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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione III
4.
Mercoledì 4 luglio 2012
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Stefani Stefano, Presidente ... 2

INDAGINE CONOSCITIVA SUGLI OBIETTIVI DELLA POLITICA MEDITERRANEA DELL'ITALIA NEI NUOVI EQUILIBRI REGIONALI

Audizione del direttore della rivista italiana di geopolitica Limes, Lucio Caracciolo, e del direttore del Programma Mediterraneo del Robert Schuman Center for Advanced Studies dell'Istituto universitario europeo, Olivier Roy:

Stefani Stefano, Presidente ... 2 9 13 16
Caracciolo Lucio, Direttore della rivista italiana di geopoliticaLimes ... 5 14
Corsini Paolo (PD) ... 12
Craxi Stefania Gabriella Anastasia (PdL) ... 11
Frattini Franco (PdL) ... 9
Pianetta Enrico (PD) ... 11
Roy Olivier, Direttore del Programma Mediterraneo del Robert Schuman Center for Advanced Studies dell'Istituto universitario europeo ... 2 13
Tempestini Francesco (PD) ... 12
Veltroni Walter (PD) ... 10
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, Democrazia Cristiana): PT; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A; Misto-Noi per il Partito del Sud Lega Sud Ausonia: Misto-NPSud; Misto-Fareitalia per la Costituente Popolare: Misto-FCP; Misto-Liberali per l'Italia-PLI: Misto-LI-PLI; Misto-Grande Sud-PPA: Misto-G.Sud-PPA; Misto-Iniziativa Liberale: Misto-IL.

COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 4 luglio 2012


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE STEFANO STEFANI

La seduta comincia alle 14.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del direttore della rivista italiana di geopolitica Limes, Lucio Caracciolo, e del direttore del Programma Mediterraneo del Robert Schuman Center for Advanced Studies dell'Istituto universitario europeo, Olivier Roy.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sugli obiettivi della politica mediterranea dell'Italia nei nuovi equilibri regionali, l'audizione del direttore della rivista italiana di geopolitica Limes, Lucio Caracciolo, e del direttore del Programma Mediterraneo del Robert Schuman Center for Advanced Studies dell'Istituto universitario europeo, Olivier Roy.
Saluto e ringrazio per la loro presenza i nostri ospiti, cui do la parola per la relazione.

OLIVIER ROY, Direttore del Programma Mediterraneo del Robert Schuman Center for Advanced Studies dell'Istituto universitario europeo. Buongiorno. Parlerò in francese e me ne scuso, perché di certo sarebbe meglio parlare in italiano.
Le motivazioni della politica dell'Unione europea e di tutti i Paesi dell'Unione europea rispetto al Mediterraneo sono sempre state, purtroppo, di tipo soprattutto negativo, ossia considerazioni legate alla sicurezza. Tra queste c'era la paura dell'islamismo politico, la paura del terrorismo, la paura dell'immigrazione e l'inquietudine rispetto al destino delle minoranze cristiane in Medio Oriente. In questa prospettiva, tutti gli europei consideravano che fosse meglio sostenere dei regimi conservatori arabi, anche se questi regimi non erano democratici.
Oggi la situazione è cambiata. I regimi conservatori non rappresentano più una protezione contro nulla. Anche quei regimi che ancora sopravvivono, come ad esempio la monarchia in Giordania, non possono più dare garanzie rispetto alle richieste di sicurezza degli europei, perché questi Paesi sono ormai fragili.
Cosa si può fare, allora, alla luce di quanto premesso? La mia analisi è che la situazione è cambiata e che i problemi di sicurezza di fronte ai quali ci trovavamo prima sono anch'essi diversi, e citerò degli esempi in proposito. La questione principale è quella dell'islamismo radicale. Oggi i partiti islamici o sono al potere oppure sono degli attori imprescindibili della scena politica.
In Europa si teme una radicalizzazione di questi movimenti e una rivoluzione islamica e islamista ma, a mio parere, questi movimenti sono costretti a rientrare nel gioco democratico perché non hanno altra scelta, non perché siano dei democratici da un punto di vista ideologico, ma


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in quanto l'unico sistema che consente loro di essere degli attori politici è proprio quello della democrazia.
Questi movimenti non sono assolutamente rivoluzionari. I rivoluzionari sono quei giovani che hanno fatto la primavera araba, che non sono islamisti. I movimenti islamisti hanno un elettorato conservatore, un elettorato che desidera sì l'Islam, la sharia, ma vuole innanzitutto la stabilità, il buongoverno e un'economia che funzioni.
Questo elettorato non esita a ricordare ai dirigenti islamisti quello che vuole. Per esempio, i Fratelli musulmani in Egitto, nel giro di qualche mese, hanno perso circa il 50 per cento dei loro elettori tra le elezioni della Costituente e le elezioni presidenziali, perché per sei mesi nell'Assemblea costituente hanno parlato soltanto della sharia e del ruolo dell'Islam. Anche se i loro elettori sono d'accordo che l'Islam abbia un ruolo centrale, non li hanno votati per questo, ma perché vogliono un buon governo, e i Fratelli musulmani hanno dimostrato di essere incapaci di darlo. Lo stesso è avvenuto in Tunisia e in Marocco.
D'altra parte - e penso che sia importante per i seguiti - gli islamisti non hanno il monopolio della rappresentanza dell'Islam sulla scena politica e pubblica, quindi è una situazione diversa rispetto alla rivoluzione iraniana del 1979. All'epoca, nel 1979, i khomeinisti avevano il monopolio dell'islamismo politico, ma oggi abbiamo i salafiti, i Fratelli musulmani, i sufi, e poi ci sono delle istituzioni religiose, come l'università al-Azhar del Cairo, che chiedono un'autonomia rispetto allo Stato.
Non ci sarà quindi una separazione tra religione e politica negli Stati arabi, ma ci potrebbe essere una separazione dello Stato e delle istituzioni religiose. Penso che questo sia importante, ed è proprio quello che sta avvenendo oggi in Tunisia e in Egitto.
D'altra parte, gli islamisti si trovano in un contesto in cui non hanno gli strumenti per prendere il potere con la forza; non hanno né la forza, né l'esercito, né la polizia, né delle milizie, e non hanno neanche le rendite petrolifere, un elemento importante.
Ci può essere una dittatura in Stati che hanno una rendita petrolifera, come l'Algeria, l'Arabia Saudita, l'Iran, insomma lì dove ci sono soldi dovuti al petrolio, ma in Marocco, in Tunisia, in Egitto, nello Yemen, in Giordania, in Siria questo non è possibile perché non c'è il petrolio. I movimenti islamisti, quindi, sono obbligati a fare una buona politica economica, a rendere conto, a riferire.
L'economia potrà funzionare soltanto se riparte il turismo. Per questo non si può applicare la sharia, perché farebbe scappare i turisti. Se i Fratelli musulmani e gli islamisti in genere vogliono essere rieletti dovranno adottare una politica pragmatica di alleanze con altri gruppi e di compromesso. Hanno già iniziato in Tunisia, ci sono più difficoltà in Egitto, ma ci dovranno arrivare.
La mia prima conclusione è che bisogna considerare gli islamisti come dei partner politici, interlocutori nel dialogo politico.
Il secondo aspetto è il terrorismo. Il terrorismo non è centrale negli Stati arabi; esso esiste nella periferia, innanzitutto nella periferia europea - la maggior parte dei terroristi di Al Qaeda sono musulmani di seconda generazione, nati e istruiti in Europa - e anche a margine del mondo arabo, in Mali, in Somalia, nello Yemen. Il terrorismo non esiste o esiste molto poco in Marocco, nel nord dell'Algeria, in Tunisia, in Egitto, in Giordania eccetera.
Bisogna affrontare il terrorismo come un problema di sicurezza e non come un problema che riguarda il Medio Oriente. Tutte le politiche che hanno trattato il terrorismo come un problema che riguarda il Medio Oriente ci hanno portato a un fallimento: l'intervento militare in Iraq, per esempio, o in Afghanistan, che sono stati dei fallimenti dal punto di vista politico e non hanno minimamente contribuito a distruggere il terrorismo. Il Presidente Obama, invece, ha scelto un altro tipo di politica che io definisco «deterritorializzata»: il terrorismo viene


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considerato una rete globale e non un movimento fondato su un territorio dato. La politica antiterroristica con questo approccio è efficace e ci ha permesso di uccidere Bin Laden e di distruggere almeno due terzi della struttura dirigente di Al Qaeda, senza mandare carri armati sul campo.
Bisogna prestare molta attenzione al Mali; non bisogna inviare delle truppe, perché i terroristi andranno altrove e a noi resterà il problema della pace in Mali. C'è stato già l'esempio della Libia, dell'Iraq, dell'Afghanistan, della Somalia, quindi non mi sembra il caso di lanciarsi in altre operazioni sul territorio.
L'esperienza ci dimostra che quando Al Qaeda trova una base l'unico modo per allontanarla è unire le forze locali. Dall'Iraq Al Qaeda è stata allontanata dalle tribù sunnite del nord dell'Iraq, non dagli americani, e adesso sarà allontanata dal Libano grazie all'esercito libanese e a forze politiche libanesi che non vogliono Al Qaeda. È questo il metodo più efficace, non l'invio di truppe straniere.
Il terzo punto è l'immigrazione. Ci sono due tipi di immigrazione che passano per il Mediterraneo: uno ha origine nell'Africa, l'altro nei Paesi arabi. L'immigrazione africana non ha come causa la nostra politica araba; abbiamo bisogno dei Paesi arabi per controllarla, ma né noi né gli arabi possiamo agire sulle cause dell'immigrazione africana.
Per quanto riguarda l'immigrazione proveniente dai Paesi arabi, c'è stato un forte cambiamento. Non ci troviamo più nella fattispecie di vent'anni fa, quando c'era uno spostamento di popolazione che veniva in Europa per lavorare; oggi le immigrazioni mediterranee sono molto più simili ad una mobilità circolare. Lo si vede in particolare in Francia e in Germania, dove ci sono giovani di seconda generazione che hanno studiato in Europa ma ritornano nei loro Paesi di origine con doppio passaporto e mettono su attività commerciali e creano legami economici tra le due sponde del Mediterraneo. Questo è un elemento positivo, quindi bisogna distinguere l'immigrazione di massa da questa mobilità di nuove élite. Questa mobilità è molto positiva, sia per noi che per loro, perché si creano posti di lavoro nei Paesi del sud e si creano dei collegamenti economici tra il nord e il sud, che servono a stabilizzare anche la situazione politica.
Ultimo aspetto, i cristiani d'Oriente. So che si tratta di una questione particolarmente delicata per gli italiani e che il Governo italiano si è sempre impegnato molto nella difesa dei cristiani d'Oriente. Ci troviamo in una situazione molto grave perché gli strumenti intellettuali che abbiamo sempre utilizzato per comprendere la situazione dei cristiani d'Oriente non sono più validi; vogliamo difenderli come se fossero una minoranza, una minoranza quasi etnica, come i caldei in Iraq, i copti d'Egitto, i cristiani della Siria e via dicendo, quindi utilizziamo come modello quello del diritto delle minoranze.
Ebbene, la primavera araba pone una nuova problematica, quella dei diritti umani e del cittadino. Noi pensiamo alla libertà religiosa come un diritto delle minoranze, mentre secondo me bisognerebbe ripensarlo come un diritto umano individuale, alla stregua della partecipazione alla vita politica. Bisogna togliere questa componente etnica alla questione.
Naturalmente c'è un ulteriore problema: il clero della Chiesa cristiana d'Oriente è molto conservatore e vuole mantenere il controllo sui fedeli, quindi le chiese non vogliono parlare di libertà religiosa come di una libertà individuale, come un diritto individuale, ma come un diritto della Chiesa.
Ebbene, questo tipo di discorso è in contrasto con quanto sta avvenendo in Medio Oriente. Per questo dovremmo incoraggiare il clero cristiano del Medio Oriente a porre la questione della libertà religiosa come una questione di diritto individuale; anche con riferimento alla conversione - un tema molto sensibile, che lo diventerà sempre di più - bisogna incoraggiare il clero d'Oriente a lasciar campo ai laici cristiani nel gioco politico. In altre parole, non devono essere le chiese a rappresentare politicamente i cristiani


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presso i regimi, ma devono essere i laici cristiani ad essere coinvolti nella vita politica.
Ultimo punto, il problema del ruolo della Chiesa cattolica. Il Vaticano tendenzialmente pensa solo ai cattolici d'Oriente, ma i cattolici sono minoritari tra i cristiani, perché la maggioranza è ortodossa. Penso che dovremmo interessarci a tutti i cristiani d'Oriente, non soltanto attraverso il prisma dei cattolici, altrimenti lasciamo alla Russia il monopolio della rappresentanza degli ortodossi d'Oriente. Questo rappresenta un pericolo perché la Russia oggi non è un fattore di stabilità in Medio Oriente, ma vuole vendicarsi del 1989, ha nostalgia dell'impero, e l'unica possibilità che ha di agire è attraverso la sua capacità di nuocere. La Russia non ha nulla di positivo e di costruttivo da proporre al Medio Oriente; può esistere soltanto dandoci fastidio, come si vede nel caso della Siria. Dunque, bisogna fare molta attenzione, non bisogna separare le due questioni, Russia e cristiani d'Oriente, perché sono appunto collegate.
C'è poi la Turchia. Il rifiuto della candidatura turca ha avuto un effetto positivo, perché la Turchia oggi si scopre un ruolo di grande potenza regionale, un ruolo stabilizzatore. Si potrebbe pensare il contrario, invece la Turchia, nella maggior parte delle situazioni, forse ad eccezione della Palestina, rappresenta un elemento di stabilità: per le relazioni con il Caucaso, per l'aiuto ai movimenti democratici, per le tensioni con l'Iran eccetera.
Penso, quindi, che dovremmo ritrovare delle relazioni paritarie con la Turchia, non considerare più la Turchia come un eterno candidato all'Unione europea, ma riconoscerla come una grande potenza mediterranea, delle due sponde del Mediterraneo. L'opinione pubblica turca va in questa direzione e anche il Governo turco, quindi penso che dobbiamo dimenticare questi trent'anni di tensione tra la Turchia e l'Europa e puntare invece sulla Turchia come un fattore di stabilità regionale rispetto alla Russia, all'Iran e ai rivolgimenti nel mondo arabo.

LUCIO CARACCIOLO, Direttore della rivista italiana di geopolitica Limes. Vorrei cominciare con un paio di aneddoti per capire di che cosa stiamo parlando. Il primo si riferisce a una conferenza stampa che il Presidente Sadat, trent'anni fa, dopo aver firmato l'accordo di pace con Israele che poi gli costerà la vita, tenne per commentare quell'accordo. Un giornalista arabo si alzò in piedi e gli chiese se non temesse una reazione negativa dei Paesi arabi. Sadat rispose sorridendo: «Paesi arabi? Conosco solo tribù con bandiere». Questo è un primo elemento.
Il secondo è un mio ricordo personale, di qualche anno fa. Chiacchieravo con l'allora Segretario generale della Lega araba Amr Moussa, già Ministro degli esteri egiziano e poi riciclato come candidato alle presidenziali post-rivoluzionarie, il quale mi chiese se, poiché dirigevo una rivista di geopolitica, per caso non avessi una buona carta del Cairo.
Ho citato questi due episodi perché molto spesso noi proiettiamo su quest'area categorie che sono nostre, ma che non ci aiutano a capire quello che succede in quella parte di mondo che possiamo chiamare grande Mediterraneo e che è essenzialmente retta da poteri informali. Intendo dire che c'è una notevole distanza tra ciò che appare - e ciò che magari è anche l'ufficialità - e ciò che invece conta. Questa differenza spesso non viene colta anche nelle nostre politiche, italiane e non solo.
Quello che sta accadendo - possiamo chiamarli «lavori in corso», probabilmente in una prima fase - sull'altra sponda del Mediterraneo è innanzitutto frutto di un vuoto di potere che, cominciato vent'anni fa con la fine della guerra fredda, ha segnato il declino dell'influenza americana - e dell'interesse americano - in quella regione, l'incapacità degli europei (non parliamo dell'Unione europea) di svolgervi un ruolo positivo, perché come diceva prima il professor Roy la parola «Mediterraneo» a Bruxelles suona come una parolaccia e spesso viene utilizzata in


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maniera denigratoria anche nei nostri confronti quando si discute di questioni relative ad euro ed Europa.
Con questo approccio chiaramente non si può avere una qualche politica positiva in quella regione. Ricordo solo che un paio d'anni fa è scaduto il termine che avevamo dato a noi stessi, con il processo di Barcellona, di creare una zona di libero scambio nel Mediterraneo. Ovviamente non se n'è fatto nulla.
Distinguerei, però, per capire come impattano su di noi, almeno due grandi aree geografiche: quella nordafricana e quella del Golfo.
Ciò che accade nell'area nordafricana è di straordinaria importanza per noi ma non ha un grande valore strategico per le superpotenze mondiali, in particolare per gli Stati Uniti d'America.
Ciò che avviene nel Golfo ha un impatto globale, quindi anche un impatto su di noi, ed è materia di estremo interesse per gli Stati Uniti, per la Cina, per la Russia, per tutti coloro che contano nel mondo. Se la cosiddetta «primavera araba» diventasse primavera araba saudita tutti gli inni che abbiamo ascoltato al momento dello scoppio della cosiddetta «primavera araba» si trasformerebbero in lamentazioni, se non in urla di terrore.
È evidente che la regione del Golfo, per il suo potenziale energetico e per il fatto di inglobare lo Stato di Israele, ha un valore strategico incommensurabilmente superiore rispetto ai Paesi che invece sono per noi più vicini e quindi più direttamente influenti, cioè i Paesi che affacciano sulla sponda sud del Mediterraneo e che hanno dato origine a questi movimenti, quindi Tunisia, Libia, Egitto e via elencando.
Questo vuol dire, in termini pratici, che noi siamo più soli, di fronte a questi rivolgimenti, di quanto non potessimo essere qualche tempo fa. Siamo soli e siamo sconcertati perché sono cose che quasi nessuno o nessuno aveva previsto - certamente non in questi tempi e in questi termini - e perché abbiamo perso alcuni riferimenti.
Ricordo che il regime tunisino era una creazione dei servizi italiani. Gheddafi in qualche misura era anche una nostra creazione, anche se poi ci ha dato qualche dispiacere, e certamente Mubarak era buon amico dell'Italia.
Devo dire che questo non è semplicemente un fatto sentimentale, ma è un fatto molto pratico, che impatta per esempio sui nostri rapporti economici e commerciali. Un conto è avere relazioni economiche e commerciali con una persona, un dittatore, il suo clan, che possono in qualche modo garantire per il resto del Paese, un conto è andare in Libia, in Tunisia o in Egitto e non capire bene con chi si deve trattare se si vuole fare un accordo.
La mia esperienza con molti imprenditori italiani, subito dopo la primavera araba, è stata proprio quella di sentire «aridatece Mubarak», «aridatece Gheddafi» «aridatece Ben Ali», perché almeno con loro si sapeva che cosa trattare o meno, e in ogni caso c'era in qualche modo un referente.
Se noi perdiamo di vista questo punto fondamentale di analisi perdiamo anche la misura della nostra capacità di influenza. Con tutta la buona volontà e con la migliore intelligence del mondo, è oggi molto difficile, per esempio, stabilire chi comandi in Libia, anche perché probabilmente la Libia dopo Gheddafi non solo non esiste, ma non esisterà, e quindi toccherà individuare nelle singole regioni i poteri clanico-tribali, religiosi o militari che possono garantire in alcuni casi addirittura l'accesso all'aeroporto e poi eventualmente contatti politici ed economici.
L'aspetto, secondo me, a medio termine più positivo di ciò che avviene in Nord Africa è che si tratta di movimenti che sono stati iniziati da una popolazione largamente giovane, molto più acculturata di quanto noi non vogliamo ammettere, certamente spinta anche da motivi economici che rischiano di aggravarsi. Per esempio, in Egitto il rischio della fame è un rischio molto concreto, avendo l'Egitto perduto il turismo e non essendo più il canale di Suez quello che era una volta in termini di rendita. Ciò vuol dire che


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l'economia egiziana è pressoché azzerata in un Paese di almeno - quanti sono gli egiziani nessuno lo sa, a proposito di poteri informali - ottanta milioni di abitanti.
Questo aspetto è difficile però declinarlo in senso democratico - e qui mi differenzio un po' dalla relazione del professor Roy - perché la democrazia presuppone lo Stato, e non mi pare che in alcuno di questi Paesi ci sia qualcosa di assimilabile a uno Stato, almeno come lo intendiamo noi. Già il fatto che non vi siano dei veri e propri censimenti e che quindi le elezioni si svolgano non sulla base di una lista di cittadini che avrebbero titolo per votare, ma su basi piuttosto raffazzonate, credo che sia un indicatore interessante.
Sappiamo, peraltro, che vi sono grandi aree, anche in grandi Paesi di questa regione, che sono totalmente al di fuori di qualsiasi controllo dello Stato.
Ricordo anche che le frontiere che noi vediamo tracciate con precisione cartesiana sulle carte politiche non sono tracciate sul terreno, nella gran parte dei casi, e quindi si tratta di territori che permettono passaggi di ogni genere, nel modo più facile e anche più pericoloso possibile.
Di qui alla democrazia, secondo me, il cammino sarà piuttosto lungo e passerà inevitabilmente per la creazione di istituzioni formali credibili. Bisogna capire fino a che punto - e a mio avviso per ora il punto è piuttosto modesto - i poteri effettivi, cioè quelli informali (quelli di carattere tribale, clanico, lobbistico, religioso) o le milizie armate, che qualche volta coincidono con questi poteri, sono in grado di pensare alla convenienza per loro di una qualche forma di effettiva statualità in quella regione.
L'unico vero elemento di statualità, che poi sono le forze armate, è un elemento che è stato preso di sorpresa dalla rivoluzione e che vi ha reagito in modo ambiguo - parlo in particolare dell'Egitto - ma essendo essenzialmente attento a mantenere il proprio potere di ultima istanza.
Se noi guardiamo all'evoluzione della situazione egiziana, vediamo che in questa partita, che è totalmente aperta, le forze armate - che al loro interno, fra l'altro, sono anche piuttosto divise - hanno curato di mantenere l'essenza del potere, che è un potere, e non solo in Egitto, economico. Quindi non si tratta semplicemente di difendere in qualche modo la corporazione militare, ma di difendere, insieme alla corporazione militare, i poteri che le sono quasi per natura attribuiti in molti di questi Paesi.
Questo per quanto riguarda il Nord Africa. Tutt'altra storia - che io definirei tecnicamente controrivoluzionaria - è quella che avviene nel Golfo, in particolare per iniziativa dell'Arabia Saudita e dei Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, i quali sono impegnati in una operazione spesso contraddittoria e ambigua che mira, da una parte, a destabilizzare dei possibili concorrenti e a utilizzarli per i propri fini, dall'altra a impedire che dei Paesi e delle forze concorrenti, anche se da un punto di vista religioso afferenti allo stesso tipo di Islam, cioè all'Islam sunnita, possano prendere piede e diffondere il verbo rivoluzionario lì dove le potenze mondiali non vorrebbe che arrivasse mai, cioè nel cuore della produzione energetica mondiale. Qui evidentemente entrano in gioco altri fattori - ma mi fermo, altrimenti andremmo troppo lontano - che sono le grandi potenze, lo Stato di Israele, l'Iran, la Russia (ne ha parlato prima il professor Roy) e così via.
Qual è la nostra posizione in questo contesto? Innanzitutto partiamo dal fatto che la nostra influenza in queste regioni, dopo la prima Repubblica, è un'influenza storicamente declinante, nel senso che sono esauriti (o sono in via di esaurimento) quei filoni di rapporti politici ed economici che avevano in qualche modo garantito all'Italia della prima Repubblica una qualche - direi anche notevole - influenza in questa regione, in particolare in Nord Africa. L'uso che ne abbiamo fatto è discutibile, ma che l'influenza ci fosse non mi pare discutibile.


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Se guardiamo, dal punto di vista economico, alle imprese che oggi sono impegnate su quel fronte, ci rendiamo conto che quelle che resistono in qualche misura sono quelle veramente grandi, tipo l'ENI - che aveva prima, ha adesso e avrà dopo le sue filiere di connessione sul terreno, anche perché ha una comprensione non formale del territorio in cui opera e anche le sue strutture, che spesso non coincidono con quelle formali del nostro Stato e qualche volta nemmeno con i nostri interessi più stretti - oppure gli imprenditori più inventivi.
Voglio citare anche in questo caso un aneddoto. Quando scoppiò la rivoluzione in Libia la prima cosa che i servizi segreti francesi fecero fu di tagliare le connessioni telefoniche tra Bengasi e Tripoli, facendo passare tutte le comunicazioni attraverso un'agenzia del Principato di Monaco, cioè francese di fatto. Un nostro imprenditore che opera nella telefonia nordafricana ebbe l'idea di costruire un circuito parallelo che ebbe un grande successo e che gli ha permesso di restare, dopo essere stato un operatore sotto Gheddafi, un importante operatore nel post-Gheddafi. Insomma, qualche volta la fantasia italiana aiuta.
Tuttavia, se togliamo l'ENI e i fantasiosi, per gli altri gli spazi di manovra si sono ristretti.
Per quanto riguarda la sicurezza, nel breve e forse anche nel medio termine, io non sono pessimista e condivido molte delle cose che il professor Roy diceva a proposito del terrorismo e del modo americano di combatterlo. Mi pare che nell'ambito dell'Islam politico coloro che usano delle armi, sostanzialmente i jihadisti attivi, siano comunque una minoranza, sebbene questa possa diventare anche molto pericolosa, perché in un territorio così parcellizzato e informale bastano spesso poche centinaia di uomini decisi e ben armati e addirittura per inventare un nuovo Stato. È il caso del Mali del Nord, dove una convergenza di interessi tra tuareg e jihadisti più o meno affiliabili a quella nebulosa che chiamiamo Al Qaeda ha prodotto una sorta di decomposizione di quel territorio che formalmente si chiama Mali.
Tuttavia, non vedo francamente un grosso problema sotto questo profilo. Vedo, invece, allo stesso tempo i problemi e le possibilità, i rischi e le risorse, in una prospettiva di circuito mediterraneo. Parliamo sempre del Nord Africa, perché nel Golfo onestamente non abbiamo molto da dire e dobbiamo semplicemente osservare quello che gli altri fanno, o poco più.
Parto da una mia profonda convinzione, ossia che l'Italia può contare in Europa e quindi nel mondo in quanto conta nel Mediterraneo. Mi rendo conto che questo può apparire controintuitivo, ed è certamente contrario a quello che è stato il modo di porci in Europa. Ricordate quello che diceva La Malfa: «stiamo aggrappati alle Alpi per non cadere in Africa». Questo modo di vedere l'Europa, forse all'epoca comprensibile, secondo me oggi è totalmente sbagliato. L'idea che noi possiamo contare qualcosa nel contesto che più evidentemente misura la nostra influenza, cioè quello europeo, prescindendo dallo spazio che fisicamente ci circonda e anche dal punto di vista dell'ambiente umano è determinante per noi, significa semplicemente non guardare la realtà dei fatti e perdere una grande occasione.
Prima il professor Roy parlava di questa migrazione di nuovo tipo - mi pare una notazione di estremo interesse - cioè di questo movimento circolare, specialmente di giovani relativamente acculturati e anche relativamente benestanti (sottolineo «relativamente», ma comunque non certamente affamati), i quali hanno costruito un circuito che secondo me dovrebbe essere il nostro punto di riferimento per il futuro.
Voglio dire che noi dobbiamo guardare, a mio avviso, a quest'area non come semplicemente a una questione esterna, ma a una questione che ha una doppia faccia, interna ed esterna, innanzitutto perché molti degli abitanti di questa regione li abbiamo in casa, ma li abbiamo in casa in quel modo circolare che ricordava


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Olivier Roy, il che vuol dire in termini molto concreti che la nostra immagine e la nostra influenza nella regione mediterraneo-nordafricana dipende dal modo in cui noi trattiamo i nordafricani mediterranei che vivono da noi, sia pure in maniera temporanea.
È quindi essenziale, anche dal punto di vista della comunicazione, che noi abbiamo la capacità di parlare a questa gente, di ascoltarla, di integrarla nei limiti del possibile - che sono limiti piuttosto ampi, contrariamente a quello che si crede - e di utilizzare questo strumento, a un tempo di economia ma anche di soft power, uno strumento culturale, che è il fatto di essere, se non altro per ragioni di prossimità geografica, il Paese principalmente attraversato da questo circuito mediterraneo.
Ricordo che l'unico momento della storia in cui abbiamo contato qualcosa è quando esisteva il Mediterraneo, cioè quando esisteva una qualche forma di circuito, e che il nostro declino di influenza in quella regione è sostanzialmente finito con la prima guerra di Libia, quella del 1911, quando abbiamo voluto mimare i colonialismi europei all'italiana, massacrando un sacco di gente soprattutto, ma - effetto geopolitico di lungo termine - dimostrando di non essere all'altezza dei colonialismi europei, quelli veri.
Penso che questa sia la nostra priorità: ragionare in un'ottica mediterranea, agganciare i nuovi circuiti, quindi in maniera concreta agganciare i circuiti dell'Islam politico, Fratelli musulmani ma anche salafiti. Ricordo a noi stessi che lo stanno facendo gli americani e perfino gli israeliani, quindi non vedo perché non possiamo farlo noi - è vero che su questo c'è stata una tabuizzazione fortissima per molto tempo - senza farci illusioni (come diceva il professor Roy, certamente non sono dei seguaci di Voltaire o dei liberaldemocratici), ma allo stesso tempo sapendo che sono quelli che in questo momento possono contare, e in alcuni casi contano di più, e soprattutto che le alternative che io vedo sono tutte peggiori.

PRESIDENTE. Ringrazio gli auditi e do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

FRANCO FRATTINI. Professor Roy, ho tre domande per lei e una considerazione, dalla quale parto. Lei ha parlato dell'Islam politico e io condivido molto l'idea che sia forse uno degli elementi di novità più interessanti di questo periodo di trasformazioni arabe, anche perché in alcuni casi l'Islam politico, come avviene ad esempio in Marocco, è in condizioni di dimostrare la possibilità di un'alleanza di governo con forze che islamiche non sono.
Vi sono degli esempi viventi; ho appena partecipato a un forum ministeriale piuttosto importante - parlo del forum di Asilah, vicino Tangeri, promosso dal re del Marocco - invitato come «amico». In quella sede il Ministro degli esteri del Marocco ci ha spiegato come l'esperienza marocchina sia proprio quella di una convivenza tra partito islamico e partiti che noi chiameremmo laici ma che, traducendo dall'arabo, non dovremmo chiamare laici o secolari ma «civili».
Questo è un aspetto che vorrei che lei approfondisse, riferendoci come a suo avviso questa normalizzazione dell'Islam politico nel quadro di un sistema multipartitico si potrà realizzare. Quando questo avverrà dovunque, come cosa normale, credo che avremo fatto un passo avanti estremamente importante e avremo anche dato una rassicurazione al resto del mondo che l'obiettivo dello Stato teocratico diventa per fortuna minoritario. Se questo non accade vi saranno molti, anche in Occidente, che avranno timore di una trasformazione di un Islam politico in un Islam politico sul modello teocratico iraniano.
Le chiedo come a suo avviso sia possibile immaginare che la collaborazione, che io condivido, tra l'Europa e questi nuovi Governi, guidati da partiti islamici o con una loro forte presenza, segua una sorta di decalogo di princìpi assoluti che corrispondono a valori a cui noi europei non possiamo rinunciare. Noi non vogliamo


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che questi valori vengano esportati, ma nondimeno abbiamo difficoltà ad accettare che un accordo di associazione o di collaborazione non preveda garanzie minime di rispetto dei diritti delle donne, dei diritti delle minoranze, delle minoranze religiose.
In Europa, come lei sa bene, la chiamiamo «condizionalità positiva». Abbiamo usato parlare di more for more per dare un segnale di apertura. Vi è la possibilità, a suo avviso, che queste linee rosse, che a nostro avviso non possono essere superate, vengano finalmente accettate? Beninteso, se noi rispetteremo la loro identità, la loro strada verso la democrazia, fermo restando che noi non vogliamo né imporre né esportare i nostri valori. Se dovessimo concludere che noi dobbiamo aiutare, ma ci dobbiamo rassegnare a vedere violati in quei Paesi diritti fondamentali, io comincerei ad avere qualche perplessità in più su una politica fondata solamente sull'apertura e non già su un dialogo paritario.
Se vi è dialogo paritario, noi abbiamo il diritto di chiedere che la dignità della persona umana dovunque venga rispettata. È un tema delicatissimo, perché è facile sconfinare dalla condizionalità positiva all'esportazione della democrazia, che è qualcosa che a me non piace.
Le chiedo come, a suo avviso - passo al terzo punto che vorrei sottolineare con lei - un ruolo europeo possa essere immaginato nel momento in cui, come lei ha detto, l'immagine europea (e anche l'immagine occidentale, non solo europea) è quella di essere stati amici dei dittatori per ragioni di sicurezza e di stabilità, a spese dei diritti umani degli individui. È chiaro che, presso le folle, presso i giovani che hanno lottato per la libertà, noi Occidente, noi Europa dobbiamo rapidamente raddrizzare questa immagine, ammettendo anche in modo autocritico gli errori fatti e la mancanza di analisi.
Si sono versati fiumi di inchiostro, per decenni, di illustri analisti di tutto il mondo, ma nessuno di loro aveva mai in modo chiaro e fermo denunziato quanto poi è emerso dalle primavere arabe, ossia che noi ci affidavamo su regimi che oltre a non essere democratici erano fragili, perché fondati sulla distanza incolmabile rispetto ai popoli.
L'ultimo punto, ed è quello su cui la mia visione diverge dalla sua, professor Roy, riguarda il ruolo della Turchia. Io sono sempre stato convinto che sia stato un male fermare il processo di adesione della Turchia e che sia sì importante incoraggiare quel Paese a svolgere un ruolo di stabilizzazione nella regione, ma se la Turchia lo facesse con una prospettiva europea piuttosto che con una prospettiva asiatica, per noi europei sarebbe un messaggio di maggior forza politica dell'Europa e di rassicurazione a quei musulmani - oltre un miliardo - che vedono nell'Europa talvolta una fortezza antimusulmana e che, al contrario, dovrebbero avere la prova che l'Europa ha una carta dei valori ma non ha pregiudiziali.
Lo dico essendo quello che, forse più di molti altri, si è battuto per i diritti dei cristiani nel mondo da Ministro degli esteri. Non ho timore di dire che non vorrei che la nostra Europa fosse considerata una fortezza antimusulmana. Proprio perché ho difeso tanto i cristiani fuori dall'Europa, vorrei che la Turchia diventasse un giorno membro dell'Unione europea.

WALTER VELTRONI. Ringrazio il professor Roy e il direttore Caracciolo per le loro esposizioni, che sono state molto interessanti.
Sollevo due questioni sulle quali vorrei raccogliere la loro opinione.
In primo luogo, ha assolutamente ragione Caracciolo nel dire che oggi per noi le relazioni con quell'area si sono rese più difficili e che alla domanda su chi comanda in quell'area è difficile dare risposta. È anche vero che se, a loro volta, ponessero la stessa domanda a noi italiani, anche noi faremmo qualche fatica a dare una risposta.
D'altra parte, così è la storia. Come è successo in tanti momenti della nostra vicenda collettiva, quando cadono dei regimi


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autoritari si apre una fase di transizione il cui esito è sempre molto incerto.
La prima domanda è se, dal loro punto di osservazione, e anche in ragione della difficoltà nella quale si trovano le esperienze e le istituzioni democratiche in questa parte del mondo, sembri a loro che dal punto di vista dell'assetto statuale e dei processi di decisione in questi Paesi, dopo la fine dei regimi preesistenti, stiano maturando delle esperienze nuove, e quali e in quali forme.
La seconda domanda riguarda una grande potenza che non è stata citata - ho ascoltato tutto l'intervento di Caracciolo e buona parte di quello del professor Roy - e che io vedo molto presente nell'altra parte dell'Africa, cioè nell'Africa sub-sahariana, in maniera assolutamente rilevante e, da un certo punto di vista, persino inquietante: la presenza cinese.
Credo che in questo momento nell'Africa sub-sahariana ci siano circa 300.000 cinesi, una cifra di stranieri superiore a quella che, anche nei momenti più alti delle esperienze coloniali, si è registrata in quella parte del mondo. Chiedo se loro hanno la sensazione che anche in questo processo di transizione nuovo si avverta il segno di questa presenza.

STEFANIA GABRIELLA ANASTASIA CRAXI. Ringrazio il professor Roy e il professor Caracciolo.
Professor Caracciolo, c'è stato anche un momento, nella storia moderna, in cui l'Italia nell'area mediterranea ha contato qualcosa, perché non tutti la pensavano come La Malfa.
Vorrei riflettere con voi su questo tema, tra l'altro prendendo spunto anche da quello che ha detto l'onorevole Veltroni. Penso, esattamente come lei, che l'Italia conterà qualcosa in Europa se riesce a contare nel giardino di casa; penso, altresì, che se l'Europa non sarà in grado di creare una grande area euromediterranea, in un mondo che si è diviso in macroaree geografiche di influenza politica, quindi economica, non conterà nulla.
Temo, però, che siamo arrivati molto in ritardo. Oggi altre potenze, quelle asiatiche, stanno cercando di occupare quello spazio e lo fanno in modo aggressivo, lasciando però - come facevano i vecchi colonialismi - qualcosa sul terreno. Noi europei scontiamo due circostanze: non abbiamo fatto abbastanza, negli anni delle vacche grasse, per sostenere lo sviluppo economico della regione, continuando a consentire questo divario tra nord e sud del mondo; inoltre, scontiamo una divisione politica e l'inesistenza di una politica estera comune, come abbiamo visto in modo drammatico nella guerra di Libia, e di una politica di difesa, o meglio ogni nazione ha una politica di difesa che risponde ancora troppo alle esigenze nazionali.
Chiedo, quindi, se non siamo arrivati troppo tardi. È una riflessione che noi siamo in grado di portare in Europa? Sappiamo che l'Europa, rispetto all'area mediterranea, ha due atteggiamenti diversi, come Europa del nord e come Europa dell'est. Hanno un atteggiamento diverso anche le nazioni mediterranee, che pure non sono riuscite, neanche sul tema mediterraneo, a sviluppare una politica comune. Professor Roy, non è tardi?
A mio avviso, inoltre, scontiamo che comunque l'Occidente dà sempre l'impressione di utilizzare due pesi e due misure. Riguardo al tema dei governi, delle democrazie, dei diritti umani, noi continuiamo ancora oggi a usare due pesi e due misure.

ENRICO PIANETTA. Credo che i nostri due relatori, che ringrazio, non abbiano fatto (a meno che non mi sia sfuggito) alcun riferimento, pur citando tanti Paesi sia del Nord Africa sia del Golfo, alla Siria.
Sappiamo benissimo che la Siria è una realtà indubbiamente centrale in questo contesto di area. Mi viene in mente la famosa frase di Kissinger che non si fa la pace in Medio Oriente se la Siria non è d'accordo. In un contesto estremamente ampio, con tutte le valutazioni che avete fatto, mi piacerebbe conoscere alcune vostre considerazioni non tanto e non solo


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per quanto riguarda l'attualità, quanto piuttosto per capire quali sono le prospettive e le problematiche di una soluzione siriana.
Peraltro, dal colonialismo si è passati - forse l'onorevole Veltroni faceva qualche riferimento in tal senso - a una serie di dittature, di regimi autoritari, che avevano per lo meno la capacità, da alcuni punti di vista, di mantenere una certa stabilità. Con questo non voglio assolutamente esaltare queste dittature, ma esse potevano contribuire a mantenere questa stabilità che adesso questo processo nato nel 2011 mette fortemente a rischio, sollevando una serie di preoccupazioni anche da parte europea. Certamente bisogna considerare positivamente, a mio modo di vedere, questi sviluppi e questi processi che, pur con tante difficoltà, mi auguro possano procedere, anche in ragione - a me è piaciuto il riferimento - di quella circolarità che può contribuire senz'altro, seppure nell'ambito di un'autonomia da parte di ciascun Paese, a far sviluppare questi processi.
Vorrei sapere qualche cosa di più preciso sulla situazione siriana in quel contesto cui ho fatto riferimento.

PAOLO CORSINI. Anch'io voglio ringraziare i due relatori per l'esposizione che ci hanno proposto, che ho trovato particolarmente stimolante e interessante.
Prenderò anch'io spunto da un episodio quasi aneddotico che ho vissuto recentemente a Strasburgo. Nell'ambito dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa ho avuto un lungo colloquio con una deputata turca, nipote del primo Presidente turco succeduto a Mustafa Kemal Ataturk. La deputata mi diceva che in Turchia non utilizza più il cognome della discendenza dal proprio nonno perché quel Presidente era sostanzialmente espressione di una continuità delle scelte politiche di Ataturk, nel segno di una forte affermazione della laicità dello Stato. Ella, inoltre, mi sottoponeva interrogativi abbastanza inquietanti in ordine alle linee che, in relazione al rapporto religione-politica, il Presidente Erdogan sta assumendo.
Vorrei allora chiedere al professor Roy - conosco una sua pubblicazione, che è stata tradotta in italiano, sul tema della laicità nei Paesi musulmani - quali sono le sue valutazioni e i suoi giudizi in ordine alle scelte che su questo terreno Erdogan sta assumendo e quale significato possono avere nell'ambito di una stabilizzazione del processo democratico in Turchia, in relazione a un confinamento delle minoranze - questa almeno la testimonianza della collega turca - che non condividono questa impostazione e questa linea d'orientamento.
Per tornare alla Siria, ieri la stampa italiana dava ampio risalto a interviste e testimonianze di cattolici di nazionalità siriana, o di siriani di religione cattolica, i quali guardavano con estrema preoccupazione ai processi che sono in corso e si rapportavano al regime di Assad in termini molto confidenti. Personalmente ho avuto l'impressione che questi esponenti cattolici pensino alla libertà religiosa più nei termini di una valorizzazione delle prerogative della loro chiesa, della loro fede, che non proiettata nel quadro più ampio di una valorizzazione della libertà di tutti.
Mi sembrava - ho ascoltato soltanto una parte della relazione del professor Roy - che ci fosse un riferimento a questo aspetto del problema. Del resto, anche in Italia, ad esempio, negli anni della dittatura fascista, la Chiesa cattolica aveva assunto un atteggiamento di autotutela delle proprie garanzie e non aveva una particolare propensione a garantire la libertà religiosa nel quadro di una libertà generalizzata per tutti.
Tuttavia, questo aspetto del problema non è indifferente in relazione all'atteggiamento che la politica europea può assumere nei confronti della Siria. Vorrei conoscere, professore, la sua valutazione e la sua opinione in merito a questa questione.

FRANCESCO TEMPESTINI. Direttore Caracciolo, certamente non possiamo pensare tanto di contare in Europa, però dobbiamo tentare di restarci, il che mi


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pare la vera sfida con cui dobbiamo confrontarci.
Battuta a parte, il punto che vorrei sollevare è che nessuno di voi ha sostanzialmente posto il tema Europa. È, come sostiene l'onorevole Craxi, troppo tardi per pensare ancora a una missione europea nel Mediterraneo? E come è pensabile un ruolo italiano se non collegato in qualche modo all'Europa? Un'Europa disinteressata e distratta su questo fronte rende anche una nostra impresa mediterranea molto difficile. Nel rapporto tra Europa e Mediterraneo, in questo contesto, cosa può fare l'Italia? Vorrei che dedicaste qualche ulteriore considerazione a questo tema.
Passo alla seconda questione. In quella seconda parte del Mediterraneo c'è il tema - sebbene silente, o almeno per voi lo è stato in questa audizione - del conflitto israelo-palestinese. Ci sono tante ragioni perché oggi sia così.
Ciò che invece è silente, ma molto minaccioso e molto carico di problematiche, è l'atteggiamento occidentale nei confronti dell'Iran. È pensabile, a proposito di Siria o altro, che l'atteggiamento occidentale verso l'Iran continui a essere di totale esclusione? O esiste invece, anche da questo punto di vista, la necessità di cominciare a ripensare al rapporto con l'Iran come un polo non necessariamente di destabilizzazione, ma che può essere portato a un ruolo collaborativo, riconoscendogli però prima di tutto un ruolo? Dentro al conflitto sunnita-sciita fatico a stare dalla parte delle monarchie del Golfo.

PRESIDENTE. Do la parola ai nostri oratori per la replica.

OLIVIER ROY, Direttore del Programma Mediterraneo del Robert Schuman Center for Advanced Studies dell'Istituto universitario europeo. Cercherò di essere sintetico. La questione dei valori non negoziabili è sicuramente centrale, ma non bisogna considerare due sistemi, da una parte il sistema occidentale, liberale e via dicendo, e dall'altra un sistema islamico centrato sulla sharia.
Gli islamisti stanno comprendendo che la sharia non risolve i problemi sociali, per diverse ragioni. Innanzitutto, va considerato il loro percorso individuale; bisogna anche tener conto dei singoli individui. I Fratelli musulmani e Ennahda in Tunisia sono stati esiliati, imprigionati, protetti o anche messi in prigione dalle democrazie occidentali, quindi hanno un'esperienza paragonabile a quella dei comunisti spagnoli e portoghesi degli anni Sessanta e Settanta. In questi casi, infatti, si diventa o più dogmatici o più liberali. Si tratta però di persone che hanno avuto una vita ed esperienze forti.
La riflessione sui valori per loro deriva anche dai limiti politici, e tra questi c'è anche l'Europa. Per loro siamo un limite. Ad esempio, nel caso della Tunisia, i tunisini non possono permettersi di prendersela con l'Europa. Ma bisogna esprimere questi limiti in maniera negoziabile, non dando dei diktat, delle imposizioni. Noi però facciamo parte dei limiti del mondo arabo. I Fratelli musulmani egiziani sanno che la questione dei rapporti con Israele è una di quelle costrizioni, di quei diktat che hanno.
Poi c'è la trasformazione delle società in cui queste persone vivono. Le società del mondo arabo sono sempre meno patriarcali e sempre più società individualiste; i giovani navigano su Internet, anche se non possiedono un computer, capiscono il francese o l'inglese, viaggiano, e noi dobbiamo contribuire a questa apertura della società.
Per rispondere alla domanda, direi che l'Europa può intervenire su diversi livelli. Innanzitutto vi è l'impegno quasi personale: dobbiamo invitarli, discutere, parlare con loro, anche litigare, ma comunque incontrarli, avere un dialogo. Inoltre, bisogna discutere con loro di politica, dei loro limiti politici e dei nostri vincoli politici, dei vincoli che ci sono dettati dal Mediterraneo. Hanno bisogno del turismo, hanno problemi di migrazione, problemi di giovani che emigrano, della fuga dei cervelli. Bisogna discuterne sul piano politico.
Per quanto riguarda la trasformazione della società, noi possiamo svolgere un ruolo importante nello sviluppo del dibattito


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attraverso gli accordi tra le università. Le università del mondo arabo non sono in buono stato, ad eccezione di quelle americane a Beirut, al Cairo e nel Golfo, ma noi dobbiamo sfruttare la collaborazione tra le università anche per promuovere il dialogo interreligioso, in forme sia ufficiali che informali e personali. Bisogna moltiplicare gli scambi. Questo è, per me, il vero ruolo dell'Europa.
Quanto alla Turchia, io non credo che il Paese stia passando da un sogno europeo a un passato asiatico. La Turchia è stata europeizzata, è questo il paradosso. Il processo di candidatura non ha avuto successo, ma ha europeizzato la società turca, e i dirigenti politici lo sanno. Riguardo alla deputata turca di cui si parlava, che suppongo si chiamasse Inönü, posso dirvi che esiste un divario tra un'élite laica totalmente europeizzata e una parte della società, soprattutto quella che vive in Anatolia. L'élite europeizzata non comprende quello che succede in Anatolia. Il Partito repubblicano del popolo è passato dal centrosinistra alla destra nazionalista laica, ma questa sfera nazionalista è oggi occupata dagli islamisti; è quindi inutile cercare di occupare la sfera del nazionalismo, perché è già in mano ad Erdogan, quello che serve invece è un'alternativa socialdemocratica.
Il partito AKP è un partito di destra, conservatore sui valori ma liberale in economia. Se vogliamo combatterlo c'è bisogno di un partito socialdemocratico. È inutile fare della laicità un programma politico in sé. La laicità non è mai un programma politico, né in Turchia né in Francia.
In Siria effettivamente la situazione è grave. Ho parlato con alcuni esponenti del clero di quel Paese e sostengono Assad. Questo è veramente un gesto suicida, perché se verranno inviate delle truppe sarà proprio per combattere Assad. Devono invece aprirsi al dialogo con l'opposizione. Hanno una piccola possibilità, ossia che i sunniti se la prendano con gli alawiti e non con i cristiani, perché i primi sono ancora più minacciati nella zona.
È anche interessante notare che non abbiamo menzionato il conflitto israelo-palestinese e non è un caso: si tratta di un conflitto sul quale non abbiamo più alcuna presa. I Governi israeliani sono riusciti a rendere immobile la loro politica nei territori occupati, quindi l'Europa può dire quello che vuole, ma niente mai succederà. Un altro paradosso della primavera araba è che ha promosso il patriottismo nazionale dell'Egitto, della Tunisia eccetera, contro un immaginario panarabo nasseriano o islamico. Di conseguenza, le opinioni pubbliche del mondo arabo si preoccupano molto meno della sorte dei loro cugini palestinesi che non hanno fatto la primavera araba. Se mai ci sarà una primavera araba in Palestina, Netanyahu e il Presidente dell'Autorità palestinese ne saranno i più disturbati.
È inutile ormai parlare di accordi di pace che non si faranno mai.

LUCIO CARACCIOLO, Direttore della rivista italiana di geopolitica Limes. L'onorevole Veltroni chiedeva prima se ci fossero e quali fossero delle esperienze nuove. Se non ci fossero state e se non ci fossero queste esperienze non avremmo avuto nemmeno questi movimenti che invece sono ancora in pieno corso.
Intendo dire che i semi di un protagonismo - se vogliamo anche di un individualismo consapevole - che prima erano completamente soffocati o inesistenti oggi sono visibili, ma non sono ancora politicamente e socialmente organizzati al punto tale da poter pesare nel potere.
Quelli che adesso si contendono il potere in Egitto non sono quelli che hanno fatto la rivoluzione; sono le forze armate e sono i Fratelli musulmani o i salafiti o altri movimenti. Questo non vuol dire che non esistano quelle cose che noi abbiamo sperato di vedere e che in qualche misura c'erano - sebbene forse abbiamo un po' esagerato a vederle - ma significa che potranno fruttificare in un tempo sperabilmente non troppo lungo (per il momento però non sono protagoniste).
L'onorevole Veltroni e l'onorevole Craxi parlavano della Cina e delle potenze asiatiche.


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Quando prima parlavo del vuoto di potere lasciato dagli americani e non riempito dagli europei, siccome la politica non tollera vuoti, qualcun altro è intervenuto. Attenzione, non si intende solo le potenze asiatiche estremo-orientali, cioè la Cina, ma anche vicino-orientali, cioè Arabia Saudita, Qatar e così via.
Che cosa hanno più di noi? Una cosa fondamentale: i soldi. Possiamo fare tutti i discorsi che vogliamo, ma se non abbiamo i soldi non si fa politica. Purtroppo in questo momento l'Italia e le potenze europee sono in bolletta e quel poco che hanno certamente non lo investono in questa regione. È una visione miope, che nel medio periodo ci procurerà dei guai seri, ma è un dato di fatto. I soldi non si possono fabbricare; forse in America sì, ma in Europa no.
L'onorevole Craxi chiedeva se non è troppo tardi. È sempre troppo tardi e non è mai troppo tardi. È evidente che abbiamo perso delle posizioni in gran parte irrecuperabili, ma è anche vero che non possiamo semplicemente stare a guardare, e non possiamo farlo proprio per la ragione che prima accennavamo, cioè per il fatto di partecipare a un circuito comune, che non è estero, ma è interno. Noi ce l'abbiamo dentro e noi in qualche misura - molto minore - siamo ancora dentro, nel senso che qualche leva minore la possiamo muovere.
Francamente sulla questione dei due pesi e due misure non sono d'accordo. Ci mancherebbe pure che non usassimo due pesi e due misure! La politica è questo, cioè avere la capacità di usare pesi e misure a seconda delle situazioni, altrimenti saremmo ridotti a una sorta di fondamentalismo moralistico che un tempo ci avrebbe obbligato a far la guerra all'Unione Sovietica o che magari l'11 settembre avrebbe portato gli americani a dichiarare guerra all'Arabia Saudita e al Pakistan, invece che all'Afghanistan. Bisogna saper distinguere e la difficoltà - e anche la bellezza - della politica è sapere distinguere e sapere investire le risorse necessarie disponibili.
Per quanto riguarda più in generale il ruolo dell'Europa, per avere un ruolo bisogna essere un attore e l'Europa non lo è, o meglio è un contenitore di attori i quali - abbiamo visto - svolgono legittimamente politiche in alcuni casi diverse in altri contrapposte.
Non c'è crisi che io ricordi, non solo in Nord Africa, in cui le principali potenze europee - partiamo dai Balcani fino alla Libia - in particolare Germania e Francia, cioè le due potenze centrali, non abbiano preso posizioni non diverse, addirittura opposte. L'Italia ha avuto tutte le posizioni possibili.
In ogni caso, immaginare un attore che non c'è significa investire malamente le poche risorse che abbiamo. Io penso che l'Italia debba svolgere in quell'area, proprio per pesare di più nel contesto europeo, che è un contesto di competizione e collaborazione, evidentemente, un ruolo di avanguardia.
Mi domando (faccio una proposta del tutto eretica, ovviamente): se l'Europa non è in grado di istituire una zona di libero scambio euro mediterranea, perché il nostro Paese, insieme a qualche altro Paese interessato - non intendo la Danimarca o la Svezia - non prova a crearla? Si dice che questo va contro i trattati. Scusate, forse qualcuno sta rispettando i trattati nell'Unione europea? Se noi ci facciamo limitare da una visione conservatrice-legalistica, quando in qualche modo si tirano i calci sotto i tavoli nella maniera più dura possibile, perdiamo parecchie opportunità. Penso anche che ci si possa in qualche caso alleare con queste potenze asiatiche, che in alcuni casi possono essere utili.
Ad esempio, la guerra di Libia l'abbiamo fatta anche col Qatar; secondo me è stato un intervento sciagurato, ma in ogni caso l'abbiamo fatto grazie ad Al Jazeera, cioè all'emiro del Qatar, e anche utilizzando sul terreno forze qatarine. Insomma, in alcuni casi diciamo che sono degli orrendi dittatori - il Qatar è il regime più assolutistico che ci sia in Medio Oriente - ma dall'altra parte li utilizziamo.


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Perché non utilizzare qualche volta anche i cinesi? Il professor Roy prima parlava giustamente delle borse di studio. Noi fatichiamo a dare due o tre borse di studio; i cinesi danno borse di studio a decine di migliaia, educano gli arabi, gli africani, in alcuni casi si sono ormai costruite anche delle famiglie miste sino-africane e anche un certo insediamento africano in Cina, oltre che cinese in Africa, di cui c'è meno cronaca, ma altrettanto fattivo e interessante, proprio grazie a questi scambi.
A mio avviso, se noi abbiamo qualche idea e qualcuno ce la finanzia perché conviene anche a lui, potremmo farne buon uso.
Sulla Turchia, quale che sia il giudizio che si vuole dare del regime turco - e io credo che sicuramente si sia evoluto notevolmente negli ultimi anni dal punto di vista delle libertà, anche se non c'è nulla di stabilito per sempre, intendiamoci - il problema è che la Turchia probabilmente ha voluto fare il passo più lungo della gamba. Il Primo ministro Erdogan e il suo Ministro degli esteri Davutoglu, che l'onorevole Frattini ben conosce, ci avevano spiegato negli ultimi anni che la loro linea era «zero problemi con i vicini». Ora non riesco a vedere sulla carta un solo vicino con cui non abbiano problemi o con cui non rischino la guerra (vedi la Siria), quindi evidentemente c'è qualcosa che non torna. Noi abbiamo probabilmente sopravvalutato l'influenza e la capacità della Turchia, e non è una buona notizia.

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Roy e il professor Caracciolo e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,20.

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