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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione III
3.
Giovedì 29 gennaio 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Pianetta Enrico, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUGLI OBIETTIVI DI SVILUPPO DEL MILLENNIO DELLE NAZIONI UNITE

Audizione del rappresentante permanente d'Italia presso l'OCSE, ambasciatore Antonio Armellini:

Pianetta Enrico, Presidente ... 3 13 16 18
Armellini Antonio, Rappresentante permanente d'Italia presso l'OCSE ... 3 16
D'Amico Claudio (LNP) ... 15
Mecacci Matteo (PD) ... 14
Tempestini Francesco (PD) ... 14
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-Repubblicani: Misto-LD-R.

COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI
Comitato permanente sugli obiettivi di sviluppo del millennio

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 29 gennaio 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DEL COMITATO ENRICO PIANETTA

La seduta comincia alle 12,15.

(Il Comitato approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del rappresentante d'Italia presso l'OCSE, ambasciatore Antonio Armellini.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sugli obiettivi di sviluppo del millennio delle Nazioni Unite, l'audizione dell'ambasciatore Antonio Armellini, rappresentante permanente d'Italia presso l'OCSE.
Nei pochissimi minuti precedenti la seduta, ho avuto modo di riferire all'ambasciatore dell'attività che questo Comitato sta svolgendo in questa prima fase della legislatura: un'attività mirata a sviluppare una serie di audizioni che possano consentire al Comitato stesso di avere un inquadramento generale della problematica, dei suoi aspetti, delle difficoltà e delle preoccupazioni esistenti in ordine alla possibilità di conseguire e raggiungere gli obiettivi del millennio.
Come è prassi, alla relazione introduttiva seguiranno gli interventi dei colleghi, i quali avranno la possibilità di esprimere considerazioni e di rivolgere eventuali domande di approfondimento.
Do la parola all'ambasciatore Armellini, perché ci possa illustrare l'attività che svolge come rappresentante dell'Italia presso l'OCSE.

ANTONIO ARMELLINI, Rappresentante permanente d'Italia presso l'OCSE. La ringrazio, presidente. Vorrei premettere alle poche osservazioni che farò la considerazione prioritaria che l'OCSE, rispetto agli obiettivi del millennio - i Millennium Development Goals - non ha una responsabilità operativa diretta, bensì di analisi, supporto e accompagnamento delle azioni dei Paesi membri dell'organizzazione e, in generale, dei Paesi donatori.
Detto questo, con il consenso del presidente, vorrei dividere questa mia presentazione in due parti: da un lato, vorrei parlare del contributo al raggiungimento degli obiettivi del millennio da parte dell'OCSE in quanto tale; e, dall'altro, vorrei dire alcune parole sul ruolo dell'Italia, anche in connessione con la presidenza italiana del G8, nonché svolgere qualche osservazione su come l'Italia viene vista dall'OCSE e nell'ambito dell'OCSE.
La relazione, per il 2008, sull'attuazione degli obiettivi del millennio svolta dal Segretario generale delle Nazioni Unite dovrebbe indurre ad un moderato ottimismo, perché continuano a registrarsi progressi in diversi Paesi, in particolare per quanto riguarda la lotta alla povertà e sul fronte dell'istruzione, ma anche in altri settori.
È altrettanto vero, peraltro, che il ritmo di miglioramento rimane certamente troppo lento per consentire il raggiungimento


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degli obiettivi entro il 2015, soprattutto in molti Paesi dell'Africa sub-sahariana.
Per la comunità internazionale, quindi, si pone l'esigenza di un'accelerazione degli sforzi in atto; nei confronti di tale esigenza, evidentemente, si staglia la crisi finanziaria mondiale che tutti stiamo attraversando e che, certamente, pone degli interrogativi circa la possibilità reale, per la comunità internazionale, di mettere in atto, con la rapidità e nella quantità necessarie, gli sforzi occorrenti per far sì che gli obiettivi vengano effettivamente e pienamente raggiunti nell'arco temporale risolto.
Ho avuto occasione di vedere che il Comitato, nei mesi scorsi, ha potuto incontrare sia il coordinatore esecutivo, sia il direttore della campagna delle Nazioni Unite per gli obiettivi di sviluppo del millennio.
Credo che lo scorso ottobre ci sia stato anche un incontro informale con Eckhard Deutscher, presidente del DAC (Development Assistance Committee), il Comitato di aiuto allo sviluppo dell'OCSE.
Sono interlocutori autorevoli che, rispetto all'argomento di cui trattiamo oggi, hanno una responsabilità operativa più diretta della mia, sia dal punto di vista dell'impostazione generale, sia da quello dell'articolazione tecnica degli interventi.
Per parte mia, non posso che esprimere il totale accordo con quanto è stato riferito al Comitato da questi interlocutori. In particolare, vorrei fare riferimento a quanto detto dal direttore della campagna, Salil Shetty, in relazione agli sforzi in atto in numerosi Paesi in via di sviluppo.
Egli ha sottolineato che tali sforzi dovrebbero basarsi su alcuni presupposti essenziali: una leadership politica decisa, che metta lo sviluppo sostenibile e la lotta della povertà al centro dell'azione dei Governi; l'elaborazione di piani e di politiche per lo sviluppo chiari e attentamente focalizzati; bilanci nazionali ben predisposti, in cui le risorse per lo sviluppo siano identificate con chiarezza; un impegno deciso per la lotta alla corruzione; un coinvolgimento di tutti gli attori nell'elaborazione delle strategie di riduzione della povertà, secondo un principio di inclusività democratica; e, infine, l'importante ruolo di supporto che devono svolgere la comunità internazionale e, in particolare, i donatori.
Come accennavo, l'OCSE in quanto tale non si occupa direttamente degli obiettivi del millennio e non ha un mandato specifico al riguardo, a differenza degli organismi societari come l'UNDP, la Banca mondiale, la FAO e altre organizzazioni. L'OCSE, come loro sanno, raggruppa trenta Paesi che, quali criteri ispiratori della loro attività, condividono la natura democratica e l'economia di mercato.
Il mandato dell'OCSE è molto ampio: mira a supportare la crescita economica, a promuovere l'occupazione, a innalzare gli standard della qualità della vita, a mantenere la stabilità finanziaria, a coadiuvare lo sviluppo economico di altri Paesi e a contribuire alla crescita del commercio globale.
Per far questo, l'OCSE ha una caratteristica che lo rende peculiare: agisce attraverso un meccanismo di dialogo e di confronto permanente tra gli Stati. Il concetto della peer review, insieme a quello dei comitati, è alla base dell'attività dell'OCSE.
L'OCSE lavora, cioè, attraverso comitati - in cui sono presenti i Paesi membri - all'interno dei quali viene condotta un'attività costante di osservazione, monitoraggio e promozione delle best practice nei diversi settori riguardanti l'attività dell'organizzazione.
Tutto ciò che avviene in OCSE, in termini di valutazione e «giudizio», si realizza attraverso un meccanismo che coinvolge i Paesi membri, ciascuno nei confronti dell'altro, a cadenza regolare, nei diversi campi di attività, fra l'altro anche per quanto riguarda la cooperazione e lo sviluppo.
Ripeto che l'OCSE può contribuire indirettamente all'attuazione degli obiettivi del millennio, per mezzo del contributo che riesce a dare per un funzionamento migliore e più equilibrato dell'economia mondiale.


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Può anche farlo attraverso i programmi di outreach e di cooperazione rafforzata, che l'OCSE ha avviato, da tempo, con le principali economie emergenti. Tra l'altro, l'OCSE ha un programma di collaborazione rafforzata - che va sotto il nome di enhanced engagement - con gli stessi cinque Paesi del processo di Heiligendamm, più l'Indonesia e meno il Messico.
Allo stesso tempo, essa mantiene rapporti di collaborazione rafforzata con i Paesi candidati all'ammissione all'OCSE, con i quali è in corso un negoziato, i più rilevanti dei quali sono la Russia e Israele. Vi sono poi l'Estonia, la Slovenia e il Cile, anch'essi candidati importanti, ma forse meno significativi, da questo punto di vista.
L'OCSE ha un rapporto più diretto con gli obiettivi del millennio attraverso l'operato del DAC (Comitato per l'assistenza allo sviluppo), che da più di quarant'anni si occupa di come assicurare una migliore gestione degli aiuti pubblici allo sviluppo.
Il paradigma degli obiettivi del millennio è stato concepito, in linea generale, nel contesto dello sviluppo e della riduzione della povertà, includendo, quindi, il ruolo dell'aiuto allo sviluppo nel quale l'OCSE ha una rilevanza.
Gli obiettivi possono essere visti come gli elementi di base - le condizioni di vita minime - al di sotto dei quali non ci si può attendere una vera e propria sopravvivenza. Essi sono stati delineati anche per sottolineare la necessità di continuare a fornire aiuti per la riduzione della povertà, probabilmente con una scadenza che andrà oltre - forse anche di molto - il 2015, la data fissata inizialmente.
Come loro sanno, il DAC è un foro di ventitré Paesi donatori, non fornisce attività operative per lo sviluppo e non opera sul terreno. Il suo compito fondamentale è quello di favorire il dialogo tra i donatori, al fine di formulare raccomandazioni e linee-guida che possano orientare le varie agenzie nazionali per la cooperazione e lo sviluppo e spingerle a realizzare politiche di cooperazione quanto più efficaci possibile nei diversi settori di intervento.
Peraltro, il DAC ha avuto un ruolo importante nella elaborazione degli obiettivi del millennio, attraverso il suo rapporto Shaping the 21st century, pubblicato già nel 1996, in cui veniva riaffermata la necessità che la comunità internazionale uscisse dalla logica di una mera proclamazione di principi, per arrivare a fissare obiettivi concreti, con i relativi indicatori, che consentissero un monitoraggio concreto dell'attuazione degli impegni, man mano che questi andavano realizzandosi.
Il programma di lavoro del DAC è impostato su diverse aree di attività, che interessano altrettanti settori di intervento della cooperazione allo sviluppo. Tra questi, vorrei citare, in particolare, la lotta alla povertà, la crescita economica, i problemi di gender, l'ambiente, la gestione dei conflitti in relazione allo sviluppo e i problemi generali di governance.
In un senso più generale, quindi, si può dire che l'intero spettro dell'attività del DAC fa riferimento al raggiungimento degli obiettivi del millennio. Se obiettivo del DAC è quello di favorire un più efficace operato dei donatori, infatti, attraverso questo meccanismo gli obiettivi possono essere più facilmente raggiunti.
Direi, peraltro, che il ruolo dell'OCSE, attraverso il DAC, è particolarmente rilevante in relazione soprattutto all'obiettivo del millennio numero otto, quello che fa riferimento alla realizzazione di un partenariato globale per lo sviluppo.
Tale obiettivo è rivolto essenzialmente ai Paesi donatori e riguarda gli impegni per un migliore sistema finanziario internazionale; per maggiori quantità di aiuti allo sviluppo e per un loro indirizzo verso i Paesi più poveri e più vulnerabili, verso i settori che hanno maggiore rilevanza sociale e che permettano, quindi, un debito sostenibile, da parte dei Paesi in via di sviluppo; per favorire strategie di occupazione giovanile, l'accesso ai farmaci e alle nuove tecnologie per l'informazione e la comunicazione.
Il DAC contribuisce al raggiungimento di questo obiettivo, in modo particolare, attraverso il lavoro svolto in tema di efficacia degli aiuti, che vengono valutati


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anche attraverso un meccanismo di elaborazione statistica - tipico del DAC e, in generale, del lavoro dell'OCSE - relativo allo slegamento degli aiuti, alla concentrazione verso i Paesi meno avanzati e verso i servizi sociali di base.
Entrando più nel dettaglio credo che si possano identificare sei settori specifici in cui il DAC sta contribuendo in maniera più diretta all'attuazione degli obiettivi del millennio.
Il primo è quello del monitoraggio di questi obiettivi e del supporto statistico. La nuova metodologia degli obiettivi è basata sulla identificazione di otto goal generali e otto target concreti, uniti a una serie di indicatori statistici che ne consentono un monitoraggio effettivo. Questo richiede la disponibilità di dati statistici puntuali ed efficaci ad un tempo.
Il DAC - come l'OCSE nel suo complesso, del resto direi che l'OCSE è il benchmarking, per quanto riguarda l'attività statistica in generale - ha una tradizione molto autorevole nella produzione di statistiche indipendenti. Esso ha messo in atto una cooperazione efficace fra diverse organizzazioni internazionali, per produrre dati statistici a livello globale, regionale e nazionale.
Attraverso il programma Paris21, che il DAC ha realizzato insieme alla Banca Mondiale e ad altre agenzie, si mira a rafforzare la capacità dei Paesi in via di sviluppo di elaborare strategie nazionali per la realizzazione delle statistiche, al fine di creare, dall'interno dei Paesi stessi, una base statistica che sia al tempo stesso attendibile, efficace e completa.
Mi sono permesso di portare, per lasciarlo all'attenzione della Commissione, un piccolo esempio del lavoro che l'OCSE compie in materia statistica; esso può essere interessante, vuoi per l'informazione assoluta in esso contenuta, vuoi anche per la valutazione della qualità del lavoro e della comparabilità con quello di altri.
Il secondo aspetto su cui vorrei concentrare l'attenzione è quello del volume degli aiuti allo sviluppo. Il DAC, proprio attraverso le sue statistiche sull'aiuto pubblico allo sviluppo e la pubblicazione annuale di un rapporto sulla cooperazione allo sviluppo, compie un'analisi puntuale dei flussi quantitativi degli aiuti, dei Paesi destinatari e dei settori di intervento, in modo da verificare il contributo che i Paesi donatori danno effettivamente al raggiungimento degli obiettivi del millennio, attraverso lo strumento dell'aiuto pubblico allo sviluppo (APS).
A tal proposito, gli ultimi dati ufficiali disponibili si riferiscono al 2007. Da questi risulta che l'aiuto pubblico complessivo si attesta poco sopra i 100 miliardi di dollari, con una riduzione di circa il 4,5 per cento rispetto all'anno precedente, anche se questo confronto è in parte falsato dalla circostanza che nel 2006 vi fu un forte aumento, una tantum, dell'APS, dovuto alla cancellazione del debito dell'Iraq e della Nigeria.
Quest'anno, tra l'altro, l'OCSE ha introdotto il nuovo indice CPA (County Program Aid), che permette di misurare l'impegno dei Paesi donatori non soltanto sulla base del volume complessivo dei fondi, ma anche su quello della quota che effettivamente proviene al bilancio del Paese destinatario per realizzare le sue politiche di lotta alla povertà. Questo indice, quindi, esclude flussi di aiuto come la cancellazione del debito, l'assistenza tecnica e gli aiuti multilaterali ed è quindi più efficace per valutare effettivamente la coerenza degli aiuti.
Dalle prime analisi di questo nuovo indicatore emerge che, in media, solo il 20 per cento di tutta l'assistenza che viene fornita a livello globale raggiunge per più della metà i Paesi beneficiari, mentre per il resto il tasso di dispersione è maggiore. Intendo dire che il 20 per cento degli aiuti arriva per almeno la metà mentre, del restante 80 per cento, meno della metà perviene al Paese beneficiario. Il tasso di dispersione, quindi, è più alto.
Il terzo aspetto delle attività del DAC, strettamente correlato a quanto dicevamo prima, include l'intera agenda dell'efficacia degli aiuti, che è diventata oggi la parte centrale dell'attività del comitato, realizzata peraltro attraverso una crescente


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compartecipazione dei Paesi in via di sviluppo che, insieme agli altri Paesi donatori non-DAC, hanno un ruolo crescente.
Si pensi soltanto alle nuove grandi economie di India e Cina, che sono ormai dei Paesi donatori significativi, pur non essendo Paesi DAC. In questa operazione il DAC coinvolge anche le organizzazioni della società civile e altre organizzazioni internazionali.
L'assunto di questo lavoro è che, oltre alla quantità, sono fondamentali anche la qualità degli aiuti e, in ultima analisi, il loro impatto sulla vita reale dei diretti interessati.
L'esperienza della cooperazione allo sviluppo, negli ultimi quarant'anni, è stata abbastanza ricca, purtroppo, di esempi di inefficacia e la comunità internazionale ha ormai preso coscienza dei limiti delle passate politiche. I margini di miglioramento dell'efficacia sono notevoli e, in buona parte, potrebbero compensare il possibile mancato aumento della quantità degli aiuti, se effettivamente realizzati.
Come pervenire a questo salto di qualità sul piano dell'efficacia è discorso più complicato, anche perché dipende da molteplici fattori. Con la dichiarazione di Roma del 2003 si è iniziato un processo, che si è poi concretizzato nella dichiarazione di Parigi del 2005, che ha identificato una serie di obiettivi da raggiungere entro il 2010, con relativi indicatori statistici che ne potessero permettere un monitoraggio efficace.
La dichiarazione di Parigi si articola intorno a cinque princìpi, che delimitano altrettante aree di attenzione.
Il primo principio è quello della cosiddetta ownership ovvero dell'appropriazione dei processi di sviluppo da parte dei Paesi destinatari, che devono assumere la responsabilità e la guida delle loro politiche di sviluppo dall'interno, coordinando le attività relative, potenziando le proprie istituzioni e combattendo la corruzione.
Il secondo principio è quello dell'alignment ovvero il principio in base al quale i Paesi donatori devono basare la loro attività di cooperazione su strategie, istituzioni e procedure locali, cioè riferite ai Paesi di destinazione degli aiuti, con una preferenza crescente per gli aiuti a programma rispetto a quelli a progetto, con l'utilizzo crescente di sistemi finanziari e di risorse istituzionali locali e così via.
Il terzo principio è quello dell'armonizzazione ovvero del coordinamento tra i Paesi donatori, le cui attività dovrebbero divenire sempre più trasparenti e complementari, in base al principio della divisione del lavoro, fondata sul vantaggio comparato di ciascuno. Tale divisione mira a risolvere il problema, peraltro noto da tempo, di duplicazione e dispersione di risorse, in questa politica.
Il quarto criterio è quello del cosiddetto managing for results ovvero dell'attuazione di una gestione basata sui risultati effettivi, cioè sui risultati raggiunti, piuttosto che sugli input dedicati a questi programmi; e che privilegi, quindi, metodologie adeguate per un monitoraggio dei risultati raggiunti.
L'ultimo punto è quello della mutual accountability ovvero il principio per cui i donatori e i Paesi partner sono reciprocamente responsabili per i risultati conseguiti.
La dichiarazione di Parigi ha avuto un momento di analisi, di riferimento e impulso ulteriore qualche mese fa, in occasione del terzo forum, ad alto livello, sullo sviluppo, che si è svolto ad Accra nel mese di settembre. In quell'occasione è stato fatto il punto della situazione e sono state decise azioni ulteriori, che dovrebbero favorire un più rapido raggiungimento degli obiettivi del 2010.
Il forum di Accra ha approvato la Accra Agenda for Action (AAA), che sintetizza una serie di azioni. Vorrei fare riferimento ad alcuni suoi punti salienti, anche in relazione a quelli che erano gli obiettivi della dichiarazione iniziale di Parigi.
Per quanto riguarda l'ownership, ad Accra si è sottolineato, in modo particolare, il concetto che l'appropriazione dei programmi deve riguardare non soltanto i Governi, ma tutti gli attori istituzionali e la società civile; nei Paesi in via di sviluppo, quindi, ci deve essere un coinvolgimento crescente dei Parlamenti e delle organizzazioni


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rappresentative della società civile, cosa che ancora non avviene in maniera del tutto soddisfacente.
Accra ha anche sottolineato la necessità di rafforzare il principio secondo cui i Paesi donatori, come prima opzione, devono sempre ricercare un riferimento ai sistemi locali, per l'attuazione dei programmi di sviluppo, mantenendo questo come una priorità, attraverso la quale giungere sempre a decisioni con criteri di selezione il più possibile trasparenti.
Per quanto riguarda, invece, l'aspetto della divisione del lavoro, ad Accra è stato rinnovato l'impegno - dovuto in particolare, in questo caso, all'azione dei Paesi dell'Unione europea - ad adottare best practice in tutte queste attività e ad iniziare un dialogo internazionale, volto a risolvere il problema dei Paesi che ricevono una quota molto limitata di aiuti.
Il dettaglio mi sfugge, ma nella documentazione che ho portato con me questo è chiaramente indicato: se si guarda a una mappa complessiva degli aiuti allo sviluppo, si nota una fortissima concentrazione su un numero limitato di Paesi, per ragioni vuoi geo-politiche, vuoi di convenienza, vuoi di priorità di vario tipo; mentre invece un grandissimo numero di Paesi ricevono pochissimi aiuti: o punto, o poco.
Questo si traduce, evidentemente, in una grossissima perdita di efficienza e di efficacia, soprattutto per quanto riguarda gli aiuti a questi Paesi, ma anche in uno squilibrio della mappa complessiva. Se gli obiettivi del millennio sono tesi a ridurre la povertà a livello globale, certamente questa disarticolazione degli aiuti non favorisce questo aspetto; semmai, anzi, lo aggrava. Ad Accra questo punto è stato posto particolarmente in rilievo.
L'altro punto sollevato, che da sempre fa parte dell'agenda dello sviluppo, è quello dello slegamento degli aiuti. È un argomento, come sappiamo, molto controverso. Anche ad Accra la discussione su questo punto non è stata facile. L'impegno è stato di promuovere, nella misura del possibile, un ulteriore slegamento degli aiuti, per i quali tutti i Paesi donatori, chi più, chi meno, hanno avuto - e in parte hanno ancora - dei problemi.
L'altro punto è stato quello della mutual accountability ovvero della trasparenza degli aiuti. È stato uno dei temi più complessi della discussione ad Accra. Gli organismi rappresentanti della società civile che erano presenti al forum hanno spinto molto per il rafforzamento dei meccanismi relativi.
Le proposte, che sono venute soprattutto da parte europea, sono state parzialmente accettate, anche con riferimento ai meccanismi di verifica reciproca, ai contenuti delle informazioni relative ai flussi di aiuti da rendere di pubblico dominio regolarmente ed al rafforzamento dei meccanismi internazionali di monitoraggio.
Si è parlato anche, in maniera più precisa, di lotta alla corruzione, che è un altro problema importante.
Ancora un altro aspetto trattato ad Accra è stato quello della prevedibilità degli aiuti. Su questo punto, fra l'altro, si prevede che i Paesi donatori forniscano delle informazioni regolari e puntuali sui flussi di aiuto e di spesa previsti nell'anno successivo e indicazioni riguardo alle programmazioni, a medio e lungo termine, dell'attività di aiuto, in modo da consentire una programmazione della spesa pubblica, da parte dei Paesi riceventi l'aiuto stesso, che ne migliorino le capacità in termini di lotta alla povertà.
Il quarto punto di attività prioritaria per il DAC è quello della cooperazione in situazioni di post conflitto e di fragilità istituzionale. Qui il DAC è particolarmente attivo nell'analisi delle modalità per assicurare una maggiore efficacia degli aiuti in situazioni di fragilità istituzionale dovute a permanenza di condizioni di conflitto. In tali situazioni gli strumenti di intervento tradizionale non sempre riescono a operare, vuoi per la mancanza di interlocutori istituzionali legittimati, vuoi per situazioni economiche fortemente degradate.
C'è un nesso di causalità evidente tra povertà e conflitti, in quanto i conflitti hanno dei costi umani ed economici incalcolabili


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e indeboliscono di molto le istituzioni locali e la società civile. Senza affrontare questo tema, in molti Paesi, parlare di una politica di aiuto è effettivamente abbastanza velleitario.
Il DAC, infine, insieme al centro per lo sviluppo dell'OCSE, è molto attivo nel promuovere attività di comunicazione e di advocacy, che possono rafforzare la consapevolezza dell'opinione pubblica, sia in generale, sia in settori più specifici.
Attività di comunicazione vengono rivolte, in particolare, nei confronti dei Parlamenti, delle istituzioni locali, delle università, nonché della società civile più in generale; si tratta di attività volte a sottolineare l'importanza strategica dell'aiuto pubblico allo sviluppo e ad analizzarne l'impatto all'interno dei Paesi riceventi.
Questa attività ha certamente avuto una sua utilità nel far crescere la coscienza dell'importanza del problema all'interno delle società civili dei Paesi donatori, rispetto ai quali, peraltro, può essere necessario continuare a sviluppare un'azione più puntuale e marcata, il che rappresenta uno degli aspetti centrali dell'attività dell'OCSE-DAC.
L'ultimo tema importante per il DAC è quello della coerenza delle politiche dello sviluppo, a cui l'OCSE assegna un'attenzione particolare, perché si tratta di un tema trasversale e interdisciplinare tipico dell'attività dell'OCSE, un'attività orizzontale per definizione.
Il principio di base è quello per cui gli organismi decisionali, al momento dell'adozione di scelte politiche, dovrebbero valutare, di volta in volta, le loro implicazioni, anche per i Paesi in via di sviluppo.
Se gli aiuti rimangono infatti essenziali ai fini della lotta la povertà, essi devono inserirsi in un quadro più ampio, in cui tutte le questioni che possono avere incidenza sullo sviluppo, anche quelle che vanno al di là dell'aiuto, vengano prese in considerazione.
Coordinamento e coerenza delle decisioni sono indispensabili nelle aree più strettamente correlate allo sviluppo, quali l'economia e la finanza - basti pensare alle politiche in materia di investimenti per esempio - ma anche il commercio, l'agricoltura, l'emigrazione, l'ambiente, la scienza e la tecnologia, nonché l'energia e la sicurezza.
Il principio di base su cui si sta lavorando è quello di far sì che, nel fare le relative scelte politiche, si abbia sempre come obiettivo prioritario la loro compatibilità con la lotta alla povertà in generale e, più in dettaglio, con gli obiettivi del millennio.
Si tratta di un obiettivo certamente non facile, complesso, perché implica la composizione di interessi che non sempre sono facilmente conciliabili, così come anche la messa in opera di meccanismi di coordinamento più efficaci di quelli attuali.
L'OCSE, in più occasioni, ha attirato l'attenzione degli Stati membri su come sia necessario introdurre, all'interno di essi, un quadro normativo che indichi chiaramente queste priorità e stabilisca meccanismi operativi per tradurle in azione.
Da quanto ho cercato di dire sinora, credo che emerga con chiarezza come, nel definire e valutare le politiche di aiuto allo sviluppo, in relazione agli obiettivi del millennio, ma anche al di là di questo, sia fondamentale il lavoro di analisi, monitoraggio e statistica.
È qui che il core business dell'OCSE acquista particolare rilievo, attraverso l'azione del DAC ma, in generale, la filosofia complessiva che presiede al lavoro di questa organizzazione.
Credo, dunque, che il valore aggiunto che l'OCSE e i suoi organismi, il DAC in particolare, possono dare alla realizzazione degli obiettivi risieda in questo aspetto che, come dicevo prima, è indiretto rispetto all'operatività delle politiche degli aiuti, che hanno la loro sede in organismi internazionali diversi.
Detto questo, vorrei poter dire qualche parola per quanto riguarda il rapporto fra l'OCSE e l'Italia o, perlomeno, su quello che l'OCSE ritiene di chiedere all'Italia nel settore degli aiuti pubblici allo sviluppo.
Come accennavo precedentemente, il meccanismo delle peer review, cioè dell'analisi


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delle attività compiute dai Paesi membri nell'ambito dell'OCSE, riguarda anche le politiche di cooperazione allo sviluppo e si articola, appunto, attraverso la preparazione congiunta, fra Paese esaminato e Paesi esaminatori, di rapporti regolari sull'efficacia e sulle criticità delle politiche realizzate dai Paesi membri.
L'ultimo rapporto OCSE sulla politica italiana di aiuto allo sviluppo risale al 2004. Ho con me il testo, che metto a disposizione del Comitato. Tale rapporto ha messo in evidenza una serie di criticità e di problemi strutturali, che hanno formato oggetto di diverse raccomandazioni da parte del DAC, e rispetto alle quali sarà necessario continuare a dare un riscontro concreto.
Il rapporto è molto dettagliato, è diviso in sette capitoli, ma le raccomandazioni principali, formulate dal DAC, sono le seguenti.
La prima riguarda l'elaborazione di una politica globale e di una strategia operativa per la lotta alla povertà e il raggiungimento degli obiettivi del millennio. È stata rilevata la mancanza, nel rapporto, di un focal point, a livello politico, sia esso un viceministro o un sottosegretario, per quanto riguarda le attività di cooperazione (questo nel 2004). Inoltre, è stata sottolineata anche l'opportunità che venisse elaborata una strategia di comunicazione rivolta agli altri attori della cooperazione ed alla società civile.
Il secondo punto sottolineato nel rapporto era quello dell'assoluta necessità di mantenere gli impegni assunti dal Governo italiano per il raggiungimento degli obiettivi quantitativi dell'aiuto pubblico allo sviluppo; obiettivo che era dell'0,51 per cento del PIL entro il 2010 e dello 0,7 per cento entro il 2015. Veniva anche raccomandato che l'allocazione dei fondi fosse basata su strategie chiare e su criteri di efficienza; che fosse connessa anche all'identificazione di priorità geografiche e tematiche chiare, nonché ad una ripartizione chiara, basata su linee strategiche ben definite, tra aiuto bilaterale e aiuto multilaterale.
Un altro punto sottolineato era il tema della coerenza della politica per lo sviluppo come un esplicito obiettivo che il Governo avrebbe dovuto assumere, elaborando a riguardo un policy statement, che definisse e delineasse chiaramente anche le modalità attraverso le quali i settori in cui fosse necessario superare eventuali incoerenze fossero chiaramente delineati.
Un altro punto del rapporto riguardava l'esigenza di semplificare le procedure amministrative, anche in vista di una loro armonizzazione con quelle degli altri Paesi donatori; di introdurre la possibilità di assumere impegni finanziari pluriennali, per assicurare una maggiore prevedibilità dell'aiuto pubblico allo sviluppo ed allinearlo con le esigenze programmatiche dei Paesi partner; di riformare il sistema di gestione del personale che opera nella cooperazione, in modo da valorizzare le professionalità, attraverso incentivi; di incrementare il numero di quanti lavorano nel settore della cooperazione e dell'aiuto pubblico allo sviluppo; di introdurre una maggiore delega di autorità fra strutture centrali e uffici decentrati per la cooperazione allo sviluppo; di introdurre un sistema di monitoraggio e di valutazione adeguato che fosse ispirato ai criteri del DAC.
Il DAC, nelle valutazioni del rapporto, aveva constatato la mancanza di progressi, per quanto riguarda la riforma del settore della cooperazione, che erano stati già richiesti nel precedente rapporto sulla cooperazione, elaborato nel 2000.
Già nel 2000, infatti, il DAC aveva espresso l'esigenza, per il legislatore italiano, di approvare una legge che riformasse profondamente l'organizzazione e la gestione del settore della cooperazione. Sempre nel 2000, si suggeriva una maggiore chiarezza negli orientamenti della cooperazione e nella definizione delle priorità; si raccomandava una minore frammentazione istituzionale e una maggiore concentrazione a livello ministeriale, anche attraverso la nomina di un responsabile politico competente in materia di cooperazione allo sviluppo.


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Come si vede, queste raccomandazioni del 2000 hanno trovato puntuale riscontro nel rapporto del 2004, in cui si era messo in luce come, rispetto alle raccomandazioni inizialmente svolte, il realizzato fosse al di qua di quanto nel rapporto si era auspicato precedentemente e di quanto ci si attendesse nell'ambito dell'OCSE-DAC.
Un punto che può essere di particolare interesse, proprio parlando di riforme degli strumenti, è quello che riguarda i possibili modelli organizzativi, i princìpi ispiratori della riforma e le possibili best practice nella gestione degli aiuti, dal momento che questo tema si ripresenta a intervalli regolari, sia a livello tecnico, sia nel dibattito politico del nostro Paese.
A tale proposito, è interessante notare come il rapporto sulla cooperazione allo sviluppo del 2007 partiva dalla valutazione di un interessante documento, in cui vengono indicate le dodici lezioni apprese - le dodici lesson learned dalle peer review condotte dal DAC in diversi Paesi in via di sviluppo - negli ultimi anni, che offrono un quadro di riferimento abbastanza completo di quali solo le modalità migliori per operare, nonché una comparazione efficace tra quello che viene fatto in materia di cooperazione e fra i Paesi membri del DAC.
Per quanto riguarda i modelli istituzionali, tema su cui da noi si è molto concentrata l'attenzione - se, cioè, sia meglio affidarsi a un'agenzia, a un ministero ad hoc o al Ministero degli esteri - nel suo documento l'OCSE non esprime preferenze, perché arriva alla conclusione che non esista un modello migliore in assoluto. L'esperienza dei vari Paesi dimostra che modelli diversi, in condizioni diverse, funzionano altrettanto bene.
In Olanda, per esempio, Paese leader nella cooperazione allo sviluppo, funziona perfettamente il modello di integrazione che prevede una direzione generale all'interno del Ministero degli esteri. In Canada, al contrario, funziona molto bene un'agenzia autonoma, mentre nel Regno Unito c'è un vero e proprio Ministero autonomo per la cooperazione.
In altre parole, i modelli adottati dai paesi DAC per gestire la cooperazione allo sviluppo variano a seconda del quadro politico e normativo nazionale e della tradizione istituzionale del singolo Paese. In ogni caso, la tendenza riformatrice dovrebbe essere sempre quella, in linea con i princìpi di efficacia degli aiuti, di ridurre la frammentazione a livello centrale e di aumentare l'autonomia gestionale e operativa degli uffici che operano sul territorio.
Per quanto riguarda il livello dell'aiuto pubblico allo sviluppo, gli ultimi dati ufficiali disponibili si riferiscono al 2007. L'APS dell'Italia risulta molto al di sotto della media dei Paesi OCSE, come loro sicuramente sanno. Attualmente ci collochiamo al decimo posto, a livello assoluto, e al terzultimo posto, per quanto riguarda il rapporto fra aiuto pubblico allo sviluppo e PIL.
Nel dettaglio, nell'anno di riferimento, l'APS italiano è ammontato a poco meno di 4 miliardi di dollari (3,971 miliardi di dollari) che equivalgono allo 0,19 per cento del PIL: una quota inferiore sia alla media dei Paesi europei membri del DAC (0,39 per cento), sia alla media dei Paesi del G7 (0,26 per cento).
Quello che forse è più rilevante far presente è che i dati dell'APS italiano sono di gran lunga inferiori agli obiettivi quantitativi che sono stati fissati in sede comunitaria, cioè allo 0,51 per cento entro il 2010.
Una prima stima dell'aiuto pubblico italiano nel 2008 sembra indicare un aumento di circa il 22 per cento nello stanziamento complessivo, mentre appare molto prematuro stabilire quale possa essere il quadro di riferimento per il 2009.
Il DAC - questo può essere un dato di interesse - ha tuttavia calcolato che, per raggiungere l'obiettivo dello 0,51 per cento del PIL e, quindi, per rispettare l'impegno che è stato assunto per gli obiettivi del millennio, l'aiuto pubblico italiano dovrebbe crescere del 176 per cento, cioè di circa 7 miliardi di euro, passando dagli attuali poco meno di 4 miliardi a circa 11 miliardi.


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Da ultimo, tra le priorità della presidenza italiana del G8, le politiche di cooperazione allo sviluppo hanno un risalto particolare. Nell'ambito della presidenza italiana, noi intendiamo delineare ed introdurre un concetto integrato di cooperazione allo sviluppo, che vada al di là del semplice dato quantitativo dell'APS e implichi un'analisi più vasta dell'impatto che l'impegno della comunità internazionale nel suo complesso ha sullo sviluppo e sulla povertà, passando, quindi, dal concetto tradizionale di efficacia dell'aiuto (aid effectiveness) a quello di efficacia dello sviluppo (development effectiveness).
Ciò significa che, attraverso un approccio di questo genere, si guarderebbe non soltanto alle fonti di finanziamento interno, alle politiche, all'APS, al commercio internazionale, alle rimesse, all'accesso alla tecnologia, ma anche a tutto quello che concorre, nell'insieme della realtà economico-finanziaria di un Paese in via di sviluppo, a promuovere una crescita più equilibrata, comprendendo settori come la governance democratica, la capacity building istituzionale, la sicurezza, lo sviluppo della pace e così via.
Questo è un approccio in linea con gli obiettivi tracciati dalle conferenze delle Nazioni Unite a Monterrey e a Doha e che, in prospettiva, implica un'analisi di come tali fonti interagiscano fra di loro e contribuiscano allo sviluppo.
Attraverso un'analisi di questo genere, potrebbe diventare possibile delineare il contributo complessivo che ogni singolo Paese industrializzato fornisce allo sviluppo, attraverso questo concetto dell'whole-of-country approach, ossia valutando l'insieme del Paese rispetto allo sviluppo.
Anche il concetto di coerenza delle politiche allo sviluppo può essere arricchito in questo modo, andando oltre la semplice idea della prevenzione o rimozione delle incoerenze, ed estendendola alle modalità per assicurare che tutte le politiche con un impatto sullo sviluppo siano complementari tra di loro, massimizzandone quindi l'effetto.
Un approccio di questo genere dovrebbe e dovrà comprendere anche gli attori della cooperazione, richiedendo un'analisi più chiara dell'apporto offerto dai donatori non membri dell'OCSE.
Citavo prima il ruolo crescente di alcuni Paesi non membri dell'OCSE-DAC che sono diventati dei donatori importanti: non solo India e Cina, ma i Paesi BRIC nel loro insieme, sono ormai una realtà evidente, da questo punto di vista, essendosi trasformati, nell'arco degli ultimi quindici anni, da Paesi riceventi l'aiuto a importanti Paesi promotori.
È chiaro, quindi, che un'analisi complessiva dell'insieme dell'impegno della comunità internazionale per risolvere il problema del sottosviluppo non può prescindere da un coinvolgimento molto più diretto di questi Paesi, che per ora rimane abbastanza al margine delle analisi.
La presidenza italiana del G8 sta cercando di realizzare una collaborazione con l'OCSE, proprio a questo proposito, per delineare un quadro più generale delle aree di lavoro in cui sia possibile, attraverso l'attività di monitoraggio e statistica dell'OCSE, definire meglio l'whole-of-country approach, per quanto riguarda le politiche per lo sviluppo.
Da ultimo, vorrei attirare l'attenzione del Comitato sul fatto che è in preparazione la nuova peer review sulla politica italiana di cooperazione allo sviluppo, che verrà presentata nel corso di quest'anno.
La prima valutazione riguarderà, naturalmente, la misura in cui le raccomandazioni formulate nel 2004 sono state rispettate e portate a conclusioni operative. A ciò si aggiungerà, in questo rapporto in preparazione, la valutazione di altri adempimenti che sono emersi successivamente al 2004.
Nel corso della review saranno oggetto di esame, per esempio, le modalità normative ed operative con cui si è data attuazione alla dichiarazione di Parigi sull'efficacia degli aiuti e dell'agenda di Accra, di cui ho parlato precedentemente. Esse sono soggette a monitoraggio periodico da parte dell'OCSE-DAC e hanno un riferimento ben preciso nel 2010, perché a


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quel punto dovrebbe essere fatta una valutazione, a livello globale, di quanto si è fatto e quanto non si è fatto in questo settore.
La review sulla cooperazione italiana comprenderà questa volta anche l'aiuto umanitario, nonché i temi settoriali della capacity building.
La review esaminerà anche un tema a scelta - i temi settoriali di analisi vengono decisi di comune accordo con il Paese oggetto della review - tra politiche a sostegno dell'agricoltura e cooperazione per la tutela dell'ambiente e lotta ai cambiamenti climatici.
Il Ministero degli esteri e la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo si stanno impegnando da tempo a tal fine. Vorrei citare sia la costituzione di una task force per l'elaborazione di un piano nazionale per l'efficacia degli aiuti e per l'attuazione degli impegni di Accra, sia la recente approvazione, da parte del Comitato direzionale della cooperazione allo sviluppo, delle linee-guida e degli indirizzi di programmazione per il triennio 2009-2011, in cui si definiscono priorità coerenti, nella misura del possibile, con quanto detto finora.
Le tappe principali dell'esame del DAC sono le seguenti.
Entro il 1o aprile dovrà essere consegnato, da parte nostra, un memorandum che illustri gli elementi salienti della cooperazione allo sviluppo italiana e i miglioramenti introdotti rispetto alla review del 2004.
Nel periodo tra l'11 e il 15 maggio 2009, gli esaminatori del DAC saranno a Roma per una serie di incontri con i diversi interlocutori istituzionali in materia di cooperazione allo sviluppo. Questo riguarderà sia, a livello governativo, il Ministero degli esteri, il Ministero delle finanze e gli altri ministeri interessati, sia, in modo particolare, le organizzazioni della società civile e il Parlamento. A tal proposito mi permetto di sottolineare l'opportunità che, in occasione di quella missione DAC, vi siano occasioni di incontro con il Parlamento per approfondire questo tema.
Dall'1 al 5 giugno si svolgerà una visita sul terreno per esaminare in loco i risultati raggiunti dalla cooperazione italiana in un Paese da definire. Noi abbiamo proposto all'OCSE una scelta tra Libano, Etiopia, Mozambico e i territori palestinesi; la scelta si sta definendo.
Il 17 novembre, infine, il DAC dovrebbe discutere i risultati raggiunti, emettere le proprie raccomandazioni e approvare la peer review che, nel frattempo, sarà stata definita.
Spero che questo sia stato di interesse per il Comitato e vi ringrazio per l'attenzione.

PRESIDENTE. Lei ha fatto una panoramica veramente molto ampia, di cui la ringraziamo moltissimo, perché ha toccato i temi metodologici e anche i contenuti di un argomento così rilevante come quello della cooperazione, fondamentale ai fini degli obiettivi del millennio.
Abbiamo anche l'opportunità - lo sottolineo molto positivamente - fornita dall'agenda da lei illustrata, secondo cui da aprile a novembre dovrebbe arrivare a completamento il rapporto sull'azione dell'Italia riguardante la cooperazione allo sviluppo.
Credo che, indubbiamente, alcuni punti debbano preoccuparci, soprattutto per ciò che attiene all'efficienza e all'efficacia se come lei ha sottolineato - il che ha subito colpito la nostra attenzione - solo il 20 per cento degli aiuti ha un'efficienza superiore al 50 per cento, mentre per il restante 80 per cento essa è inferiore. Anche soltanto questo dato, indubbiamente, deve preoccupare tutti quanti.
La metodologia che si mette in atto, quindi, deve poter avere la capacità di incidere, nell'ambito del rapporto con il DAC, per fare in modo che si possano raggiungere delle efficienze più elevate, al fine di evitare che una gran massa di sforzi e di attività non raggiunga l'obiettivo.
Fatte queste brevissime considerazioni, do la parola agli onorevoli colleghi che intendano porre questioni o formulare osservazioni.


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FRANCESCO TEMPESTINI. Svolgerò un'osservazione preliminare e le rivolgerò, poi, due domande precise.
Come ha testé detto il presidente, i dati confermano quello che abbiamo ascoltato anche in altre audizioni, cioè che il problema dell'aiuto allo sviluppo non concerne la quantità dei fondi, ma la qualità della gestione. Siamo quindi chiamati a fare una riflessione un po' drastica in merito.
Se ora penso a tutti i progetti di legge che ho adocchiato, nel corso di questi mesi, sulla riforma della nostra cooperazione, devo dire che, in verità, nessuno di essi affronta e scioglie il nodo: sono tutti progetti che puntano, sostanzialmente, alla riproposizione di una questione quantitativa, ma nessuno di essi va al cuore delle questioni che l'ambasciatore ha sottolineato e che, peraltro, confermano le altre opinioni che abbiamo ascoltato nel corso della nostra indagine.
Penso che questa sia la conferma, ripeto, di una situazione molto delicata, nell'esaminare la quale dobbiamo bandire la demagogia secondo cui bisognerebbe spendere di più. Del resto, è facile dirlo, ma non farlo. Non so proprio come questo Paese possa concentrare degli sforzi su questo settore, vista la condizione economica attuale.
Non è demagogico, invece, cercare di affrontare il tema di una diversa spesa, di una capacità di rendere più efficiente e, soprattutto, più trasparente, la gestione degli aiuti.
In proposito, preannuncio al presidente di questo Comitato che, dal punto di vista della trasparenza, dobbiamo andare più fondo, perché mi pare che questo sia il vero tema. I dati sono quelli che sono. Quando l'ambasciatore ci parla di 100 miliardi e ci dice che oggi Cina e India sono donatori - parliamoci chiaro - l'ambasciatore ci sta riferendo cifre che nascondono un interesse peloso. La Cina, infatti, non regala miliardi di dollari al Congo perché animata da urgenze umanitarie. Quei cento miliardi, in realtà, non esistono: è una cifra assolutamente non realistica. In materia, pertanto, dobbiamo svolgere una riflessione di carattere complessivo.
Vengo ora alle mie domande. La prima è una curiosità: mi rivolgo a lei, ambasciatore, perché l'OCSE ha una qualificazione particolare, come lei ha giustamente più volte sottolineato, nel campo delle statistiche.
Avete dei dati che riguardano il volume delle donazioni private, che avvengono in non so quale forma? Siccome l'apparato statistico dell'OCSE è il più qualificato del mondo, pongo a lei tale quesito, che non è una curiosità banale. Non riesco ad avere i dati relativi all'Italia, ma sappiamo che le donazioni da parte dei privati, nel campo dell'aiuto allo sviluppo, sono numerose.
Penso che, stante la condizione dei bilanci pubblici, dobbiamo mettere a fuoco la questione delle sinergie, nel ragionamento che svolgiamo, per uscire da un'impostazione un po' statalista.
In secondo luogo, nel suo intervento, non c'è stato alcun riferimento al tema dei diritti umani. Mi interesserebbe sapere qualcosa di più in proposito. Penso che anche questa tematica debba essere messa al centro, nella doppia considerazione che, da una parte, i Paesi che soffrono di più da questo punto di vista sono spesso quelli che hanno le maggiori difficoltà e, dall'altra, tutte le pratiche di trasparenza, di buona amministrazione e via dicendo, naturalmente, sono più complicate da realizzarsi proprio in questi Paesi.
Le chiedo solo due brevi risposte.

MATTEO MECACCI. Anch'io ringrazio l'ambasciatore perché ha fatto una panoramica davvero molto ampia e dettagliata, che credo molto utile per i lavori del Comitato, anche perché ha citato alcuni studi che riguardano il nostro Paese e che credo potremo analizzare più nei dettagli, anche come Comitato, per poi agire a livello parlamentare, eventualmente, su alcune delle raccomandazioni in esame.
Concordo con quanto detto dal collega Tempestini sulla necessità di lavorare sull'efficacia e sulla qualità degli aiuti, ma


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credo che si ponga anche un problema di quantità, nel momento in cui il nostro Paese, a livello internazionale, ha preso degli impegni che non sono stati rispettati.
Credo che questo vada a incidere anche sulla possibilità, per lei, di operare all'interno di una organizzazione come l'OCSE, se è vero che siamo il terzultimo Paese, tra i membri dell'OCSE, nel rapporto tra PIL e aiuto allo sviluppo.
Se in un'organizzazione di trenta Paesi l'Italia, con la presidenza del G8, si trova ad essere il terzultimo Paese, credo che siamo di fronte a una situazione di crisi, che in qualche modo dovremo cercare di affrontare. Francamente ci abbiamo anche provato, ma la difficoltà permane.
È vero che la crisi economica esiste, ma è presente per tutti; ed è vero anche che, se diminuisce il PIL, la diminuzione degli aiuti allo sviluppo è naturale, fisiologica; ma noi assistiamo a un vero e proprio taglio, un po' sconsiderato, di queste risorse.
Vorrei approfondire due ulteriori aspetti. Vorrei sapere se esiste, all'interno dell'analisi del DAC, una quantificazione degli aiuti riguardante quelle che lei ha definito «situazioni di fragilità istituzionale e di post conflitto». Sappiamo che, in particolare in alcuni Paesi africani, mandare aiuti allo sviluppo, se non ci sono istituzioni in grado di gestirli, significa far accrescere quell'80 per cento di fondi che vanno dispersi.
Le chiedo, inoltre, collegandomi a quanto diceva il collega Tempestini, se esista un'attività di promozione di alcuni programmi come quello che gli Stati Uniti hanno approvato, credo nel 2004: il Millennium Challenge Account. Esso ha destinato - poi anche lì il Congresso americano non ha dato i fondi promessi - una parte della cooperazione allo sviluppo, proprio per incoraggiare i Paesi a fare riforme in senso democratico e a garantire il rispetto dei diritti umani, in qualche modo dando un incentivo e dando più soldi a quei Paesi che si comportano bene da questo punto di vista. Vorrei sapere se c'è anche questo tra gli obiettivi e le raccomandazioni dell'OCSE.

CLAUDIO D'AMICO. Ringrazio l'ambasciatore e mi scuso per il ritardo, ma un precedente impegno mi ha fatto perdere la prima parte della sua relazione, che rileggerò poi nei resoconti.
Vista la sua autorevole presenza, ritenevo utile chiedere alcune sue opinioni e, se esistessero, delle statistiche e delle ricerche da parte dell'OCSE, su due punti che ritengo importanti.
Noi siamo in un periodo, a livello economico, molto critico. Ritengo, quindi, che ogni euro che andiamo a spendere, in qualsiasi direzione, debba essere speso bene e ponderato.
Anche nel settore della cooperazione e dell'aiuto allo sviluppo dei Paesi che ne hanno bisogno non possiamo ragionare solo in termini quantitativi, di numeri, ma dobbiamo capire anche che cosa andiamo a fare esattamente e come vengono spesi questi soldi.
Secondo me, inoltre, dovrebbe essere ben chiaro un concetto-base, che tutti gli altri Paesi hanno assunto. La Cina per esempio, investe, non fa regali: quando va in un Paese a portare dei soldi, lo fa perché ne ha una contropartita in termini di materie prime o di lavoro per le sue aziende oppure prendendo in mano un settore, che può essere quello petrolifero o dell'estrazione di minerali. La Cina, dunque, si muove con un obiettivo.
Anche noi, quindi, dovremmo ponderare bene ogni euro speso e, soprattutto, spenderlo non solo con uno spirito di beneficenza, ma anche associando l'utilità che questo aiuto può avere per il nostro Paese.
Una delle utilità che dovrebbe avere l'aiuto allo sviluppo è bloccare i flussi di migranti che si spostano dai Paesi più poveri verso i Paesi europei più ricchi, tra cui il nostro. Questo è un grande problema: noi stiamo cercando di evitare che queste masse di persone si spostino senza avere il benestare da parte dei Governi interessati.
È probabile che spendendo bene i nostri soldi sia possibile mitigare questo fenomeno. Per questa ragione le chiedo se esistano delle statistiche e delle ricerche


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OCSE relative a quali tipi di aiuto possano mitigare il fenomeno delle migrazioni.
Pensando ai Paesi ad alta migrazione verso l'Europa e verso l'Italia, vorrei sapere se esistono e se sono stati portati avanti, nel passato, determinati progetti di sviluppo che hanno fatto diminuire l'emigrazione. Se disponiamo già di esempi, potremmo spendere i nostri soldi in maniera mirata, per cercare di incentivare quelle attività che mitighino la voglia di migrare per problemi economici, per mancanza di cibo o per la bassa qualità della vita nel Paese d'origine, in modo da evitare che queste persone partano come dei disperati alla ricerca, qui, dell'Eldorado che ormai non c'è più. Le chiedo, quindi, se esistano degli studi relativi all'intervento migliore per evitare le migrazioni.
L'altra questione che vorrei porle è relativa al miglior modo di spendere. Se spendiamo un euro, sappiamo - ce lo ha ricordato anche lei - che solo una piccola parte di quell'euro arriva veramente a destinazione. Per spendere bene, quindi, bisogna darsi un metodo di spesa, ossia delle procedure operative per far sì che quell'euro arrivi al 100 per cento.
Vorrei sapere, pertanto, se anche sotto questo aspetto ci siano degli studi che forniscono delle linee-guida su come andare a spendere questi soldi, in modo da evitare al massimo la dispersione. Mi riferisco a linee-guida che possono essere anche drastiche, magari prevedendo di non dare più aiuti se lo Stato di arrivo non garantisce determinati standard e metodi di redistribuzione.
Del resto, è inutile che ci riempiamo la bocca di grandi parole, dicendo che occorre aiutare i Paesi poveri, se poi, una volta giunti lì, i soldi finiscono nelle mani di pochi e gli aiuti vengono magari rivenduti: a quel punto, è meglio non darli neanche.
Mi chiedevo, quindi, se ci fossero degli studi, con delle linee-guida da considerare per migliorare questo punto importante. Alla fine, infatti, potremo dare meno, la percentuale di PIL che diamo in aiuti potrebbe essere anche più bassa ma, se fosse mirata e arrivasse al 100 per cento al Paese in questione, sarebbe risolto il problema.

PRESIDENTE. Da parte nostra sono state svolte delle considerazioni, ma sono state formulate anche delle domande abbastanza precise.
Do ora la parola all'ambasciatore Armellini per la replica.

ANTONIO ARMELLINI, Rappresentante d'Italia presso l'OCSE. Grazie, presidente. A me sembra che tutti gli interventi svolti ruotino intorno al problema di sempre, ovvero il senso della cooperazione allo sviluppo e l'individuazione degli strumenti attraverso cui realizzare questi obiettivi.
Il senso è quello di promuovere uno sviluppo impostato non sulla beneficenza, ma sul mutuo vantaggio, naturalmente; nel senso che, nella misura in cui questi Paesi diventano degli attori proattivi dell'economia internazionale, migrano meno, hanno meno ragione di trovare motivi di insoddisfazione all'interno e, naturalmente, contribuiscono alla crescita complessiva dell'economia internazionale.
Più abbiamo degli attori proattivi nei Paesi in via di sviluppo, più noi, Paesi industrializzati, trasformatori ed esportatori, troviamo mercati di sbocco.
Questo è il contesto ideale nel quale ci si muove. Come tutto questo si traduca in pratica, evidentemente, comporta un ragionamento più complesso e la cooperazione allo sviluppo, che ha ormai cinquanta o sessant'anni di vita, da sempre sia arrovella per capire quale sia il criterio migliore per realizzare questi obiettivi.
Credo, peraltro, che - forse non è emerso con sufficiente chiarezza in quello che dicevo e, se fosse così, di questo mi scuso - la lezione che viene da Roma, Parigi e Accra - se posso aggiungere una notazione personale, è un'impressione che ho tratto con molta forza da Accra, dove sono stato - è fondamentalmente questa: la capacità di assorbimento quantitativo dei Paesi in via di sviluppo ha ormai raggiunto un tetto, al di là del quale, come l'onorevole D'Amico indicava, azioni incrementali


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non portano a risultati altrettanto vantaggiosi, ma anzi, la sinergia rischia di diventare negativa.
Il problema è, quindi, di spostare sempre più il ragionamento non tanto sull'aumento del volume quantitativo degli aiuti, quanto sul modo in cui questi vengono tradotti in realtà, sul terreno.
Detto questo, è anche vero che, sul piano quantitativo, noi abbiamo assunto degli impegni e su questi ci verrà chiesto conto e ragione, a noi come agli altri Paesi. Su questi impegni, effettivamente, noi siamo carenti. Potevamo non prenderli, ma li abbiamo presi.
È vero che questa è una situazione in cui non ci troviamo isolati. Noi siamo terzultimi, ma sono relativamente pochi i Paesi che hanno realizzato completamente gli obiettivi in materia di politica di aiuto allo sviluppo.
Forse bisognerà rivedere tutto questo ragionamento, però, un dato quantitativo di non adempimento degli impegni sottoscritti da parte nostra c'è, e va tenuto in conto, quando si parla di politiche di cooperazione, perché comunque è un impegno internazionale liberamente assunto, rispetto al quale è normale che gli altri Paesi ci chiedano conto e ragione.
Per rispondere ad un quesito precedente riguardo alle statistiche effettuate dall'OCSE, dico che l'OCSE, nel fare le statistiche, ovviamente non fa politica, nel senso che non può fare delle statistiche che rispondano a priorità politiche dei Governi dei Paesi membri. L'OCSE fotografa la situazione che esiste in relazione a politiche attuate e decise dai Paesi membri e, quindi, dà un supporto in termini di informazione, mediante cui possono poi essere elaborate delle politiche.
Tutto il ragionamento che si sta svolgendo adesso è volto a spostare il discorso dalla quantità, come parametro essenziale, all'efficacia e alla qualità, due strumenti di crescente importanza per la cooperazione allo sviluppo, a partire dagli aspetti più semplici.
Spostarsi da «aiuto» a «progetto», da «aiuto» a «programma», in realtà, significa innovare profondamente la situazione, perché implica il trasferimento delle risorse da bilancio a bilancio, coinvolgendo direttamente il Paese in via di sviluppo in ciò che poi viene fatto di questi denari.
Questo risponde, in parte, alla domanda che mi è stata posta. Il tentativo attuale è proprio quello di avviare un processo attraverso il quale, quando parliamo di ownership della cooperazione, di fatto ci riferiamo alla crescente responsabilizzazione della controparte. Quest'ultima, tradizionalmente, riceveva una massa di denaro per realizzare un progetto che rispondeva, a volte, forse, anche a qualche esigenza del Paese donatore, ma senza che poi si facessero delle verifiche sulla realizzazione in termini di sviluppo interno di quella società.
Spostandoci su questo territorio, concentrando l'attenzione sull'efficacia a valle degli aiuti - il criterio di cui parlavo prima, quello del country predictability, serve proprio a questo - cerchiamo di capire non solo quanto diamo, ma anche quanto arriva e come arriva. Certamente, per fare questo non possiamo imporre delle scelte, ma possiamo coinvolgere in maniera più diretta gli attori nei Paesi in via di sviluppo.
Quando diciamo che si tratta di coinvolgere non solo i Governi, ma anche la società civile e i Parlamenti, ad esempio, si tratta di attivare dei meccanismi di controllo a valle, oppure nella controparte, che permettano poi di realizzare questi obiettivi, a partire dall'assunto che anche quelle società civili vogliano progredire. Del resto, credo che nessuno voglia restare indefinitamente in una condizione di sottosviluppo.
Non ho parlato specificamente di diritti umani perché, in realtà, questo concetto è sussunto nell'insieme dei ragionamenti che vengono fatti, laddove si parla di sviluppo della capacity building, della governance democratica eccetera. A tutto questo, evidentemente, soggiace una migliore tutela dei diritti umani.
Sarei insincero con il Comitato se dicessi di conoscere a fondo tutte le statistiche dell'OCSE, perché sono una quantità infinita. Di certo, il concetto dell'whole-of-country


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approach, che noi stiamo cercando di applicare e introdurre con la presidenza italiana del G8, punta proprio a far emergere tutti quegli aspetti della cooperazione che non erano rilevanti fino ad oggi.
Quando parliamo di trasferimenti, di ruolo della società civile e di ONG, cerchiamo proprio di capire come questi aspetti giochino nel trasferimento delle risorse da un Paese all'altro.
Forse non ci sono statistiche dell'OCSE dedicate a questo aspetto specifico, ma dall'insieme dell'attività statistica è possibile desumere tali indicazioni. Certamente, questo è positivo.
Per quanto riguarda i Paesi in post conflitto, invece, ci sono delle valutazioni. Credo che, fra l'altro - non vorrei sbagliare - nella documentazione che vi ho lasciato ci siano dei riferimenti specifici a questo aspetto. Ad ogni modo, anche questa è un'attività abbastanza innovativa del DAC, che va crescendo.
Lo stesso discorso delle riforme democratiche ci riporta a quanto dicevamo in precedenza. Oggi, in realtà, la cooperazione, nella misura in cui si parla di trasferimento di responsabilità da Paese industrializzato a Paese in via di sviluppo, comporta evidentemente la promozione di questo tipo di coerenza anche nella governance interna dei Paesi.
È la nuova frontiera della cooperazione perché, tradizionalmente, il trasferimento di risorse era la via - se si può dire, cinicamente - per scaricarsi la coscienza. Adesso si vede che tutto questo non serve, in parte perché la coscienza, forse, vuole altre cose, ma anche perché il mutuo vantaggio passa attraverso la riduzione degli squilibri. È in questo modo, infatti, che noi garantiamo la nostra sicurezza.
L'onorevole D'Amico ha sollevato un punto a me caro, ossia la caratterizzazione geo-politica o meno della politica di sviluppo. Questo è un tema complesso, rispetto al quale le linee-guida della cooperazione seguite dal Governo sono linee guida stabilite. Lei solleva un tema che perdura fin dall'inizio e su cui la discussione può continuare molto a lungo. Probabilmente, le due cose vanno compenetrate ma, di certo, quando si parla di politiche di aiuto, perlomeno da parte dei Paesi industrializzati come l'Italia, la dimensione geo-politica ha una componente molto secondaria.

PRESIDENTE. Ambasciatore, la sua è stata indubbiamente un'audizione molto completa, ampia e approfondita. Di questo la ringraziamo molto, anche per aver evidenziato il calendario riguardante il rapporto dell'OCSE relativamente all'attività dell'Italia nell'ambito dell'aiuto pubblico allo sviluppo. Credo che questo calendario ci possa coinvolgere nuovamente nel prossimo mese di maggio.
Il Parlamento e, soprattutto, questo Comitato, sono quanto mai disponibili. Anzi, direi che siamo estremamente interessati a poter essere coinvolti, in occasione di questo evento che si svolgerà qui a Roma.
Detto questo, la ringrazio a nome del Comitato, con l'intendimento di mantenere dei rapporti con lei e con l'OCSE, per contribuire, per quanto attiene alle nostre capacità e possibilità, a svolgere una funzione finalizzata al raggiungimento degli obiettivi del millennio, ma soprattutto in ordine alla capacità e alla possibilità di raggiungere gli obiettivi di miglioramento dell'efficienza, che ormai rappresentano il punto nevralgico, per quanto attiene alla cooperazione allo sviluppo.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,25.

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