui forse tappare una falla e aprirne un'altra per quanto riguarda le cause civili. Il rimedio deve essere quindi molto più incisivo e profondo.
Per quanto riguarda il risparmio sui risarcimenti in base alla legge Pinto, l'intervento dell'articolo 5, che a quanto pare sta più a cuore al legislatore, non ha una grande rilevanza, perché in base alla mia esperienza oltre il 90 per cento delle richieste di risarcimento danni ex lege Pinto riguarda non il penale, ma il civile, e quindi, se ci sarà uno spostamento delle risorse dal penale al civile, la falla aperta nel civile comporterà un aggravio dei risarcimenti in base alla legge Pinto.
La terza finalità è il rispetto delle prescrizioni dell'Europa, che però non afferma che i processi lungodegenti debbano subire l'eutanasia: raccomanda che i processi abbiano una durata ragionevole, non che debbano morire se la superano né che le tappe intermedie debbano avere una rilevanza autonoma. Si potrebbe infatti prevedere un sistema in base al quale, stabilendo un tetto finale, si possano compensare gli eventuali ritardi intermedi, per cui un processo potrebbe durare di più in primo grado ma meno in secondo e in terzo rispettando il termine finale. Non è esatto quindi sostenere che facciamo questo perché ce lo chiede l'Europa.
Nella norma transitoria la ragionevolezza proprio non c'è più, in quanto si stabilisce la morte del processo in maniera retroattiva, con un periodo di degenza addirittura inferiore a quello a regime ora limitato a due anni. Lo si limita entro una certa data ai processi cosiddetti «indultabili», per cui all'indulto si viene ad aggiungere una forma di amnistia, con l'ulteriore violazione di non essere concessa con le maggioranze prescritte per l'amnistia. Anche sotto questo profilo la norma rischia dunque fortemente la declaratoria di incostituzionalità.
Per quanto riguarda le modifiche alla legge Pinto trattate in modo esauriente dal presidente Oliveri, desidero rilevare come nel settore civile questa istanza verrà presentata da tutti gli avvocati, pena la loro responsabilità deontologica verso il cliente, con il risultato che tutte le cause saranno con l'istanza e tutte nella stessa situazione.
I processi per i quali viene presentata l'istanza di anticipazione devono essere trattati come i processi con detenuti, per cui ci chiediamo come debba regolarsi il giudice rispetto a questa equiparazione, se debba fare prima quelli con detenuti o questi con l'istanza.
La materia merita un'attenta riflessione. Senza voler dare suggerimenti a nessuno, ritengo che gli approfondimenti avrebbero dovuto essere effettuati ancor prima del licenziamento del testo da parte del Senato e che comunque non debbano essere pretermessi. Non c'è fretta e gli effetti immediati sarebbero soltanto quelli dell'entrata in vigore della norma transitoria.
Le ragioni di questo stop and go, di questa urgenza che ora c'è ora non c'è sembrano al cittadino e a chi vi parla dettate da esigenze estranee al tema specifico dell'oggetto della legge e come tali non dovrebbero essere prese in considerazione. Grazie.

MARIO TRAMPUS, Presidente della corte d'appello di Trieste. Sarò più breve di chi mi ha preceduto e quindi consentirò una compensazione che credo sarà gradita.
Ringrazio per la convocazione presso questa Commissione, che permette di dare voce a una corte medio-piccola come la nostra, a una realtà periferica che tuttavia ha raggiunto finora risultati sostanzialmente


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positivi, come è rappresentato dall'indice di ricambio delle sezioni penali della corte, che è ampiamente in terreno positivo rispetto allo 0,72 dell'indice nazionale, e dall'indice di durata dei processi che è ampiamente al di sotto del 2,05 del dato nazionale.
Non ripeterò la trattazione delle tematiche generali esaurientemente effettuata da chi mi ha preceduto e passerò più concretamente alla valutazione dell'incidenza delle previsioni normative contenute nella proposta di legge in esame sul funzionamento della giustizia nel nostro distretto, dividendo questo resoconto in due parti: la prima dedicata alla disciplina transitoria dell'articolo 9 e l'altra alla disciplina a regime dell'articolo 5, distinte per primo grado e per grado di appello.
Per il primo grado i dati statistici disponibili, che sono stati raccolti nei pochi giorni dalla convocazione presso la Commissione, sono limitati al parametro della durata per classi, l'ultima delle quali superiore ai due anni peraltro calcolata dalla data di iscrizione del procedimento nei registri del tribunale e non già da quello della formulazione dell'imputazione ai sensi dell'articolo 405 del codice di procedura penale, come peraltro previsto dal comma 1.
Sono stati definiti in un periodo superiore ai due anni il 29 per cento dei procedimenti collegiali e il 12 per cento dei procedimenti monocratici, tuttavia destinati a subire un incremento attraverso il computo della fase GO, ma il dato rilevato non appare sufficiente al fine di valutare l'incidenza dell'applicazione della normativa transitoria sui processi di primo grado, mancando gli altri parametri rappresentati dalla data di commissione del reato cioè entro il 2 maggio 2006, dalla riconducibilità di esso a una delle esclusioni previste dall'articolo 1, comma 2, della legge n. 241 del 2006 e dall'entità della pena detentiva prevista inferiore al massimo a 10 anni.
Per il grado d'appello i dati sono più precisi. L'indagine è stata condotta sui processi pendenti alla data del 31 dicembre 2010 attraverso l'applicazione di tutti i parametri previsti dalla norma transitoria.
È così risultato che dei 2.857 processi pendenti a tale data 1125, pari al 39 per cento, avevano ad oggetto reati commessi in epoca anteriore al 2 maggio 2006. Per 995 di questi, pari al 35 per cento, l'imputazione era stata formulata da più di 2 anni; 212, pari al 7 per cento, erano relativi a reati esclusi dall'applicabilità dell'indulto e puniti con pene edittali pari o superiori ad anni 10, direttamente conseguendone che l'applicazione della disciplina transitoria comporterebbe l'estinzione di 783 processi, pari al 27 per cento della pendenza complessiva alla data considerata.
È però opportuno evidenziare che, essendo stato condotto il rilevamento relativo alla durata del processo utilizzando l'anno di iscrizione in primo grado, e non già la data di esercizio dell'azione penale, il dato statistico emerso appare sottodimensionato rispetto a quello ricavabile attraverso l'applicazione del parametro normativo.
Per il giudizio di primo grado i dati statistici disponibili sono insufficienti al fine di consentire la formulazione di un'attendibile valutazione circa l'incidenza della normativa in esame sui processi di primo grado, insufficienza aggravata dalla limitazione del rilevamento ai procedimenti penali definiti per classi di durata superiore ai due anni e non invece estesa, come previsto dall'articolo in esame dopo la modifica apportata dal Senato all'originario del disegno di legge, a quella superiore ai tre anni.
Per il grado di appello, un rilevamento effettuato sul campione rappresentato da 1.693 processi definiti presso la corte nel periodo compreso tra il 1 luglio 2009 e il 30 giugno 2010 ha consentito di accertare che la durata media dei procedimenti è stata pari a giorni 713, avuto riguardo al periodo di tempo intercorrente tra l'iscrizione del processo nei registri della Corte e la sua definizione con sentenza, 974 giorni avuto riguardo, come peraltro previsto dall'articolo 5 della proposta di legge,


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al periodo di tempo intercorrente tra la pronuncia della sentenza di primo grado e quella di appello.
Sulla base di questi rilevamenti è stato quindi calcolato che l'applicazione a regime della normativa di cui trattasi comporterebbe, nel primo caso, l'estinzione di 707 processi, pari al 41,8 per cento e, nel secondo caso, di ben 1.155, pari al 68,7 per cento del totale di essi.
Se per un verso queste rilevanti percentuali sono suscettibili di una pur modesta riduzione riconducibile al decremento delle pendenze che deriva dall'applicazione della disciplina transitoria, è necessario considerare il contrapposto effetto di un aumento delle sopravvenienze che la prospettiva della possibile estinzione del processo per decorrenza dei termini di durata del grado probabilmente determinerebbe, così da lasciare invariate le previsioni sopra riportate.
Tale prospettiva decisamente inaccettabile rende evidente come la ragionevole durata del processo debba essere conseguita non già mediante la rigida prefissione di termini di durata massima per i singoli gradi, cui consegua l'estinzione del procedimento, bensì attraverso interventi strutturali volti, da un lato, a porre rimedio alle gravi carenze degli organici del personale amministrativo e ad assicurare un migliore impiego delle risorse disponibili, a cominciare dalla ormai indifferibile revisione delle circoscrizioni giudiziarie; dall'altro, a semplificare e a razionalizzare i meccanismi del processo penale e di quello di appello in particolare, e ad abbreviarne la durata.
Mi sono occupato di questa problematica nella relazione predisposta per l'inaugurazione dell'anno giudiziario e quindi non mi ripeterò.

CARLO ALEMI, Presidente del tribunale di Napoli. Anch'io desidero ringraziare la Commissione per avere avvertito la sensibilità di ascoltare dai capi degli uffici quali siano le reali conseguenze e i reali effetti di una riforma quale quella adesso allo studio della Camera. I dirigenti degli uffici operano sul territorio, conoscono le situazioni materiali di personale, di processi, di carichi di lavoro e quindi come operatori del diritto sono in grado di dare un contributo migliore.
Un magistrato non deve criticare le leggi, per cui intendiamo soltanto dare il nostro parere e vi siamo grati per averci messo in condizione di farlo.
Anch'io ho letto i resoconti degli interventi dei colleghi che mi hanno preceduto e ho visto che hanno fornito ampi chiarimenti sui criteri di organizzazione dei propri uffici, ho letto alcune delle domande che i commissari hanno posto e quindi sono pronto a rispondere a eventuali, ulteriori domande.
Vorrei delineare una mia personale esperienza. Su scelta del Consiglio superiore l'anno scorso abbiamo tenuto una serie di incontri con i capi di tutti gli uffici giudiziari del territorio al fine di procedere a una diversa considerazione degli uffici giudiziari, che andasse verso un progetto di organizzazione più razionale e funzionale.
Il CSM ha ritenuto di individuarmi tra i coordinatori e ho avuto modo di rendermi conto di una realtà assolutamente indiscutibile: non possiamo adottare sistemi e interventi univoci, uguali, uniformi per tutti gli uffici giudiziari. Gli uffici del nord sono completamente diversi dagli uffici del sud, le caratteristiche e quindi le esigenze dei piccoli uffici sono assolutamente diverse dalle esigenze dei grandi uffici. Qualsiasi intervento sull'organizzazione degli uffici non può dunque prescindere da questo dato di fatto.
La mia individuazione come relatore da parte del CSM è dovuta non a una mia particolare competenza o abilità, ma forse al fatto che presiedo quello che per definizione del Ministero è l'ufficio giudiziario più complesso d'Italia. Prima del mio arrivo questo ufficio giudiziario non riusciva a vedere approvate le tabelle, che sono il progetto di organizzazione degli uffici giudiziari con durata prima biennale e adesso triennale. Purtroppo il mio predecessore non era mai riuscito a ottenere


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questa approvazione, per cui forse mi si è riconosciuto questo merito e per questo sono stato coinvolto.
Mi sembra opportuno però citare alcuni dati, che possono consentire a questa Commissione di farsi un'idea esatta delle caratteristiche del tribunale di Napoli. Prima si parlava del giudice unico e dell'abolizione di tante preture, ma il tribunale di Napoli ha 8 sezioni distaccate, delle quali almeno la metà ha carichi di lavoro superiori a quelli di interi tribunali del territorio nazionale.
Forse proprio in considerazione di ciò nel 1999 era stata approvata l'istituzione del secondo tribunale metropolitano, il tribunale di Giugliano, per cui è stato tolto il personale giudiziario e di cancelleria che avrebbe dovuto costituirne l'organico. Tale tribunale è stato istituito, ma il tribunale di Napoli continua a gestire tutti gli affari destinati al tribunale di Giugliano senza il personale che avrebbe dovuto occuparsene.
Questo è stato progressivamente assorbito e distribuito fra tutti gli uffici. Negli anni c'è stata una progressiva diminuzione degli organici del personale amministrativo, non di quello giudiziario.
Nel 2007, in seguito all'esito di una visita ispettiva della VII commissione, il Consiglio superiore valutò insufficienti gli organici anche del personale giudiziario del tribunale di Napoli e invitò il Ministero quantomeno a restituire al tribunale di Napoli quel personale, che chiedo ormai da quattro anni a tutti i livelli senza ottenere alcuna risposta.
Il carico complessivo delle procedure civili del tribunale di Napoli è di circa 140.000, circa 55.000 le cause di lavoro e previdenza obbligatoria con una sopravvenienza media sostanzialmente equivalente. Dal 2006 ad oggi le tre sezioni lavoro - questo è un merito che attribuisco ai miei colleghi - hanno portato l'abbattimento della pendenza da 120.000 a 65.000 cause, quindi quasi dimezzato.
Siamo riusciti ad abbattere il trend assolutamente negativo per le cause civili ordinarie, per cui per la prima volta siamo riusciti ad avere una definizione dei processi superiore alla sopravvenienza. La progressiva diminuzione degli organici del personale amministrativo, la necessità di portare personale amministrativo dal settore civile a quello penale perché le continue perdite di personale ci costringono a privilegiare la sopravvivenza delle udienze dei processi penali, ci fanno correre il rischio di perdere l'ottimo risultato che stavamo ottenendo.
Al settore penale lo scorso anno sono pervenuti 22.000 processi con rito monocratico, quasi 1.000 con rito collegiale, oltre 60.000 procedimenti alla sezione del giudice delle indagini preliminari, dei quali 35.000 procedure che riguardano richieste di archiviazione e simili.
Numeri così alti dei carichi di lavoro richiederebbero risorse in grado di gestirli in modo positivo, risorse che al momento sono assolutamente insufficienti. Attualmente ogni giorno vengono celebrate nel settore penale 38 udienze ordinarie oltre a quelle straordinarie, con una media di 182 udienze settimanali. La cosa assurda è che attualmente il tribunale ha in assegnazione soltanto 33 aule rispetto alle 38 udienze che celebriamo, oltre a un'aula bunker situata nella Casa circondariale di Poggioreale.
Poiché il numero delle udienze è superiore a quello delle aule, i miei colleghi sono spesso costretti a contingentare la durata dell'udienza e quindi a interrompere l'udienza per dare modo a un altro collegio di iniziare la sua.
Da oltre tre anni sono riuscito a ottenere l'assegnazione di altre 15 aule, che però non riesco ad avere. Ho dovuto necessariamente attrezzarle con impianti di multivideoconferenza e fonoregistrazione e sono ancora in attesa che questo allestimento tecnico e informatico delle aule venga completato.
L'ufficio GIP e il tribunale del riesame di Napoli devono far fronte all'intero carico di lavoro della procura distrettuale antimafia di Napoli, che interessa tutti i tribunali del distretto di Napoli (Napoli, Caserta). Sono stato costretto ad aumentare l'organico delle sezioni del riesame di ben 9 unità, perché per il riesame ancora


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più che per gli altri settori c'è l'obbligo di rispetto assoluto di determinati termini e quindi siamo continuamente in sofferenza.
I miei colleghi mi chiedono da tempo la celebrazione di un maggior numero di udienze, ma questo non è possibile perché mancano le aule e il personale amministrativo. Sembra il solito pianto greco, ma condivido le considerazioni espresse nella seduta del 28 gennaio dall'onorevole Paniz secondo cui una giustizia ritardata è una non giustizia. È però necessario individuare le cause per cui non si riesce a dare una risposta più rapida.
Il sistema non è quello di dichiarare la morte prematura dei processi, morte che non servirebbe a dare un esempio di buona giustizia, che può essere soltanto quella che consente di arrivare alla conclusione dei processi e di individuare il responsabile del reato. Questa prematura estinzione dei processi vanificherebbe infatti l'enorme sforzo compiuto dalle Forze dell'ordine, dai magistrati della procura della Repubblica, dai magistrati del tribunale fino a quel momento, per non parlare dello sforzo dei cancellieri, che forse è quello più importante ma che noi magistrati spesso sottovalutiamo.
Ho una sola certezza: l'estinzione dei processi sicuramente non potrà imprimere alcuna accelerazione, a seguito della consapevolezza dei giudici che, se non fanno presto, la conseguenza sarà quella dell'estinzione. I giudici non potranno fare quindi più di quello che fanno attualmente.
Per ridurre la durata di un processo si deve soltanto mettere i magistrati in condizione di fare più udienze, di prolungare l'orario delle udienze. Da anni il Ministero della giustizia non consente l'effettuazione di prestazioni di lavoro straordinario. Questo significa che il magistrato che voglia non può lavorare di più. Non è una difesa di casta: è una constatazione di fatto. Gestisco personalmente le riunioni con i sindacati e i rappresentanti del personale amministrativo, che mi attacca violentemente perché chiede di ridurre il numero delle udienze, perché con il personale a disposizione non sono in grado di far fronte all'assistenza alle udienze e soprattutto di espletare tutti gli adempimenti collegati alle udienze, dalla loro preparazione agli avvisi di cancelleria, alla pubblicazione delle sentenze. Non riusciamo a trasmettere in appello le sentenze di primo grado, perché non abbiamo personale in grado di farlo (questo non può essere addebitato ai magistrati).
Può essere considerata una boutade il fatto che ho subìto un rilievo da parte del Consiglio giudiziario presso la corte d'appello perché mi ha accusato di avere fatto produrre troppo dai magistrati, considerando inutile fargli fare più sentenze in assenza di personale in grado di attivare e movimentarle.
Ho chiesto formalmente al Consiglio giudiziario se fosse opportuno chiedere ai miei colleghi di fare meno sentenze. Anche quella del Consiglio giudiziario è una constatazione dei limiti del personale, dell'organico amministrativo.
Prima dell'estate 2010 il Ministro Alfano ci lanciò una sorta di sfida dichiarando che tutti dicevano che gli uffici giudiziari napoletani non fossero in grado di fare niente di buono. Promise di impegnarsi a metterci a disposizione risorse anche straordinarie, purché fossero impegnate a risollevare gli uffici giudiziari.
Abbiamo raccolto tale sfida e personalmente misi a verbale che, se entro due anni non avessi raggiunto risultati concreti, sarei stato pronto a dimettermi. Arrivato l'autunno, sono arrivate le ulteriori restrizioni finanziarie, dopodiché il Ministro Alfano ci ha dovuto comunicare, sia pure in modo non proprio chiarissimo, che non aveva la possibilità di portare avanti questo «piano Marshall» per gli uffici giudiziari napoletani.
Se si vuole realizzare una riforma che renda il sistema giustizia più funzionale, rapido ed efficiente, si devono fornire gli uffici giudiziari di risorse umane e finanziarie adeguate, si devono avviare i concorsi per i dipendenti amministrativi che da oltre 15 anni non vengono banditi, si devono accelerare i processi di informatizzazione, si devono approvare riforme


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miranti alla depenalizzazione dei reati minori piuttosto che estinguere anche quelli importanti. Molti sono infatti i comportamenti oramai privi di disvalore sociale, che continuano egualmente ad appesantire i ruoli dei magistrati.
Si deve procedere alla semplificazione del processo penale, salvaguardando i diritti delle parti, ma sfrondandolo da tante norme che servono soltanto ad appesantire il processo. Si devono sopprimere le tante sedi giudiziarie inutili, che hanno carichi di lavoro del tutto irrisori e la cui soppressione consentirebbe di accorpare e di recuperare il personale giudiziario e amministrativo che in esse lavora o meglio non lavora. Questo non viene fatto perché la soppressione di un ufficio giudiziario comporta lo scontento della popolazione locale, con tutte le ovvie conseguenze del caso.
La Commissione mi ha chiesto di evidenziare quali sarebbero le conseguenze dell'eventuale approvazione - mi auguro di no - di questa legge sul tribunale di Napoli. Le notizie che vi fornirò mi sono state fornite dai colleghi e dalla sezione informatica.
Per quanto concerne innanzitutto i giudizi civili pendenti in primo grado, le cause per le quali sarebbe legittima la domanda di accelerazione corrispondono al 10,4 per cento del totale, per un numero complessivo di circa 14.000 procedimenti, dato che si riferisce sia al contenzioso civile sia al contenzioso del lavoro.
Particolarmente pericolosa a tal proposito è la previsione normativa della richiesta di accelerazione del processo, che, finendo con l'interessare la maggior parte delle cause, servirebbe solo a ingolfare completamente il lavoro dei giudici, che già hanno una caotica gestione dei ruoli a causa dell'enorme carico di cause.
Per il penale emergono dati ancora più preoccupanti sugli effetti che la riforma potrebbe determinare. Il tribunale penale di Napoli è articolato su 8 sezioni dibattimentali, una delle quali con competenze in materia di misure di prevenzione e con un ruolo di processi con rito monocratico, ognuna con 2 o 3 collegi, 3 sezioni dibattimentali che trattano in esclusiva la materia del riesame, e la sezione GIP con un organico di 47 magistrati.
I tempi medi che intercorrono tra la richiesta ex articolo 405 e la data dell'udienza penale sono di 30 giorni, quindi abbastanza contenuti. Quelli però intercorrenti tra il decreto di rinvio a giudizio e la prima udienza dibattimentale sono di 180 giorni e quelli intercorrenti tra questa udienza e la sentenza di primo grado di 451 giorni. La durata media di un processo è di 450 giorni.
Il numero dei procedimenti penali pendenti nel primo grado di cui almeno una delle imputazioni riguarda reati con pena edittale inferiore nel massimo a 10 anni è di 33.478. Dalle relazioni dei Presidenti delle sezioni per quanto attiene ai processi con rito monocratico risulta che la quasi totalità dei giudizi rientra nella previsione di improcedibilità della nuova legge, essendo decorso o dovendosi ritenere quasi certa la decorrenza del termine di cui all'articolo 531-bis, comma 1, lettera a).
Se poi consideriamo i processi pendenti alla data di partenza della legge non ancora definita, sarebbero tutti estinti, e di quelli con rito collegiale verrebbe estinta almeno la metà. Il numero dei processi con rito collegiale varia tra il 25 e il 35 per cento.
Mi è stato chiesto di indicare qualcuno dei processi di maggiore rilevanza per numero e qualità delle imputazioni, degli imputati e delle persone offese. Sono da segnalare tutti i processi per omicidio determinato da colpa medica, da violazione della normativa sugli infortuni del lavoro, normalmente con parti lese da tempo in attesa di vedere soddisfatte le proprie istanze di giustizia, gli altrettanto numerosi processi di contrabbando e truffe anche gravi collegate al reato di associazione per delinquere.
È necessario inoltre annoverare numerosi processi per frodi, truffa, traffico di rifiuti, smaltimento di rifiuti pericolosi, nei quali talora il Ministero dell'interno si costituisce parte civile; numerosi processi con più imputati (da 10 a 25) concernenti articolate associazioni per delinquere operanti


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sul territorio nazionale, finalizzate alla ricettazione di assegni bancari, alla ricettazione e messa in commercio di merce contraffatta con falsi marchi delle case produttrici, alla commissione di una numerosissima serie di reati di ricettazione, di falso e truffa in danno del Servizio sanitario nazionale (il cosiddetto processo Farmatruffa con 117 capi di imputazione e 26 imputati tra i quali medici e farmacisti).
A questi si aggiungano il processo Calciopoli, con 24 imputati e centinaia di testimoni; il processo a carico dell'ex presidente della regione Campania, Antonio Bassolino, con 32 imputati per truffa aggravata, frode in pubbliche forniture, abuso di ufficio, gestione abusiva di rifiuto e altre numerose imputazioni, con 500 testimoni ammessi rispetto ai 900 richiesti dalle parti; numerosi processi in danno dei comuni campani tra i quali il processo per abuso di ufficio e truffa in danno del comune di Napoli ascritto a circa 100 funzionari del comune; numerosi processi per reati ambientali, tra cui un processo relativo al cattivo funzionamento di parte degli impianti del depuratore di Cuma con enorme inquinamento atmosferico, un altro di enorme impatto ambientale relativo al traffico di rifiuti pericolosi, per il quale è stato disposto il sequestro di aziende tra cui colossi imprenditoriali riferibili al gruppo industriale Ferrari e all'unica discarica italiana di rifiuti pericolosi allocata nel bresciano, perché naturalmente con i nostri processi riusciamo a interessarci di tutto il territorio nazionale.
Sicuramente questa legge comporterebbe una drastica riduzione del ricorso ai riti alternativi, che attualmente determinano un concreto contributo alla sollecita definizione dei processi e all'alleggerimento delle pendenze. Si consideri infatti che i procedimenti sia del GIP/GUP sia del dibattimento, che oggi si definiscono con il ricorso al rito alternativo, sono oltre il 20 per cento del totale, per cui sembrerebbe raggiunto lo scopo della riforma che ha introdotto i riti alternativi. L'approvazione della nuova legge e la riduzione dei termini di durata dei processi sconsiglierebbe dunque il ricorso a tali riti.
Non voglio fare pianti greci, ma in questa situazione di crisi l'unico aiuto potrebbe giungerci dall'accelerazione dei processi di informatizzazione sia nel settore civile sia nel settore penale. Il tribunale di Napoli su questo sta facendo tantissimo, siamo stati indicati come tribunale pilota in molti progetti e per primi, insieme al tribunale di Milano, abbiamo introdotto il processo civile telematico con progetto ministeriale.
Si può fare tanto e l'informatizzazione dei processi in materia sia civile che penale è l'unica attività in grado di aiutarci.

PRESIDENTE. Do ora la parola ai colleghi che intendano porre domande o formulare osservazioni.

DONATELLA FERRANTI. Intervengo più che altro per ringraziare della disponibilità e del grande impegno nell'offrire questa valutazione che credo sia irripetibile per la Commissione giustizia, perché al di là dei dati aggregati siamo riusciti in tre sedute a penetrare in alcune realtà giudiziarie importanti. Ringrazio l'ufficio di presidenza per avercelo consentito e mi dispiace che il relatore, onorevole Maurizio Paniz, non sia stato presente a nessuna delle audizioni.
Trattandosi di un'indagine conoscitiva, tuttavia, ci sono tutti i documenti dei presidenti e dei procuratori generali intervenuti e tutti i resoconti stenografici, quindi la documentazione è completa.
Ho rilevato pur nelle diverse realtà giudiziarie l'accorato forte senso delle istituzioni dei rappresentanti degli uffici giudiziari, che hanno cercato di offrire il quadro reale fornendo anche spunti di recupero per cercare di non mandare al macero quanto quotidianamente viene fatto da magistratura, personale della polizia giudiziaria, personale delle cancellerie.
Il presidente della corte d'appello di Trieste ha evidenziato come in alcune


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dimensioni ottimali si riesca a rispettare i tempi o comunque a perseguire gli obiettivi. Sia nel tribunale di Napoli, in cui la quasi totalità dei procedimenti penali verrebbe estinta, che nella corte d'appello di Trieste, tuttavia, alcuni procedimenti penali saranno condannati al macero, sebbene l'ufficio di Trieste possa essere individuato come un modello di dimensioni e personale in sinergia con una serie di fattori.
Rilevo una contraddizione nel fatto che prescrizione processuale e prescrizione sostanziale siano insieme, perché i reati imprescrittibili dal punto di vista sostanziale, per cui è previsto l'ergastolo, argomento che abbiamo affrontato con molta partecipazione emotiva la scorsa settimana in Aula, si estinguerebbero.
Mi sembra che in questo modo si allunghino i tempi dei processi, perché ovviamente il rito abbreviato è più breve di un rito ordinario in corte d'assise, ma quei reati rientrano nella mannaia della prescrizione del processo.

RITA BERNARDINI. È un vero peccato che queste indagini conoscitive non si facciano in contraddittorio, perché questa mattina ho sentito parlare dell'abuso che si fa del processo e delle tecniche dilatorie su cui convengo, ma due anni fa un'indagine promossa dalle camere penali in tutta Italia dimostrava quanto alcuni processi venissero rimandati per responsabilità dei magistrati. Sarebbe stato interessante confrontarsi su questo.
Come Radicali ci troviamo in totale dissenso rispetto al progetto di legge in esame in base a quanto previsto dalla nostra Costituzione, che all'articolo 111 parla di ragionevole durata e non si permette minimamente di parlare di brevità, che è un non senso.
Ringrazio gli auditi per la loro presenza e per averci fornito il loro punto di vista. Si è parlato di morte dei processi, però è indubbio che anche attualmente molti processi muoiano. I dati forniti lo scorso anno dal Ministero della giustizia si riferivano a 2 milioni di prescrizioni in 10 anni, quindi di circa 180.000 prescrizioni all'anno solo per quanto riguarda il processo penale. Anche questi sono processi che muoiono.
Vorrei collegare tutto questo al principio apparentemente indiscutibile in Italia dell'obbligatorietà dell'azione penale. È indubbio infatti che si operino delle scelte sui processi da celebrare e su quelli da fa cadere in prescrizione, ed è altrettanto indubbio che questo tipo di scelte vengano fatte da chi non ha responsabilità politiche, fatto che ritengo molto grave: responsabilità in merito al perseguire determinati reati che destano maggior allarme sociale piuttosto che altri. La politica del resto dovrebbe rispondere al proprio elettorato delle scelte effettuate.
Il presidente Alemi ha dichiarato di non aver mai fatto politica e di sapere che il compito del magistrato è un altro, ma è difficile sostenere che in Italia i magistrati non facciano politica. Non voglio entrare nel merito di quanto si discute in questi giorni, ma è sufficiente pensare a quanti magistrati sono distaccati presso il Ministero della giustizia, inficiando una delle regole fondamentali della democrazia che è quella della separazione dei poteri, giacché danno consigli concreti su come scrivere le leggi.
Credo che di tutto questo occorra discutere in modo approfondito nel nostro Paese, ma a quanto pare di alcune cose in Italia è impedito parlare perché alcuni tabù non si possono toccare.
Vorrei chiedervi che valutazione dareste di un'eventuale amnistia, che è ovviamente diversa dalla prescrizione perché, oltre che una maggioranza qualificata da parte del Parlamento, l'amnistia implica anche una scelta politica dei reati da amnistiare. Vorrei quindi sapere come valutiate nel momento emergenziale un provvedimento di questo tipo, che secondo l'onorevole Pannella servirebbe ai magistrati che hanno scrivanie piene di vecchi fascicoli polverosi.

MARILENA SAMPERI. Anch'io ringrazio i presidenti e il procuratore Scarpinato per il contributo fornitoci e per le proposte di miglioramento della macchina giudiziaria


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e del sistema degli uffici che costituiscono il cuore del problema, con particolare riferimento a semplificazione, depenalizzazione e a tutte le strade indicate per alleggerire una macchina giudiziaria appesantita, che soffre anche di una carenza di organico e di risorse.
La proposta di legge nell'introduzione dichiara di avere come obiettivo quello di rendere più certi i presupposti, la procedura, la quantificazione dell'equo indennizzo, e anche di contenere gli effetti economici derivanti dalla eccessiva durata dei processi in questo momento di crisi finanziaria. Vorrei sapere però se il meccanismo pensato per contenere questi costi si tradurrà invece in un aumento esponenziale delle domande di equa riparazione e in conseguenti spese per lo Stato.
L'immediata applicazione delle nuove disposizioni si risolve in un'applicazione retroattiva di norme processuali, ma nel sistema processuale la regola che governa è che il tempo regge l'azione. Vorrei sapere quindi come si concili questa contraddizione, come si possa giustificare questa retroattività delle norme procedurali.
Il giudice dovrà rivedere e rivalutare tutti i processi organizzativi che aveva deciso prima dell'entrata in vigore di questa nuova normativa, in un tempo in cui non c'era la tagliola dell'estinzione del processo, e ci chiediamo quindi cosa dovrà fare di quanto aveva già disposto.

NICOLA MOLTENI. Anch'io ringrazio gli auditi per la presenza e per l'utilità degli interventi.
I due grossi mali del sistema giudiziario civile e penale italiano sono l'eccessiva durata dei processi, di cui stiamo abbondantemente discutendo, e il pesante arretrato civile e penale. Nel solco della leale collaborazione tra poteri vorrei sapere quale tipo di soluzione suggeriate per giungere allo smaltimento integrale o parziale dei 5,5 milioni di processi civili pendenti e dei 3,5 milioni di processi penali pendenti, grave problema che ci portiamo dietro, su cui credo sia la sede migliore per dare alla Commissione un suggerimento, un consiglio, una soluzione, una proposta.

PRESIDENTE. Do ora la parola agli auditi per la replica.

VINCENZO OLIVERI, Presidente della corte d'appello di Palermo. L'onorevole Bernardini ha parlato di una responsabilità dei magistrati per quanto riguarda le lungaggini dei processi, ma non so a cosa voglia riferirsi. Le ricordo solo che specialmente nella materia civile il giudice dipende da quello che i difensori deducono e da quello che chiedono, e spesso ci sono anche dei rinvii concordati.
Accennava inoltre a un problema che riguarda la prescrizione e il suo rilievo era concentrato sul fatto che la prescrizione è un problema generalizzato, per cui cambierebbe poco andando a chiudere determinati processi con la prescrizione processuale.
La prescrizione è stata innanzitutto aggravata dal problema della legge Cirielli e si conclude con una sentenza che presuppone una colpevolezza dell'imputato mentre nella specie la dichiarazione di non doversi procedere perché sono decorsi i termini è un giudizio di non liquet. Nel primo caso quindi il giudice esercita nel modo dovuto la giurisdizione, mentre nell'altro il cittadino rimane senza ragione.
L'onorevole Bernardini ha toccato anche il problema dei magistrati fuori ruolo nei ministeri. Questi collaborano con i vari ministri, ma desidero ricordare che legano l'asino dove vuole il padrone ma non fanno politica. Su questo credo che siamo tutti d'accordo.
Ci è stato chiesto cosa pensino i magistrati di un'amnistia, ma questa è una scelta politica, non una scelta dei magistrati, che applicano quanto il Parlamento dispone perché oggi va fatto con legge ordinaria. Ricordiamo però che l'amnistia non salvaguarda assolutamente dallo sbocco dei vari procedimenti dal ramo penale al ramo civile, perché comunque l'azione civile rimane sempre salvaguardata, quindi i problemi escono dalla porta e rientrano dalla finestra.


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L'altra questione riguardava il noto principio tempus regit actum, problema che ho affrontato nel testo scritto parlando di un'incoerenza del sistema.
La revisione dei processi organizzativi è un dramma, perché nel 2008, in base alla prima legge sul Pacchetto sicurezza che ha modificato l'articolo 132-bis, i capi degli uffici hanno dovuto stilare un documento che stabilisce una determinata priorità nella trattazione dei procedimenti, ma adesso con la proposta di legge sul processo breve tutto viene sovvertito perché tale legge stabilisce i processi da trattare con priorità, per cui s'impone l'esigenza di un nuovo documento organizzativo.
Per quanto riguarda le eventuali soluzioni del problema dell'arretrato ci sarebbero da formulare diversi progetti. Esiste, ad esempio, un progetto di legge duramente contestato dall'Avvocatura, che sostiene che in questo modo si andrebbe a privatizzare la giustizia, perché sarebbe deferita ai magistrati in pensione o comunque a una certa categoria di persone la redazione di un progetto di sentenza, che poi le parti possono o meno recepire.
Abbiamo una magistratura onoraria che non utilizziamo perché i GOT in particolare nei tribunali - il collega di Napoli me ne può dare atto - non stanno facendo nulla, perché la riforma dell'ordinamento giudiziario stabilisce che i GOT possano esercitare giurisdizione in supplenza dei giudici ordinari.
Se si modificasse la legge e si ottenesse una maggiore apertura da parte del Consiglio superiore della magistratura, che con le sue disposizioni ha blindato il sistema, probabilmente con i magistrati onorari, che in Italia sono il triplo dei giudici ordinari, potremmo anche eliminare l'arretrato. Tutto questo però non funzionerebbe in appello dove i magistrati sono pochi e non riescono a eliminare l'arretrato.

ROBERTO SCARPINATO, Procuratore generale presso la corte d'appello di Caltanissetta. È stato chiesto cosa pensino i magistrati di un'eventuale amnistia, per cui esprimo un'opinione personale. Non ci siamo ancora ripresi dagli effetti nefasti dell'indulto del maggio 2006, che ha inferto un gravissimo colpo alla credibilità dello Stato e non ha risolto i problemi per cui era stato emanato ovvero il sovraffollamento delle carceri, perché le carceri sono piene.
Tale indulto non sembrava avere solo questo scopo, considerando che sono stati indultati anche reati di mafia, come il reato di scambio politico-elettorale previsto dall'articolo 416-ter, reato per il quale nelle carceri italiane in quel momento non c'era un solo detenuto, ma c'erano soltanto sei processi pendenti in tutta Italia.
Credo che un'amnistia in questo momento non risolverebbe nessuno dei citati problemi, perché le cause strutturali resterebbero tali e quali. L'amnistia potrebbe avere un senso residuale di razionalità istituzionale, se fosse limitata solo alla massa di reati bagatellari che ancora ingolfano la magistratura, ma allora avrebbe più senso fare una legge di depenalizzazione una volta per tutte piuttosto che amnistiare questi reati, eliminando la causa strutturale, altrimenti i reati bagatellari continueranno a ingolfare le aule di udienza e noi faremo un'altra amnistia tra tre, quattro o cinque anni facendo perdere credibilità allo Stato.
Si è detto - il collega Oliveri ha già risposto egregiamente, ma mi permetto di insistere - che lascia perplessità, perché può ingenerare il sospetto di una commistione tra politica e magistratura, il fatto che alcuni magistrati prestino servizio presso il Ministero di grazia e giustizia.
Credo però che dovremmo avere ben chiara la differenza tra politica e Stato. Come diceva Bismarck, l'uomo di Stato guarda al futuro delle prossime generazioni, l'uomo politico guarda alle prossime scadenze elettorali. I magistrati sono lì come uomini di Stato, per fornire un prezioso contributo tecnico-professionale perché molte cose non si possono apprendere dai libri, ma si conoscono soltanto attraverso un'esperienza maturata sul campo. Sarebbe come sostenere che al Ministero della sanità non dovrebbero fornire


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un contributo tecnico-amministrativo coloro che vengono dalla professione medica.

FRANCESCO ABATE, Presidente della corte d'appello di Trento. Mi rifaccio alle considerazioni dei colleghi che mi hanno preceduto in quanto veramente esaustive e poco avrei da raggiungere.
Si obietta che esista già la prescrizione sostanziale, ma è appunto per questo che ci chiediamo perché aggiungere anche quella processuale, che non agisce sempre sulla stessa linea di svolgimento. È stato infatti autorevolmente evidenziato come alcuni reati imprescrittibili tuttavia cadrebbero sotto la scure della prescrizione processuale. Si tratta quindi non di qualcosa che si aggiunge a qualcosa che già funziona, ma di qualcosa che crea ulteriori ingiustizie, perché sia la prescrizione sostanziale che la prescrizione processuale sono sicuramente ingiustizie e la responsabilità è anche nostra.
Le scelte di priorità che contraddicono evidentemente all'obbligatorietà dell'azione penale sono imposte dal contesto e tuttavia sono trasparenti e nelle realtà più virtuose sono oggetto anche di protocolli discussi con gli avvocati. D'altra parte, il legislatore potrebbe anche assumersi la responsabilità di dare indicazioni aprioristiche, ma non ha ritenuto di farlo.
Per quanto riguarda l'eliminazione dell'arretrato, tutti i giorni ci misuriamo con questi problemi e non tutte le colpe sono nostre ed endogene. Desidero citare anche l'effetto del numero degli avvocati che in Italia è straordinariamente superiore alle medie europee e causa difficoltà e arretrati.
Volendo essere più realistici nell'affrontare gradualmente questo problema, come rilevato dal presidente Oliveri, uno dei primi interventi auspicabili sarebbe una migliore utilizzazione dei magistrati onorari che abbiamo in gran quantità. Le maggioranze che si sono succedute in Parlamento non hanno trovato il tempo di affrontare questo punto per realizzare una legge e andiamo avanti con proroghe da almeno dieci anni. La ritardata giustizia si può quindi imputare anche alle onorevoli Camere dei rappresentanti del popolo.
Abbiamo citato più volte ulteriori interventi che ovviamente non possono dare subito frutto. Abbiamo bisogno di più mezzi, di più uomini, di una migliore ripartizione delle risorse sul territorio, per cui si dovrebbero effettuare studi per stabilire dove il numero dei fascicoli delle sopravvenienze sia sottodimensionato rispetto alle unità che vi operano (magistrati, cancellieri, ufficiali giudiziari) e cominciare a spostarli. Se non si avvierà un'indagine di questo genere, fra dieci anni sarete ancora qui - io sarò in pensione - a discutere di come affrontare il problema dell'arretrato.
Ho già detto che la norma transitoria è sostanzialmente un'amnistia. Se il Parlamento tiene proprio a questo, si prenda la responsabilità di farlo nel rispetto di quanto è previsto per le leggi di amnistia: così sembra una scorciatoia e come tale è percepita dal cittadino, non soltanto dal magistrato. Meglio dunque una sostanziale e larga depenalizzazione.
Consentitemi infine di esprimere una considerazione: siamo venuti con il migliore spirito collaborativo, avremmo gradito che fosse presente il relatore.

MARIO TRAMPUS, Presidente della corte d'appello di Trieste. Vorrei rispondere alla domanda sui rimedi più che altro per l'appello, che è il collo della bottiglia almeno nella nostra realtà, ma anche in quella di molti altri uffici.
Facciamo le udienze anche il pomeriggio attraverso un gentleman agreement con il personale, che ci dà assistenza fino alle 19-20, orario in cui terminano le udienze penali d'appello. Siamo dunque riusciti a far leva sul senso di responsabilità del nostro personale.
Siamo divisi in due sezioni penali, un presidente e tre consiglieri. Mediamente ciascuno produce 200 sentenze all'anno, compresi i presidenti di sezione - ho fatto per cinque anni il Presidente di sezione penale e quindi lo posso rappresentare direttamente - che si fanno le loro 200


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sentenze e in più gestiscono il ruolo, fanno le fissazioni, calcolano le prescrizioni, insomma svolgono tutto il lavoro che va ad aggiungersi alla stesura della sentenza.
Le prescrizioni sono nell'ordine del 5,7 per cento e in gran parte dovute ai ritardi nei trasferimenti di fase tra il primo grado e l'appello. Abbiamo avuto problemi particolari con il tribunale di Gorizia, che ormai è assunto a notorietà negativa nazionale. La situazione era drammatica, ma attraverso una politica di applicazioni si sta risollevando e quindi stiamo eliminando anche quel problema.
In questo contesto noi riusciamo ogni anno ad avere un esubero di circa 30-40 fascicoli tra le definizioni e le sopraevenienze, che pure sono in continuo aumento perché l'attuale situazione fa proliferare i ricorsi.
Credo che un grosso aiuto potrebbe venire, oltre che dalla riorganizzazione e dall'aumento del personale, da una rivisitazione del meccanismo del processo penale. Il doppio grado di giurisdizione di merito è un lusso che non possiamo più permetterci: il processo d'appello va rivisto attraverso una riduzione dei casi in cui sia consentito il doppio grado di giurisdizione.
Questa è una situazione abbastanza diffusa a livello europeo e in Germania alcune fasce di processo non hanno l'appello e vanno direttamente per Cassazione per motivi di legittimità.

CARLO ALEMI, Presidente del tribunale di Napoli. Ho detto che io non faccio politica, onorevole Bernardini, non che nessun magistrato la faccia.

RITA BERNARDINI. Confermo.

CARLO ALEMI, Presidente del tribunale di Napoli. Nessuno dice che tutti i magistrati siano perfetti, che lavorino al massimo, ma le posso dire che la gran parte dei magistrati fa tutto il proprio dovere. Ciò non toglie che vogliamo fare di più.
I magistrati politici non sono quelli che stanno nei ministeri: sono alcuni magistrati che probabilmente dovrebbero avere maggiore riservatezza e che sicuramente hanno contribuito a creare o a fornire il pretesto per tante polemiche.
Sono assolutamente contrario all'amnistia come lo ero all'indulto. Ebbi una discussione con il Ministro Mastella perché gli dissi che per me l'indulto era la dichiarazione di resa dello Stato. L'amnistia è la dichiarazione di resa dello Stato, che dichiara di non essere in grado di svolgere i propri compiti, di fare i processi in tempi rapidi, di assicurare istituti penitenziari sufficienti ad ospitare tutti i detenuti che abbiamo.

RITA BERNARDINI. Cioè tutto quello che avviene oggi.

CARLO ALEMI, Presidente del tribunale di Napoli. Tutto quello che avviene oggi, quindi lo Stato si deve dare da fare e rendersi conto che, come ho scritto nella mia relazione, i comparti della pubblica amministrazione non sono tutti uguali, non hanno uguali esigenze, non possono essere trattati allo stesso modo.
Comparti come la giustizia, la sanità, la sicurezza devono avere un occhio privilegiato e questo non avviene. Abbiamo un fondo unico di amministrazione della giustizia, che viene creato soltanto con quanto consegue dall'amministrazione della giustizia: mettiamolo a disposizione e metteteci in condizione di funzionare. Se poi continueremo a non funzionare, mandateci a casa, però voi Stato dovete metterci in condizione di lavorare. Oggi non abbiamo queste condizioni per le ragioni più volte richiamate.
Come presidente del tribunale ho la competenza delegata dal CSM alla sorveglianza sugli uffici del giudice di pace. Ritengo che sarebbe meglio se i giudici di pace non esistessero perché svolgono il loro lavoro in modo assolutamente discutibile e buona parte delle loro sentenze viene appellata, per cui non si risolve assolutamente nulla. Un fallimento sono stati anche i giudici onorari aggregati, che avrebbero dovuto eliminare l'arretrato.
Per il penale avevo già citato la depenalizzazione e la semplificazione delle


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procedure, e poi vi chiediamo di darci questi sistemi. Se non dimostreremo di saperli meritare, puniteci, ma non potete continuare a non darci risposte.
Per quanto riguarda la riforma della mediazione civile, a Napoli avevo già stipulato una convenzione con la camera di Commercio e invitato il Consiglio dell'Ordine degli avvocati e dei commercialisti ad aderirvi, ma dopo un anno non hanno aderito perché non vogliono la mediazione. A Napoli ci sono infatti 12.000 avvocati che devono continuare a considerare la professione come un ammortizzatore sociale. Ho cercato di far capire loro che questo non è possibile.
La mediazione potrebbe essere un utile deterrente, però dovrebbe essere fatta - qui non sono d'accordo sulla legge approvata - prevedendo l'assistenza dell'avvocato, perché altrimenti la parte gestisce i propri problemi giuridici senza quell'assistenza indispensabile.
Questo è un discorso fondamentale perché altrimenti non elimineremo mai l'arretrato. Anche qualora facessimo l'amnistia dopo tre anni ci ritroveremmo nelle stesse condizioni, se non risolveremo alla base il cattivo funzionamento della giustizia.

VINCENZO OLIVERI, Presidente della corte d'appello di Palermo. Vorrei solo sottolineare come i giudici di pace siano una risorsa indispensabile.

PRESIDENTE. Nel ringraziare gli auditi, dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 14.

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