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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissioni Riunite
(II e X)
2.
Martedì 27 ottobre 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Gibelli Andrea, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA IN RELAZIONE ALL'ESAME DELLE PROPOSTE DI LEGGE C. 3 INIZIATIVA POPOLARE, C. 503 SILIQUINI, C. 1553 VIETTI, C. 1590 VITALI, C. 1934 FRONER, C. 2077 FORMISANO E C. 2239 MANTINI, IN MATERIA DI RIFORMA DELLE PROFESSIONI

Audizione di rappresentanti dell'Organismo unitario dell'avvocatura e del Forum delle professioni intellettuali (Coordinamento dei comitati unitari professioni intellettuali del Nord Italia):

Gibelli Andrea, Presidente ... 3 8 15 17 18
Capano Cinzia (PD) ... 11 18
Contento Manlio (PdL) ... 9
De Tilla Maurizio, Presidente dell'Organismo unitario dell'avvocatura (OUA) ... 3 9 12
Follegot Fulvio (LNP) ... 12
Monai Carlo (IdV) ... 14
Monzani Davide, Segretario del Coordinamento dei Comitati unitari professioni intellettuali (CUP) del Nord Italia ... 17
Rossi Enrico, Vice coordinatore del Coordinamento dei Comitati unitari professioni intellettuali (CUP) del Nord Italia ... 15 18
Siliquini Maria Grazia (PdL) ... 14
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP.

COMMISSIONI RIUNITE
II (GIUSTIZIA) E X (ATTIVITÀ PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO)

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 27 ottobre 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA X COMMISSIONE ANDREA GIBELLI

La seduta comincia alle 12,20.

(Le Commissioni approvano il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti dell'Organismo unitario dell'avvocatura e del Forum delle professioni intellettuali (Coordinamento dei comitati unitari professioni intellettuali del Nord Italia).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva in relazione all'esame delle proposte di legge C. 3 Iniziativa popolare, C. 503 Siliquini, C. 1553 Vietti, C. 1590 Vitali, C. 1934 Froner, C. 2077 Formisano e C. 2239 Mantini, in materia di riforma delle professioni, l'audizione di rappresentanti dell'Organismo unitario dell'avvocatura e del Forum delle professioni intellettuali (Coordinamento dei Comitati unitari professioni intellettuali del Nord Italia).
Ringrazio il presidente della commissione giustizia Giulia Bongiorno per la sua presenza. Saluto e ringrazio anche i nostri auditi, rappresentanti del Coordinamento dei Comitati unitari professioni intellettuali (CUP) del Nord Italia. Sono presenti l'avvocato Maurizio De Tilla, presidente, l'avvocato Giovanni Lepore, segretario generale, l'avvocato Davide Monzani, tesoriere, e l'avvocato Accursio Gallo, componente della giunta.
Do ora la parola ai nostri relatori, cui come è nostra abitudine è lasciata ampia libertà nell'organizzazione degli interventi, ringraziandoli nuovamente per aver accettato il nostro invito.

MAURIZIO DE TILLA, Presidente dell'Organismo unitario dell'avvocatura (OUA). Anzitutto, devo complimentarmi per il metodo che si sta seguendo, riunendo, cioè, le due Commissioni giustizia ed attività produttive. Ho letto i resoconti delle audizioni precedenti e sono, pertanto, abbastanza informato sul loro andamento e sulle numerose domande poste dai parlamentari.
Vorrei fare una piccola premessa: noi stavamo arrivando all'approvazione del riordino delle professioni non nella precedente legislatura, ma in quella ancora precedente. Nonostante vi fossero dei testi fortemente condivisi, non si riuscì a raggiungere l'obiettivo. Quei testi condivisi sono in parte riprodotti nelle proposte di legge attualmente all'esame.
Vorrei, ora, introdurre un argomento che non è stato ancora discusso. Nella scorsa legislatura è stata emanata la famosa legge Bersani, che, secondo l'opinione dell'organismo congressuale degli avvocati, ossia dell'organismo unitario, ha arrecato molto danno alle professioni e all'avvocatura.
Io partirei, quindi, proprio da questa legge, in quanto non si può intraprendere una riforma e un riordino delle professioni senza rivedere completamente la legge del 4 agosto 2006, n. 248, recante


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«Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recante disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale». Il 12 ottobre seguente, ai Fori Imperiali, si svolse anche una grande manifestazione di 50 mila professionisti contro tale legge. Si trattava di 50 mila professionisti che ne rappresentavano circa 2 milioni: erano, infatti, presenti tutte le professioni.
Quella legge si è rivelata molto dannosa e pregiudizievole. Riguardo al consumatore, va detto che egli, in quanto cliente del professionista, vuole una prestazione valida, efficiente, equilibrata e che abbia successo, sia per quanto riguarda l'avvocatura, sia per quanto riguarda tutte le altre professioni. Il consumatore non desidera non pagare il professionista, o pagare così male da non avere una prestazione di qualità. Ebbene, quella legge è stata sfruttata dalle grandi compagnie di assicurazione, dalle grandi banche o dagli enti committenti per costringere giovani avvocati o giovani ingegneri e tecnici ad accettare diminuzioni anche del 50-60 per cento rispetto alle tariffe minime. Addirittura, alcune istituzioni pubbliche usufruiscono di una riduzione del 90 per cento per le prestazioni degli ingegneri. Questa è una cosa indegna di un Paese che vuole valorizzare il ruolo del professionista. È grave che questa norma rimanga in vigore. A mio avviso, il riordino delle professioni deve partire da questo problema, ma non ne sento discutere molto. In seguito tratterò specificatamente dell'avvocatura; per questo settore, infatti, si registra un segnale diverso, ma del tutto in linea su questo particolare aspetto.
So che molte parti politiche e molti parlamentari del centrosinistra non condividevano allora e non condividono neanche oggi questa riforma che penalizza i giovani. Non è, infatti, degna di un Paese che riconosce e tutela il lavoro.
Per gli avvocati, naturalmente, il patto di quota lite abbassa il livello etico. In Olanda, il ministro della giustizia ha respinto l'eliminazione del divieto del patto che avevano proposto agli avvocati; egli sostiene, infatti, che non sia etico per un avvocato o per un professionista partecipare in percentuale all'oggetto della controversia. Negli Stati Uniti scoppiano scandali a causa del patto di quota lite: i giudici emettono addirittura delle decisioni liquidando somme maggiori, in quanto gli avvocati ne prendono la maggior parte. Infine, molti scandali finanziari inglesi dipendono da tale patto. Io sono stato presidente degli Ordini degli avvocati d'Europa e ricordo che tenemmo un convegno nel quale gli stessi inglesi affermarono che anche secondo loro il patto di quota lite era scandaloso e abbiamo anche prodotto una pubblicazione riguardo a questo tema.
Si tratta, dunque, di una norma che deve essere modificata, almeno per le categorie che ne sono maggiormente danneggiate; io partirei, quindi, proprio da questo punto. Non possiamo, infatti, non affrontare questo problema e lasciare la norma inalterata adducendo la motivazione che le professioni si sono indebolite e che l'Antitrust interviene a sproposito. La nostra categoria è composta di 230 mila unità, e non parlo di semplici operatori, ma di persone che partecipano ai processi e che si presentano davanti ai giudici. Si tratta di una situazione veramente inaccettabile e per questo motivo ho inserito tale problematica tra gli argomenti da trattare.
Gli avvocati, la cui professione è regolata da una legge che risale al 1933, hanno bisogno di una riforma; tale riforma è attualmente in discussione al Senato e sta raccogliendo grande consenso. Probabilmente, entro la fine dell'anno, il Senato la varerà. Si tratta di una riforma attraverso la quale ci sforziamo di rendere rigoroso l'accesso alla professione e di trovare una formula che, attraverso l'effettività dell'esercizio, consenta di non avere più 230 mila avvocati.
Il rischio, tuttavia, è ancora maggiore e a questo riguardo sarebbe necessario che le Commissioni riunite dessero un messaggio. Abbiamo delle facoltà universitarie


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che, nonostante offrano forti possibilità di impiego, non hanno iscritti o ne hanno pochi, e altre che, invece, hanno adottato il numero chiuso, in quanto la società non è in grado di assorbire tanti professionisti. Ebbene, nei sette punti dell'articolato presentato, abbiamo chiesto che ci si muova in tal senso anche per la facoltà di giurisprudenza e per quelle facoltà che ancora non hanno il numero chiuso. Ma voglio dire ancora di più: chiediamo che ci si muova verso il numero programmato degli studenti che passano dall'università alla professione, come accade in Francia. In Francia, infatti, dopo la laurea è previsto un anno di formazione che prepara i neolaureati ad entrare nella scuola forense dell'avvocatura francese; vi entrano dai 2 mila ai 4 mila studenti all'anno. La Francia ha un numero di abitanti molto simile al nostro, ma conta 40 mila iscritti e ha ottenuto la selezione partendo proprio dall'università.
Nei giorni scorsi - quando noi avevamo già pubblicato un comunicato stampa - ho sentito alcune dichiarazioni di parlamentari, pubblicate anche sui giornali, nelle quali si affermava la necessità di lavorare per combattere il sovraffollamento delle professioni in Italia. Non possiamo, pertanto, varare una riforma conservando lo stesso contingente. Bisogna, al contrario studiare una riforma che elevi non solo la preparazione - e quindi migliori tutta la parte inerente alla formazione -, ma anche il livello etico della professione. Non è ammissibile, infatti, che vi sia il 50 per cento di disoccupati intellettuali - questa è la cifra per la nostra professione - e un precariato causato dall'università che consente il loro ingresso in quella professione. Abbiamo, infatti, un precariato professionale che, come qualcuno ha detto, è sottratto alla disoccupazione generale, in quanto si ritiene che chi è iscritto all'albo degli avvocati sia una persona che lavora, mentre può essere un disoccupato.
Pensate che fra le richieste avanzate per diventare giudici onorari e giudici di pace, 40 mila provengono da avvocati. Poiché la legge sarà modificata introducendo l'incompatibilità assoluta di queste attività con quella di avvocato, ciò significa che questi 40 mila - che attualmente lavorano a cottimo, sono precari, non usufruiscono della previdenza sociale, eccetera -, tanto per trovare un lavoro, preferiscono fare domanda per diventare giudice, rovinando in tal modo la giustizia, in quanto non tutti sono preparati per svolgere questa mansione. Così roviniamo anche un altro settore.
L'università è importante e fondamentale. L'Italia deve affrontare la riforma delle professioni: il vero ammodernamento è creare dei professionisti, contenuti nel numero, garantendo la competitività tra di loro. La competitività è data dai clienti che scelgono l'uno o l'altro a seconda dei meriti, non a seconda dei prezzi: i professionisti non vendono prodotti ma offrono delle prestazioni intellettuali. A tal proposito, mi è capitato di leggere spesso che la nostra è un'attività intellettuale. Quanto all'Europa, sia la direttiva Zappalà - che abbiamo promosso dall'Italia -, sia la direttiva Bolkestein prevedono una normativa di cui si parla poco. Il pericolo è che se ne parli così poco che quando la Bolkestein sarà recepita, noi non ne avremo colto il segnale, e il segnale è il seguente: premesso che i notai sono esclusi, si dice che le regole delle liberalizzazioni possono essere derogate dai codici deontologici e dagli ordinamenti nazionali in relazione alle attività svolte e alla peculiarità nazionale. L'Europa, quindi, non prevede una legislazione professionale invasiva. Come sapete in Europa vige il principio della sussidiarietà. In alcune materie l'Europa interviene massicciamente; in altre - come il lavoro, la previdenza, le professioni e così via - non interviene e rispetta le identità nazionali. Non c'è un'Europa che agisce come uno Stato, essa agisce in maniera diversa. Se si legge la direttiva Bolkestein, ci rendiamo conto che non c'è motivo di avere paura dell'Europa, in quanto essa già consente alle professioni italiane di avere un ordinamento più rigoroso. A maggior ragione, pertanto, è sbagliato sostenere che la legge Bersani del 2006 fosse stata approvata in


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attuazione di una direttiva europea. Si tratta di un falso, e scusate se mi esprimo in questi termini.
Tre mesi prima, nel corso di una riunione cui avevo partecipato, era stato esibito un documento che illustrava il voto dell'intero Parlamento europeo con il quale si affermava che le professioni legali sono fuori dalle regole della concorrenza. Tali professioni, infatti, hanno dei connotati propri per cui non rientrano pienamente nelle regole della concorrenza, come vi rientrano, invece, le imprese.
Non è vero, dunque, che l'Europa dia un messaggio univoco per i professionisti di tutto il mondo. Abbiamo, piuttosto, un sistema duale: quello inglese e quello di altri Paesi, come la Francia, la Germania e l'Italia. Germania e Francia, ad esempio, proteggono molto l'identità delle loro professioni.
Non confondiamoci, dunque, le idee su questo punto
Anche se solleverò un po' di polemica dicendo questo, vorrei aggiungere ancora un'osservazione che, mi pare, possa interessare alcuni di voi e la senatrice Maria Grazia Siliquini per prima. Il cosiddetto decreto Bonino-Mastella è sbagliato. La direttiva Zappalà, che detta le nuove regole sulle qualifiche professionali, infatti, non stabiliva che si potessero istituire attraverso un decreto ministeriale - sebbene con legge si possa fare tutto - le professioni non regolamentate. Poiché in Europa alcuni Paesi sono organizzati senza gli ordini, e poiché le regole vigono per gli ordini e per le professioni regolamentate, la direttiva - prevedendo uno specifico elenco - affermava che i professionisti dei Paesi anglosassoni, che hanno le società e non gli ordini professionali, sono equiparati ai professionisti delle professioni regolamentate. Non sosteneva, dunque, che in Europa dovesse esistere un sistema duale. Io sono stato in Europa tante volte, ho preso parte a convegni e ad altre iniziative del genere, ma non ho mai sentito dall'Europa dire che il sistema europeo fosse un sistema duale. Il sistema duale esiste in Europa, ma esso distingue il mondo anglosassone, che è fondato sulla common law, dal mondo latino, che è fondato sulla civil law: abbiamo addirittura una forma di diritto completamente diversa.
Pertanto, quando vi troverete ad affrontare l'argomento del sistema duale, vi prego di tener conto del fatto che non esiste una specifica indicazione europea al riguardo vincolante; esiste, bensì, la parità di trattamento. È come se si fosse scelto il sistema anglosassone, lasciando fuori il sistema latino: si doveva, invece, proteggere il sistema latino e renderlo uguale in Europa. Un avvocato del sistema anglosassone che viene in Italia, infatti, deve essere protetto. Nessuna norma o direttiva europea, dunque, fino a oggi, afferma che il sistema anglosassone sia esportabile in altri Paesi.
Di questo problema ho parlato anche con il Ministro Ronchi e, vi dico la verità, ci sono anche dei processi in corso. È vero che in Italia ci sono professioni non regolamentate che devono essere riconosciute, ma il riconoscimento deve avvenire per le nuove professioni, non per quelle che si sovrappongono alle esistenti. Dalla professione di avvocato, che consente anche l'attività di consulenza, non posso estrapolare un albo dei consulenti giuridici, uno dei consulenti in materia di diritto di famiglia, e via elencando. Non posso farlo in quanto esiste già la professione di avvocato, ed è quella professione che bisogna potenziare e rendere più specialistica.
La riforma attualmente in esame al Senato potrebbe rappresentare anche un progetto pilota. Ricordo che negli anni Ottanta noi avvocati varammo una legge previdenziale che cambiava completamente il sistema e lo rapportava ai redditi. Ebbene, da quel momento ha avuto inizio un aumento dei redditi dei professionisti che si è adeguato alla media nazionale. Negli anni Ottanta e Novanta i redditi dei professionisti sono aumentati del 5 per cento del PIL, e non perché essi guadagnassero di più, bensì perché la legge di riforma della previdenza è servita a fare comprendere che, se si voleva raggiungere una discreta pensione, era necessario denunziare


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le somme guadagnate, in base ad una legge accolta non favorevolmente dai professionisti. Ebbene, tale riforma è stata successivamente applicata a tutte le professioni, ben sette: ingegneri, architetti, commercialisti ed altri. È stata applicata così come era e si trattava di una legge pilota.
Credo che la riforma dell'avvocatura possa essere in sintonia con questa legge anche se non in dipendenza da essa, altrimenti gli avvocati in Italia sarebbero finiti. Sarebbe come gettarli dentro i supermercati, in quanto non servirebbero più a niente e non li porteremmo più ai processi.
Io terrò una conferenza nazionale in cui affermeremo la necessità di riconoscere all'avvocatura il ruolo di soggetto costituzionale: l'avvocato nel processo deve garantire i diritti da una posizione di parità all'interno del sistema giurisdizionale, non da una posizione marginale. Questo è un problema che affronteremo il 20 e il 21 novembre prossimi e spero di vedervi tutti in quell'occasione; già molti di voi hanno dato la propria adesione.
C'è, poi, un ulteriore punto che vorrei trattare. Anzitutto, rendo noto che siamo favorevoli ad un tavolo di incaricati del CUP; tuttavia, come organismo politico dell'avvocatura, vorremmo concorrere anche noi all'indicazione di alcune norme. Sono consapevole di essere prolisso - i presidenti hanno già a lungo ascoltato le mie argomentazioni -, dunque non intendo dilungarmi oltre. Un fatto, tuttavia, è certo. È necessario che questa legge sul riordino delle professioni, che bisogna ultimare al più presto, pena la caduta nel ridicolo, non sia invasiva e che i princìpi fondamentali vengano modulati sull'identità della professione italiana. Riassumendo, occorre pertanto l'abrogazione totale della legge Bersani, che addirittura modifica i codici deontologici, anche se ciò in realtà non è avvenuto. Tutti i costituzionalisti, infatti, affermano che una legge dello Stato non può modificare un ordinamento deontologico, in quanto esso è parte integrante della sfera dei comportamenti propri di una professione che si sono determinati nel tempo, a volte anche in più di un secolo. Ciò è stato ribadito dalla Cassazione e dalla Corte costituzionale. La legge non può dettare le regole di deontologia relative ad una determinata professione. La legge deve, semmai, limitarsi a prevedere un meccanismo che fissa il codice deontologico e non sancire, come fa la legge del 2006, che tutte le norme in contrasto con essa siano nulle. La legge Bersani del 2006 ha, infatti, addirittura dichiarato nulle le norme del codice deontologico. Nel mondo non esiste nulla del genere. Ad esempio, in Francia esiste una legge che regolamenta gli ordini professionali, ma lascia che i medesimi stabiliscano da sé le proprie regole deontologiche, che chiaramente devono essere in linea con i principi etici.
È, inoltre, sbagliato ritenere che il decoro - come afferma l'Antitrust - non faccia parte dei requisiti delle professioni anche nei rapporti economici coi propri iscritti. Questa è certamente una novità. Il decoro deve riguardare tutti i cittadini, deve riguardare il mondo del lavoro, ma ancor di più le professioni. Il decoro non lo possiamo frazionare, deve riguardare tutti e rientra nel rapporto che si deve avere col cliente. Esso è fondamentale. Se togliamo dignità e decoro dal nostro ordinamento giuridico, spaziamo completamente via i valori della società. L'Europa parla, infatti, di norme più stringenti proprio in relazione al decoro dell'attività e l'Antitrust non può fingere che l'Europa non lo chieda, affermando che il decoro non riguarda il rapporto coi clienti relativo alle tariffe; le tariffe, al contrario, sono fondamentali. Un avvocato che fissa ad un livello esagerato la propria parcella, viola il decoro, così come lo viola un avvocato che fa concorrenza sleale. In Italia sono arrivate alcune società multinazionali che, attraverso gli appalti dei servizi legali, lavorano quasi a costo zero, e lo fanno per poter monopolizzare questa clientela. È chiaro che il costo è zero per il primo periodo, ma non lo sarà in seguito.
In un sistema che, dal punto di vista delle tariffe, aveva delle regole che si


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facevano rispettare, si è arrivati ora a concepire l'idea di fare entrare gruppi stranieri molto potenti, e con grande capitale alle spalle, per togliere di mezzo i professionisti. Ciò vale per gli ingegneri, per i commercialisti, ma specialmente per gli avvocati. Quando un'istituzione o una società vede un grande gruppo economico entrare nel mercato a costo zero - o al costo di un euro, che è la stessa cosa - a chi pensate che affidino i lavori? Li affidano alla grande multinazionale americana.
Noi siamo un Paese già molto asservito finanziariamente alle grandi multinazionali e alle banche multinazionali di tutto il mondo; adesso, per via del sistema del costo zero, vogliamo asservire anche la professione alle grandi multinazionali. Questo è il motivo per cui le tariffe sono importanti: esse rappresentano anche un segnale di tutela di una categoria, per evitare l'accaparramento che si sta verificando. Gli studi legali vengono chiusi e i giovani sono in una situazione di crisi disperata; sarebbe bene che il Governo prevedesse anche misure anticrisi per le professioni. Le ha adottate, infatti, per le imprese e per le famiglie, ma non per le professioni.
In questa situazione, dunque, avanzerei sommessamente alcune richieste. Molti di voi mi frequentano e conoscono grosso modo la mia esperienza. Innanzitutto, direi che il primo segnale che le Commissioni dovrebbero dare riguarda il ripristino di alcune regole, come i minimi di tariffa, il divieto di patto di quota lite e una pubblicità contenuta, non come quella presente negli Stati Uniti e in Inghilterra. Infine, è necessario ribadire che il codice deontologico è un ordinamento a parte che ha dei propri princìpi e che deve essere tutelato.
Credo che un tale segnale dovrebbe venire da parte di tutte le forze politiche, in quanto questa riforma è bipartisan. Se chi ha promosso questa legge, invece di approvarla di notte, con decreto-legge e con due voti di fiducia, avesse dialogato con le professioni - come fece a suo tempo il ministro del lavoro Cesare Damiano, che dialogò con noi e riuscì a varare provvedimenti ottimi, raggiungendo risultati eccezionali con le casse previdenziali -, avremmo potuto spiegare anche ai consulenti che li assistevano, molti dei quali erano magistrati, cosa significava per noi tenere in piedi quell'impianto.
Certo, alcuni punti della disciplina devono essere modificati; tuttavia, faccio molto affidamento sul fatto che il testo definitivo - i relatori ora sono due - possa contenere, come princìpi di base, quello delle tariffe minime, il divieto di patto di quota lite, la garanzia che i codici deontologici abbiano la loro autonomia e che le professioni in questo Paese debbano essere valorizzate, in quanto hanno una propria identità nazionale. Questi sono i principi fondamentali dai quali discendono, come corollario, tutti gli altri punti di cui ho potuto seguire la discussione.

PRESIDENTE. Grazie. In realtà non è stato prolisso; al contrario, ha toccato molte questioni che erano già state oggetto di alcune riflessioni da parte del CUP la scorsa settimana, quando si è dato avvio alle nostre audizioni.
Prima di lasciare la parola ai colleghi che intendono intervenire, vorrei porle una domanda. La volta scorsa abbiamo avuto con il CUP un'audizione particolarmente articolata e, dal mio punto di vista, assolutamente utile; mi piacerebbe, quindi, per dare ordine ai nostri lavori, conoscere la sua opinione rispetto ad una questione specifica che ha animato quell'audizione. È stata avanzata la richiesta di definire una sorta di legge-quadro che disciplini le professioni intellettuali, dando alcune indicazioni di principio, per poi rinviare alle leggi settoriali la regolamentazione puntuale di molte altre questioni che, tra l'altro, lei ha in parte affrontato. In quell'occasione, è stato affrontato anche il tema del cosiddetto «doppio binario» e delle problematiche che sta creando, che non elencherò nuovamente in questa sede.
Vorrei che voi ci aiutaste a comprendere un particolare aspetto della questione. Lo strumento della legge-quadro - come sapete - non è applicabile in questa


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sede: se si stabilisce una legge di princìpi e poi si prosegue con le leggi di settore, non si riuscirà mai a stabilire un sistema normativo coordinato, in quanto non c'è un rapporto di dipendenza tra questi due strumenti normativi. Essi, infatti, sono dal punto di vista della gerarchia delle fonti pari ordinati e non c'è un rapporto di subalternità, se mi si consente questo termine. Dunque, la domanda che anche in quell'occasione avevo posto, verteva proprio su questo argomento: poiché la proposta di una legge-quadro, all'interno della quale stabilire una serie di orientamenti, è stata assolutamente rifiutata, vorrei capire, sulla base delle considerazioni che ho svolto come sia possibile fissare, all'interno di una legge ordinaria i princìpi generali della riforma che risultino vincolanti rispetto alle successive norme di carattere settoriale, tenendo conto che oltretutto la riforma del vostro ordine è già oggetto di una discussione al Senato.

MAURIZIO DE TILLA, Presidente dell'Organismo unitario dell'avvocatura (OUA). Le rispondo subito. Questo è un grande tema che abbiamo sempre affrontato.
Le professioni, che sono un intero universo, sono orientate verso lo strumento della legge-quadro in quanto una legge delega potrebbe non prevedere certi spazi che esistono all'interno delle singole professioni, come, ad esempio, in quella forense. Inoltre, potrebbe successivamente sorgere il problema di capire se la delega prevedeva o meno quello che si vuole realizzare nel decreto legislativo di attuazione.
Noi abbiamo sempre affrontato questo argomento e devo dire che siamo favorevoli al ripristino dei princìpi fondamentali, che - lo ripeto, sebbene possa essere spiacevole - sono stati modificati nell'ultima legislatura. Abbiamo, pertanto, bisogno di ripristinare i princìpi fondamentali con una legge-quadro che riaffermi il concetto di professionista in questo Paese e modifichi, così, implicitamente ciò che non va bene nella legislazione in vigore. Del resto, non esiste una legge che non modifica niente. Questa legge dovrebbe modificare tutto quello che è stato fatto nel 2006 contro le professioni.
La legge delega può, per alcune professioni, costituire lo strumento adeguato; tuttavia, le leggi delega hanno in genere una portata piuttosto ristretta e mettere tutto il mondo delle professioni in una legge delega mi pare poco fattibile.
Io mi occupo della rappresentanza delle professioni da trent'anni, sono diventato un vecchio e potrei anche non essere più ascoltato. Ricordo che abbiamo sempre valutato l'opportunità della legge-quadro e, sia pure nei contrasti, siamo arrivati sempre alla stessa conclusione. Certo, la legge-quadro comporta più tempo, in quanto ogni professione deve avere una propria legge di settore. Peraltro, alcune professioni sono già state riformate. Nei dieci anni trascorsi, le professioni tecniche, così come i notai, hanno già avuto una riforma settoriale. Pertanto ribadisco che , a mio avviso, con una legge delega non si può fare un buon lavoro sui princìpi generali. Riconosco che vi sono anche argomenti contrari a questa tesi; tuttavia, questa è l'opinione che abbiamo maturato nel corso delle battaglie che abbiamo condotto per le professioni.

MANLIO CONTENTO. Presidente, vorrei soffermarmi proprio su questo ultimo punto. L'esperienza che abbiamo maturato nelle ultime legislature sembra, infatti, andare in senso contrario. Proprio le caratteristiche professionali che attengono a ogni singolo mondo settoriale rischiano di trovare in una legge di princìpi alcune controindicazioni.
Faccio un esempio attingendo alle parole del collega De Tilla. È evidente che la questione della forma societaria interessi in misura diversa l'avvocatura, rispetto alle professioni tecniche; è altresì evidente che, data la necessità di sostenere la concorrenza pur nella mancanza di quegli strumenti che invece altri Paesi hanno e utilizzano - come lei ha ben ricordato -, si rischia di proporre delle asimmetrie anche sotto questo profilo nel nostro Paese.


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Io credo che in un simile frangente - e questo è l'oggetto dell'ulteriore riflessione che vi chiedo di compiere - non sarebbe del tutto sbagliato pensare di rimettere la professione al centro del dibattito e dell'ordinamento, immaginando, ad esempio, un codice delle professioni. Esso potrebbe contenere nella prima parte i princìpi che, tutto sommato, ritengo possano essere facilmente enucleati. Molti di essi sono stati già citati. Tale soluzione potrebbe consentire anche di avere delle disposizioni generali che affermano i princìpi ormai già sanciti. Nel mondo delle professioni, infatti, esistono gli ordinamenti democratici; nonostante le leggi siano antiche, simili princìpi li hanno tutti. All'interno di questo codice, poi, potrebbero trovarsi anche disposizioni relative all'organizzazione, che sono anch'esse disposizioni di carattere generale. Credo, tuttavia, che questa parte generale debba lasciare la possibilità ai singoli ordinamenti di prevedere delle deroghe, laddove, naturalmente, esse siano consentite. Ad esempio, il criterio generale secondo cui sono ammesse le società tra professionisti, purché i professionisti siano tali e iscritti all'albo, è una norma generale. Tale norma, però, non vieta di rinviare anche a disposizioni speciali, laddove ci siano delle esigenze in forza delle quali le professioni tecniche necessitino anche di apporti di capitale. Nella disciplina specifica, quindi, si potrebbe consentire anche di arrivare a questo.
Una simile soluzione, a mio avviso, consentirebbe anche di dare un ordine ai nostri lavori. Il codice delle professioni, infatti, potrebbe sottolineare l'aspetto politico che si vuol dare al mondo professionale e che tutti hanno evidenziato nel corso dei tanti anni in cui abbiamo affrontato tali questioni: l'apporto al prodotto interno lordo, il numero crescente di professionisti che, nonostante il problema della concorrenza, continuano ad essere iscritti e lo stesso aggiornamento di queste disposizioni.
Presidente, non mi dilungherò ancora molto; ritengo, però, che questo sia un tema centrale, come lei stesso ha ben ricordato. Pensiamo, ad esempio, a quel che è accaduto nel mondo dei commercialisti e come ciò sia ancora fonte di accesi confronti, soprattutto per quel che riguarda le disposizioni previdenziali che il presidente De Tilla ha ricordato poc'anzi. In quel mondo, paradossalmente, l'idea di ammodernare e di arrivare ad un albo unico è un'idea «rivoluzionaria» e il punto del sistema che è stato trovato «impreparato», per quanto concerne le conseguenze, è proprio il sistema previdenziale. L'accorpamento, infatti, comporta delle gestioni che cambiano a seconda se si era scritti ad una cassa piuttosto che ad un'altra, e costituisce un elemento difficile. Non si sono, tuttavia, trovate difficoltà nel mettere in comune le disposizioni per riordinare la professione.
Se immaginassimo, quindi, una delega - che deve essere scritta molto bene per dare l'avvio al codice delle professioni - che operi su questo doppio binario, io credo che potremmo rimettere al centro del confronto e del dibattito politico il mondo professionale; potremmo trovare un modo, anche nell'esercizio della delega, di realizzare ciò che ci prefiggiamo. Tale legge delega, però, dovrebbe essere studiata a fondo, ascoltando i vari ordinamenti settoriali, come si sta facendo in questa Commissione e magari anche servendosi del lavoro che questa Commissione ha messo a disposizione. Ci sono, infatti, delle professioni tecniche che devono porre rimedio ad alcune situazioni. Ce ne sono altre che si avviano verso un tentativo di unità: penso a quella degli ingegneri, degli architetti, dei geometri. Dal momento che gli ordinamenti universitari sono cambiati, alcune disposizioni sono ormai vecchie per alcuni aspetti. In ogni caso, sia che vogliano mirare ad una riunificazione in prospettiva, sia che, al contrario, intendano rideterminare delle distinzioni, devono comunque passare attraverso un aggiornamento delle rispettive disposizioni professionali.
In un codice siffatto potrebbe ben trovare spazio anche quel mondo di associazionismo a cui stiamo facendo riferimento da parecchi anni: non vi sarebbe alcuna


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difficoltà, infatti, a introdurre nel codice medesimo una disciplina specifica, man mano che tali professioni si affacciano al mondo produttivo e lavorativo e una volta che esse abbiano assunto quel minimo di dignità necessaria per dar vita ad una determinata categoria professionale.
Vorrei, pertanto, rilanciare la domanda da lei formulata, presidente. Conoscevo già il punto di vista che è stato fin qui espresso, tuttavia, l'esito di questo confronto è problematico, in quanto la questione è effettivamente problematica. Io non chiuderei, quindi - e mi rivolgo proprio al mondo delle professioni - con una parola definitiva questo argomento. A mio avviso, abbiamo la possibilità di approfondirlo e non sono affatto convinto che questa sia una strada sbagliata. Al contrario, più ci penso e più sono convinto che possa essere una strada da perseguire.

CINZIA CAPANO. Nutro un grande interesse per l'ipotesi testé formulata dall'onorevole Contento. Essa ci fornisce un aiuto rispetto all'impasse che abbiamo registrato anche nella scorsa audizione rispetto al quesito che il presidente giustamente aveva posto allora ed ha riproposto oggi.
Siamo andati avanti a lavorare su un testo sulla riforma delle libere professioni che dà per scontato un approccio che, in realtà, nelle more, è sostanzialmente venuto meno.
Ci troviamo, pertanto, davanti ad una serie di organizzazioni di professionisti che tendono a mantenere una disciplina autonoma per via delle specificità di ogni settore e che, tuttavia, quasi unanimemente, pongono l'esigenza di avere un unicum che le disciplini tutte. Come giustamente rilevava il presidente già nella scorsa audizione, abbiamo un problema di rango delle fonti; se, infatti, ci orientiamo verso una legge-quadro che disciplini tutte le professioni, per poi prevedere singole leggi di settore, non ci sarà nessun rapporto di gerarchia tra tali fonti normative che impedisca alla singola legge di settore di modificare i princìpi della legge-quadro. Abbiamo, quindi, un ostacolo tecnico che non possiamo superare se non adottando la proposta avanzata dall'onorevole Contento, vale a dire predisporre un codice delle professioni che preveda, al suo interno - se ho capito bene - una parte generale e delle parti speciali che si rivolgono ai singoli settori. Tale codice dovrebbe essere costruito attraverso lo strumento della legge delega.
Io credo che questa sia una proposta interessante. Tuttavia, in tal caso, dovremmo naturalmente fermare i lavori che intanto procedono altrove: questo processo, infatti, non ha senso se contestualmente, al Senato, va avanti una riforma forense che è già giunta alle ultime battute. Se non fermiamo la riforma in discussione al Senato, essa finirebbe, di fatto, per disciplinare solo una professione, mentre le altre verrebbero disciplinate in modo diverso. Io sono un avvocato, e ciò potrebbe anche farmi piacere; ritengo, tuttavia, che gli altri singoli professionisti potrebbero sentirsi in qualche modo usurpati da questo modo di procedere e potrebbe, quindi, venire a mancare quel consenso di cui abbiamo bisogno per rimettere al centro la questione dell'attività libero-professionale con la forza che evocava poc'anzi l'avvocato De Tilla.
Riguardo alla riforma forense, vorrei chiedere un chiarimento al collega Maurizio De Tilla. La riforma, infatti, ha ormai un iter abbastanza accelerato al Senato. Io condivido molti punti della riforma; tuttavia, su alcuni altri nutro dei dubbi e, benché essi siano numericamente inferiori, dal punto di vista qualitativo sono forti. Occorre aspettare di vedere che tipo di percorso seguirà alla Camera.
Maurizio De Tilla menzionava, poc'anzi, l'esigenza di pensare l'avvocatura come soggetto costituzionale e di avere una parità tra difesa e accusa. Ho letto sui giornali che anche il presidente della Commissione giustizia del Senato, il senatore Berselli, ha posto ciò come elemento centrale della riforma forense. Vorrei, quindi, sottolineare che nella riforma forense in discussione al Senato questo elemento non c'è. Come si è detto, la riforma forense è alle ultime battute al Senato ma, personalmente,


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non mi risulta che questo elemento sia presente né nel testo unificato, né negli emendamenti presentati. Stiamo, quindi, parlando di due cose diverse.
Vorrei, pertanto, cercare di capire. Abbiamo un'ipotesi, che mi sento di condividere, relativa alla legge delega per la costruzione di un codice delle professioni; abbiamo una riforma forense in itinere e abbiamo, inoltre, un tema di cui si parla come fosse parte della riforma forense, ma che, in realtà, non è trattato nella detta riforma. Credo che sia necessario mettere un poco di ordine in queste tre diverse sedi in cui si discute della riforma.

FULVIO FOLLEGOT. L'avvocato De Tilla ha posto alcune questioni importanti, e chi è intervenuto finora ha sollevato la questione di quale tipo di legge sia più opportuna, se la legge delega o una legge quadro.
Io vorrei, tuttavia, porre una domanda diversa. L'avvocato De Tilla, infatti, non ha parlato di praticantato, né di responsabilità dei professionisti. Credo che anche questi siano temi importanti, soprattutto in vista della difesa degli interessi degli utenti.

MAURIZIO DE TILLA, Presidente dell'Organismo unitario dell'avvocatura (OUA). Il collega Contento ha sollevato un grande argomento e credo che la questione possa essere risolta. Pensiamo, infatti, che per gli avvocati ci sia già una direttiva europea sulle società professionali; questo aspetto risulta pertanto già regolamentato. Non voglio essere frainteso ma, a mio avviso, anche se si sceglie di procedere con una legge quadro, essa deve contenere delle norme di salvaguardia. Per far ciò non si deve necessariamente ricorrere a una legge delega. Esistono le norme di salvaguardia, che sono importantissime. Abbiamo, infatti, professioni già consolidate, che questa riforma vuole rilanciare ancor di più, e abbiamo anche altre professioni che hanno già dei propri ordinamenti, molto precisi e radicati. Sarebbe, dunque, strano che si stabilisse un principio che abolisce una professione che ha le proprie norme esclusive.
Inoltre, va detto che la delega può essere specifica. Con ciò rispondo al problema ora sollevato; in seguito risponderò anche alla collega Capano.
La riforma del processo civile è basata su tre deleghe legislative in attuazione delle quali si stanno scrivendo i decreti; non è, quindi, escluso che una soluzione possa risiedere in una legge-quadro all'interno della quale stabilire che per alcune materie - come la questione societaria o l'aggregazione delle professioni, che costituiscono le istanze avanzate dalle stesse professioni - vi siano deleghe specifiche che rispettino, tuttavia, principi condivisi. Quindi, quanto dice l'onorevole Contento è compatibile con lo strumento della legge-quadro: occorrono norme di salvaguardia e deleghe su alcuni settori che forse non hanno bisogno tanto di nuove leggi, quanto di decreti legislativi. Questa soluzione non l'ho inventata io; è presente anche nella produzione normativa più recente di questo Parlamento e della precedente legislatura.
Certo, sarà difficile individuare le materie per cui prevedere le deleghe. Non si possono regolamentare per delega troppe questioni. Le deleghe devono essere contenute, se si fissano i princìpi, altrimenti, si può finire per scompaginare il sistema di base che si è creato. Per quanto riguarda il lavoro intellettuale, il decoro, la soglia deontologica e via elencando, non si può ricorrere alle deleghe: non ci si può fare un codice deontologico a proprio piacimento. Così come non è possibile che delle professioni abbiamo posizioni diametralmente opposte. Normalmente, infatti, le professioni si ispirano a dei princìpi comuni.
Credo di aver risposto, così, anche all'onorevole Capano. La collega pone una domanda in parte insidiosa e in parte vera, in quanto mira ad una risposta sincera.
La riforma forense sta avanzando. Quella degli avvocati è l'unica categoria, tra quelle forti, ad avere un ordinamento che risale al 1933. Cominciamo, quindi, da questo dato. Mentre le altre categorie si sono modificate nel tempo, noi siamo


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rimasti con quell'ordinamento. Abbiamo una specificità ma, come i medici, abbiamo anche noi la caratteristica di avere un ordinamento molto separato dalle professioni. È necessario adottare norme di salvaguardia per le professioni sanitarie, come le si adotta in Europa. Ciò deve essere fatto per i medici e anche per gli avvocati. La battaglia che stiamo portando avanti è di ricordare che gli articoli 24 e 111 della Costituzione, che già esistono, trattano proprio del processo e della difesa del processo. Non possiamo perdere tempo, non possiamo aspettare. Occorre una legge per gli avvocati; gli avvocati, infatti, prendono parte ai processi e hanno bisogno di rigore nell'accesso, hanno bisogno di forte formazione. Come per i medici è impensabile che la loro professione sia sfilacciata, in quanto operano negli ospedali e tutelano la salute dei cittadini, ritengo che così è impossibile avere un ordinamento degli avvocati sfilacciato, in quanto gli avvocati hanno il compito di difendere i diritti dei cittadini all'interno dei processi.
Quando parliamo di soggetto costituzionale - la seconda domanda, infatti, è ancora più importante e più intelligente della prima -, proponiamo di dare un ordinamento molto forte alla professione forense, in cui sia presente il rigore e che preveda un numero ben delimitato di soggetti attrezzati per difendere i diritti. In seguito, però, la riforma dovrà essere completata attraverso la riforma della Costituzione sulla giurisdizione, e ciò segnerà un'ulteriore crescita di questo professionista che, come abbiamo già detto, non può continuare a stare sul mercato nelle condizioni attuali; bisogna garantire un accesso selezionato. Tale percorso, quindi, non presenta contraddizioni.
La riforma attualmente è ancora al Senato; è evidente che forse qualche principio sulla saldezza dell'avvocato sia necessario. Una cosa, infatti, è l'avvocato che svolge la due diligence, bravissimo e necessario al Paese; altra è, però, l'avvocato che difende i diritti: noi siamo più interessati al difensore dei diritti. Quindi, nella riforma dell'ordinamento che sta ora procedendo al Senato, si potrà inserire, una volta che sia giunta alla Camera, qualche norma che stabilisca che tra questi professionisti esistono degli avvocati specializzati nel processo per difendere i cittadini.
È stata posta una domanda su questo tema e io rispondo che questi avvocati devono essere più responsabili degli altri. La deontologia di un avvocato di affari, che pure ci deve essere, è diversa dalla deontologia e della responsabilità di un avvocato nel processo. So che una parte della mia categoria che non è d'accordo con quanto sto dicendo; essi temono, infatti, che la responsabilità degli avvocati diventi troppo pesante. A mio avviso non è così. La società ha bisogno di un medico, di un avvocato, di un professionista - tra quelli delle professioni rilevanti - che sia fortemente responsabilizzato e che paghi se non fa bene il proprio dovere. È necessario vi siano caratteristiche particolari che identifichino questa professione. Io ho detto, quindi, ai miei colleghi che l'attività rimane privata, ma in futuro aumenteranno le responsabilità per quanti di noi vanno nel processo.
Per quanto riguarda il praticantato, sono d'accordo con quanto affermato dall'onorevole Follegot. Lo dico chiaro e tondo: nella riforma non c'è la tutela del praticante né del giovane professionista che lavora nello studio. Mi pare che, a questo proposito, vi sia un emendamento dell'onorevole Capano. Il praticante lavora anche nello studio, oltre che seguire la formazione. Devo dire la verità: questo è un problema sociale. Una categoria di gente che lavora in uno studio, sia pure in formazione, deve ricevere un compenso. È chiaro che sarebbe necessario anche un piccolo contributo pubblico, come avviene in Germania. In Germania, infatti, pagano uno stipendio per tutta la formazione; lo Stato paga tutti gli avvocati che seguono un percorso di formazione. Ripeto, è necessario un aiuto pubblico, in quanto non si può far carico solo sul professionista o sull'ordine. Il praticante, però, deve avere i diritti e i doveri del praticante, compresa una remunerazione. Ed è necessaria una


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remunerazione anche per il giovane avvocato laureato che, almeno fino ad oggi, continua a fare pratica. È necessario, quindi, un esame, per quanto affrettato e sommario.
Tra i principi fondamentali che voi individuerete, deve trovare posto, oltre alla tutela del lavoro degli avvocati, ossia dei professionisti, anche la tutela di coloro che collaborano negli studi. So che una parte di noi non è d'accordo su questo. Io, invece, ne sono convinto e dello stesso parere è anche l'OUA, la mia organizzazione, la quale preme affinché si dia un segnale anche alle professioni che propongono dei sacrifici maggiori. È un bel segnale, e lo dobbiamo dare noi delle professioni, nei principi generali e nei principi di tutela. Chiaramente non mi riferisco ad un collaboratore saltuario, che lavora due ore alla settimana. Se, però, abbiamo un praticante che osserva l'orario dei professionisti, è giusto che riceva un'equa retribuzione. Mi riferisco, quindi, a quanti, usciti dall'università, vanno a fare pratica e seguono un percorso di formazione. Questi soggetti già selezionati dall'università devono avere i loro diritti ed essere indipendenti. Sappiamo che altrimenti, chi non è «figlio di papà» è danneggiato da questa situazione e non può decidere di svolgere l'attività di avvocato. Bisogna, invece, mettere tutti nella stessa situazione di parità. Ritengo che nei principi generali che regolamentano le professioni possa trovare spazio anche questa proposta.

MARIA GRAZIA SILIQUINI. Signor presidente, a nome di entrambi i relatori, desidero intervenire solo per precisare quanto detto dal presidente De Tilla riguardo alle nostre intenzioni.
Siamo assolutamente favorevoli - lo dico all'OUA e al Forum delle professioni - ad introdurre, tra le formule e i principi che stabiliremo e che verranno scritti, una indicazione che chiarisca che per i giovani ci deve essere una svolta e un cambiamento di rotta.
So benissimo che non tutti i professionisti sono d'accordo su questo punto; tuttavia, credo che se, come si è detto, vogliamo dare un'impostazione più etica alla riforma delle professioni, attraverso un'ottica in cui non vige solo la legge del mercato, ma che sia ancorata anche ai principi etici - con un vincolo deontologico, una responsabilizzazione sempre più forte dei professionisti e un consiglio di disciplina separato dal consiglio di amministrazione -, è necessario che tra le formule che studieremo ve ne sia una che preveda che i giovani non siano sfruttati, ma inquadrati anche da un punto di vista economico.
Da ultimo, vorrei spendere una parola sull'impostazione da dare alla riforma, riguardo alla quale nutro lo stesso convincimento da anni. Lo ricordo a chi interviene dopo, così che sappia a cosa mi riferisco. È importante, infatti, non solo individuare le categorie professionali, regolamentando cosa sia la professione, l'associazione di impresa e tutto il resto, ma anche indicare, in questa legge di princìpi, le categorie professionali come parte sociale nel Paese. Come parte sociale, infatti, esse rappresentano quasi il 13 per cento del PIL; ricordo questo dato tutte le volte che posso, in quanto repetita iuvant. Chiedo, pertanto, quale sia il vostro parere circa l'opportunità di trovare una formula per dare alle professioni una dignità di categoria sociale, al fine sia delle agevolazioni fiscali sia di beneficiare dei provvedimenti anticrisi, un esempio questo, di estrema attualità. Io ritengo, infatti, che qualunque futura previsione economica debba riguardare il mondo dell'impresa, come il mondo delle professioni nello stesso modo, conferendo a quest'ultimo dignità di categoria sociale.

CARLO MONAI. Ringrazio anch'io, a nome dell'Italia dei Valori, il presidente De Tilla e i suoi collaboratori.
Vorrei sottolineare l'aspetto sociologico della questione. Non penso sia casuale che le relatrici di questo provvedimento sulle professioni siano due onorevoli colleghe. Esse, in qualche modo, testimoniano come nel mondo delle professioni si stia facendo sempre più largo la presenza qualificata di


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donne. Da questo punto di vista, quindi, penso che, all'interno dei princìpi generali che incarnano e incardinano il mondo delle professioni, sia necessaria una particolare attenzione normativa verso quelle garanzie che sono tipiche della funzione femminile, la quale, ovviamente, deve essere conciliata con il lavoro e con l'impegno professionale. Anche da questo punto di vista, penso che, insieme ai princìpi etici che tutelino dallo sfruttamento indiscriminato le giovani leve del mondo professionale, debbano essere inseriti analoghi princìpi e analoghe preoccupazioni per garantire un efficace svolgimento delle attività professionali alle donne che si occupano di questo importante settore in modo sempre più qualificante.

PRESIDENTE. Nel ringraziare i nostri ospiti, dichiaro conclusa l'audizione dei rappresentanti dell'Organismo unitario dell'avvocatura.
Proseguiamo i lavori con la seconda delle audizioni previste. Mi auguro che il dottor Rossi ci perdoni per il ritardo. Egli ha già assistito a parte dell'audizione e, probabilmente, ha potuto svolgere delle considerazioni circa le questioni affrontate ed è in grado di anticipare le risposte alle domande che, in realtà, pur tenendo conto dei diversi punti di vista, sono quasi sempre le medesime.
Ricordo che il dottor Enrico Rossi è vicecoordinatore del Forum delle professioni intellettuali, per quanto riguarda il coordinamento dei comitati unitari professionali, il CUP del Nord Italia; è accompagnato dal dottor Davide Monzani, in veste di segretario dell'organismo.
Do quindi la parola al nostro audito, ringraziandolo per aver accettato il nostro invito.

ENRICO ROSSI, Vice coordinatore del Coordinamento dei Comitati unitari professioni intellettuali (CUP) del Nord Italia. Grazie a voi per l'occasione che ci date di rappresentarvi le istanze e le considerazioni di organismi territoriali che, proprio in quanto tali, vivono la professione quotidianamente sul territorio. Noi siamo in condizioni di rappresentare forse un punto di vista più settoriale ma, proprio per questo, più vissuto.
Vorrei cominciare con l'esporre le esigenze avvertite dagli ordini e dai collegi territoriali. Innanzitutto, devo dire che, avendo io a suo tempo fatto parte della «Commissione Vietti», ogni volta che sento riproporre un'organizzazione duale delle professioni, nutro qualche perplessità. Ho vissuto, infatti, sulla mia pelle la difficoltà di armonizzare questi due mondi, che di fatto non sono molto compatibili: da un lato, ci sono le esigenze di prestatori di servizi, che non seguono un percorso formativo universitario, che non sostengono un esame di Stato, e che non hanno un obbligo di aggiornamento permanente; dall'altro, ci sono delle professioni intellettuali che devono affrontare un percorso di questo genere e, in più, hanno norme deontologiche da rispettare. Risulta, quindi, molto difficile trovare un punto di contatto fra questa realtà.
Siamo, tuttavia, arrivati ormai alla conclusione circa la necessità di procedere ad una riforma delle professioni intellettuali. Quando dico riforma delle professioni intellettuali, parto dal presupposto che venga definita esattamente la figura del professionista intellettuale. Oggi si assiste, invece, all'utilizzo improprio della parola professionista, mentre esistono sia il dettato costituzionale che un codice civile che prevedono che per l'esercizio delle professioni è necessario seguire un percorso formativo - universitario o, comunque, equiparato - sostenere un esame di Stato ed essere iscritti ad un albo.
Quale prima considerazione, quindi, vorrei sottolineare l'occasione storica, data dalla possibilità di procedere alla nuova riforma delle professioni intellettuali, di definire finalmente bene che cos'è un professionista intellettuale e le caratteristiche che deve avere. Ciò è, del resto, già previsto nelle norme europee, quindi non stravolgiamo nulla; ci limitiamo, piuttosto, a recepire un dato che altri hanno già raggiunto.
Occorre una riforma che stabilisca innanzitutto i princìpi per l'esercizio della


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professione. Esiste, dunque, la necessità - come avrete sentito già da De Tilla e da chi mi ha preceduto dei CUP - di una legge di princìpi. Io non sono un tecnico legislativo, quindi consentitemi gli spropositi più terribili. Probabilmente, si potrebbe agire su una legge di princìpi che contenga qualche limitatissima delega molto precisa. Se anche voi, come me, avete vissuto l'iter decennale dei tentativi di riforma, conoscete perfettamente l'avversione esistente nei confronti delle leggi delega. Probabilmente, quindi, da questo punto di vista, anticipo una risposta ad una domanda che mi vorreste fare. Vi faccio risparmiare tempo.
Perché si possa essere definito professionista intellettuale, occorre ribadire la necessità di aver seguito un percorso formativo universitario e di aver sostenuto un esame di Stato. Davanti ad una asimmetria informativa così rilevante quale è quella fra utente di professionisti e professionisti, ritengo, infatti, imprescindibile la certificazione, quanto meno all'accesso della professione, delle competenze necessarie per svolgere quella determinata professione. Sono imprescindibili, quindi, sia il sostenimento di un esame di Stato, sia l'obbligo di aggiornamento permanente.
Non dimentichiamo, infatti, che se cinquant'anni fa era sufficiente accertare la capacità del professionista all'inizio dell'esercizio dell'attività professionale, con l'attuale velocità di cambiamento della società, delle regole e delle esigenze, è oggi assolutamente imprescindibile imporre un aggiornamento permanente. Altrimenti finiremmo per creare professionisti o per legittimare l'esercizio di una professione in assenza dei requisiti minimali. Ad esempio, nella mia professione - che è quella del dottore commercialista -, se per due anni non ci si aggiorna, si resta completamente fuori dalla normativa. In verità, quando siamo nel periodo di approvazione della legge finanziaria è sufficiente un solo anno: se non la conosci sei fuori. Pertanto, percorso formativo e aggiornamento permanente sono requisiti tassativi e da imporre per qualsiasi professione.
Vorrei ora passare ad un altro dato assolutamente importante per rispondere alle mutate esigenze della società: le società fra professionisti anche interdisciplinari. Oggi l'utente del professionista, o colui che affronta problematiche che richiedono l'intervento di un professionista, non vuole e non può andare prima dall'avvocato, poi dal commercialista, poi dal notaio, poi dall'ingegnere e poi dal geometra. Richiede una risposta unitaria al suo problema. Ebbene, o la legislazione ci consente di creare strutture in grado di dare queste risposte unitarie, oppure tali risposte saranno fornite da qualcun altro che proviene dall'estero e che può creare queste strutture organizzate con competenze distinte. Le società interprofessionali tra soggetti diversi, pur sempre iscritti ad albi, sono, quindi, una necessità imprescindibile: in primo luogo, per dare risposte coerenti alla necessità della società e, in secondo luogo, per consentirci di affrontare in maniera attrezzata la concorrenza di chi viene dall'estero.
C'è, inoltre, un altro dato che ritengo fondamentale, e che rientra nell'organizzazione ordinistica. È necessario, a mio e a nostro avviso, distinguere in maniera netta ,nella disciplina ordinistica l'organo istruttore rispetto a quello giudicante. Spesso e volentieri, in molti ordinamenti, chi fa l'istruttoria nell'attività disciplinare è anche organo giudicante. Non ritengo che questa sia la cosa migliore. Poiché è giusto che l'istruttoria venga fatta nell'ordine di appartenenza del soggetto sottoposto a procedimento disciplinare, sarebbe opportuno che l'organo giudicante fosse assolutamente diverso rispetto a quello che sostiene un'istruttoria, magari distinguendo territorialmente, a livello regionale, l'organo giudicante rispetto all'istruttoria.
Vorrei focalizzare la vostra attenzione sulla necessità di parificare, per quanto concerne gli aspetti economici, l'attività professionale ad altre attività economiche. Non sembra, infatti, corretto che un'attività che porta così tanto prodotto interno lordo alla Nazione, venga esclusa, per esempio, da tutti i provvedimenti agevolativi


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previsti per le aggregazioni. Siamo in presenza di studi spesso troppo limitati; abbiamo la necessità di creare studi interdisciplinari più ampi, ma non possiamo utilizzare gli stessi strumenti che vengono riconosciuti ad altre attività economiche a favore delle aggregazioni. È una stortura che mi sembra assolutamente incomprensibile; si tratta, infatti, di un'attività economica esattamente identica ad altre. Non voglio invocare addirittura le agevolazioni previste dalla Tremonti-ter, tuttavia è vero che come professionisti siamo sistematicamente esclusi da qualsiasi normativa agevolativa. Pensate, per esempio, alle normative sui confidi e alla necessità che hanno i giovani di finanziamenti agevolati per creare degli studi professionali, che oggi richiedono degli investimenti significativi. I professionisti non possono accedere alla normativa dei confidi. Anche questa è una stortura assolutamente macroscopica.
Credo, quindi, che queste siano le sfide che si devono affrontare in una riforma delle professioni.
La riforma delle professioni, mi permetto di ricordarvi, è in cantiere da oltre dieci anni; certamente, è da dieci anni che me ne occupo. I tempi dell'economia non consentono questi tempi decisionali. Se non si interviene in tempi ragionevolmente rapidi, le professioni rischiano di trovarsi in situazioni di insostenibilità. Questi, dunque, sono gli aspetti che io vorrei sottolineare.
Non facciamoci grandi illusioni di poter affrontare la cosiddetta «riforma duale»; prima di tutto, in quanto essa non deve essere posta in questi termini. I professionisti intellettuali sono tali, come ho detto all'inizio, se seguono un percorso formativo universitario, se sostengono un esame di Stato e se hanno un aggiornamento continuo e un codice deontologico. In assenza di questi requisiti, credo che tutti possano convenire che siamo in presenza di prestatori di servizi. Non mescoliamo, pertanto, due mondi che sono inconciliabili. Ci ha provato la «riforma Vietti» e ci hanno provato diversi disegni di legge provenienti da tutte le parti politiche. Non si è riusciti ad arrivare ad una soluzione. Vogliamo affrontare il problema della riforma delle professioni intellettuali? Affrontiamolo, ma limitiamoci al fattibile; altrimenti ci ritroveremo, alla fine della legislatura, con delle grandi idee, in parte anche già esplorate, ma non saremo ancora arrivati in fondo ad una riforma necessaria e urgente.

PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Rossi per il suo pragmatismo.

DAVIDE MONZANI, Segretario del Coordinamento dei Comitati unitari professioni intellettuali (CUP) del Nord Italia. Vorrei solo ulteriormente precisare quanto è già stato detto sul metodo.
Io sono un avvocato e alcuni dei colleghi presenti mi conoscono. È vero che esiste un problema di gerarchia delle norme e che, con una legge-quadro, non si può impedire l'emanazione di una legge successiva, per il singolo ordinamento, che potrebbe essere in contrasto con singoli temi o, in generale, con la legge precedente. Mi pare, però, che la proposta odierna dell'onorevole Contento - che credo possa essere condivisa anche dall'onorevole Capano -, sia una soluzione percorribile. Mi riferisco, cioè, all'ipotesi di una sorta di codice che comprenda una parte generale, e in un certo senso vincolante, di princìpi molto ben delineati. È ovvio che non si tratterebbe di un vincolo legislativo: ciò non è infatti possibile, a meno che non si faccia con una legge costituzionale e, nonostante l'ottimismo di Maurizio De Tilla, credo che ciò sia impensabile. Si potrebbe, però, prevedere nella parte generale una sorta di indirizzo per temi comuni, riservando alla parte speciale una sorta di delega ai singoli ordinamenti per quanto riguarda temi particolarmente controversi. Come abbiamo già evidenziato, infatti, le professioni tecniche hanno esigenze diverse riguardo alle società fra professionisti. Credo, pertanto, che questa si possa ritenere una strada percorribile, ove vi sia la volontà da parte del legislatore di trovare una soluzione a questo annoso problema.


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È chiaro che rimane valido quanto sostenuto dal dottor Rossi. Eccetto singole professioni che vedono ciò con favore, generalmente le professioni negano la necessità di avere un socio di capitale. Le società tra professionisti devono essere composte solo e unicamente da professionisti e non deve esserci un socio di cosiddetto «puro capitale», ossia non professionista. Chiaramente, se c'è un socio che, oltre ad essere un professionista, dispone anche di capitali e vuole entrare nella società, ben venga; ma sono pochi fortunati ormai.

CINZIA CAPANO. Vorrei precisare che l'ipotesi dell'onorevole Contento, che mi trova d'accordo, è di stabilire un codice che abbia una parte generale e delle parti speciali destinate ad ogni singolo settore; i settori sarebbero, comunque, accorpati tra loro. Questo garantirebbe un'omogeneità di fonti e, trattandosi di un unico testo, non avremmo il problema della relazione. Con ciò, dunque, non si intende una delega agli ordinamenti, cioè un codice che abbia una legge-quadro con dei princìpi e poi le leggi delega per gli ordinamenti. In tal caso, infatti, non avremmo bisogno del codice.

ENRICO ROSSI, Vice coordinatore del coordinamento dei Comitati unitari professioni intellettuali (CUP) del Nord Italia. Solo per capire: tale codice avrebbe una parte speciale anche dedicata alle cosiddette «associazioni non anglosassoni»? Lei come prefigura questa ipotesi?

CINZIA CAPANO. Devo dire che non ci siamo posti questo problema. Poiché si tratta di princìpi generali, potrebbe anche avere una parte generale che si riferisce a quelle professioni ed una parte speciale che le disciplina in maniera separata. Il codice, forse, potrebbe consentirci di tenere tutto insieme e, al contempo, di disciplinare diversamente.

PRESIDENTE. Nel ringraziare i nostri ospiti, dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,40.

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