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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione III
1.
Mercoledì 26 novembre 2008
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Stefani Stefano, Presidente ... 2

INDAGINE CONOSCITIVA SUI PROBLEMI E LE PROSPETTIVE DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE VERSO LA RIFORMA DELL'OMC

Audizione del direttore generale per la cooperazione economica e finanziaria multilaterale del Ministero degli affari esteri, ministro Giandomenico Magliano:

Stefani Stefano, Presidente ... 2 7 8 12
La Malfa Giorgio (Misto-LD-R) ... 7 9
Magliano Giandomenico, Direttore generale per la cooperazione economica e finanziaria multilaterale del Ministero degli affari esteri ... 2 9
Narducci Franco (PD) ... 8
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-Repubblicani: Misto-LD-R.

COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 26 novembre 2008


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE STEFANO STEFANI

La seduta comincia alle 14,10.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del direttore generale per la cooperazione economica e finanziaria multilaterale del Ministero degli affari esteri, ministro Giandomenico Magliano.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui problemi e le prospettive del commercio internazionale verso la riforma dell'OMC, l'audizione del direttore generale per la cooperazione economica e finanziaria multilaterale del Ministero degli affari esteri, ministro Giandomenico Magliano.

GIANDOMENICO MAGLIANO, Direttore generale per la cooperazione economica e finanziaria multilaterale del Ministero degli affari esteri. Illustre presidente, onorevoli deputati, sono particolarmente grato alla Commissione affari esteri della Camera dei deputati per l'invito rivoltomi ad inaugurare un ciclo di audizioni sulle questioni commerciali internazionali con riferimento all'OMC e ai relativi negoziati in corso.
Svolgo alcune riflessioni sull'attuale fase di globalizzazione, con particolare riferimento alla definizione di un nuovo regime commerciale in esito al Doha Round e al ruolo dell'OMC nel quadro della complessa architettura istituzionale internazionale.
Esula dal mio giro d'orizzonte, ma sarò a disposizione per eventuali quesiti, la disamina specifica sulla tutela degli interessi economici italiani nel quadro dei mandati negoziali in tema commerciale conferiti alla Commissione europea e riferiti al Doha Round, nonché sui negoziati in corso tra la Commissione ed importanti partners commerciali, che ritengo saranno trattati nelle successive audizioni, in particolare con i rappresentanti del dicastero che ha la responsabilità primaria nelle trattative, il Ministero dello sviluppo economico. Analogamente, ritengo che nel corso di ulteriori audizioni e, da un'ottica più propriamente «ginevrina», potranno essere approfondite le questioni inerenti la valutazione del funzionamento degli organi e delle procedure interne all'OMC.
Suddivido la relazione in alcuni blocchi tematici, per comodità di trattazione; il primo che intendo sviluppare è lo scenario internazionale e l'esigenza di una nuova governance mondiale.
La comunità internazionale si trova oggi in una situazione caratterizzata da complessità e fluidità. Lo è dal punto di vista politico, dove l'aspettativa che alla fine della Guerra Fredda avremmo rapidamente raccolto i peace dividends e stata messa in crisi dall'insorgere di fattori di insicurezza. Ma lo è anche dal punto di vista economico, poiché è finita l'illusione che una globalizzazione deregolamentata sia in grado di consegnare il benessere automaticamente, sempre e ovunque.


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Globalizzazione significa tutt'ora innovativi processi di crescita economica, ma può comportare anche una degenerazione degli stessi processi, come ne è dimostrazione la crisi finanziaria scaturita dai mutui ipotecari americani sub-prime. Vi sono poi alcune tendenze potenzialmente conflittuali, come la pressione sulle fonti di energia e il surriscaldamento climatico. Si apre dunque la questione - è la sfida di natura politica, a livello innanzitutto internazionale - di come definire una nuova governance su varie filiere, tra loro interrelate, nel campo economico: la ricerca di meccanismi aggiornati di vigilanza sui mercati finanziari per garantirne la stabilità ed una efficienza duratura; la salvaguardia ambientale e, in particolare, la definizione di regole universalmente accettate per un regime post-Protocollo di Kyoto, cioè dopo il 2012; la tutela della proprietà intellettuale e la lotta alla contraffazione; infine, l'esigenza di conseguire nuove regole commerciali nei vari settori primario, secondario e terziario, a beneficio dei Paesi avanzati, dei Paesi emergenti e dei Paesi che sono ancora oggi fuori dai circuiti economici internazionali.
Pertanto, proprio per cogliere appieno le opportunità della globalizzazione, ma anche per prevenirne le derive, le scelte non possono essere avulse dalla politica, intendendo questa come luogo per definire nuove regole, per varare appropriati incentivi e disincentivi, per mettere in campo meccanismi redistributivi che correggano le disparità all'interno dei Paesi, e tra Paesi avanzati e quelli rimasti ai margini.
Si avverte, cioè, il bisogno di una risposta politica, capace di adeguare regole e istituzioni alla realtà; il bisogno, in altre parole, di un multilateralismo efficace nelle varie componenti tra loro interrellate: regole, istituzioni, policies e programmi. Ciò impegna la dimensione di risposta italiana nel contesto di una risposta europea.
Insistere su tale ultimo livello non significa delegare responsabilità, bensì assumerle più efficacemente.
Vengo ora a indicare brevemente la dinamica del commercio internazionale nelle ultime decadi, per vederne poi anche gli impatti odierni, a fronte di una recessione ormai purtroppo avviata.
È valutazione corrente che i flussi commerciali sono funzione di tre fattori: innanzitutto, l'attività economica; in secondo luogo, l'innovazione tecnologica, che ha coinvolto non solo i sistemi produttivi, ma anche i trasporti, i sistemi di comunicazione elettronici; infine, la rimozione delle barriere, nella quale l'Organizzazione mondiale del commercio ha un ruolo primario.
La veloce - e, prima della recessione, iniziata a metà dell'anno, anche molto forte - ascesa dell'economia mondiale si è rispecchiata in significativi aumenti degli scambi commerciali internazionali, la cui crescita ha registrato tassi percentuali di circa 2-3 volte la crescita dell'output produttivo. Quantunque ancora 1,4 miliardi di persone vivano attualmente nei Paesi in via di sviluppo con meno di 1,25 dollari al giorno, la sorprendente crescita economica nell'Asia orientale e sud-orientale ha condotto Paesi come l'India e la Cina ad occupare quote sempre più ampie del commercio mondiale e ha sottratto centinaia di milioni di persone da condizioni di indigenza, mentre tangibili progressi si sono verificati anche nel Nord-Africa, nel Sudamerica e sia pure in misura più limitata, in alcuni paesi dell'Africa sub-sahariana.
Se questo è un benefico effetto del processo di globalizzazione di cui l'OMC, oggi - nato dalla trasformazione del GATT - è fattore rilevante e allo stesso tempo realtà istituzionale, meno soddisfacente è il divario che si è andato registrando tra i Paesi emergenti, ormai emersi, e quelli ancora bloccati nel sottosviluppo.
Questo è un primo interrogativo che tutti dobbiamo porci. C'è poi un secondo quesito che attiene, a maggior ragione nell'attuale situazione di grave crisi economica e finanziaria, a come perseguire la piena coerenza tra le varie componenti della politica economica internazionale e


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tra i vari organismi multilaterali, tra i quali primariamente vi è il regime commerciale.
Passo a segnalare alcune delle difficoltà intrinseche, obiettive, del quadro negoziale commerciale che in parte spiegano anche le difficoltà negoziali che stiamo fronteggiando da qualche anno.
La formazione del commercio internazionale, come ho detto, è basata su dinamiche di sviluppo, ma il negoziato sulle regole non è a somma zero. Tuttavia, le trattative sono finalizzate al compimento di salti di qualità verso una zona che può essere ritenuta incognita rispetto allo status quo. Il metodo negoziale, dunque, è determinante. Vediamo, infatti, che dai primi round negoziali, dai GATT round degli anni '50, quando c'erano poche decine di Paesi, oggi abbiamo 153 Paesi nell'OMC, e in quella sede si decide per consensus.
Inoltre, gli schieramenti oggi non sono più omogenei ai decisori, che un tempo erano Stati Uniti, Europa e Giappone. Si assiste all'affiorare di nuovi schieramenti portatori di propri interessi, innanzitutto i cosiddetti BRIC: Brasile Russia, India e Cina. Peraltro, la Russia aspira ad entrare nell'OMC e la Cina ne è già parte. Le trattative, dunque, diventano molto complesse.
Lo stesso Lamy ha avuto a evidenziare qualche tempo fa il mero fatto che, di fronte a una ventina di aree tematiche negoziali - ognuna divisa in otto sotto-argomenti, ciascuno mediamente con tre parametri - e 153 Paesi, le combinazioni diventano quasi infinite.
Peraltro, sebbene il sentiero negoziale sia stretto, noi chiediamo che venga tenuto unitariamente in campo il cosiddetto principio del «single undertaking» affinché l'intesa sia globale, senza fughe in avanti in alcuni settori e arretramenti in altri. In quest'ottica, effettivamente, diventa sempre più importante il ruolo del direttore generale pro tempore, dell'OMC. Certo, ogni Stato partecipante deve avere la chiara percezione che vi sono anche vincite non identificabili specificamente in un settore, ma conseguibili in un quadro globale di un esito positivo del negoziato.
Una menzione a parte, anche per il riferimento statistico, ma che ha forte valore economico, merita la connessione fra commercio e finanza internazionale. Oggi, il commercio in beni e servizi è circa solo il 2 per cento delle transazioni finanziarie internazionali, ed ha luogo in un contesto assai regolamentato e, ovviamente, migliorabile. Al contrario, per la finanza - lo abbiamo visto, purtroppo, in questi mesi - non c'è una comparabile regolamentazione; da qui, anche l'esigenza di porre rapide implementazioni alle decisioni del G20 del 15 novembre scorso.
Passo ora ad un aspetto che verrà approfondito nelle successive audizioni, ma che volentieri indico in premessa, ovvero la situazione attuale del Doha Round. Com'è noto, nello scorso luglio, c'è stata un'ulteriore straordinaria tornata a livello ministeriale che ha registrato un fallimento e uno stato di stallo. Formalmente c'era stato un accordo di massima, ricorda Lamy, su diciotto delle venti tematiche in agenda - in realtà erano le tematiche del comparto «questioni agricole e questioni NAMA», cioè non-agricultural market, quindi le questioni industriali - su un conteggio, peraltro non formalizzato, del numero delle tematiche. Diciamo comunque che, per quanto riguarda le comunicazioni, sono diciotto gli ostacoli superati, e ne mancavano due.
Ci si è arenati sul diciannovesimo, ossia lo Special Safeguard Mechanism (SMM), cioè come definire appropriate salvaguardie per i coltivatori diretti dei Paesi poveri, allorché le importazioni aumentano. Su questo, Paesi come India, Indonesia, Filippine e Cina si sono scontrati, poiché volevano delle protezioni ulteriori, mentre altri esportatori come Stati Uniti, ma anche Uruguay, Thailandia e Paraguay, non consideravano accettabile che un negoziato concepito per far scendere le barriere potesse invece consentire, con queste clausole di salvaguardia, l'aumento di alcune tariffe.
Ci sarebbe stato un ultimo punto del comparto agricolo che riguardava la questione


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del cotone. In realtà, come ho ricordato, è il single undertaking che non dobbiamo perdere di vista. In ogni caso, a prescindere degli esiti del Doha Round, che sia a breve o a media scadenza, comunque l'Organizzazione mondiale del commercio continua a svolgere, in quanto istituzione, un ruolo molto importante nella gestione delle regole e dei regimi concordati in oltre sessant'anni. - e quindi tutto quello che siamo arrivati a concordare e che costituisce lo zoccolo vigente del regime del commercio internazionale - oltre che a dirimere le dispute commerciali tra i Paesi membri.
Compete, altresì, all'OMC, il monitoraggio e la sorveglianza delle politiche commerciali dei singoli Paesi, per valutarne la trasparenza e la coerenza con il sistema commerciale internazionale. Ricordo che ci sono - darò poi qualche indicazione puntuale - 430 accordi commerciali regionali e bilaterali, di cui 300 finalizzati negli ultimi otto anni. Da questo l'OMC trae linfa nella sua funzione istituzionale, in quanto tutore e garante della coerenza complessiva.
Naturalmente, un punto politico fondamentale è che i Paesi emergenti sono chiamati ad assumere impegni se vogliamo, tutti assieme, pervenire a soluzioni globali di cui la comunità internazionale necessita. Essi, però, vogliono essere parte attiva nella definizione delle regole. Ho ricordato il documento conclusivo del vertice G20 di Washington, perché, nell'impianto dei tanti punti relativi agli impegni affrontati a breve e medio termine, sono comprese anche le questioni commerciali, trattate al paragrafo 13, che recita così: «Ci sforzeremo di raggiungere un accordo entro quest'anno in materia di modalità», che significa, in materia di scambi nel settore agricolo e nel settore industriale. Questo è un approccio che riflette anche la pressione del direttore generale Lamy, che intende riprendere i negoziati dopo il luglio scorso.
Questa posizione del G20, naturalmente, imprime un nuovo impulso politico alla questione commerciale, a maggior ragione perché se ne comprende l'importanza oggi, nel momento in cui tutta l'area OCSE è in recessione con una crescita negativa e il mondo meno sviluppato, ovvero l'altra metà del PIL mondiale, cresce al di sotto di quel 6 per cento che darebbe una crescita mondiale del 3 per cento; tecnicamente, dunque, un Paese come la Cina che dal 11-12 per cento scende sotto l'8 per cento rappresenta un problema per la Cina stessa e per il resto del mondo.
Di qui la possibilità di una convocazione, in queste ore, da parte del direttore generale Lamy - ricordo che si è ricandidato per un nuovo mandato quinquennale senza altri concorrenti -, di una ministeriale straordinaria tra il 10 e il 19 dicembre. In questo momento, si stanno tenendo negoziati a livello tecnico a Ginevra per verificare se ci siano le condizioni, poiché ovviamente il direttore generale Lamy non è disponibile a un secondo insuccesso a pochi mesi da quello di luglio.
Un nuovo impulso politico sul finanziamento allo sviluppo, come messaggio, verrà probabilmente dall'imminente Conferenza di Doha sul finanziamento allo sviluppo, che si terrà dal 29 novembre al 2 dicembre. Ricordo, infatti, che nel documento finale del vertice ONU 2002 di Monterrey, il cosiddetto Monterrey Consensus, uno dei cinque pilastri è proprio il commercio. I Paesi del G77 spingeranno affinché, tra i vari elementi, venga evidenziata l'esigenza per loro, ma in realtà per tutti noi, di una composizione più avanzata delle regole del commercio internazionale.
Vengo ora al rapporto tra multilateralismo e regionalismo commerciale. Dal 1950 al 2000, il PIL mondiale è cresciuto sette volte ed il volume del commercio venti volte. C'è, dunque, una interrelazione nei due sensi, ma il commercio ha trascinato la crescita di molti Paesi, e quindi la dinamica di tutti.
C'è stato un approccio che viene definito plurilaterale, che è qualcosa di più sofisticato di «regionale», la cui dimostrazione è stata la Comunità Europea come elemento positivo, ovvero - come l'illustre professore di economia politica e politica


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economica qui presente sa bene - un'area regionale in cui l'effetto di creazione di commercio è superiore all'effetto di distorsione, quindi c'è una crescita del commercio e dei Paesi grazie all'area commerciale. Si parla di approccio plurilaterale, perché oggi gli accordi sono tra varie aree. Soprattutto gli Stati Uniti hanno un numero incredibile di accordi, in cantiere o già approvati, tra essi e altre aree.
A questo proposito, c'è l'esigenza di verificare la compatibilità con il sistema universale; e l'OMC ha anche un compito di monitoraggio. L'Unione Europea sente una forte responsabilità nel propiziare la virtuosità dei processi di plurilateralità commerciale quale valore aggiunto e base di avvicinamento al multilateralismo globale. Su questo tema due anni fa il commissario Mandelson aveva prodotto un documento che si chiamava Global Europe.
Naturalmente, questa tematica verrà messa molto in evidenza nei prossimi anni, a prescindere da quanto sarà distante l'accordo di Doha; anzi, più esso è distante, più si sviluppano questi plurilateralismi.
È importante un cenno alle nuove tematiche commerciali. Come è noto, i GATT degli anni '50 prevedevano abbattimento delle tariffe, abbattimento e annullamento dei dazi e del contingentamento quantitativo; successivamente si è passati ai servizi e all' agricoltura. Vi sono poi tematiche che intendiamo affrontare, come gli investimenti o gli appalti pubblici, che invece sono state messe da parte perché troppo complesse.
Un punto importante che è in trattativa al Doha Round, sebbene non sia di attualità oggi sulle modalities, è quello sui beni ambientali, cioè relativo all'eliminazione delle barriere tariffarie e non tariffarie, e alla loro circolazione. Questo è importante, perché consente il passaggio verso un'economia low carbon, cioè con minori emissioni di CO2, per difendere e diffondere tecnologie eco-compatibili.
Anche qui si registra una divaricazione tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo che, invece, vedono questo come un tentativo di imposizione da parte dei Paesi industrializzati. Di ciò si parla anche in ambito di negoziato ONU per il post Kyoto.
Un'altra questione assai importante per tutti, soprattutto per l'Italia, è l'avanzamento dopo l'accordo TRIPS relativo alla proprietà intellettuale, registrato alla fine dell'Uruguay Round del 1994. Noi vogliamo passare ad una seconda fase della tutela della proprietà intellettuale, soprattutto con riferimento all'enforcement, cioè alla reale implementazione dei diritti di proprietà intellettuale, ovvero il cosiddetto TRIPS-plus.
Su questo punto abbiamo un'interrelazione con l'organizzazione mondiale della proprietà intellettuale (OMPI). Ci sono, anche da questo punto di vista, delle contrapposizioni con il Paesi cosiddetti «amici dello sviluppo», ossia Brasile, Argentina, India, Sudafrica e Nigeria; prevalentemente sono quelli emergenti.
A parte, si sta sviluppando, su spinta americana e giapponese, una filiera parallela, ma al di fuori dell'OMC, sull'ipotesi di un trattato internazionale contro la contraffazione.
In questo tema, si sono inserite, su impulso dell'Italia, ma non solo, le questioni della protezione delle indicazioni geografiche. Vi sono alcun i Paesi favorevoli (l'Unione europea, su spinta dell'Italia, sostenuta da Svizzera, India, Kenya, Marocco, Thailandia e altri) e, invece, Paesi del joint proposal che si oppongono: Stati Uniti, Argentina, Australia, Canada, Cile, Costarica, Ecuador.
Vediamo, dunque, la differenza fra coloro che vogliono difendere il loro territorio, la loro proprietà intellettuale collegata al territorio, di cui le indicazioni geografiche sono un eminente segno - da qui deriva un'alleanza con i Paesi che hanno antica tradizione (tra i prodotti figura anche l'artigianato) - e quelli che, invece, hanno un prodotto, che sia agricolo o manifatturiero, più standardizzato.
Nel futuro, come Italia ed Unione europea, vorremo riprendere le cosiddette «Singapore issues», discusse dalla conferenza


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ministeriale di Singapore del 1996, che sono state messe da parte e che sono collegate agli investimenti diretti.
Questi ultimi hanno una relazione strettissima col commercio, soprattutto nella fase dello sviluppo del dopoguerra.
Gli appalti pubblici e la trasparenza sono stati messi da parte, perché ritenuti troppo complicati per il Doha Round. Tuttavia, anch'essi sono fondamentali, perché rafforzano la fair competition, una competizione non solo aperta, ma equa, sul commercio internazionale.
In chiusura, aggiungo un riferimento alla geometria tra l'organismo OMC e gli altri.
L'OMC inizialmente faceva parte di Bretton Woods. Con la Carta dell'Avana, come è noto, si prefigurava un organismo multilaterale per il commercio, ma gli americani lo bocciarono e non ratificarono la suddetta carta.
Successivamente, si sono avuti i GATT Round che erano processi negoziali. Infine, nella scorsa decade, si è costituito l'OMC, ovvero una struttura per monitorare i regimi adottati, dirimere le controversie, che ha, dunque, un foro giudiziale.
Naturalmente, vogliamo un multilateralismo efficace. Questo vuol dire che è necessario che l'OMC, la Banca mondiale, il Fondo monetario, l'UNCTAD e l'OMPI abbiano delle sinergie fra di loro. Noi vediamo, infatti, uno stretto legame tra i piani di sviluppo e le modalità necessarie per aiutare i Paesi a esportare nel momento in cui le regole sono aperte. Possiamo aiutare molto di più i Paesi in via di sviluppo se li mettiamo in condizione di approfittare di un mercato che si mondializza.
Sulla parte finanziaria, il credito e l'assicurazione all'export sono fondamentali. Qui non c'è niente di «tossico» come certi prodotti finanziari, ma c'è il pericolo che il commercio non abbia più un sostegno finanziario, a motivo della paralisi dei mercati interbancari.
Infine, esiste un raccordo anche fra OMC e OCSE; questo, è importante, perché l'OCSE emana delle soft law, ossia degli accordi di natura volontaria, ma che vengono di fatto rispettati da un numero crescente di Paesi, al di là dell'area dei Paesi membri; ad esempio nel settore dell'export credit, ma anche in altre materie, quali la corporate social responsibility.
Vi sono, dunque, aree che agevolano il regime commerciale, anche nella misura in cui gli stessi organismi multilaterali, fra di loro, non solo dialogano, ma intrecciano i loro programmi.
Lo stesso dicasi - e concludo qui - per la discussione in ambito ONU, per arrivare alla definizione di un'organizzazione mondiale dell'ambiente, un'idea di origine francese, che però non potrà essere avulsa non solo dai regimi che ci daremo in materia ambientale, ma anche dalle questioni commerciali, che auspicabilmente nel frattempo saremo andati a risolvere o che, se non lo avremo fatto, dovremo mettere in stretta connessione.
Onorevole presidente, sono a disposizione degli onorevoli deputati.

PRESIDENTE. Ringrazio l'ambasciatore Magliano.
Do la parola ai colleghi che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

GIORGIO LA MALFA. Signor presidente, mi è parsa molto interessante la relazione dell'ambasciatore Magliano. Io vorrei soltanto porre una domanda e successivamente richiedere un chiarimento. Dopo la crisi del 1929, nel giro di tre anni cominciò un'ondata di protezionismo, quasi non desiderata. Nacquero politiche in tal senso, l'Inghilterra cominciò ad uscire dal gold standard, ci furono svalutazioni competitive e ci furono tariffe.
La domanda è la seguente: dal punto di vista in cui lei si colloca, cioè dall'osservatorio in cui lei si trova, c'è un pericolo, ci sono segnali che questa sia tra le varie possibili risposte, e che, nonostante le parole dell'incontro dei 20, ci sia un rischio di ritorno al protezionismo? E in questo caso, sarebbe un protezionismo tariffario o di barriere non tariffarie, cioè sotto forma di qualche genere di aiuti?
La seconda richiesta riguarda un punto che non ho compreso nella sua analisi.


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Nella questione antica del regionalismo e del multilateralismo, considerando cioè il regionalismo come un fenomeno di creazione del commercio ma anche di diversione del commercio internazionale, mi sembra che lei abbia detto che gli effetti di crescita che ha avuto, ad esempio, l'Unione europea, hanno compensato gli effetti di distorsione del commercio internazionale ricaduti anche sull'Unione europea stessa.
Ebbene, ci sono degli studi che riconciliano tale questione, cioè se si debba incoraggiare o meno la crescita di organizzazioni regionali in quanto danneggiano il commercio, oppure siamo arrivati alla conclusione che un'organizzazione regionale, in quanto favorisce il tasso di crescita dell'area, poi, alla lunga, favorisce anche il commercio internazionale? Vorrei sapere qual è il vostro punto di vista, secondo le vostre conoscenze su questo argomento.

FRANCO NARDUCCI. Sarò molto breve. Vorrei ringraziare, innanzitutto, l'ambasciatore Magliano, che con la consueta lucidità ha fatto un'esposizione veramente ampia e articolata.
Credo che, però, che queste occasioni debbano servire anche per sottolineare, come tra l'altro ha fatto il mio collega La Malfa, alcune criticità che riguardano l'Organizzazione mondiale del commercio e che, secondo me, vanno anche ricondotte all'interno di questo regionalismo commerciale.
L'incontro di Ginevra, dello scorso mese di luglio, è stato molto contestato. Ci sono alcuni effetti di queste regole del commercio mondiale che distruggono piccole imprese agricole; la Svizzera ne è un esempio.
Anche perché la Svizzera, dal dopoguerra in poi, ha adottato la politica del cosiddetto Binnenmarkt, che sarebbe, poi, un regionalismo commerciale locale che tende a bilanciare i prodotti agricoli interni rispetto a tutto quello che viene importato.
Ma più che alla ricca Svizzera, io penserei agli effetti negativi dovuti a questo divario che aumenta tra i Paesi emergenti e quelli, invece, che non riescono ad agganciarsi al carro e che, quindi, hanno grandi difficoltà.
Ho apprezzato il fatto che lei abbia sottolineato che occorrono delle risposte politiche e, quindi, un nuovo modello di governance. Tuttavia, mi chiedo quanto questa percezione, all'interno dell'OMC sia forte e se ci sia questa consapevolezza. Superata la fase delle grandi contestazioni globali, infatti, mi pare che ci si sia un po' adagiati e si dimentichi spesso che attorno ai prodotti agricoli alla base della nostra esistenza vivono e ruotano migliaia e migliaia di piccole imprese agricole, soprattutto in realtà che non hanno dimensioni geografiche enormi e di cui sicuramente si deve tener conto. Mi chiedo come, all'interno di questo multirealismo e regionalismo commerciale, si possano recepire e creare le condizioni-quadro che siano giuste per queste imprese, che altrimenti stanno scomparendo una dopo l'altra.

PRESIDENTE. Vorrei formulare anch'io alcune osservazioni e rivolgere alcune domande. Assicuro l'ambasciatore che volerò molto basso, in quanto porterò le richieste e le domande che vengono poste a tutti noi ogni qualvolta andiamo presso le associazioni di categoria.
L'ho sentita molto ottimista e vorrei essere ottimista come lei, ma purtroppo non lo sono. Nonostante la crescita del commercio internazionale, infatti, la quota del nostro Paese continua a diminuire anno dopo anno. Questo è un primo dato di fatto. In secondo luogo, lei ha chiamato «stallo» quello che io giudico il fallimento del Doha Round.
L'impressione che abbiamo avuto è che agli Stati Uniti, che hanno lanciato l'Organizzazione mondiale del commercio, ultimamente interessasse ben poco di questa organizzazione. Tutti, infatti, aspettano il pronunciamento del neopresidente Obama nei confronti del commercio internazionale e del commercio estero.
Il Doha Round prevedeva aiuti tariffari soprattutto ai Paesi in via di sviluppo. Ebbene, la domanda che sorge immediatamente è la seguente: l'India e la Cina


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sono ancora Paesi in via di sviluppo agli effetti del commercio internazionale? Da informazioni derivanti dai settori imprenditoriali apprendo che in Cina stanno chiudendo 50 mila aziende in questo momento di crisi. Tuttavia, per esperienza personale e stando a quello che sento, io credo che India e Cina nel prossimo futuro - e la prima più della seconda - dovrebbero essere trattate separatamente dalle previsioni di Doha. Mi sembra, infatti, che queste due immense nazioni abbiano tratto solamente profitti e solamente interessi nazionali dall'Organizzazione mondiale del commercio.
Mi scusi, ambasciatore, se lo dico con la massima franchezza, ma ho trovato i nostri tecnici, peraltro di altissimo livello e molto preparati, abbandonati a loro stessi e con un'assoluta mancanza, escluso qualche caso particolare, del supporto politico. Non so se questa sia da considerare un'autocritica, ma possiamo anche andare indietro e trovare che lo stesso avveniva con il Governo Prodi. Noi abbiamo assolutamente dimenticato quello che dovrebbe essere l'interesse nazionale a livello di questi trattati.
Pertanto, visto che contingentare le importazioni è sempre più difficile e considerato che i dazi a poco servirebbero, perché mettere dazi su prodotti che possono calare di quanto vogliono i Paesi produttori sembra un'assurdità, potremmo quantomeno chiedere e pretendere la parità ed eliminare completamente i dazi. Le assicuro che a quel punto l'impresa italiana avrebbe ancora della forza in quei Paesi emergenti.
La domanda che le rivolgo è tecnica: quale potrebbe essere la strategia da attuare, considerato che, ahimè, noi dobbiamo passare attraverso l'Europa per ottenere qualcosa? C'è, secondo lei, una strada che è possibile percorrere?

GIANDOMENICO MAGLIANO, Direttore generale per la cooperazione economica e finanziaria multilaterale del Ministero degli affari esteri. Innanzitutto vi ringrazio, non solo per questi apprezzamenti, ma anche soprattutto perché sono state poste domande di estremo interesse che mi consentono di sviluppare ulteriormente l'audizione e il mio approfondimento.
In primo luogo, con riferimento ai pericoli di protezionismo tariffario o non tariffario, sul modello di quanto successo negli anni '30 - era la domanda dell'onorevole La Malfa - dico che in effetti è vero. Sembra incredibile, ma ho letto che negli anni '30 addirittura 20 mila prodotti erano soggetti a tariffa da parte degli Stati Uniti.
Barriere non tariffarie oggi sono ancora più espletabili dai Paesi che lo vogliono. Il rischio esiste, tanto è vero - e mi si offre l'occasione per farne menzione - che il punto 13 della dichiarazione di Washington del G20 afferma anche che, nei prossimi dodici mesi, ci asterremo dal mettere nuove barriere agli investimenti o al commercio in beni e servizi che implichino restrizioni al commercio. Si tratta di una clausola di stand still. Significa che siamo, «a bocce ferme», il mondo va male, ma non cerchiamo di esportare di più o importare di meno artificialmente, proprio perché si corre questo pericolo.
Ieri, all'OCSE, mi facevano cenno del fatto che alcuni Paesi, nonostante abbiano assunto questo impegno, pensano ad implementare misure molto mirate, ma che sono già una violazione; pertanto, questo rischio esiste. Tuttavia, l'esperienza degli anni '30 è talmente evidente che osiamo sperare che la strumentazione internazionale di cui disponiamo oggi e che non c'era allora - mi riferisco agli accordi GATT nel tempo o a un meccanismo come l'OMC che può rilevare e dar torto a chi pone delle barriere - possa reggere l'urto.
Certo, l'esigenza di una dichiarazione politica dimostra che effettivamente si corre questo rischio.

GIORGIO LA MALFA. Mi scuso se la interrompo. Pongo una domanda per ignoranza. Se l'OMC constata che un Paese ha posto una barriera tariffaria o meno e lo denuncia, che cosa può fare, ai fini di ottenerne la rimozione?

DOMENICO MAGLIANO, Direttore generale per la cooperazione economica e


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finanziaria multilaterale del Ministero degli affari esteri. I Paesi vittime, con un sistema complesso, possono attivare un meccanismo di contenzioso che consente unilateralmente alcune «misure di protezione» e poi successivamente un giudizio con gli organi.
Lo stesso può dirsi quando, senza violazioni di regole, c'è un'invasione. È stato il caso dei tessili nei confronti dei quali l'Unione europea ha adottato alcune misure di protezione e contingentamento. Ad ogni modo, misure di tal genere a livello europeo richiedono l'adesione dei 27 Paesi, che non è facile da ottenere, come poc'anzi ricordava il presidente Stefani.
La strumentazione per difendersi esiste. Questo è un merito del regime dell'OMC che ci siamo dati. Naturalmente, il fatto che questo meccanismo di protezione e di legittima ritorsione sia implementabile e sia comunque un deterrente è un'altra questione.
Nella comunità internazionale osiamo sperare che, da un lato il pacchetto di aiuti, coordinati auspicabilmente, rilanci l'economia e, dall'altro, tutti capiscano che è a somma zero.
Il primo che inizia ad attivare una misura fortemente protezionistica che danneggia gli altri dà vita a un effetto domino, in cui tutti sono perdenti; tuttavia il rischio esiste.
Vengo ora alla questione del multiregionalismo e multilateralismo commerciale. Ho introdotto la parola «plurilateralismo», che è un'invenzione degli ultimi anni, perché effettivamente le aree commerciali comuni sono un modello che, da parte politica ma anche a livello istituzionale, si vuole esportare. Mi riferisco al modello della Comunità europea, oggi Unione europea.
La teoria economica - mi pare che fosse di Jacob Viner - dimostrava che l'effetto positivo nell'area è maggiore dell'effetto distorsivo. Tuttavia, l'effetto mondiale generalmente è positivo e conduce a un risultato migliore, perché di solito le aree dei mercati comuni hanno dei meccanismi comuni istituzionali politici (è il modello del funzionalismo economico e anche il modello del Mercosur, se vogliamo). A livello europeo, dunque, li favoriamo.
Anche in Africa, il mercato unico africano (Africa occidentale, Africa australe, Africa orientale) è importante, perché dei piccolissimi micromercati diventano interessanti per l'export e l'import nella misura in cui sono integrati e nella misura in cui hanno anche delle valute potenzialmente comuni, degli ancoraggi, per così dire. Quello che può essere un problema, è il caso in cui delle aree, o un Paese e un'area, iniziano ad avere degli accordi che possono essere privilegiati rispetto agli altri. Se, da esempio, gli Stati Uniti stipulano un accordo con la Colombia e la Corea, che, però, favorisce il commercio fra Stati Uniti e Corea ma sfavorisce il commercio fra Europa e Corea, questo può diventare un problema. Si configura quello che viene definito lo «Spaghetti Bowl», ossia una sorta di recipiente con tanti accordi che sembrano dei fili, che si intersecano ma che si penalizzano a vicenda.
Vi è, dunque, una dialettica abbastanza sottile e anche la discussione degli accordi preferenziali su alcuni Paesi in via di sviluppo che possono penalizzare quelli che ne sono fuori. Questo è un argomento piuttosto sensibile, che ha anche una forte valenza politica; tuttavia, l'analisi economica qui aiuta a poter distinguere le proiezioni ed i moduli positivi da quelli negativi.
Vengo alla questione di cui parlava l'onorevole Narducci, con riferimento anche a Paesi come la Svizzera che hanno problemi per certi settori: qui tocchiamo alcune aree nelle quali la qualità si scontra con la quantità. Anche noi, in Italia, non possiamo considerare il nostro riso e le nostre produzioni mediterranee come produzioni tropicali; questo è un problema fortemente sostenuto dall'attuale Governo, ma che poi esporranno i rappresentanti dello sviluppo economico e l'ambasciatore Caracciolo.
Delle misure apparentemente omologanti, infatti, possono andare a scontrarsi con delle realtà laddove vogliamo omogeneizzare


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quello che non è omogeneo. A tal proposito, qui possono entrare in gioco due criteri. Il primo, per quanto riguarda i Paesi in via di sviluppo, è quello di abbinare il commercio alla finanza e all'aiuto allo sviluppo, affinché questi Paesi beneficino di aperture commerciali anziché avere un gioco a somma negativa, del quale loro non beneficiano, mentre ne beneficiano solo i nuovi grandi esportatori industriali o agricoli dei Paesi ancora oggi emergenti.
In secondo luogo - e vengo anche alla domanda del presidente - effettivamente il Doha Round era nato nel 2001 a Doha, come development round, ovvero round per lo sviluppo di tutti, come se fossero tutti uguali e tutti bisognosi i Paesi in via di sviluppo. In realtà, alcuni Paesi, che già beneficiavano di una crescita molto forte, sono positivamente emersi globalmente dal sottosviluppo ed hanno assunto uno standing politico per cui non si vogliono più assimilare a quelli in via di sviluppo, salvo politicamente farsene paladini.
Questo è uno degli interrogativi politici cui facevo cenno poc'anzi perché, effettivamente, i Paesi che, un tempo, definivamo come industrializzati - oggi non siamo più i soli - Stati Uniti, Europa e Giappone, dovrebbero arrivare su una piattaforma comune anziché dividersi fra di loro e, quindi, essere in difficoltà; dovrebbero, cercare di trovare un minimo comune denominatore per regole che abbiano onori e oneri per i Paesi che sono protagonisti. Il fatto che nel G20 ci siano tutti i Paesi emergenti che si sono assunti degli oneri è importante; lo dovranno fare anche nella materia commerciale.
Qui, effettivamente, risiede l'interesse nazionale che dobbiamo citare come Italia, ma legittimamente anche come Europa, laddove arriviamo a posizioni assolutamente unitarie. Dopo il Doha Round, infatti, probabilmente non ci saranno più negoziati di questa magnitudine, non fosse altro che per la complessità, che ho ricordato, fra numero di Paesi, aree, numero di questioni. Pertanto, quello che non riusciamo a concordare e mettiamo da canto, difficilmente viene ripreso dopo, questa è la differenza fra con gli altri round. GATT Round 1, Ginevra, Tokio, Uruguay: quello che non si poteva fare, si diceva, si sarebbe fatto poi. Sono ondate che durano otto anni nel caso dell'Uruguay Round e nove anni per il Doha Round.
Oggi potremmo dire che ce ne occuperemo al round successivo; tuttavia, se non realizziamo adesso un'intesa sulle indicazioni geografiche, sarà difficile recuperarla dopo, poiché allora non avremo niente da dare in cambio, mentre nel gioco del do ut des questo è importante.
Lo stesso dicasi per aver lasciato da parte la questione degli investimenti - noi vogliamo investire perché portiamo sviluppo - o la trasparenza degli appalti pubblici che sarà difficilmente recuperata dopo anche in presenza di gruppi di lavoro. Probabilmente la si recupererà in seguito su base volontaria, però questa sarà una base limitata che progressivamente nel tempo si deve continuare a voler estendere. Il principio del single undertaking, dunque, è importante, perché non è detto che conseguiremo foss'anche tra dieci anni quello che non conseguiamo adesso.
Come diceva il presidente, tutti guardano alla nuova amministrazione Obama. In effetti è vero, ma in queste ultimissime ore l'amministrazione Bush, proprio perché uscente, è molto interessata a un accordo, dato che è in procinto di passare il testimone. A luglio sono stati alcuni Paesi emergenti e gli Stati uniti ad aver fatto formalmente cadere il negoziato.
Vedremo nelle prossime settimane che cosa accadrà con la prossima nuova Amministrazione americana, perché comunque da parte americana c'è bisogno del fast track, cioè l'autorizzazione al Presidente di negoziare e di chiedere al Senato se intende prendere o lasciare.
Se non c'è questa autorizzazione, per la legislazione costituzionale americana è impossibile procedere, poiché se il Congresso cambia anche un solo comma, non si può richiedere alla comunità internazionale di cambiare l'accordo firmato.
Così com'era in questo ciclo, si è visto che il Doha Round era finito perché era


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scaduto il fast track lo scorso anno. Quand'anche avessimo un accordo adesso, probabilmente ci sarebbe l'esigenza di un fast track, perché la futura amministrazione altrimenti non lo porterebbe, a scenario aperto, di fronte al Senato americano.

PRESIDENTE. Siamo riusciti a rimanere perfettamente nei tempi. Ringrazio l'ambasciatore, sebbene siamo consapevoli che l'argomento richiede discussioni molto più ampie che comunque speriamo di completare con le prossime audizioni.
Nel ringraziare ancora l'ambasciatore Magliano, dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15.

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