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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione III
19.
Martedì 10 luglio 2012
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Colombo Furio, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SU DIRITTI UMANI E DEMOCRAZIA

Audizione di rappresentanti di Amnesty International:

Colombo Furio, Presidente ... 3 10 14
Barbi Mario (PD) ... 10
Galli Daniele (FLpTP) ... 12
Marinari Annunziata, Coordinatrice per la Campagna Medio Oriente e Nord Africa della Sezione italiana di Amnesty Inter-national ... 7 11 13
Pianetta Enrico (PdL) ... 12
Sami Carlotta, Direttrice della sezione italiana di Amnesty International ... 3 13
Touadi Jean Leonard (PD) ... 11
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, Democrazia Cristiana): PT; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A; Misto-Noi per il Partito del Sud Lega Sud Ausonia: Misto-NPSud; Misto-Fareitalia per la Costituente Popolare: Misto-FCP; Misto-Liberali per l'Italia-PLI: Misto-LI-PLI; Misto-Grande Sud-PPA: Misto-G.Sud-PPA; Misto-Iniziativa Liberale: Misto-IL.

COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI
Comitato permanente sui diritti umani

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 10 luglio 2012


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE FURIO COLOMBO

La seduta comincia alle 12,35.

(Il Comitato approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti di Amnesty International.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle violazioni dei diritti umani nel mondo, l'audizione di rappresentanti di Amnesty International.
Ricordo che i rappresentanti di Amnesty International sono stati auditi dal nostro Comitato numerose volte nel corso della legislatura, da ultimo lo scorso 27 marzo sulla situazione dei diritti umani in Libia. L'audizione odierna segue di poche settimane la presentazione del rapporto annuale di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel mondo. Le nostre ospiti ci forniranno, quindi, un quadro generale della situazione dei diritti umani e un approfondimento su quanto accade in Medio Oriente e Nord Africa, alla luce degli eventi degli ultimi diciotto mesi che hanno profondamente mutato il quadro politico della regione.
Non è agevole riassumere un rapporto della qualità, della natura e del dettaglio di quello mondiale di Amnesty International. Credo che avrete già scelto dei punti sui quali incentrare la vostra relazione e mi auguro vivamente che tra essi ci sia anche l'Italia.
Saluto e ringrazio per la loro disponibilità Carlotta Sami, direttrice della sezione italiana di Amnesty International, Annunziata Marinari, coordinatrice della campagna Medio Oriente e Nord Africa di Amnesty International sezione italiana, Elena Santiemma, responsabile delle relazioni istituzionali.
Do, quindi, la parola alle nostre ospiti per lo svolgimento della relazione.

CARLOTTA SAMI, Direttrice della sezione italiana di Amnesty International. Grazie, presidente. Inizio dicendo che purtroppo questa volta non abbiamo preparato un focus sull'Italia, ma ci mettiamo a disposizione per un'altra eventuale audizione specificamente dedicata all'Italia. Nel rapporto parliamo dell'Italia e sono diverse le questioni che si potrebbero approfondire. Oggi, invece, faremo un excursus a livello internazionale, focalizzandoci su Medio Oriente e Africa del Nord.
La novità più importante del rapporto annuale, che riguarda il 2011, è il riferimento alle rivolte verificatesi in molti Paesi, tra cui in particolare le nazioni arabe dell'Africa del Nord. Il rapporto rileva quanto tali rivolte siano state forti nelle loro manifestazioni, ma non altrettanto forti nella capacità di avere un seguito e mettere a disposizione della popolazione una leadership adeguata.
La portata di queste proteste è stata dirompente soprattutto in Medio Oriente nell'Africa del Nord, da cui la protesta si


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è estesa ad altre aree del mondo, intrecciandosi con le rivendicazioni di coloro che chiedevano e continuano a chiedere soluzioni eque per uscire dall'attuale crisi economica.
È una protesta che ha contribuito a dare vita a quello che può essere considerato un movimento globale spontaneo di uomini e donne che hanno trascorso giorni e settimane in strada. Questa della presenza delle popolazioni nelle strade e nelle piazze, da Tunisi a Damasco, da Tripoli a Manama, dal Cairo, a San'a', da Mosca a Londra, ad Atene in Europa, è una caratteristica molto importante, che sta influenzando anche i Paesi africani, come vediamo in questi giorni in Sudan.
Ovunque si chiede di porre i diritti delle persone prima degli interessi economici, prima delle alleanze politiche e soprattutto prima dei profitti. Amnesty International ha chiesto a gran voce e continua a chiedere a livello internazionale il necessario ribaltamento delle priorità.
Per quanto riguarda il Medio Oriente e l'Africa del Nord, regione della quale ci parlerà più diffusamente la coordinatrice delle nostre campagne in quest'area, in diversi Paesi uomini e donne hanno sfidato le repressioni e continuino a farlo. Alcuni regimi che sembravano totalmente inattaccabili sono crollati, mentre quelli che non sono caduti hanno dimostrato di essere disposti a tutto pur di rimanere aggrappati al potere.
Le proteste di strada e di massa si sono poi diffuse in altre parti del mondo, come ad esempio in Cina e in Russia. Il Governo cinese ha mostrato un'evidente paura della propagazione del vento di rivolta dal Medio Oriente e dall'Africa del Nord e, nonostante i numerosi arresti e i controlli ancora più stretti sulle comunicazioni, in tutto il Paese le manifestazioni sono state migliaia. In Russia corruzione, oligarchismo e scarsa tenuta del processo democratico hanno alimentato un ciclo di proteste che non era mai stato rilevato dalla fine dell'Unione Sovietica, soprattutto in occasione delle scadenze elettorali. Molte manifestazioni sono state represse con violenza e i loro organizzatori arrestati.
In Europa, con l'acuirsi della crisi economica, manifestazioni contro le politiche di austerity si sono svolte in moltissimi Paesi. In Grecia e Spagna in particolare abbiamo rilevato un uso eccessivo della forza nella repressione e nel controllo delle proteste. Allo stesso modo, negli Stati Uniti le forze di polizia hanno reagito in modo violento e a New York è stata rispolverata una legge del XVIII secolo che vieta di indossare maschere facciali.
Di fronte a tutto questo la risposta della comunità internazionale ha evidenziato un profondo fallimento della leadership globale. I governi dei Paesi in cui si sono svolte le proteste hanno risposto o con brutalità o con indifferenza. Quelli non direttamente coinvolti hanno agito in modo tale che le alleanze opportunistiche e gli interessi finanziari potessero avere il sopravvento sui diritti umani, mentre le potenze globali si spintonavano per esercitare influenza politica ed economica in Medio Oriente e in Africa del Nord, continuando a trascurare la dimensione dei diritti umani soprattutto nell'ambito degli accordi diplomatici.
In questi anni abbiamo chiesto l'intervento della Corte penale internazionale in tre diverse situazioni: nella Libia di Gheddafi, per la Siria di Assad e per il conflitto del 2008-2009 tra Israele e Gaza. Solo nel caso della Libia il Consiglio di sicurezza ha accolto la nostra richiesta. È sconcertante per Amnesty International constatare come gli Stati membri permanenti, Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti d'America, abbiano un potere assoluto di veto e però contemporaneamente siano tra i più grandi venditori di armi al mondo.
Abbiamo verificato, ed è sotto gli occhi di tutti, che negli ultimi mesi le vendite di armi dalla Russia verso la Siria sono in costante aumento. L'irresponsabile vendita di armi da parte di questi Paesi ha provocato un numero incalcolabile di vittime.
La protesta sociale ha preso forza anche nelle Americhe, portando spesso le persone a scontrarsi con potenti interessi economici e politici. Il rapporto annuale di Amnesty International denuncia violazioni dei diritti umani ai danni delle comunità native


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delle Americhe collegate all'aumento dello sfruttamento delle risorse. Attivisti per i diritti della terra sono stati, infatti, minacciati e uccisi in Paesi come Brasile, Colombia e Messico.
Difensori dei diritti umani in America Latina e nei Caraibi hanno subito minacce, intimidazioni e attacchi mortali. A Cuba, nonostante sia stato ultimato il rilascio dei prigionieri di coscienza condannati nel 2003, il dissenso continua a essere soffocato. I migranti che sono in transito per il Messico sono regolarmente attaccati, stuprati e uccisi. In questo Paese è stato registrato un numero impressionante di attacchi contro i giornalisti, che hanno subito attacchi e intimidazioni anche in Honduras. La violenza di genere e la violazione dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne e delle ragazze sono rimaste in questi Paesi una preoccupazione diffusa a cui ancora non è data soluzione.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il centro di detenzione di Guantanamo Bay ha continuato a operare e, nonostante la promessa del Presidente Obama di chiuderlo entro gennaio 2010, è entrato nel suo decimo anno di attività, con oltre 170 prigionieri ancora reclusi.
Nei Paesi dell'Africa subsahariana si sono svolte molte manifestazioni antigovernative sempre represse con violenza dalle forze di sicurezza, che hanno usato anche armi letali contro i dimostranti e sono rimaste quasi sempre impunite. La violenza e i conflitti armati hanno provocato indicibili sofferenze e innumerevoli vittime in Costa d'Avorio, nella regione orientale della Repubblica Democratica del Congo e in Somalia.
La violenza ha poi contraddistinto il periodo successivo al voto per l'indipendenza del Sud-Sudan, mentre il Consiglio di sicurezza dell'ONU, insieme al Consiglio per la pace e la sicurezza dell'Unione africana, ha mancato nuovamente di far sentire parole di condanna nel caso dei bombardamenti indiscriminati dell'aviazione del Sudan o della chiusura da parte del Governo sudanese agli aiuti delle organizzazioni umanitarie.
Giornalisti, difensori dei diritti umani e oppositori politici hanno subito minacce, intimidazioni, arresti arbitrari, imprigionamenti e attacchi mortali. In Africa segnaliamo inoltre il peggioramento della discriminazione a causa dell'orientamento sessuale e dell'identità di genere e la sempre maggiore vulnerabilità agli atti di terrorismo da parte di gruppi armati islamisti in alcuni Paesi del continente.
In Asia e nell'area del Pacifico rileviamo che la libertà d'espressione ha subito restrizioni importanti. Poeti, giornalisti, blogger, oppositori sono stati ridotti al silenzio e l'uso di Internet è stato sottoposto a forti controlli. In India sono state introdotte nuove restrizioni ai social media.
Alla fine dell'anno rimanevano 200.000 dissidenti nei campi di prigionia della Corea del nord, dove la tortura risulta diffusa, così come in Cina, dove hanno probabilmente avuto luogo migliaia di esecuzioni nonostante il Governo si ostini a non rendere pubblici i dati, impedendoci così di confermare quella che è una dichiarata diminuzione dell'uso della pena di morte.
In Tailandia sono state inflitte dure pene detentive per offese alla famiglia reale. Le minoranze etniche e religiose hanno continuato a subire discriminazioni. In Pakistan due politici sono stati assassinati per aver contestato l'uso della legge sulla blasfemia. La comunità ahmadi è stata discriminata in Bangladesh, Indonesia, Pakistan, Malesia e altrove. Torture e maltrattamenti sono stati documentati in numerosi Paesi. I lavoratori migranti sono stati sfruttati in vari Paesi, con il rischio di diventare vittime della tratta degli esseri umani e di essere costretti a svolgere il lavoro forzato.
La buona notizia arriva dal Myanmar, dove il Governo ha preso la storica decisione di liberare oltre trecento prigionieri politici e di consentire ad Aung San Suu Kyi di candidarsi alle elezioni. L'escalation delle violazioni di diritti umani collegate al conflitto nelle zone dove vivono le minoranze etniche, nonché i continui arresti e intimidazioni contro gli attivisti suggeriscono


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comunque cautela e una valutazione del prosieguo delle riforme, che per ora hanno ancora una portata limitata.
Un discorso a sé e particolare attenzione meritano anche quest'anno i Paesi dell'ex Unione Sovietica. In tutta l'area, dall'Europa orientale all'Asia centrale, difensori dei diritti umani e giornalisti sono stati frequentemente perseguitati, intimiditi e picchiati. In Kazakistan, Turkmenistan e Uzbekistan persone che avevano criticato le autorità sono state sottoposte a processi irregolari e a persecuzioni. Le proteste antigovernative in Bielorussia e Azerbaigian sono state stroncate con violenza o dichiarate illegali e i loro organizzatori sono stati imprigionati.
Per quanto riguarda il nostro continente, segnaliamo la crescente retorica xenofoba da parte di esponenti politici, che ha contribuito ad alimentare un clima di intolleranza e di criminalizzazione soprattutto nei confronti di rom e migranti. Gli Stati membri dell'Unione europea non sono ancora riusciti ad adottare una nuova direttiva antidiscriminazioni e si spera che presto ci saranno sviluppi. Tale direttiva avrebbe potuto già tutelare coloro che subiscono discriminazioni per motivi di disabilità, religione, orientamento sessuale ed età.
L'impunità per i crimini commessi nella ex Jugoslavia tra il 1992 e il 1995 ha subito, però, importanti colpi perché il 14 aprile il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia ha condannato a 24 e 18 anni Ante Gotovina e Mladen Markac, due generali dell'esercito croato, per crimini contro l'umanità commessi nel corso dell'operazione «Tempesta», realizzata fra l'agosto e il novembre del 1995, con cui la Croazia riconquistò la regione della Krajina, compiendo numerosi massacri e deportando la popolazione serba.
Il 26 maggio è stato arrestato in Serbia Ratko Mladic, sospettato di crimini di guerra in relazione all'omicidio di almeno 8.000 musulmani a Srebrenica nel 1995. Il 29 luglio, sempre in Serbia, è stato arrestato con le accuse di omicidio, imprigionamento e riduzione in lavoro forzato di civili croati e di altra nazionalità non serba residenti nella Slavonia orientale fra il 1991 e il 1993 Goran Hadzic, l'ultimo principale indiziato di crimini di guerra e crimini contro l'umanità nei Balcani ancora latitante.
Infine, il 6 settembre il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia ha condannato a 27 anni di carcere Momcilo Perisic, ex capo dell'esercito jugoslavo, per crimini contro l'umanità e crimini di guerra durante l'assedio di Sarajevo dal 1992 al 1995 e per il massacro di Srebrenica del luglio 1995.
Il fallimento della leadership globale è emerso anche nella mancata regolazione e moderazione degli interessi e delle attività di multinazionali come la Shell in Nigeria e la Vedanta in India. Come si diceva all'inizio, è evidente che i profitti vengono prima dei diritti umani. Per uscire dal proprio fallimento, i governi devono saper dimostrare di avere una leadership legittima ed essere in grado di combattere l'ingiustizia, proteggendo chi è senza potere e limitando l'azione di chi il potere lo ha.
Ciò può essere fatto solamente in tre modi. In primo luogo, ponendo fine a ogni ipocrisia di fondo, cessando di proteggere i dittatori e i loro alleati e di affermare che alcuni popoli non sono ancora pronti per la democrazia e i diritti, pretendendo il rispetto della libertà d'espressione, dando ascolto alle richieste di libertà, giustizia e dignità e finendola con lo sfruttare sincere preoccupazioni per la sicurezza o per gli elevati tassi di criminalità allo scopo di giustificare o ignorare violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza.
In secondo luogo, prendendo sul serio le responsabilità internazionali, ponendo pace, sicurezza e diritti al posto che loro compete, cioè prima dei profitti, degli interessi egoistici e del mantenimento dello status quo a tutti i costi, e ricompensando il coraggio di un popolo che scende in piazza promettendo di impegnarsi verso un futuro più giusto.
In terzo luogo, gettando le basi per un sistema di governance internazionale in cui gli Stati membri permanenti del Consiglio


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di sicurezza e le potenze emergenti investano in sistemi e strutture basate sui diritti umani, sullo stato di diritto, sulla trasparenza, sull'eguaglianza politica e legale delle donne, sulla lotta alla discriminazione, alla corruzione e all'impunità.
Amnesty International entra nel 2012 nel suo sesto decennio di attività. Continueremo a condurre ricerche, a fare un'informazione veritiera e imparziale e a pubblicare rapporti. Continueremo a raccontare, a rappresentare e ad affiancare coloro che vivono la sofferenza all'ombra delle violazioni dei diritti umani, ma anche a dare ispirazione a coloro che decidono di agire, spesso con grandissimo rischio personale, per assicurare diritti umani e dignità a tutte le persone sia in Italia che nel resto del mondo.

ANNUNZIATA MARINARI, Coordinatrice per la Campagna Medio Oriente e Nord Africa della sezione italiana di Amnesty International. Egregio presidente, egregi deputati, per i popoli e gli Stati della regione del Medio Oriente e Africa del Nord il 2011 è stato realmente l'anno della svolta, un anno segnato da rivolte popolari e tumulti senza precedenti, in cui le istanze fortemente represse, le richieste e le proteste di una nuova generazione hanno spazzato via in successione una serie di vecchi governanti che, fino a poco prima della loro caduta, sembravano a tutti gli effetti inattaccabili.
A fine anno, altri rimanevano aggrappati al potere, ma unicamente utilizzando i mezzi più spietati. Il loro futuro era in bilico. La regione nel complesso era ancora turbata dai fremiti e dalle ripercussioni del terremoto politico e sociale deflagrato nei primi mesi dell'anno. Benché rimanessero molte incertezze, gli eventi del 2011 sono parsi essere in tutto e per tutto altrettanto significativi per la popolazione della regione come lo erano stati la caduta del muro di Berlino e il crollo dell'impero sovietico per la popolazione delle regioni dell'Europa e dell'Asia centrale.
Non c'è un solo Paese dell'area che parte dal Marocco e arriva ai Paesi del Golfo Persico che in questi mesi sia rimasto estraneo a richieste di profondi cambiamenti. In decine di capitali e altre città di questi Paesi attivisti per i diritti umani, studenti, esponenti delle categorie professionali, sindacati, comitati delle famiglie delle vittime della repressione, gruppi giovanili e tanti altri sono scesi in piazza per chiedere democrazia, giustizia, libertà, dignità, fine della corruzione e fine delle dittature.
A supporto di queste richieste, centinaia di migliaia di persone, tra le quali le donne, sono state visibilmente in prima linea. Hanno riempito le strade di Tunisi, del Cairo, di Bengasi, di Sanaa e di molte altre città e varie località dell'intera regione per chiedere il cambiamento. Hanno continuato a farlo, malgrado la carneficina che si consumava intorno al loro sotto i colpi delle forze di sicurezza.
L'hanno fatto con determinazione, risoluzione e indomito coraggio e si sono liberate con le loro stesse mani di quella paura che per lungo tempo i governi avevano instillato allo scopo di mantenerle zitte e immobili al loro posto. Almeno per una volta l'idea del potere al popolo ha influenzato l'intera regione, scuotendola nel profondo.
Inizialmente le proteste hanno per lo più dato voce alla frustrazione popolare per l'incapacità dei leader nazionali di affrontare i bisogni e le aspirazioni della gente. La risposta tipica di questi leader è stata sguinzagliare i loro poliziotti antisommossa e gli agenti di sicurezza per annientare con la forza le proteste. Ma in questo modo non hanno fatto altro che gettare benzina sul fuoco, facendo scattare nella gente indignazione e disprezzo ancora più profondi.
Mentre i manifestanti venivano eliminati a sangue freddo, rastrellati in arresti di massa, torturati, abusati, il risentimento della popolazione si rafforzava. Senza lasciarsi intimidire dal bagno di sangue, un numero sempre maggiore di persone si radunava nelle strade per chiedere la sostituzione o il rovesciamento di leader


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nazionali ormai screditati e disprezzati, che cercavano di consolidare le dinastie familiari per mantenersi al potere.
In alcuni Paesi un mix di modeste riforme da parte dei governi e di violenza da parte delle forze di sicurezza ha evitato che la situazione degenerasse in una rivolta aperta. Così è accaduto in Marocco, in Algeria e in Giordania. In Algeria il Governo ha fatto intervenire in modo massiccio le forze di sicurezza per scoraggiare le manifestazioni, ma ha anche cercato di allentare la tensione revocando uno stato di emergenza in vigore da 19 anni.
Il sultano dell'Oman ha promesso di creare migliaia di posti di lavoro e ha aumentato l'indennità per i disoccupati. Ha inoltre ordinato il rilascio dei manifestanti detenuti. In Arabia Saudita alcune notizie riferiscono che il Governo avrebbe corrisposto più di 100 miliardi di dollari americani ai propri cittadini mentre proclamava la messa al bando di tutte le manifestazioni pubbliche. L'esecutivo saudita ha mobilitato le forze di sicurezza, schierandole contro chiunque prendesse parte alle cosiddette «giornate della rabbia» a Riyad.
Il Governo iraniano è divenuto sempre più isolato a livello internazionale e non ha tollerato alcuna forma di dissenso all'interno dei propri confini. I difensori dei diritti umani, gli attivisti per i diritti delle donne e delle minoranze sono stati tra le persone più perseguitate. La pena di morte è stata impegnata su scala esponenziale con il dichiarato scopo di punire i criminali, ma anche di intimidire la popolazione. A livello globale solo la Cina ha registrato un numero maggiore di esecuzioni.
In quattro Paesi le rivolte hanno più o meno rapidamente portato alla fine di regimi al potere da decenni. Nello Yemen un accordo ha convinto il presidente Saleh ad abbandonare il governo in cambio dell'impunità per 32 anni di violazioni dei diritti umani. In Egitto e in Tunisia le rivolte popolari hanno spinto velocemente alle dimissioni i Presidenti al potere, ma al prezzo di oltre un migliaio di morti tra Tunisi e il Cairo. In Libia l'operazione militare della NATO ha dato un contributo decisivo alla caduta di Muammar Gheddafi.
È troppo presto per dare una risposta definitiva alla domanda se la situazione dei diritti umani sia cambiata in meglio. Quello libico è probabilmente lo scenario ideale per dare una risposta negativa. In Libia è in corso, nella totale assenza di controllo da parte delle autorità, il dominio delle milizie armate, che si rendono responsabili di arresti arbitrari e detenzioni (sarebbero tra 4.000 e 7.000 le persone prigioniere senza processo) o di torture (parliamo di almeno venti casi mortali dall'agosto 2011), così come di vere e proprie punizioni collettive, come quella inflitta alla popolazione dei tawargha, 35.000 persone espulse dalle loro case, che dopo un anno sono ancora in attesa di giustizia e di farvi rientro.
Numerosi sono i casi di violenza a sfondo razziale nei confronti di cittadini stranieri, tra cui potenziali migranti e rifugiati provenienti dal Corno d'Africa, che si trovano nella medesima situazione di pericolo e di assenza di protezione che vivevano anche sotto Gheddafi.
Domenica è stata una giornata storica per la Libia. Le prime elezioni nazionali libere dopo 42 anni di repressione e dittatura hanno segnato, infatti, lo spartiacque tra la fine del regime di Gheddafi e l'inizio della transizione democratica. Il voto in Libia per eleggere i duecento membri del Congresso nazionale che hanno l'incarico di scegliere il nuovo premier e il nuovo governo è stato, però, accompagnato anche da tensione e disordini: a Bengasi, nel nord-est del Paese, hanno preso d'assalto i seggi rubando e dando fuoco a centinaia di schede elettorali.
Mentre le autorità elettorali stanno ultimando lo scrutinio dei voti in queste ore, Mahmoud Jibril, l'ex capo del Consiglio nazionale di transizione e leader dell'Alleanza delle forze nazionali, ha lanciato un appello al rispetto e al dialogo nazionale. La Libia ha bisogno di voltare pagina e di iniziare un nuovo percorso che porti


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al rispetto dei diritti umani per tutti, superando le rivalità tra i vari gruppi e le varie etnie. Queste elezioni devono essere la vittoria non di un singolo partito o di un solo esponente politico, ma devono essere la vittoria della Libia intera, della Libia democratica.
Nel primo anno post Mubarak in Egitto il governo militare che ha assunto il potere ha voluto, provocando o tollerando la violenza in piazza, lanciare il messaggio che senza le forze armate il Paese sarebbe precipitato nel caos. Oltre 12.000 persone sono finite in carcere mediante l'istituto della detenzione amministrativa assai utilizzato sotto Mubarak. Vi sono stati oltre 100 morti provocati dai militari in tre distinte proteste nell'ultima parte dell'anno e le donne sono bersaglio di attacchi e pratiche disumane: tra questi, i test forzati di verginità e le umiliazioni in piazza da parte dei soldati.
La decisione, annunciata il 13 giugno dal Ministro della giustizia egiziano, di affidare alla polizia militare e ai servizi di sicurezza i compiti di polizia giudiziaria per procedere contro persone sospettate di reati contro la sicurezza nazionale e l'ordine pubblico apre la strada a nuove violazioni dei diritti umani e deve essere revocata immediatamente. Affidare a un esercito responsabile di uccisioni, torture, maltrattamenti e di migliaia di arresti arbitrari e processi iniqui il compito di arrestare e imprigionare i civili significa legittimare le violazioni dei diritti umani avvenute in questi ultimi mesi.
Da poche ore abbiamo appreso che lo scioglimento del Parlamento egiziano è definitivo. La Corte costituzionale del Paese nordafricano, secondo quanto riferisce la tv di Stato, ha confermato che la sentenza è definitiva e vincolante, reagendo in tal modo alla decisione del nuovo Presidente Mohamed Morsi di annullare per decreto lo scioglimento del Parlamento. Il provvedimento era stato preso a giugno dalla massima istanza giudiziaria del Paese dopo aver stabilito che un terzo dei membri dell'Assemblea, dominata dagli islamisti, era stato eletto illegalmente.
Ci auguriamo che questo scontro istituzionale non porti a un nuovo scontro di piazza e che l'Egitto possa trovare la sua strada verso la democrazia, diventando un Paese rispettoso dei diritti umani e dei trattati internazionali ratificati, così come promesso da Morsi durante il suo discorso di insediamento a piazza Tahrir.
In Tunisia, dove la situazione è apparentemente più solida, l'Assemblea costituente sta redigendo un testo chiave per il futuro del Paese. Amnesty International chiede che vi siano garanzie per i diritti delle donne, che stanno ricevendo attacchi da parte dei gruppi islamisti in Parlamento e nelle piazze.
Altrove le richieste di cambiamento sono state stroncate con ferocia da parte di governi che hanno dimostrato di essere disposti far pagare qualunque prezzo alla popolazione pur di rimanere al potere. In Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti sono stati imprigionati gli ispiratori dei manifesti di riforma.
In Bahrain, forze armate saudite hanno assistito quelle locali in una repressione particolarmente cruenta, con decine di manifestanti uccisi, uso indiscriminato dei lacrimogeni, durissime condanne e accanimento nei confronti dei difensori dei diritti umani, uno dei quali, Al-Khawaja, ha dovuto fare uno sciopero della fame di oltre cento giorni prima di ottenere la riapertura del suo processo, che in primo grado si era concluso con la condanna all'ergastolo.
La situazione più grave è sicuramente quella della Siria, dove sedici mesi di assenza di un'azione decisiva da parte della comunità internazionale, paralizzata dalla posizione pro Assad di Russia e Cina, ha contribuito a trasformare una rivolta in un conflitto armato interno. La Russia, la Cina e i governi delle potenze emergenti di Brasile, India e Sudafrica si sono tutti serviti della loro influenza all'interno del Consiglio di sicurezza per bloccare un'azione efficace contro la Siria, proprio mentre la massima autorità in materia di diritti umani delle Nazioni Unite denunciava i crimini che venivano commessi dal regime di Assad.


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Anche l'Arabia Saudita ha denunciato i crimini del Governo siriano. Allo stesso tempo, però, negava al proprio popolo il diritto di manifestare, dopo aver inviato a marzo truppe in Bahrain, soltanto poche ore prima che le autorità bahrenite mettessero in atto una sanguinosa repressione.
In un crescendo spaventoso di violenza le forze armate e le milizie filo-governative si sono rese responsabili di crimini contro l'umanità, attacchi indiscriminati contro civili, torture, omicidi illegali. Il numero delle persone uccise è di oltre 12.000 e più di 400 sono le persone morte sotto tortura.
Mentre ci giungono notizie sempre più preoccupanti di crimini di guerra, rappresaglie, torture contro civili, esecuzioni illegali di soldati fatti prigionieri, attacchi contro obiettivi non militari, uso di bambini nel contesto delle ostilità da parte dell'opposizione armata, solo domenica è arrivata la conferma da parte del Governo russo, attraverso le parole di Vyacheslav Dzirkaln, vicecapo dell'Agenzia per la cooperazione militare e tecnica russa, che la Russia non firmerà nuovi accordi sulle armi con la Siria e non invierà altri armamenti.
Questa è una notizia che accogliamo con piacere perché è dall'inizio degli scontri che Amnesty International continua a chiedere il blocco totale delle armi destinate all'esercito e ai gruppi armati qualora vi sia il rischio - ed è certo - che possano essere usate per compiere violazioni del diritto internazionale umanitario. Continuiamo, inoltre, a chiedere il deferimento del Presidente Assad e dei suoi stretti collaboratori alla Corte penale internazionale e una più forte presenza di osservatori internazionali con il compito di monitorare e denunciare le violazioni.
Ringraziamo il Ministro Terzi per aver raccolto le nostre preoccupazioni in occasione della sessione speciale sulla Siria del Consiglio dei diritti umani tenutasi a giugno a Ginevra e per il suo sostegno alle nostre richieste. Giungono notizie di nuovi incontri tra il Presidente Assad e il rappresentante delle Nazioni Unite Kofi Annan, che oggi si trova in Iran per chiedere un aiuto nel trovare una soluzione alla crisi siriana. Continuiamo a sperare che l'azione della comunità internazionale, seppur tardiva, possa aiutare a porre fine a questo spargimento di sangue che va avanti ormai da troppi mesi.
Quando il ventiquattrenne Mohamed Bouazizi si è dato fuoco il 17 dicembre 2010 nella cittadina tunisina di Sidi Bouzid, pochi potevano prevedere la forte ondata di proteste che avrebbe invaso la regione e il mutamento che il suo tragico e fatale atto avrebbe innescato. A oltre un anno di distanza l'impeto di euforia era tutto fuorché spento.
I primi risultati delle rivolte popolari rimanevano in bilico e le lotte per il cambiamento in Siria, Bahrain e altrove continuavano a imporre un elevato tributo in termini di vite e di gravi e diffuse violazioni dei diritti umani. Tuttavia, l'anno si è concluso con la sensazione tangibile che il vecchio ordine screditato fosse sul punto di essere consegnato alla storia grazie ai coraggiosi e determinati sforzi della gente.
Per le popolazioni della regione la lunga marcia verso la libertà, la giustizia e i diritti umani per tutti era senza dubbio iniziata.

PRESIDENTE. Ringrazio le rappresentanti di Amnesty International e do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

MARIO BARBI. La relazione è talmente ampia che la si potrebbe affrontare da tanti punti di vista. Contiene inoltre elementi di gravità e qualità molto diverse perché si va dall'arruolamento dei bambini soldato agli eccidi compiuti in azioni di guerra da parte di unità irregolari, alla questione della rappresentazione di genere nelle nostre società e di come questo favorisca la discriminazione. Il campo è veramente esteso.
Vorrei rivolgere alle nostre ospiti soltanto una domanda sulla Libia. Da una parte c'è un giudizio molto severo sulla disgregazione dei poteri pubblici e sul controllo dell'esistenza quotidiana esercitato


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attraverso regole non definite. Si parla, ad esempio, di punizioni collettive e torture mortali. Dall'altro si auspica, o forse si giudica, che le elezioni alle quali abbiamo appena assistito rappresentino una svolta.
Vorrei chiedervi quale giudizio date del rapporto tra il processo democratico appena approdato a questo momento elettorale e la fotografia che fate di una situazione di forte deterioramento delle condizioni minime di legalità e certezza del diritto.

ANNUNZIATA MARINARI, Coordinatrice per la Campagna Medio Oriente e Nord Africa della sezione italiana di Amnesty International. Gli ultimi mesi sono stati assolutamente negativi dal punto di vista del rispetto dei diritti umani.
La Libia, dopo la caduta di Gheddafi, si è trovata divisa tra gruppi di miliziani e tribù in lotta tra loro. Quello che ci fa ben sperare è che con queste elezioni il popolo libico, che si è recato alle urne con un'affluenza di oltre il 60 per cento, abbia identificato un Governo e un'Assemblea che possano rappresentarlo appieno e a cui venga riconosciuto il potere di legiferare e muoversi per costruire la Libia democratica.
Poco prima delle elezioni Mahmud Jibril ha voluto una modifica della legge per l'assegnazione dei seggi affinché la suddivisione fosse più paritaria tra le varie regioni libiche. Lo scopo era quello di invitare il maggior numero di libici ad andare a votare. Il messaggio chiaro e forte che ha lanciato è che il nuovo governo sarà il governo di tutti i libici e di tutte le regioni della Libia, non solo della Cirenaica o della Tripolitania.
Il problema è che finora il Consiglio nazionale transitorio (CNT), essendo nato durante i mesi della rivolta, è stato visto dagli abitanti della Cirenaica come un gruppo di potere formato esclusivamente da esponenti della Tripolitania e non della Libia intera. Come dicevo prima, quello che ci fa ben sperare, oltre all'alta affluenza, è che per ora i pronostici danno la vittoria ai partiti moderati liberali.
Questo dovrebbe aiutare a costruire il percorso di una nuova Libia, democratica e rispettosa dei diritti umani.

JEAN LEONARD TOUADI. Ringrazio Amnesty International. Il rapporto dovrà essere ovviamente letto e approfondito per ricavarne focus geografici più particolareggiati. Vorrei intanto porre alcune domande.
Il rapporto tocca molte aree geografiche e quasi tutto l'elenco delle violazioni dei diritti umani. Mi pare abbastanza efficace il metodo di Amnesty International di scegliere un focus tematico e portarlo avanti negli anni, ponendo l'attenzione anno dopo anno su quel tema specifico. È stato così, ad esempio, per la tortura. È un modo per dare seguito all'insieme delle violazioni di gravità ed estensione più o meno drammatiche rilevate e per operare una sensibilizzazione più mirata dell'opinione pubblica e dei governi. Mi chiedevo se in questo rapporto ci siano alcuni focus tematici che, secondo voi, meriterebbero di essere approfonditi sia per il picco di gravità sia per l'estensione territoriale delle violazioni.
Vorrei anche approfittare per chiedervi se nel rapporto c'è una focalizzazione sullo stupro etnico come arma di guerra, una circostanza che riguarda molti conflitti africani, nell'est del Repubblica democratica del Congo e in altri teatri di guerra. Non c'è gradazione nelle violazioni, ma questa mi sembra di particolare gravità, estensione e impunità.
I diritti umani rappresentano una sfida per la democrazia in generale e in modo particolare per i Paesi musulmani del Mediterraneo. Tutti sappiamo che la Dichiarazione dei diritti umani è stata quasi un miracolo diplomatico perché è stata approvata da tutti i Paesi appartenenti al blocco sovietico e al blocco occidentale e da Paesi di religione orientale come da Paesi cristiani.
Nei fatti la «primavera araba», così come ce l'avete descritta e come anche noi l'abbiamo imparata a conoscere, sta sollevando una questione che riguarda la possibile coesistenza tra la dichiarata affermazione


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di alcuni di questi regimi di attenersi alla sharia come ispirazione fondamentale per le norme civili e penali del Paese e lo standard dei diritti umani, così come Amnesty International li elenca. In questi Paesi si pone il problema di come i diritti possano coesistere con scelte a volte di natura teocratica.
L'ultima domanda che vi rivolgo è una domanda per tutti noi e riguarda lo strumento del rapporto. Il rapporto di Amnesty International si aspetta come la neve a dicembre per andare a sciare. È un evento atteso che arriva puntualmente. So che voi andate anche nelle scuole e compite un lavoro di sensibilizzazione. Mi chiedo, però, se stiate riflettendo su come implementare ulteriormente questo strumento.
Vedo, per esempio, che la minaccia di essere tradotto dinanzi al Tribunale penale internazionale non ha impedito al Presidente del Sudan di continuare a scorrazzare sulla scena internazionale e a essere ricevuto da più parti. Qualcuno in Africa comincia a pensare che il Tribunale dell'Aja sia solo ed esclusivamente per i dittatori africani e non per gli altri, stante il fatto che solo Taylor e Dyilo per adesso sono stati condannati, oltre ovviamente ai colpevoli di crimini di guerra nella ex Jugoslavia.
C'è una riflessione all'interno di Amnesty International per trovare, nell'ambito dello strumento del rapporto, elementi che abbiano un'incisività e un'efficacia non solo dissuasiva, ma anche in grado di diffondere la cultura dei diritti umani?
So che è una domanda molto complicata, ma probabilmente l'anno prossimo ci ritroveremo a parlare di questo rapporto senza che ci siano stati significativi passi in avanti.

ENRICO PIANETTA. Ringrazio le nostre ospiti. La dottoressa Sami ha fatto più volte riferimento al profondo fallimento della leadership globale. Insieme alla sua collega ci ha illustrato con precisione una situazione in cui i diritti umani sono calpestati in tante aree del mondo. Se la situazione è questa, vorrei un maggiore approfondimento circa la terapia suggerita da Amnesty International.
Quando lei parla di profondo fallimento della leadership globale, evidentemente intende dire che qualcosa deve essere modificato e migliorato. Vorrei un approfondimento proprio su questo punto, che tra l'altro è anche riportato nell'introduzione del rapporto stesso.
Credo sia il punto focale attorno a cui anche noi, a livello parlamentare, possiamo costruire e sviluppare la nostra azione.

DANIELE GALLI. Dalla relazione di Amnesty International si evince, come accennava anche il collega Pianetta, l'incapacità dell'ONU di essere garante di determinati principi e diritti. La Carta dell'ONU che garantisce l'individuo non viene applicata in buona parte delle nazioni a cui voi fate riferimento.
Il vostro compito è difficile e importante, ma il punto di osservazione è ottimo. Il rapporto di Amnesty International aiuta a capire quale sia lo stato di salute del sistema globale. Penso però che Amnesty International dovrebbe chiedere alcune revisioni dei meccanismi internazionali di garanzia o addirittura una revisione totale del sistema, sulla quale basare un nuovo spirito e una nuova possibilità di intervenire.
Il fatto che il Segretario dell'ONU in questi giorni abbia alzato le mani sulla Siria è sintomo che c'è bisogno di una grande revisione. La vostra organizzazione, che compie un lavoro stupendo, potrebbe rappresentare il migliore punto di osservazione.
Sono meno d'accordo su alcune osservazioni che riguardano, ad esempio, gli sviluppi della rivoluzione araba di primavera nel Nord Africa, dove emergono già i problemi che voi combattete, cioè essenzialmente gravi violazioni dei diritti umani. Si è passati da una situazione terribile a una situazione che sta per tornare a essere terribile.
È un punto sul quale chiederei un vostro specifico intervento.


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PRESIDENTE. Come vedete, vi chiediamo molto e vi diamo poco. Le domande sono tutte molto profonde e invitano a un'espansione per la quale il tempo oggi a nostra disposizione non è sufficiente.
Intanto vi ringrazio per la vostra presenza e per il vostro lavoro. Esprimo vivo apprezzamento per il modo in cui in generale Amnesty International lavora, per la documentazione che porta sempre e per gli auspici che avete formulato. Per un verso, non possono che essere basati puramente sulla speranza perché non ci sono tratti concreti che li motivino. Non sappiamo nulla della Libia e di che cosa voglia dire esattamente «moderato» per coloro che appaiono essere moderati. La parola è ambigua in Italia, figuriamoci se non potrà risultarlo in Libia.
Nel ringraziarvi, vi prego, però, di tener conto che le vostre risposte potrebbero essere le premesse per un ulteriore incontro, specie per approfondire quegli aspetti italiani di cui abbiamo parlato all'inizio.
Do la parola alle rappresentati di Amnesty International per la replica.

CARLOTTA SAMI, Direttrice della sezione italiana di Amnesty International. Ribadisco che per noi è un onore venire qui e lo facciamo con grande spirito di servizio. È una gioia riportarvi le informazioni in nostro possesso. Avendo poco tempo, ci mettiamo a disposizione per fornire ogni supplemento di documentazione di cui il Comitato possa avere bisogno.
In merito ai focus tematici, il leit motiv del rapporto di quest'anno è sicuramente la sollevazione popolare per una richiesta di maggiore adesione ai diritti umani fondamentali. Il rapporto si concentra in particolare sui temi della pena di morte, della tortura e del commercio di armi.
Mentre sulle altre domande dell'onorevole Touadi si concentrerà la mia collega, io rispondo a proposito della riflessione generale sull'efficacia del rapporto come strumento. In questi mesi abbiamo avviato una riflessione interna a livello internazionale sia sulle modalità di compilazione del nostro rapporto che sulla sua efficacia.
Il rapporto di Amnesty International ha una diffusione eccezionale. Viene tradotto in tutte le lingue e in ogni Paese in cui è diffuso viene disseminato in modo davvero capillare. È uno strumento di informazione di elevata valenza e per noi rappresenta un complemento e un supplemento all'attività che costantemente svolgiamo nel corso dell'anno per monitorare, accompagnare e analizzare i vari processi a livello nazionale e internazionale, in particolare nelle sedi diplomatiche.
Per quanto riguarda la diagnosi e i suggerimenti di Amnesty International per far fronte a questa rilevata debolezza della leadership globale, facciamo riferimento a processi come quello che si è verificato in Libia, dove all'intervento militare così incisivo non è seguito un intervento altrettanto incisivo, coordinato dalla comunità internazionale, per accompagnare il Paese nella fase successiva. I recenti rapporti indicano quali sono state le difficoltà rilevate nel Paese.
Rileviamo una difficoltà anche in merito al funzionamento del sistema dei veti per quanto riguarda il Consiglio di sicurezza, in particolare quando ci si trova di fronte a evidenti crimini contro l'umanità come quelli che si stanno perpetrando da mesi in Siria.
Portiamo avanti anche un'analisi di possibile riforma dei meccanismi di funzionamento.

ANNUNZIATA MARINARI, Coordinatrice per la Campagna Medio Oriente e Nord Africa della sezione italiana di Amnesty International. Per quanto riguarda lo stato dell'arte delle rivolte e le prospettive future, credo che sia il momento di aspettare e di avere fiducia in ciò che faranno i nuovi governi. Come sappiamo, stanno lavorando a nuove carte costituzionali e ci sono elezioni in corso. In Egitto è stato appena eletto il Presidente. Bisogna cercare di capire come decideranno di muoversi.
È importante ricordare che il Presidente Morsi, pur provenendo dai Fratelli musulmani, durante il suo discorso di insediamento ha fatto riferimento all'importanza


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dei diritti umani e al rispetto dei trattati internazionali che l'Egitto ha sottoscritto. Dobbiamo aspettare e vedere come metteranno in pratica queste promesse e gli impegni assunti nei confronti dei diritti umani e dei trattati. Non possiamo giudicare oggi, in piena fase di transizione.
Per quanto riguarda la convivenza tra Islam e diritti umani, anche in questo caso credo che l'unica soluzione, almeno per il momento, sia aspettare. Jibril, ex capo del CNT in Libia, è un musulmano praticante, ma ha sempre posto la questione dei diritti umani in prima linea e ha detto che il suo credo religioso non influenzerebbe il Governo.
Vorrei aprire una piccola parentesi filosofica e ricordare che esiste una corrente di studi secondo la quale i diritti umani di base sono in realtà rappresentati in tutte le confessioni religiose attraverso la regola d'oro del non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Può sembrare un discorso semplice, ma è stato dimostrato che la Dichiarazione universale dei diritti umani rientra in tutti i testi sacri delle varie religioni, e questo ci fa ben sperare.
Potrebbe essere un buon modo per uscire da questo pantano.

PRESIDENTE. Vi ringrazio. Ci riserviamo di avervi presto di nuovo qui, con particolare riferimento a due aspetti: l'evoluzione della situazione nel Nord Africa, di cui speriamo avrete più documentazione così da poter ampliare la discussione, e una riflessione sulla situazione italiana.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,35.

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