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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione III
10.
Mercoledì 9 novembre 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Colombo Furio, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SU DIRITTI UMANI E DEMOCRAZIA

Audizione del professor Sebastiano Maffettone, direttore del Dipartimento di Scienze politiche della Libera Università Internazionale degli Studi Sociali (LUISS):

Colombo Furio, Presidente ... 3 8 13 15
Maffettone Sebastiano, Direttore del Dipartimento di Scienze politiche della Libera Università Internazionale degli Studi Sociali (LUISS) ... 3 13
Mecacci Matteo (PD) ... 9
Nirenstein Fiamma (PdL) ... 12
Tempestini Francesco (PD) ... 12
Touadi Jean Leonard (PD) ... 11
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A; Misto-Noi per il Partito del Sud Lega Sud Ausonia (Grande Sud): Misto-NPSud; Misto-Fareitalia per la Costituente Popolare: Misto-FCP.

COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI
Comitato permanente sui diritti umani

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 9 novembre 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE FURIO COLOMBO

La seduta comincia alle 14,05.

(Il Comitato approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del professor Sebastiano Maffettone, direttore del Dipartimento di Scienze politiche della Libera Università Internazionale degli Studi Sociali (LUISS).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle violazioni dei diritti umani nel mondo, l'audizione del professor Sebastiano Maffettone, direttore del Dipartimento di Scienze politiche della Libera Università Internazionale degli Studi Sociali (LUISS).
Prima di procedere con l'ordine del giorno ritengo doveroso esprimere il cordoglio di questo Comitato per la scomparsa del professor Antonio Cassese, l'illustre giurista dell'ateneo fiorentino che ha dedicato tutta la sua vita e gran parte della sua produzione scientifica alla promozione e alla tutela dei diritti umani, «maestro ed esempio di impegno civile», secondo le parole del Presidente della Repubblica.
Come i colleghi ricorderanno, lo abbiamo celebrato in Aula menzionando il contributo straordinario che Antonio Cassese ha dato all'Italia e al mondo con il suo impegno, per esempio, per l'istituzione della Corte penale internazionale e per avere presieduto gli organismi istituiti per i crimini contro l'umanità nella ex Jugoslavia e in Libano.
Ricordo infine che il Parlamento italiano e la Commissione affari esteri si sono in più occasioni avvalsi in sede conoscitiva della sua competenza e lungimiranza.
Rivolgo, quindi, il nostro benvenuto al professor Maffettone e lo invito a prendere la parola.

SEBASTIANO MAFFETTONE, Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche della Libera Università Internazionale degli Studi Sociali (LUISS). Buon pomeriggio innanzitutto e grazie per questa prestigiosa opportunità.
Ho pensato di parlare brevemente di alcuni aspetti concernenti le definizioni e le teorie che riguardano democrazia e diritti umani, con particolare rilievo per quelle degli ultimi anni. Questo dipende sostanzialmente dalle mie competenze professionali. Di professione io sono un filosofo politico e dirigo da più di dieci anni il centro sui diritti umani fondato dal professor Ungari, mio predecessore in quella carica, che molto ha collaborato con questo Comitato ai suoi tempi.
Ho insegnato molte volte diritti umani (l'ultima l'anno scorso), tra cui due anni ad Harvard nel 1993-1994 e nel 2003-2004. Cito Harvard non solo per il prestigio intrinseco dell'università, ma anche perché - è una nota importante -, contrariamente a quanto avviene nel nostro Paese, a Harvard in un anno si svolgono circa cento corsi sui diritti umani. Se non


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altro è una notizia di qualche curiosità intellettuale.
In generale, un filosofo può fare poco più che dare qualche chiarimento concettuale, ammesso che ci riesca - non abbiamo trovato il giorno più tranquillo dell'anno per farlo -, e fornire qualche informazione sugli aspetti teorici sottesi al tema dei diritti umani. Mentre un giurista ha un occhio speciale sulla tutela dei diritti umani e sul rapporto tra testi, contesti, tribunali e infrazioni, un filosofo politico cerca di dare particolare risalto ai problemi concettuali e teorici che stanno dietro ai problemi che gli altri affrontano.
Farò un esempio per tutti. L'interesse principale sui diritti umani di quelli che fanno il mio mestiere dipende da un'assunzione importante che possiamo chiamare in senso lato di «relazionalità» o «associabilità». In altre parole, la presenza di istituzioni, tribunali e procedure sottende sempre una forma di relazione umana pregnante. Quella classica naturalmente è la sovranità, ma non è detto che sia questa.
Uno dei problemi principali dei diritti umani è la loro difficile collocazione sullo sfondo della relazionalità. Mentre i diritti costituzionali hanno alle spalle lo Stato, dietro ai diritti umani c'è un punto interrogativo. Nessuno sa bene cosa vi sia. Certamente, non solo le Nazioni Unite, che pure hanno un certo rilievo in materia di diritti umani, non solo gli Stati nazionali, che hanno un notevole rilievo, e non solo le organizzazioni non governative, benché svolgano una funzione di qualche significato. Ma allora cos'altro?
Si tratta di un network più o meno oscuro. Se la sovranità classica di natura hobbesiana, come la chiamiamo noi, ha all'incirca la forma di un triangolo, questa è una specie di nebulosa. Dal carattere magmatico e fluido di questa struttura dipende la maggior parte delle incertezze che riguardano l'applicabilità, la funzione, lo status, la natura e la praticabilità in generale dei diritti umani.
È un problema fondazionale che determina tutte le difficoltà che incontriamo nell'implementare i diritti umani. Quando un diritto si applica a est e non a ovest o viceversa, quando due casi simili sono trattati in maniera diversa, dietro c'è sempre un «buco fondazionale», anziché la sovranità tradizionale o una struttura significativa che la sostituisca. Il fatto che la Libia sia stata per molti anni alla presidenza della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite la dice lunga su quanto sia difficile coordinare un interesse sincero per i diritti umani - che tra l'altro è molto diffuso - con una praticabilità decente del medesimo.
I diritti umani sono destinati a proteggere interessi fondamentali dell'essere umano. Quando si dice essere umano, tuttavia, non si dice molto perché ancora una volta si pone un problema di relazionalità. Dietro la tutela dei diritti del cittadino c'è una catena di comando che va dal semplice cittadino alle strutture istituzionali, fino alla sommità dello Stato. Dietro la tutela dei diritti umani, pure indispensabile, la stessa catena di comando non c'è.
Da questo punto di vista i diritti umani sono una responsabilità degli Stati, che devono inserirli nel loro apparato costituzionale e in prima istanza proteggerli. Il punctum dolens, ma anche l'aspetto più interessante, è che dopo gli Stati i diritti umani trovano una più profonda, elastica, dubbia e significativa tutela da parte della comunità internazionale. Possiamo, quindi, definire la tutela degli interessi fondamentali dell'essere umano come un problema degli Stati, ma anche come una questione di international concern, una questione che preoccupa tutta la comunità internazionale.
Il problema è stabilire quando questo international concern sia giustificato e giustificabile. Per la stessa ragione, cioè la mancanza della sovranità, le cose sono molto complesse. Se in Italia o in qualsiasi altro Stato decorosamente liberal-democratico esiste una forte ingiustizia di genere, il problema riguarda i diritti fondamentali perché c'è lo Stato. Invece, il fatto che in Afghanistan, per esempio, non si facciano studiare le bambine non riguarda la comunità internazionale o perlomeno la


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riguarda a un livello molto basso. Se, invece, le bambine fossero torturate - speriamo che non accada -, questo riguarderebbe la comunità internazionale. La soglia dell'interesse internazionale è, quindi, molto più alta.
La preoccupazione degli Stati per i diritti umani dipende anche dall'international concern. La grande novità, infatti, è che, mentre prima i diritti umani erano invocati a tutela degli stranieri offesi da uno Stato, ora sono invocati anche a tutela degli stessi cittadini dello Stato inosservante. È la più grande novità in materia degli ultimi cinquant'anni.
L'inadempienza di uno Stato è un international concern, ma deve rappresentare una clamorosa, grave, perdurante e sistematica violazione dei diritti umani fondamentali. Ciò spiega, per esempio, la più volte sottolineata distinzione tra diritti civili e politici, da una parte, e diritti economico-sociali, dall'altra. È chiaro che, se in Angola non c'è lavoro, non si possono invocare i diritti umani a difesa della popolazione. Sarebbe troppo forte l'ingerenza in un'altra comunità e in un altro Stato.
Tutto ancora una volta dipende dall'opacità referenziale di un potere che - se mi perdonate il termine ostile - è «backuppato» da una sovranità molto incerta, vacillante, complessa e fluida. Abbiamo a che fare con una nebulosa e non con un triangolo. Il triangolo possiede un vertice superiore, la comunità internazionale no.
Dato che, però, subentra l'international concern, benché solo in ultima istanza in caso di violazioni clamorose, è possibile esercitare pressioni per fare valere i diritti umani. Queste pressioni hanno una graduazione che va dalle ammonizioni al ruolo retorico del reproach, il rimprovero, l'ostilità per lo meno verbale, fino a varie forme di intervento, da quello economico (le sanzioni) a quello umanitario, fino all'intervento armato in senso proprio.
Più si sale questa scala più la violazione deve essere grave e inammissibile. L'international concern non solo scatta in maniera complicata, perché non si conosce la soglia di attenzione, ma più si amplia il tipo di intervento più diventa difficile giustificarlo. Le violazioni, quindi, devono essere particolarmente gravi.
Se i diritti umani sono definibili in maniera non controversa come una forma di protezione degli interessi umani fondamentali, occorre però stabilire qual è il loro rapporto con la democrazia. Le definizioni classiche di democrazia sono molte, purtroppo. Quella forse più utilizzata mantiene grosso modo la sua forma shumpeteriana: la democrazia è un sistema di governo tramite la competizione delle élite. L'elemento essenziale è la possibilità che élite con intenzioni di governo basate su ideologie, principi e criteri differenti tra loro competano pacificamente. Tale definizione è in buona sostanza ripresa da Giovanni Sartori, il più noto teorico italiano della democrazia, che ha l'ha descritta come «poliarchia competitiva». Si tratta sempre della definizione shumpeteriana, ma arricchita.
La prima cosa da osservare è che la democrazia non può galleggiare sul vuoto, ha bisogno di un appoggio, cioè il liberalismo costituzionale e i diritti fondamentali. Tra diritti e democrazia c'è, dunque, un rapporto di bi-implicazione. Da un lato, è ovvio che tra i diritti umani rientri - ci torneremo brevemente dopo - un certo diritto alla democrazia, ma soprattutto non ci sarebbe democrazia senza i diritti fondamentali, tra cui alcuni diritti umani, ma non tutti.
Non si può avere democrazia senza un presupposto costituzionale liberale. La libera competizione non può esistere se non viene assicurata da un sistema di regole uguali per tutti e neutrale rispetto alla competizione avente per soggetto gruppi e partiti con intenzionalità ideologiche e politiche diverse tra loro. Questo punto neutrale è tradizionalmente la Costituzione, ma prima ancora della Costituzione viene il liberalismo del contratto sociale, cioè l'idea che la comunità stessa è fondata sul pluralismo. Questa è l'essenza del liberalismo contemporaneo.
Se la democrazia implica diritti fondamentali, anche se non corrispondenti esattamente


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ai diritti umani, e se i diritti umani implicano in parte la democrazia poiché in una società completamente priva di democrazia è difficile persino immaginarli, la democrazia stessa è un diritto umano? La mia risposta è seccamente no. Non esiste un diritto umano alla democrazia, quindi se un Paese non è democratico non si può intervenire.
Ciò è molto evidente in casi clamorosi di cattiva interpretazione dei diritti, come quello di George W. Bush. Ancora una volta, questo stato di cose è figlio dello stesso problema. Se nel nostro Paese, o in qualsiasi altro che assomigli al nostro dal punto di vista della struttura costituzionale, avvertiamo una mancanza di democrazia, abbiamo il diritto-dovere di agire per evitarlo. Se, invece, ciò avviene in un Paese che non è il nostro, non l'abbiamo.
Vi sono, però, dei limiti. Se la mancanza di democrazia consiste in un'assenza di fair competition, purtroppo c'è poco da fare dal punto di vista dei diritti umani. Se, invece, consiste nel radunare tutti gli avversari politici in uno stadio e trucidarli, c'è molto da fare. Più ci avviciniamo al genocidio, per dirla in modo molto rozzo, più la questione investe i diritti umani. Più ci avviciniamo a forme di consultazione tribali, come i circoli di friendship africani o come certi gruppi che operano nelle comunità islamiche e compongono la shura nel suo complesso, meno possiamo fare, anche se evidentemente non si tratta di forme di democrazia competitiva.
Possiamo irrigidire quanto vogliamo la definizione di democrazia, cosa che tra l'altro non conviene perché, restringendola, alla fine forse solo la Gran Bretagna risulterebbe democratica, ma non possiamo comunque intervenire per assicurarla dove non c'è perché questo può avvenire sempre e solo con soglie molto alte di violazione. Quello che si può fare è promuovere le opinioni liberal-democratiche all'estero. Non è una grandissima soddisfazione, ma credo che non si possa fare molto di più.
Io chiamo questa tesi «integrazione pluralistica». L'integrazione dipende dall'esistenza di uno wishful thinking. Bene o male, se lasciate a loro stesse, le forze del mercato globale e della comunicazione conducono a maggiore democrazia. Tuttavia, l'integrazione deve necessariamente avvenire in modo bottom up, cioè dal basso verso l'alto, nei singoli Stati.
Io penso che esista qualche esperienza che giustifichi un minimo di fiducia oltre all'incidenza del solo wishful thinking. Sia nei Paesi arabi sia nel contesto dei cosiddetti asian values alcune esperienze confermano che un intervento diretto del West against the rest - per usare la formula del teorico americano Huntington - non ha successo, mentre lasciando libere di operare le forze di questi Paesi qualche risultato si ottiene.
Le dichiarazioni sugli asian values del Primo Ministro di Singapore Li negli anni Novanta all'inizio suscitarono reazioni. Gli Stati Uniti e gli occidentali in generale, infatti, cominciarono a protestare che quelle dichiarazioni non avevano senso compiuto e rappresentavano l'altra faccia di interessi non confessabili di un sovrano poco democratico. Questo, lungi dal frenare il fenomeno, gettò benzina sul fuoco. Quando, invece, sono stati lasciati a loro stessi ed è stata costruita l'ASEAN, progressivamente gli Stati dell'est asiatico hanno dato vita a una specie di costituzione in embrione, all'interno della quale hanno dato amplissimo riconoscimento ai diritti umani e in parte anche alla democrazia.
Non è una prova, ma solo una coincidenza o un accidente empirico di supporto alla tesi più generale. Ciò nonostante sembra abbastanza chiaro che le pressioni esterne sono meno efficaci di elementi interni. Per esempio, in scenari non assolutamente controllabili da noi e forse da nessun altro, come quello cinese, la maggiore opportunità non sta nell'intervenire dall'esterno con virulenza più o meno verbale, ma nel cercare di assecondare movimenti e gruppi che nel quadro dello sviluppo cinese rappresentano cleavage esistenti e conflitti immanenti di quella società e per questo vogliono riconosciuti i diritti umani.


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Una volta - è solo un esempio, non prova la teoria - ho assistito a una divertentissima conversazione all'Accademia delle scienze sociali di Shanghai tra il direttore, che è un mio collega, e il comitato centrale del Partito Comunista. La telefonata era passata addirittura per il Presidente. Il comitato centrale rimproverava al direttore di aver scritto che in Cina c'erano 200 milioni di persone religiose, quando secondo i vertici dello Stato, non è dato sapere con quale base statistica, erano solo 60 milioni. Alla fine della conversazione optarono per una «statistica cinese», stabilirono cioè che erano 120 milioni.
Che siano 60, 120 o 200 milioni - io propendo per quest'ultima tesi, se non altro per affinità scientifica - queste persone esistono e vogliono avere più diritti. Coloro che vivono in campagna e non posso andare in città, vogliono avere più diritti nelle campagne. I membri di quella che ormai è una borghesia ricca e internazionale vogliono viaggiare di più e avere più libertà individuale. I maggiori risultati dobbiamo aspettarceli da costoro e non certo da interventi esterni.
Questo non vuol dire che dobbiamo essere timidi e vigliacchi e comportarci come i tedeschi in occasione della mostra sull'illuminismo, in cui hanno nascosto tutte le tracce delle affermazioni sui diritti umani e le libertà per vendere più Mercedes ai cinesi. Non è questa la strategia che suggerirei. Io consiglierei una strategia che eserciti pressioni retoriche con la consapevolezza che le vere novità vengono soltanto dall'interno.
Per concludere, passo a illustrare le novità teoriche in tema di diritti umani e democrazia. Il trend più interessante è descritto in un libro molto importante per i filosofi politici che studiano i diritti umani che si intitola The Idea of Human Rights. Non è un testo strettamente tecnico e spiega i diritti umani come una pratica con contenuto normativo. Normativo non si riferisce alla legge, ma vuol dire con effetti etico-politici significativi.
La natura anfibia dei diritti umani, sospesa tra etica, politica, diritto e pratica, costituisce il loro segreto e il loro successo. Sia pure parzialmente, i diritti umani sono senz'altro una pratica di successo. Nei circoli internazionali il loro rispetto è ben considerato. Non sarà il trionfo della giustizia, ma non è neanche un fiasco completo. C'è una certa ipocrisia, ma come diceva La Rochefoucauld, a mio avviso del tutto giustamente, l'ipocrisia è il modo in cui il vizio rende omaggio alla virtù. Vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto è questione di opinioni.
L'idea di fondo è quella di partire dalla pratica e dalla pratica cercare di trarre un significato normativo. Bisogna fare facendo. Si costruisce un tessuto di regole più o meno obbligatorie partendo dalla pratica zoppicante e mano a mano da questa si traggono qua e là esperienze di successo.
In tema di democrazia la dottrina ha sfornato meno novità. Negli ultimi vent'anni sono stati due i trend più innovativi nella saggistica internazionale, per la maggior parte in lingua inglese. Il primo è quello della «democrazia deliberativa». Si tratta di un altro modello di wishful thinking molto interessante, secondo cui uno dei problemi della democrazia, che già John Stuart Mill aveva sottolineato ai suoi tempi con grande efficacia, è l'incompetenza. Le persone, in altre parole, decidono, ma senza avere le informazioni adeguate. Il modello suggerisce, quindi, metodi e procedure attraverso cui il cittadino elettore può essere più informato.
Se ponessimo su ascisse e ordinate il problema della competenza e quello della rappresentatività, la democrazia deliberativa dovrebbe rappresentare il massimo rettangolo. La questione è che dare un'informazione seria, neutrale e convincente su questi temi è difficile.
L'ultimo punto che vorrei toccare di passaggio riguarda la cosiddetta «democrazia transnazionale». Proprio ieri ho presentato a Roma un libro, uscito per la Cambridge University Press e curato da un mio allievo e da un mio amico, Daniele Archibugi e Raffaele Marchetti, in cui si parla del tema della global democracy.


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È un argomento di frontiera molto interessante. Per descrivervi di che si tratta me la caverò con una battuta. Una volta a Gandhi, di cui sono grande ammiratore, fu chiesto che cosa pensasse della civiltà occidentale. Gandhi rispose, con una frase famosa, che sarebbe stata una buona idea. Così è anche per la democrazia transnazionale. Non c'è nessun ostacolo di principio, anzi moralmente sarebbe lodevole, ma resta il problema fondamentale che per realizzare la democrazia transnazionale serve qualcosa di più di uno Stato.
Negli ambiti regionali, come l'Unione europea, qualcosa, zoppicante quanto si vuole, l'abbiamo costruita. A livello di pianeta non esiste niente del genere. Il problema resta ancora una volta quello della relazionalità di base degli assetti normativi. È difficile creare regole convincenti quando non poggiano su un potere. Non è una grande scoperta.
Ho finito esattamente dove avevo iniziato. Grande virtù e difetto dei filosofi è che tornano sempre da dove sono partiti. Da questo punto di vista, non ho fatto eccezione. Vi ringrazio dell'attenzione e mi scuso per l'estrema genericità, ma è quanto potevo dirvi seriamente.
Il resto sono opinioni personali.

PRESIDENTE. Non era così generico. Era ampio e non poteva che restare al livello dell'imbastitura di un discorso che potrebbe diventare un convegno, un libro o un corso. Ci ha dato tutti i titoli del problema.
Mi permetto di aggiungere alcune cose, basate anche su nostre conversazioni del passato. Un punto che vorrei ricordare qui è il concetto di vicino e lontano, rivisto attraverso la mia esperienza americana.
Il riconoscimento dei diritti civili della rivoluzione di Martin Luther King non avrebbe mai avuto luogo, se non ci fosse stato lo spostamento del punto di riferimento a Washington. La rivoluzione dei diritti civili non si poteva, cioè, compiere in Georgia, in Alabama, in Louisiana, nei Paesi e presso i governatori del sud degli Stati Uniti.
Tutti ricordano l'immagine del governatore Wallace che si mette a gambe larghe davanti alla porta dell'università della Louisiana per impedire che sia attuata la sentenza della Corte che ammette il nero Meredith all'università. Rappresenta una bellissima illustrazione del rapporto fra democrazia e diritti umani perché Wallace disse di essere stato eletto dal 60 per cento dei suoi cittadini per impedire l'ingresso anche di un solo nero in quell'ateneo. Seguì la telefonata di Robert Kennedy, Ministro della giustizia, che mise il governatore di fronte a una scelta semplice: o apriva l'università o sarebbero arrivati i paracadutisti delle truppe federali.
Quella telefonata spostò bruscamente il baricentro da vicino a lontano. Mi spiace che i colleghi della Lega siano assenti, ma la politica della Lega durante questi anni è stata quella di spostare da lontano a vicino le decisioni da prendere in modo che fossero più cattive, dure ed egoiste. Quando si prendono da lontano diventa meno impossibile accomodare diritti più vasti e richieste più umane. Segnalo questo problema del vicino-lontano perché rovescia la situazione.
La prova più crudele e tremenda della democrazia come polo opposto a quello dei diritti umani è la pena di morte negli Stati Uniti. Non c'è dubbio che la pena di morte fino a pochissimo tempo fa fosse una scelta democratica assolutamente votata e rivotata dall'elettorato americano. Poi è intervenuta - credo che ce ne parlerà l'onorevole Mecacci - una sorta di pedagogia internazionale, cioè la petulante e inflessibile insistenza della campagna contro la pena di morte, che non riguardava solo l'America e quindi sviava il problema da un antiamericanismo che avrebbe bloccato il percorso, facendo ricadere il problema sul mondo.
Qui il vicino-lontano ritorna in dimensioni grandissime e diventa certamente un capitolo della global democracy. Come sapete, sono stati ottenuti risultati inimmaginati, forzati dalla pretenziosità di un piccolo gruppo italiano che ha agito su un gruppo più vasto, cioè la vita politica


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italiana del tempo, che a sua volta ha raggiunto alcuni gangli europei, che a loro volta hanno raggiunto l'opinione pubblica di altri Paesi, fino al punto in cui le Nazioni Unite hanno votato la moratoria che ricordiamo.
Passando a un altro argomento, cioè la mancanza di fondamenti giuridici dei diritti umani, mi permetterei di aggiungere una riflessione fatta altre volte con il professor Maffettone. La situazione giuridica dei diritti umani è una specie di foro romano; ci sono dei frammenti, dei pezzi nel mondo. Un pezzo è certamente la Carta delle Nazioni Unite, un altro è dentro le costituzioni democratiche del mondo moderno, che hanno in sé un pezzo della rappresentazione teorico-giuridica del fondamento dei diritti umani.
Un pezzo sta, invece, nel limite delle leggi. Le leggi dei paesi democratici, anche le peggiori, pongono loro dei limiti. La legge americana, per esempio, ha il famoso limite del proibire la punizione crudele e inusitata (cruel and unusual punishment). È il tronco ancora non cresciuto, ma già radicato di un diritto umano fondamentale. Questo principio, che si pensava riguardasse solo le prigioni, sta interessando anche il sistema scolastico americano perché neocristiani e fondamentalisti vorrebbero reintrodurre nelle pre-scuole e nelle scuole elementari le pene corporali. L'opposizione liberale invoca il divieto di infliggere cruel and unusual punishment per sostenere che non si può picchiare un bambino.
Sono concetti tipicamente di diritto comune e non di diritto romano. Cruel and unusual nel frame reference del diritto romano non significherebbe nulla, ma nel diritto comune ha il valore esatto che hanno le parole nel dizionario.
Uno dei punti più controversi che rimangono in sospeso - e ha fatto bene il professor Maffettone a metterlo così in rilievo - è una situazione come quella della Cina. Il problema della debolezza dei diritti umani dentro e fuori la Cina deriva dalla forza della Cina e dalla debolezza degli altri Paesi nei suoi confronti. Questo introduce un elemento in più. Quando il Paese che viola i diritti è molto forte e ciascuno dei Paesi che convergono, per ragioni di convenienza commerciale, ma anche politiche, intorno a quel Paese non è abbastanza forte, si pone un problema grave e del quale non si intravede neppure una soluzione teorica, tenuto conto che i migliori Paesi, quando vanno in Cina, scaricano la questione dei diritti umani stando attenti ad arrivare a valigie vuote, così come molti stanno attenti a non ricevere il Dalai Lama e così via, con tutta la sequenza che riguarda le minoranze delle varie regioni.
Credo che le strade più interessanti che ci sono state aperte riguardino il problema della motivazione giuridica, il problema del vicino e lontano, quando giova e quando non giova lo spostamento all'interno di un Paese del punto di riferimento, e il problema della democraticità di comportamenti talvolta orrendi e come essi possano essere avviluppati, come le opere di Christo, l'artista che ha avvolto anche le mura vicino via Veneto in grandi involucri di plastica. A proposito della pena di morte, il grande involucro di plastica è stato creato dall'ostinazione di puntare su una moratoria che creasse alcuni puntelli fuori dai territori che non si potevano invadere o toccare per ragioni di democrazia.
Detto questo, cedo la parola ai colleghi che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

MATTEO MECACCI. Ringrazio il professor Maffettone, che ho avuto modo di frequentare in altre occasioni e con cui ho potuto parlare di questi temi in sedi forse più specifiche.
È sempre molto interessante discutere di questo argomento. A quanto detto dal professore vorrei aggiungere che nel corso degli ultimi decenni il rispetto dei diritti umani ha assunto un peso molto rilevante nella politica estera tradizionale. Fino a non molti anni fa chi si occupava di diritti umani era considerato una brava persona, una «crocerossina», una persona attenta a questioni di carattere umanitario, ma non appartenenti alla vera politica estera.


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L'evoluzione teorica del settore e le decisioni concrete di politica estera oggi invece si avvicinano sempre di più, per una serie di motivi che forse potremo approfondire, anche in Paesi che vogliono definirsi democratici.
Un elemento di questa evoluzione è sicuramente la giustiziabilità dei diritti umani, cioè il sistema per ottenere il rispetto di ogni diritto che sia scritto in una legge. In Europa, ma anche in altre regioni - il professor Maffettone citava qualche esempio, seppure embrionale -, quali l'Asia e l'America latina, e nella stessa Unione africana sono nate delle corti. La Corte di Strasburgo, in particolare, svolge una funzione notevole di monitoraggio e intervento all'interno degli Stati in ordine al rispetto dei diritti umani.
Notevole è anche l'introduzione dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, la quale, come ricordava giustamente il professore, interviene solo nei casi limite di genocidio, crimini di guerra o crimini contro l'umanità. Tuttavia, viene sancito un principio molto importante in base al quale gli Stati non possono disporre della vita dei loro cittadini ed esistono una responsabilità e un potere di intervento internazionale, anche attraverso il Consiglio di sicurezza, in ordine alle violazioni dei diritti umani.
Pochi mesi fa abbiamo avuto la prima applicazione di un altro in principio in questa direzione, cioè la responsabilità di proteggere i civili. Non solo esiste il dovere di intervento nel caso di gravi e manifeste violazioni dei diritti umani, come la NATO ebbe ad affermare la prima volta con l'intervento nei Balcani e in Kosovo, ma di fronte a queste situazioni esiste addirittura un dovere, una responsabilità della comunità internazionale.
Il punto che viene messo in discussione è il ruolo della sovranità degli Stati. Il nostro concetto di sovranità statuale, sviluppato nell'ottocento, che ha al centro il territorio e il controllo di esso da parte delle istituzioni che rappresentano i cittadini che su quel territorio vivono, è adeguato a consentire il rispetto dei diritti umani? Quanto sta avvenendo ci dimostra che così non è. Ormai gli eventi sociali ed economici superano i confini nazionali e la politica dovrà dare una risposta in tema di democrazia transnazionale o di nuove istituzioni che sappiano intervenire al di là e al di fuori dei confini nazionali per tutelare i diritti della persona.
Ciò che sta accadendo in Europa in queste ore dimostra che ci sono fenomeni, per il momento di carattere soprattutto economico e finanziario, che travalicano completamente i confini nazionali e incidono sulle realtà sociali, ma non esistono istituzioni politiche democratiche e rappresentative delle opinioni dei cittadini in grado di intervenire.
Non ho niente in contrario, ma la struttura della Banca centrale europea, che è nominata dai capi di stato e di governo e che ha poteri di intervento sui governi nazionali, è sostanzialmente di tipo intergovernativo non democratico. Credo, quindi, che la direzione dei fenomeni sociali che viviamo, da quelli migratori a quelli del mercato del lavoro, a quelli finanziari, richieda l'adeguamento anche delle strutture statuali e di intervento a tutela dei diritti dei cittadini.
La situazione attuale, specie con l'evoluzione dei mezzi di informazione a livello internazionale, richiede l'attuazione del principio di democrazia deliberativa, in base al quale occorre garantire ai cittadini piena informazione su ciò che accade e strumenti di intervento più democratici. Se le istituzioni non si adegueranno a questo sviluppo che interessa tutti i livelli, determinando un vuoto politico, questo vuoto sarà riempito da un potere di qualche altro tipo, economico, finanziario e quant'altro. In questo contesto evidentemente la difesa e il rispetto dei diritti delle persone potrebbe passare in secondo piano.
La mia opinione è che nel momento attuale la tutela, anche sovranazionale, dei diritti umani presenti dei limiti che si riscontrano nel fatto che si applica solo alle violazioni gravissime, tuttavia esistono strumenti giuridici, come la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, che sono considerati ormai diritto internazionale


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generale e quindi cogenti per tutti gli Stati. Il rispetto di tutti i diritti che sono elencati in questi strumenti significa rispetto della democrazia.
Anche la democrazia deve, quindi, diventare un diritto umano. Pensare che il diritto alla libertà di espressione, il diritto a poter competere in elezioni libere, il diritto a poter manifestare liberamente e tutti gli altri diritti civili e politici possano vivere all'interno di un sistema non democratico è una contraddizione in termini. Per altro, alcune risoluzioni dell'Assemblea generale dell'ONU hanno iniziato a esprimersi sulla connessione tra democrazia e diritti umani.
Per i Paesi che ritengono la democrazia un valore importante l'unico modo per difenderla è cercare di allentare il limite dei confini nazionali e spingere la democrazia a occuparsi anche di tutti i fenomeni transnazionali che ci riguardano. Credo che, rimanendo fermi politicamente all'illusione che gli Stati possano garantire le persone, saremo sconfitti dagli eventi, come sembra dimostrarci quanto sta accadendo.
È vero che dal punto di vista teorico, politologico e sociologico c'è ancora molto da fare, ma ancora di più si deve lavorare dal punto di vista politico. Non credo che si abbia consapevolezza della sfida che il mondo di oggi rappresenta e spero che questa sia per il Comitato un'occasione di approfondimento per tentare di dare un piccolo contributo alla nostra politica estera, che di questi temi negli ultimi anni si è molto dimenticata con l'illusione che occuparsi solo di affari e di economia fosse una garanzia di stabilità. In realtà abbiamo visto che trattare in particolare con Paesi che al loro interno non presentano né un sistema di stato di diritto, né il controllo sulla corruzione né la separazione dei poteri può anche significare mettere a rischio i nostri investimenti.
Ringrazio ancora una volta il professor Maffettone per la sua introduzione e rivolgo al presidente l'auspicio che si possano trovare occasioni ulteriori per approfondire questo tema.

JEAN LEONARD TOUADI. Grazie, professor Maffettone.
Io ritorno all'inizio della sua relazione, che ho trovato molto interessante come al solito. Lei parlava di incertezza nell'applicabilità, nel funzionamento e nello status dei diritti umani. Mi è piaciuta molto l'idea del «buco fondazionale». Tuttavia, alle origini della Dichiarazione universale dei diritti umani fu compiuto qualcosa che possiamo chiamare un vero e proprio miracolo.
C'era ovviamente l'impulso dei vincitori della guerra, tra i quali vi erano Paesi democratici e non democratici, ma al varo della Dichiarazioni hanno collaborato, come detto, Paesi democratici e non democratici, Paesi che in seguito avrebbero fatto parte della NATO e del Patto di Varsavia, Paesi musulmani, Paesi buddisti. A mio avviso è stato riconosciuto qualcosa che definirei pre-politico. È stata riconosciuta, cioè, la connaturalità dei diritti di ogni persona. Vero è che uscivamo della seconda guerra mondiale con lo choc della Shoah, che probabilmente era presente nella consapevolezza non solo degli Stati vincitori, ma anche dei vinti.
Via via che ci siamo allontanati dal momento traumatico che ha generato questo miracolo, ci siamo imbattuti nella vera questione del diritto internazionale. Nell'articolazione tra norma e sanzione è venuta, infatti, a mancare non solo una sanzione efficace che desse alla norma la sua forza, ma è venuto meno anche l'organo titolare della tutela e della prerogativa di sanzionare. Basta considerare come si è evoluto il Consiglio di sicurezza nell'esercizio del diritto di veto.
Ammonizione e rimprovero sono diventate pie esortazioni. Le sanzioni economiche in un contesto di libero mercato, come sappiamo, sono facilmente aggirabili e comunque nella scelta tra interessi economici e diritti umani gli Stati hanno sempre scelto i propri interessi. Memori di ciò che diceva De Gaulle - la France n'a pas d'amis, elle n'a que des intérêts -, la maggior parte degli Stati ha solo interessi e non amici.


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Quanto alla sanzione militare, è unilaterale e dipende dall'interpretazione che viene data volta per volta alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza, risoluzioni che per alcuni arrivano fino a un certo punto e per altri si fermano prima, senza che si abbia mai un'interpretazione univoca.
Sotto questo punto di vista la tutela internazionale dei diritti umani è un fallimento. Mi chiedevo se, superato quel momento fondativo con lo choc della Shoah, la comunità internazionale potrà vivere un altro momento pre-politico come quello che diede vita alla Dichiarazione universale.
La seconda domanda sarà più breve. È suggestiva l'idea di lasciare le forze libere di operare da sole, come si è visto, per esempio, in Nord Africa. Quei gruppi di giovani, la cosiddetta società civile forse è meno sola grazie a Internet, ma rimane sola nel sistema delle relazioni internazionali perché gli Stati trattano con gli Stati e non hanno come interlocutori le società civili dei Paesi dove siano stati eventualmente violati i diritti umani o dove la società civile stia compiendo progressi in direzione del pluralismo e di una maggiore tutela dei diritti umani.
Gli Stati trattano con gli Stati in uno schema bilaterale o tutt'al più multilaterale, lasciando alle società civili come interlocutore, se tutto va bene, altre società civili di Paesi occidentali. Come si esce da questa impasse?
Ciò che lei dice è suggestivo, ma la verità dei rapporti diplomatici ci racconta un'altra cosa.

FRANCESCO TEMPESTINI. Tenterò qualcosa un po' fuori dell'ordinario.
Chiederò al professor Maffettone di farci da consulente o meglio di mettersi per un attimo da questa parte e cercare di aiutarci a risolvere un dubbio del legislatore. Non le parlo di una cosa astratta, ma di qualcosa che sta accadendo in queste aule in questi giorni.
Noi dobbiamo ratificare un accordo internazionale tra Italia e Cina sulle coproduzioni cinematografiche. Naturalmente le coproduzioni tra Italia e Cina sono benvenute e costituiscono uno strumento attraverso il quale sviluppare quell'humus culturale in grado di allargare le maglie di un possibile pluralismo.
Il legislatore si è bloccato su un articolo, l'articolo 10, di questo testo, che per il resto è assolutamente condivisibile. Questo articolo stabilisce che, una volta ultimato, il film cofinanziato e prodotto congiuntamente deve essere esaminato e approvato dalle competenti autorità di entrambe le parti e può essere distribuito e proiettato all'interno o all'esterno di ciascun Paese solo quando il permesso di uscita in pubblico è accordato dall'autorità competente. Molti di noi vi vedono un contrasto con il dettato costituzionale.
Che fare? Procedere e dare il via libera all'accordo o rifiutarsi in nome del fatto che si può determinare una possibile, ma molto prevedibile, violazione di diritti? Cosa deve fare il legislatore? Naturalmente la mia è un amichevole invito a ragionare, non le chiedo niente di più.
Conoscendola, so che non le manca il giusto spirito per rispondere.

FIAMMA NIRENSTEIN. Mi scuso per la mia specifica incompetenza nell'intervenire in questo dibattito, non avendo potuto arrivare in tempo per ascoltare la relazione del professor Maffettone, un caro amico e uno scienziato da me profondamente apprezzato, che conosco da molti anni. Mi limiterò perciò a un'osservazione piccola, ma a mio modo di vedere molto importante, che riguarda il campo di cui mi occupo in modo particolare e cioè il Medio Oriente.
Vorrei sottolineare qui - e mi piacerebbe che il professor Maffettone mi desse il suo contributo - che sulla questione mediorientale tutti gli organismi delle Nazioni Unite per i diritti umani si sono sempre comportati in maniera a dir poco disdicevole. Addirittura, alcuni anni fa la Commissione per i diritti umani fu trasformata in Consiglio per i diritti umani in modo da cambiarne il nome e lo statuto perché l'estremo accanimento, al di fuori di ogni ragionevolezza, nei confronti dello Stato di Israele e la totale ignoranza sulla


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continua violazione dei diritti umani negli altri Paesi sia mediorientali sia del mondo in generale era risultato uno scandalo culturale e politico di dimensioni cosmiche.
La situazione ha seguitato a riproporsi. La fondazione del Consiglio per i diritti umani non ha cambiato in niente la linea precedente. I due terzi delle riunioni del Consiglio per i diritti umani, che avrebbe dovuto cambiare le cose, sono di nuovo dedicati in maniera assolutamente stupefacente allo Stato di Israele, senza che vengano mai sanzionate o prese in considerazione le violazioni spaventevoli dei diritti umani di Paesi come l'Iran, l'Arabia Saudita o semplicemente la Cina.
L'anno scorso, in occasione della premiazione del dissidente cinese premio Nobel per la pace, la presidente del Consiglio per i diritti umani non si presentò. Peraltro, di questo premio Nobel si sono perse praticamente le tracce. Non si riescono più ad avere notizie soddisfacenti, proprio perché non disponiamo di strumenti che prescindano dai rapporti di forza e dalla politica sui diritti umani parziale e inconsistente applicata dalle Nazioni Unite.
Vorrei che il focus fosse su questo organismo che, come diceva il collega Touadi, nasce da un'ispirazione epocale, legata alla Shoah e alla fine della seconda guerra mondiale, ma andata perduta nel corso degli anni.
Mi domando se il professore abbia una spiegazione per questa disdicevole e pesantissima vicenda e come vi si potrebbe porre rimedio, prendendo in considerazione anche il fatto che tutti i gruppi di osservazione delle ONG sottolineano ripetutamente la disparità di giudizio sul tema dei diritti umani tra lo Stato di Israele e tutti gli altri Paesi del mondo.

PRESIDENTE. Ringrazio i colleghi e do la parola al professor Maffettone per la replica.

SEBASTIANO MAFFETTONE, Direttore del Dipartimento di Scienze politiche della Libera Università Internazionale degli Studi Sociali (LUISS). Vorrei cominciare con un'osservazione banale, ma secondo me interessante dal punto di vista della storia spicciola delle nostre vite.
Io sono sempre stato un fautore dei diritti umani sia teorico che pratico. Però, quando ero giovane, questo significava qualcosa di molto diverso da ora. Quand'ero giovane, i fautori della pace erano per l'Unione Sovietica e i fautori dei diritti umani erano per gli Stati Uniti. Non si poteva, quindi, affrontare l'argomento in maniera seria perché veniva subito deviato su altro.
Dal 1989 per fortuna le cose non stanno più così. Possiamo parlare di diritti umani in maniera serena ed equilibrata nell'interesse di tutti. Sembra poco, ma in termini di discorso pubblico è molto importante.
Quanto al concetto del vicino e lontano, spostare le frontiere è certamente importante. È una questione di prospettiva. Noi italiani, che conosciamo bene la prospettiva lineare, sappiamo che il punto di vista è decisivo per l'immagine. Come tutti gli spostamenti lineari, però, non è detto che lo spostamento di un problema vada nella giusta direzione. Può migliorare avvicinandosi o può migliorare allontanandosi.
Non è detto che allontanare sia sempre positivo. Se sul luogo si esercita un rispetto particolare per la difesa dei diritti umani e si allontana la decisione, portandola a Mosca o a Berlino negli anni Trenta, la decisione finale non sarà migliore. Come per tutti gli spostamenti spaziali, l'esito è empirico e dipende dalle circostanze. Sarà sempre la valutazione normativa finale a decidere se ciò che è avvenuto è per il bene o per il male, anche nella prospettiva dei diritti umani.
Per sottolineare l'aspetto problematico forse ho esagerato. Io non penso affatto che i diritti umani siano privi di fondamenti giuridici. Penso che certe volte sia complicato rintracciarli e che ci sia una scala: più ci si avvicina al cosiddetto diritto umanitario più è facile trovare i fondamenti giuridici. Più ci si avvicina ai diritti economici, più è difficile. Se un Paese non assicura lavoro ai suoi abitanti


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e questi non possono condurre una vita decente, non è un problema facile per i diritti umani.
Anche in casi gravi, come per esempio quello della mutilazione genitale femminile, conta molto lo spazio. Una cosa è l'Italia, una cosa è un Paese africano di tradizione islamica in cui si pratichi la mutilazione. Qui è molto difficile sostenere che si possa praticare, lì probabilmente è più facile perché non possiamo intervenire in un Paese che pratichi la mutilazione genitale femminile per impedirla.
A Parigi, circa vent'anni fa, adoperai questo caso come esempio di chiara violazione dei diritti umani. Una signora africana mi disse che non ero donna, non ero africana e non l'avevo mai fatto. Lei l'aveva fatto, era donna, era africana e sapeva che era un'ottima cosa. Io non ne sono convinto, ma è difficile ribattere a un argomento del genere.
Non si può andare in un paese che ritiene normale una pratica e dire che non si deve fare. Qui non lo riteniamo normale e possiamo dire che non si fa. Il problema è che manca la struttura unitaria di comando e non opera la sovranità condivisa (questo mi aiuterà a rispondere anche all'onorevole Tempestini, che pone una domanda più impossibile delle altre).
L'onorevole Mecacci è stato iper-ottimista, mentre l'onorevole Touadi è stato estremamente pessimista. Io credo che il buonsenso, se non la verità, stia nel mezzo. Il documento più interessante sul rapporto tra diritti umani e relazioni internazionali, sia come pratica sia come disciplina, è Responsibility to Protect ed è stato scritto in ambienti canadesi e affini. Come al solito, non c'è nemmeno un autore italiano, il che ci penalizza. Il fatto che gli italiani non siano presenti nell'estensione di questi documenti internazionale è un problema, ma anche un grande spunto di collaborazione, ammesso che sia possibile.
Visto che mi trovo in una sede importante, faccio un po' di pubblicità. Noi produciamo ogni anno otto ricercatori con un dottorato di ricerca in political theory, svolto in inglese, su questi temi. Sono tutte persone che sanno scrivere bene documenti in inglese, non solo per la forma linguistica, ma anche per il contenuto dei medesimi, e che hanno studiato documenti del genere. Secondo me dovremmo usare di più questi ragazzi. In generale li mandiamo all'estero, come da tradizione italiana, ma facciamo male.
Io non sono molto bravo nelle cose pratiche, ma credo che dovremmo adottare qualche disposizione «autarchica» per esportare persone con un alto grado di istruzione solo a parità di import. Se noi continueremo a prendere solo badanti e lavavetri, con il massimo rispetto per entrambe le categorie perché sono persone che lavorano, e continueremo a inviare all'estero giovani PhD, impoveriremo il Paese senza un'adeguata giustificazione.
Detto questo, non è del tutto vero che l'enforcement dei diritti umani sia possibile. To enforce è un bellissimo termine inglese, che non esiste né in italiano né in francese. Probabilmente noi siamo più miti. «Giustiziabilità» rende in qualche modo l'idea. Io in italiano uso «far valere», ma il concetto di forza contenuto nel termine inglese si perde.
I problemi principali sono due. Il primo è quello dell'enforcement e dell'applicabilità concreta; l'altro è quello della differenza culturale. Per chi è curioso di conoscere il pedigree intellettuale e filosofico dei due modelli, direi Carl Schmitt per la capacità di far valere e Heidegger per la differenza culturale. Sono questi i «padrini» filosofici delle due critiche ai diritti umani.
Come al solito, le critiche servono a capire i concetti. La prima afferma che non è possibile far valere i diritti umani in sedi extra statali accettate e la seconda che la differenza culturale qualifica la validità dei diritti umani. Sembrano molto diverse, ma in realtà è tutta una questione di spazio. Secondo la prima teoria, non esistono strutture di sovranità universale e per la seconda, invece, ciò che vale per una cultura non vale per un'altra.
Sono entrambi punti di vista discutibilissimi e l'onorevole Mecacci ha portato ottimi esempi che dimostrano come almeno


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in Europa non sia così (fuori dall'Europa avrei più dubbi). Sta, però, sorgendo un altro problema legato al fatto che i tribunali internazionali oggi in attività sono 2.500. La indecidibilità dei casi non è più dovuta all'assenza di corti, ma all'eccesso di corti. Un caso che riguardi il rame in Cile può essere discusso da quattro corti perlomeno, una delle Nazioni Unite, una del Cile, una specializzata in rame, un arbitrato tra compagnie transnazionali eccetera. Si sta verificando una specie di effetto di ridondanza degli apparati giurisdizionali.
Resta, secondo me, il problema fondamentale che la democrazia non si può considerare un diritto umano e che non si può intervenire in un Paese poco democratico. Se a decidere è un'assemblea tribale con procedure estremamente informali e ovviamente non controllabili, non abbiamo il diritto di intervenire per bloccarla. Questo secondo me è il punto. C'è poco da fare. Siccome non esiste lo «Stato mondo» e, avendo tutti letto Orwell, non è detto che sia un male assoluto, non possiamo andare fisicamente in un Paese a dire cosa si può e cosa non si può fare. Chi potrebbe scagliare la prima pietra? Nessuno è immune da violazioni.
Io non sono d'accordo sul fatto che siamo tutti uguali. Gli Stati Uniti non equivalgono all'Iraq di Saddam, ma hanno Guantanamo e compiono molte violazioni ai diritti umani. Leggendo i rapporti di Amnesty International ci si accorge che tutti i Paesi del mondo sono pieni di violazioni. È quindi molto difficile avere titolo per intervenire.
L'altra cosa interessante è il filtro democratico all'ingresso delle organizzazioni internazionali. Tony Blair ci ha lavorato molto, ma si è visto che è un'idea difficile.
Per quanto riguarda il problema sollevato dall'onorevole Tempestini a proposito del cinema cinese, la soluzione tradizionale sarebbe non accettare la censura in Italia, ma solo in Cina, e salvare la Costituzione. Non so se i cinesi accetterebbero, ma questa è la soluzione tradizionale. Mancando l'organismo centrale di mediazione, ognuno si fa i fatti propri.
Su Israele non ho molto da dire, salvo che da quando sono direttore alla LUISS abbiamo rafforzato il settore Medio Oriente, che prima non esisteva. Adesso teniamo cinque o sei corsi che trattano di Medio Oriente in maniera tendenzialmente equa, per quanto sia difficile farlo.
Una delle cause del comportamento degli organi delle Nazioni Unite, è il ruolo giocato dagli Stati Uniti, che non sono particolarmente «amati» in Medio Oriente dalla parte araba. L'altra causa è la mancanza dell'Europa, che avrebbe potuto fare moltissimo per riequilibrare. Ha avuto autostrade di spazio politico e non le ha sfruttate, e questo chiama in causa anche l'Italia.

PRESIDENTE. Ringrazio i colleghi intervenuti e soprattutto il professor Maffettone che ha arricchito questa indagine con la sua scienza ed esperienza.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,10.

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