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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione III
2.
Giovedì 2 ottobre 2008
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Colombo Furio, Presidente ... 2

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA VIOLAZIONE DEI DIRITTI UMANI NEL MONDO

Audizione di rappresentanti della Rete italiana di solidarietà con le comunità di pace colombiane, «Colombia Vive!»:

Colombo Furio, Presidente ... 2 3 4 5 9 10 16
Cure Salima, Rappresentante della Rete italiana di solidarietà con le comunità colombiane, «Colombia Vive!» ... 9
Higuita Wilson David, Rappresentante della Rete italiana di solidarietà con le comunità colombiane, «Colombia Vive!» ... 5 13 15
Mariani Carla, Rappresentante della Rete italiana di solidarietà con le comunità colombiane, «Colombia Vive!» ... 8 15 16
Narducci Franco (PD) ... 9
Pianetta Enrico (PdL) ... 9
Proietti Andrea, Rappresentante della Rete italiana di solidarietà con le comunità colombiane, «Colombia Vive!» ... 2 4 11
Tuberquia Quintero Maria Bertilda, Rappresentante della Rete italiana di solidarietà con le comunità colombiane, «Colombia Vive!» ... 7 14
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-Repubblicani: Misto-LD-R.

COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI
Comitato permanente sui diritti umani

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 2 ottobre 2008


Pag. 2

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DEL COMITATO FURIO COLOMBO

La seduta comincia alle 14,10.

(Il Comitato approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti della Rete italiana di solidarietà con le comunità di pace colombiane, «Colombia Vive!».

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle violazioni dei diritti umani nel mondo, l'audizione di rappresentanti della Rete italiana di solidarietà con le comunità di pace colombiane, «Colombia Vive!».
Accanto a me sono presenti Andrea Proietti, Wilson David Higuita, Maria Bertilda Tuberquia Quintero, Carla Mariani e Salima Cure.
Chiederei ad Andrea Proietti di renderci la sua relazione per primo, perché oggi abbiamo un doppio ordine di problemi: il primo è quello di essere utili, ascoltando queste persone, e di diventare punto di riferimento per la loro attività; il secondo è quello di venire a conoscenza della attività e di essere orientati e informati sul rapporto tra Italia e Colombia.
Do la parola ad Andrea Proietti per la sua relazione.

ANDREA PROIETTI, Rappresentante della Rete italiana di solidarietà con le comunità colombiane, «Colombia Vive!». Per non perdere tempo e per rispondere il più rapidamente possibile alla sollecitazione del presidente, leggerò alcuni appunti preparati per l'occasione.
Spettabile Comitato e onorevole presidente, prima di tutto porgiamo i nostri più sentiti ringraziamenti per averci dato la possibilità di essere ascoltati in questo contesto istituzionale, offrendo così la possibilità al signor Wilson David Higuita e alla signora Maria Bertilda Tuberquia Quinterno, rappresentanti della Comunità di pace di San José de Apartadò, in Colombia, di esporre la situazione che da oltre dieci anni sta vivendo la loro comunità e di chiedere l'appoggio solidale del Governo italiano al loro processo di pace.
La realtà che oggi ci verrà illustrata dai nostri ospiti non si ritrova sulle pagine dei giornali o nelle immagini della televisione. Loro ci racconteranno una Colombia che ci viene nascosta o, per meglio dire, una Colombia che per i media non esiste.
La Rete italiana di solidarietà «Colombia vive!», promossa dal comune di Narni, sta accompagnando da oltre cinque anni dei processi di costruzione di pace dal basso, che intere comunità contadine indigene e afrodiscendenti della Colombia stanno portando avanti in maniera pacifica e non violenta, ripudiando l'uso delle armi.
Queste esperienze di costituzione della pace stanno disegnando in Colombia quella che ormai da molti viene chiamata la geografia della speranza. In mezzo ad uno dei conflitti più violenti del mondo, queste persone, con l'appoggio di istituzioni laiche e religiose, di associazioni e organizzazioni internazionali impegnate nella tutela dei diritti umani, stanno resistendo


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alla guerra e allo sfollamento forzato difendendo la vita, i loro saperi, i beni comuni e il territorio.
Nel fascicolo che abbiamo preparato per l'occasione abbiamo voluto inserire il documento finale del IV Forum internazionale «Colombia vive!», che si è tenuto dal 12 al 14 settembre 2007, poiché in esso sono contenute le nostre riflessioni e le richieste formulate in un ampio consesso che ha visto la partecipazione di vari Paesi europei e di molti enti locali e territoriali nazionali, oltre a decine di associazioni italiane, europee e dell'America latina, impegnate nella difesa dei diritti umani.
Nell'invitare gli onorevoli membri di questo Comitato alla lettura del documento, vogliamo qui rivolgere le seguenti sollecitazioni: sospendere la vendita di armi e l'aiuto militare alla Colombia, considerato che nel Paese si vive un forte conflitto armato e si verifica la violazione impune dei diritti umani; attivare un'efficace vigilanza sulle risorse destinate alla cooperazione con la Colombia, per garantire che non siano utilizzate per il consolidamento dell'apparato militare, che non favoriscano lo sfruttamento illegale e illegittimo delle risorse naturali e, in generale, non contribuiscano all'acutizzazione della guerra; condizionare la cooperazione e gli accordi commerciali con la Colombia al rispetto dei diritti umani e a risultati concreti delle investigazioni sui crimini commessi contro i membri delle comunità in resistenza civile e delle organizzazioni sociali vittime della violenza politica colombiana; appoggiare la realizzazione dell'accordo umanitario che permetta la liberazione dei sequestrati; appoggiare la relazione solidale che espressioni organizzate della società civile italiana hanno con le comunità in resistenza civile e le organizzazioni che difendono i diritti umani in Colombia.
Allo stesso modo, sollecitiamo l'ambasciata italiana ad unirsi alla missione diplomatica che appoggia la Comunità di pace di San José de Apartadó, e ad attivare meccanismi che combattano efficacemente la relazione tra le organizzazioni criminali 'ndrangheta italiana e paramilitari colombiani.
Sollecitiamo inoltre l'ambasciata a contrastare i possibili appoggi che, da istanze ufficiali, i funzionari pubblici dei due Paesi potrebbero offrire a queste pericolose organizzazioni illegali.
Chiediamo, inoltre, gentilmente, di essere informati in occasione di seminari, incontri ed approfondimenti che questo spettabile Governo vorrà organizzare sull'America Latina e, in particolare, sulla Colombia, al fine di poter mettere a disposizione il bagaglio di esperienza accumulata in questi anni accompagnando le comunità di pace e resistenza civile colombiane, che ci hanno portato a stretto contatto sia con le società civili organizzate che con le autorità civili e militari della Colombia.
Infine, ci fa piacere informare il Comitato che insieme alle città spagnole di Burgos, Albuquerque, Rivas e alla città belga di Westerlo, uniti alla Comunità di pace di San José de Apartadó da un patto di amicizia e di fratellanza, stiamo lavorando affinché si rafforzi l'impegno di una cittadinanza europea attiva, che porti il suo contributo per aiutare l'Europa a consolidare la sua politica di pace e di difesa dei diritti umani.
Concludendo, vorremmo sottolineare che l'appoggio politico che il Governo italiano vorrà offrire alla Comunità di pace di San José de Apartadó - così come ad altre esperienze di costruzione della pace in Colombia - aumenterà in maniera significativa il livello di protezione sia dei processi comunitari che della vita stessa dei protagonisti che li realizzano, favorendo l'avvio di una soluzione dialogata e pacifica del conflitto colombiano che, in oltre cinquant'anni di guerra, ha provocato quasi 300 mila morti e 3 milioni di desplazados, gli sfollati interni.
Nel lasciare la parola ai rappresentanti della Comunità di pace di San José de Apartadó, vorrei rinnovare i nostri ringraziamenti.

PRESIDENTE. Ringrazio lei, signor Proietti. Prima di dare la parola alle altre persone - voci colombiane provenienti dal luogo in cui le cose di cui ci ha parlato stanno avvenendo - le chiedo se può


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gentilmente spiegarci, nel modo che riterrà più opportuno, come si sia formato, in Italia e intorno a Narni, questo comitato di solidarietà.
Dalla mappa risulta che il luogo di cui stiamo parlando, San José de Apartadó, è a nord-ovest della Colombia.

ANDREA PROIETTI, Rappresentante della Rete italiana di solidarietà con le comunità colombiane, «Colombia Vive!». Sì, è quasi al confine con Panama.

PRESIDENTE. Spero che i prossimi interventi ci daranno maggiori informazioni sull'ambientazione geopolitica di questo luogo, sul perché il progetto sia nato proprio lì, se c'è una ragione specifica.
Tuttavia, prima ancora di arrivare a questa spiegazione io credo che i colleghi condividano con me il desiderio di sapere perché, in Italia, il progetto si è sviluppato proprio nella città di Narni. Com'è nato questo evento?

ANDREA PROIETTI, Rappresentante della Rete italiana di solidarietà con le comunità colombiane, «Colombia Vive!». Questo evento non nasce, ovviamente, in modo casuale, perché nulla è casuale in merito a questi argomenti. La città di Narni è, da molti anni, impegnata nell'attività a sostegno della diffusione di una cultura di pace, e da lungo tempo si è dichiarata «città per la pace».
Come voi sapete, ogni due anni si svolge in Umbria la «Marcia per la pace Perugia-Assisi», e in quell'occasione si svolge anche l'Assemblea dell'ONU dei popoli. È un'assemblea in cui le istituzioni e le associazioni invitano dei rappresentati di comunità di persone che vivono in luoghi di conflitto.
A noi fu proposto di ospitare padre Javier Giraldo, un padre gesuita colombiano, membro di Justicia y Paz, che aveva lavorato con questa comunità fin dalla sua costituzione, nel 1997. Tramite lui siamo quindi venuti a conoscenza di questa comunità, e da lì è nato il progetto. Confesso che, all'inizio, neppure noi sapevamo nulla della Colombia. Ovviamente, attraverso questa esperienza abbiamo scoperto un mondo che presenta due aspetti per noi molto interessanti e importanti. Il primo è, naturalmente, la complessa situazione in cui si trova la Colombia, ossia la complessità del conflitto colombiano e i legami che questo ha con il resto del mondo, con l'Europa e con l'Italia.
È stato prima citato il discorso della 'ndrangheta e del traffico di cocaina; non è un caso che i due Paesi con la maggior produzione mondiale di droga, l'Afghanistan con l'eroina e la Colombia con la cocaina, siano i due Paesi che forse da più tempo sono in guerra.
Da una parte, quindi, ci ha interessati il caso della Colombia in generale; dall'altra, ci ha coinvolti lo straordinario esempio di questa comunità che, raccogliendo non più di 2 mila persone, ha acquisito ad un certo punto la consapevolezza che l'unico modo per poter vivere all'interno di quel conflitto era la cosa più difficile da fare, ovvero dichiararsi neutrali e dichiarare di non voler appoggiare nessun attore armato, di non voler prendere il fucile per seguire la guerriglia come spesso è accaduto, per varie ragioni, nelle campagne. Queste persone si sono rifiutate di prendere posizione con i paramilitari o di appoggiare chi, con i paramilitari o la guerriglia, collabora.
Questa scelta di nonviolenza e di neutralità è un esempio che noi, ora come allora, riteniamo di straordinaria valenza anche come paradigma e come possibilità di trovare un percorso alternativo per uscire dal conflitto colombiano, che, ripeto, è molto complesso.
Questo è il motivo per cui il progetto è nato a Narni. Per chi non lo sapesse, Narni è una città dell'Umbria meridionale che conta poco più di 20 mila abitanti. Il comune di Narni, da solo, non poteva ovviamente fare nulla se non dare un appoggio, fare un gemellaggio, uno scambio, con quella comunità. Abbiamo dunque provato a costruire una rete, a coinvolgere altri soggetti, e devo dire che, in questi anni, come si evince dal fascicolo che vi abbiamo consegnato, ci sono state molte adesioni da parte di enti locali, regioni e associazioni di ogni parte d'Italia.


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Chi, come noi, si occupa di queste cose, spesso a distanza di anni si chiede quali risultati sono stati raggiunti. Questa è una domanda purtroppo dolente perché per noi che appoggiamo questa comunità - laddove appoggiare significa monitorare e denunciare violazioni di diritti umani e via dicendo - può essere a volte frustrante non vedere risultati; ma per loro, che vivono tutti i giorni in quella situazione, questi dieci anni hanno significato 160 persone uccise.
Il caso Ingrid Betancourt ha acceso i riflettori sulla Colombia, un Paese di cui non si parla mai; a mio avviso, però, purtroppo abbiamo tutti perso un'occasione, perché forse abbiamo prestato più attenzione ma ci siamo comunque fermati alla superficie della complessità della situazione di quel Paese.
Intendo sottolineare, in questa autorevole sede, che noi sottovalutiamo troppo il significato che il conflitto colombiano riveste per il resto del mondo ed anche per noi. Difatti, più la Colombia è in conflitto, e più i vari e tanti soggetti che si arricchiscono con il traffico della droga hanno terreno libero.
Questo è un punto fondamentale che desideriamo sottolineare con forza in questa sede.

PRESIDENTE. Grazie. Questo ci orienta e ci indica, non solo geograficamente ma anche storicamente, dove siamo.

WILSON DAVID HIGUITA, Rappresentante della Rete italiana di solidarietà con le comunità colombiane, «Colombia Vive!». La comunità di San José de Apartadó è rappresentata da un gruppo di persone già menzionate da Andrea, un gruppo di contadini, donne, uomini e bambini.
Noi lottiamo nella regione di Urabá, nella zona del nord.
Cerchiamo di svolgere un lavoro in modo pacifico ed esemplare, come si è detto nella presentazione.
Non ci sono collaboratori che partecipano al conflitto interno che purtroppo vive il nostro Paese. È per questo che abbiamo proclamato, vista la situazione dei dipartimenti di Córdoba, Antioquia e Urabá, che abbiamo ascoltato l'appello delle ONG nazionali, che ci accompagnano in questa iniziativa di pace.
L'iniziativa è stata avviata dalla Chiesa cattolica della regione di Urabá - unica esperienza in Colombia -, come comunità di pace proclamata dai contadini in una situazione di sfollamento, di aggressioni da parte dello Stato e dei paramilitari, che hanno veramente scatenato il terrore.
Quando parlo di terrore parlo di atti di militari e paramilitari volti allo sfollamento delle persone che abitavano in quei villaggi. Prima di mandarci via, però, hanno torturato delle persone, facendo dei massacri selettivi nei vari villaggi.
San José de Apartadó è un municipio formato da 32 villaggi o frazioni, tra le quali quella da cui noi proveniamo; lì, nel 1996-97 i paramilitari hanno brutalmente massacrato e sterminato un'intera famiglia, usando gli strumenti con cui si lavorano i campi: i machetes, le accette, le motoseghe. Dopo questo episodio, sulla base della proposta della Chiesa cattolica, noi abbiamo fondato la comunità di pace.
Da allora abbiamo cominciato a lavorare per estrarre la popolazione dal conflitto interno in cui era coinvolta. Ma ciò non è stato possibile; anzi, gli sfollamenti di massa nelle 32 frazioni sono proseguiti, e noi ci siamo rifugiati a San José de Apartadó, unico centro che ci abbia aiutato accogliendo tutta la popolazione del municipio. Da quel momento in poi, noi abbiamo cominciato a lavorare.
L'anno dopo, abbiamo fatto una proposta: volevamo far sapere ai soggetti in armi che noi potevamo tornare sulle nostre terre, a condizione che si riconoscesse che non appartenevamo a nessun gruppo armato, e che il nostro principio fondamentale era la neutralità. Questo è stato inutile, perché i militari e i paramilitari hanno collocato un posto di blocco sull'unica strada del municipio, che misura 12 chilometri, e lì hanno ucciso, in meno di un anno e mezzo, più di 80 persone. Le hanno massacrate, adducendo la giustificazione che erano collaboratori della guerriglia, cioè guerriglieri. A quel punto la resistenza della popolazione civile, benché


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sostenuta da ONG internazionali e nazionali, è stata presentata ai media facendo passare i civili assassinati per guerriglieri uccisi in combattimento.
Ai mezzi di comunicazione noi non potevamo sottacere questo fatto, quindi abbiamo documentato che, invece, le persone uccise erano contadini della regione di Urabá, e principalmente dell'area di San José de Apartadó.
Sono trascorsi undici anni da quei fatti, ma i responsabili rimangono tuttora impuniti.
L'intento della comunità, come dicevo, era quello di tornare ai luoghi di origine. Ciò costituiva una sfida a tutti i soggetti armati. Come è già stato detto prima, oltre 164 persone sono state assassinate in questi undici anni. Non sono solo i paramilitari, è una precisa politica dello Stato colombiano. Ma anche il movimento guerrigliero, che opera nella zona, ha fatto della popolazione civile un obiettivo militare.
Abbiamo, dunque, tre soggetti - o meglio, per noi sono due: i guerriglieri e lo Stato con i suoi paramilitari. Hanno aperto delle trattative, ma in modo aggressivo e continuando a spargere il terrore.
Un caso concreto è la strage del 2005: morirono otto persone in uno dei villaggi dove eravamo ritornati. Come comunità, documentammo che era stata perpetrata dall'esercito insieme ai paramilitari. Gli alti gradi militari della regione riferirono che nella zona non erano in corso operazioni; noi, invece, abbiamo continuato a denunciare la responsabilità dell'esercito e dei paramilitari, e dopo tre anni gli stessi militari coinvolti nell'operazione hanno ammesso di essere gli autori della strage.
È quindi evidente che le forze armate colombiane sono coinvolte in fatti molto gravi come, ad esempio, il massacro del 21 febbraio, realizzato per spargere il terrore nella zona dove noi, come comunità, stavamo facendo tornare le famiglie. Queste persone sono state squartate come animali e sepolte in fosse comuni dalle quali noi abbiamo recuperato i corpi con l'assistenza delle organizzazioni internazionali, a cinque giorni di distanza dai fatti.
I militari presenti in quel momento ridevano mentre noi compivamo questo gesto umanitario. È terribile per noi che lo Stato colombiano lasci ancora impuniti tutti questi fatti che sono accaduti e continuano ad accadere.
Noi dobbiamo denunciare che, in questo momento, in una località vicina a San José de Apartadó, La Unión, è acquartierato un gruppo paramilitare. La smobilitazione dei paramilitari gestita dal Governo colombiano è stata un fiasco totale.
Noi, come vittime dei gruppi paramilitari e dello Stato colombiano, e anche delle azioni della guerriglia, vogliamo dire che i paramilitari in Colombia non sono stati smobilitati, che il Governo mente all'opinione pubblica internazionale. In questa sede dobbiamo ribadire che continua ad essere palese e documentabile la presenza dei paramilitari accanto alla forza pubblica, in azioni come quella del 21 febbraio 2005. Questa è la verità.
Il fatto è che in Colombia siamo emarginati e messi a tacere. Luis Eduardo Guerra, morto nel massacro del 21 febbraio 2005, era uno dei portavoce della comunità e voleva far conoscere ciò che questa comunità intendeva fare. Invece è stato messo a tacere, come spesso continuano ad essere messe a tacere le nostre voci perché noi, come rappresentanti di questa comunità di pace, siccome non sono riusciti ad ammazzarci, subiamo denunce, minacce e processi mirati a mandarci in carcere e a farci passare per terroristi delle FARC mediante false testimonianze.
Questa è la politica in Colombia, e quando le comunità di pace contadine si organizzano per far conoscere le gravi violazioni dei diritti dell'uomo che noi subiamo in quelle zone, non si può permettere che noi diciamo la verità; per questo siamo denunciati e fatti passare per terroristi delle FARC.
Di fronte alle gravi violazioni commesse nel 1996-1997, la Commissione interamericana per i diritti umani ha emanato misure cautelari e provvisorie a difesa della popolazione di San José de Apartadó,


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ma è il Governo colombiano ad avere la responsabilità di proteggere questa comunità.
Sono trascorsi tanti anni, ma da parte del Governo non è stato fatto un solo gesto, una sola azione a favore della sicurezza di questa popolazione.
Come ho già spiegato, attualmente lo Stato colombiano si è assunto la responsabilità del massacro del 2005, ma i responsabili sono rimasti impuniti e i paramilitari continuano a condurre operazioni assieme ai militari, con la prospettiva di nuovi sfollamenti della popolazione di san José dai villaggi dove siamo ritornati. Questo significa che la politica dello Stato colombiano per la popolazione di San José de Apartadó come comunità di pace mira a screditarla a livello internazionale, nel senso che presenta sempre le sue azioni come commesse dai gruppi guerriglieri della zona. Noi continuiamo invece a proclamare che si tratta di una comunità basata sui propri principi fondamentali.
Bisogna anche denunciare che in Colombia abbiamo oggi oltre 3 milioni di sfollati e oltre 3 milioni di ettari di terreno in possesso dei paramilitari e di aziende multinazionali, ovviamente accompagnate da una presenza militare in varie parti del Paese.
Divulgando queste cifre, e facendo sapere che queste terre appartengono ai contadini, ai colombiani, alle comunità nere e indigene, a noi come contadini, noi dunque ci dichiariamo obiettori di coscienza, obiettori nei confronti di questa giustizia; ecco perché ci mettono a tacere: perché diciamo la verità.
Noi, di San José de Apartadó, vogliamo che l'appoggio che abbiamo grazie alla Rete italiana di solidarietà significhi che possiamo far conoscere anche ai presenti la realtà della nostra comunità.
In Colombia queste iniziative sono viste e presentate dal Governo come nemiche della politica di sicurezza democratica dello Stato.
Noi però non siamo nemici, non stiamo portando avanti nessuna politica, il nostro è un gesto di umanità a difesa del diritto di lottare per una pace che nasce dalla popolazione civile organizzata senza l'intervento di nessun soggetto armato; inoltre e innanzitutto, vogliamo difendere le nostre terre, dalle quali le multinazionali e i paramilitari vogliono scacciarci.
È perché resistiamo, con le nostre cause e i nostri principi, che veniamo presentati come ausiliari della guerriglia.

MARIA BERTILDA TUBERQUIA QUINTERO, Rappresentante della Rete italiana di solidarietà con le comunità colombiane, «Colombia Vive!». Ancora una volta vorremmo ringraziare tutti i presenti per la loro disponibilità ad ascoltarci. Wilson vi ha già illustrato molto bene l'organizzazione della Comunità e il conflitto armato che viviamo in Colombia. Anch'io vorrei chiedervi, gentilmente, come prima cosa, di dare il maggiore appoggio possibile alla Rete italiana che ci sostiene, perché sono convinta che in questo modo si può rafforzare questo movimento, e anche voi potrete solidarizzare con noi.
Noi abbiamo chiesto che non si aiuti il Governo colombiano perché il suo operato colpisce la popolazione intera: non solo la comunità di pace, ma anche una gran parte della Colombia, dove esistono questi processi di resistenza civile organizzata.
Vorrei quindi chiedervi solidarietà, perché nel marzo del 2009 saranno trascorsi dodici anni dalla fondazione di questa comunità di pace che ci accompagna nella nostra iniziativa.
Vorrei parlarvi anche del Governo colombiano.
Il Governo colombiano desidera vincere su tutta la linea, ma i suoi discorsi sono, naturalmente, pro domo sua. Qualunque organizzazione o comunità voglia opporsi ai loro progetti viene considerata come nemica e perseguitata in diversi modi.
Vorrei anche dirvi che noi, come comunità di pace, abbiamo visto la strategia adottata dal Governo e, di conseguenza, abbiamo sviluppato delle nostre piccole strategie di sopravvivenza.
Abbiamo iniziato, proprio ieri, un pellegrinaggio per denunciare al Governo l'impunità di quanto è accaduto in Colombia. La nostra intenzione era di cominciare il pellegrinaggio dalla base della


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17a Brigata, depositando lì davanti dei simboli, e poi percorrendo i luoghi dove sono avvenuti omicidi selettivi e stragi, e i villaggi in cui la comunità è tornata, per terminare infine nella località di Nueva Antioquia, dove esiste una base paramilitare permanente.
Da quando è iniziata quella che il Governo considerava la smobilitazione totale, questa base dei paramilitari non è mai stata smobilitata né trasferita; sono gli stessi paramilitari di cui Wilson diceva che si stanno mobilitando, nella zona di Esperanza e in tutta l'area dove esistono insediamenti della comunità.
Vorrei concludere il mio intervento chiedendovi solidarietà verso la nostra comunità, e chiedendovi altresì di sostenere questa rete di solidarietà. Riteniamo che un'attenzione a livello internazionale sia molto importante: noi la utilizziamo come un meccanismo di protezione nei nostri confronti, perché siamo vittime nel nostro Paese. Grazie.

CARLA MARIANI, Rappresentante della Rete italiana di solidarietà con le comunità colombiane, «Colombia Vive!». Ringrazio a mia volta per averci ricevuto. Vorrei sottolineare meglio il tema dell'utilizzo della pratica della «nonviolenza» all'interno di un conflitto armato.
Ritengo sia assolutamente corretto parlare di nonviolenza proprio oggi perché, come mi sembra sia stato già ricordato, il 2 ottobre 2008 si celebra la giornata mondiale per la nonviolenza. In questa sede, non potevamo celebrarla in modo migliore dato che sono presenti dei testimoni che, ogni giorno, praticano la nonviolenza per resistere alla guerra e allo sfollamento forzato.
Non si tratta di una nonviolenza passiva; non è una nonviolenza di chi non fa del male ma è una nonviolenza che ha costruito un modo di vivere e una metodologia per affrontare i conflitti in maniera diversa, non utilizzando il terrore e le armi.
Loro ci hanno insegnato che chi usa la violenza non fa altro che il gioco del sistema e del potere di chi governa.
Cadere nella trappola della violenza non è più pensabile, e i testimoni che sono presenti qui oggi ci hanno dato la dimostrazione che si può resistere per undici anni ad un conflitto affermando quotidianamente il diritto di essere riconosciuti come popolazione civile e di rifiutarsi di prendere le armi.
L'azione nonviolenta che stanno portando avanti la ritroviamo, proprio in questi giorni, anche nella terra di Gandhi, nel West Bengala, dove intere comunità di contadini si son trovate a dover affrontare il mondo dell'economia globalizzata, che voleva sottrarre loro le terre per costruire uno stabilimento per la produzione di automobili Tata Nano (progetto che, purtroppo, prevede anche la partecipazione della FIAT).
Questi movimenti nonviolenti vengono sostenuti sempre da chi lavora la terra e la difende, come accade anche in Italia con le cooperative di ragazzi che in Sicilia e in Calabria lavorano le terre confiscate alla mafia.
A me non sembra un caso che oggi abbiamo già individuato tre posti diversi nel mondo che, pur essendo così distanti tra di loro, stanno attuando una metodologia di risposta alla violenza - della mafia o di un'economia che non tiene conto dei beni comuni e dei territori - con la nonviolenza.
Recentemente un rappresentante di una Comunità di pace in un'altra sede di confronto, raccontando il modo in cui loro resistevano, ha fatto continuamente riferimento al metodo della nonviolenza. L'interlocutore a quel punto gli ha chiesto se se la sua comunità utilizzasse la filosofia di Gandhi, e lui ha candidamente risposto: «Veramente con quella ONG non abbiamo mai lavorato».
Raccontato così questo episodio forse fa sorridere, ma a noi è sembrata una cosa bellissima perché questa metodologia, che può essere messa a disposizione di altre popolazioni che vivono all'interno di un conflitto, è nata proprio dall'esperienza e dall'esigenza di non cedere alla violenza delle armi e dalla volontà di costruire una vita dignitosa, solidale e più giusta.


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SALIMA CURE, Rappresentante della Rete italiana di solidarietà con le comunità colombiane, «Colombia Vive!». Buonasera a tutti e grazie per averci ricevuto oggi.
Io sono colombiana della città di Bogotà; non ho vissuto le situazioni che i precedenti rappresentanti ci hanno raccontato, ma vedo in ogni caso le strade della mia città piene di sfollati, di gente che non trova lavoro, che non ha niente da mangiare e che, purtroppo, si trova in una condizione di forte disagio sociale.
Stiamo comunque parlando di una regione della Colombia molto ricca di oro e in cui si stanno anche portando avanti progetti di «necrocombustibili», così chiamati perché non sono né «bio-» né «agro-», dal momento che portano solo morte e violenza per la gente che abita in quelle zone.
Bisogna anche mettere in conto che la violenza che si vive in questi territori ha un forte rapporto con i progetti economici e la presenza di multinazionali che usano purtroppo la forza dei gruppi armati per usurpare le terre lavorate dai contadini, i cui progetti sono solo di vita.

PRESIDENTE. Immagino che i colleghi abbiano, come me, delle domande da porre; aspetterei quindi di sentire prima le loro, in modo da vedere quali possono eventualmente coincidere con le mie. Ulteriori domande potranno essere formulate all'interno di quello che sarà, fatalmente, un breve dibattito, fatto nel tentativo di conoscere, di capire e di avvicinarci maggiormente a questa vostra esperienza.
Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

FRANCO NARDUCCI. Ho chiesto immediatamente la parola perché alle 15 ho un altro impegno. La ringrazio, presidente, per avermela accordata.
Ringrazio molto per questo incontro e per le cose che ci sono state illustrate. Quando si parla della Colombia, a livello politico e nelle istituzioni emerge immediatamente il problema della contrapposizione tra Governo, bande terroristiche e narcotraffico.
Sappiamo che da anni la Colombia presenta al mondo questa faccia drammatica, con tutti gli addentellati e i collegamenti che ci sono stati illustrati dai nostri amici. Quella che ci è stata presentata è una faccia di neutralismo attivo e, soprattutto, di pacifismo costruttivo dei contadini, molto importante.
Desidero ricordare che l'Italia, con la II Conferenza sull'America latina dello scorso anno ha messo al centro i grandi problemi di questo continente, a noi molto vicino se si pensa ai milioni di cittadini di origine italiana che lì vivono; c'era una comunità notevole anche in Colombia, ridottasi a seguito di questo stato di tensioni e di pericolo.
Nella conferenza sono state portate testimonianze da tutti i Paesi, anche dalla Colombia. Sono stati analizzati soprattutto i problemi geostrategici, le infrastrutture e i grandi corridoi che l'America latina vorrebbe realizzare e che devono avere una compatibilità con le esigenze che ci sono state prospettate e con il rispetto di chi vive pacificamente della terra e dell'agricoltura.
Ad ogni modo, più che porre una domanda desidero rivolgere un ringraziamento ai nostri ospiti, e vorrei fare alcune considerazioni per evidenziare come esista una grande attenzione anche a livello della comunità italiana in Colombia. Ricordo che, fino a poco tempo fa, nel Consiglio generale degli italiani all'estero c'era anche un rappresentante delle comunità italiane in Colombia; dalla fine degli anni Novanta non è stato più eletto, proprio perché, a seguito di questo stato di pericolo e di contrapposizione, la comunità italiana si è un po' assottigliata.
Abbiamo ascoltato dai nostri ospiti delle cose molto importanti, che non emergono nei media e nei giornali. Avete molto parlato del Governo e della vostra posizione rispetto ad esso, ma credo che occorra un chiarimento anche rispetto al problema del terrorismo in Colombia.

ENRICO PIANETTA. Anch'io ringrazio i rappresentanti e vorrei porre essenzialmente una domanda. La zona dove loro operano e da cui provengono è evidentemente


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una zona di narcotraffico. Vorrei capire come si svolge questa attività e come loro possono contribuire a fare in modo che possa essere debellata.
Il punto centrale di questa situazione è, come ha detto Andrea Proietti, la sua grande complessità. È un conflitto veramente complesso che comprende fenomeni come la 'ndrangheta, la produzione e lo smercio di cocaina.
La nostra è una posizione molto precisa; siamo il Comitato per la tutela e la promozione dei diritti umani e abbiamo avviato un'indagine conoscitiva sulla situazione dei diritti umani nel mondo. Pertanto, fermo restando che ogni violazione dei diritti umani deve essere condannata, mi piacerebbe capire quali siano allo stato i rapporti con le autorità statali, visto che ci troviamo di fronte ad un Governo eletto che si è posto anche il problema prioritario della lotta nei confronti del narcotraffico dato che, considerate tutte le ripercussioni ad esso legate, non rappresenta soltanto una piaga colombiana ma un problema di carattere internazionale.
Pertanto, pur considerando la complessità di questo conflitto, vorrei capire meglio come una associazione come la vostra si rapporta con il Governo attuale, costituito ed eletto democraticamente da parte dei cittadini colombiani.
Ho sentito che il Governo colombiano è stato accusato di condurre una politica di repressione; mi sembra quindi, importante riuscire a capire che tipo di collaborazione si possa instaurare al fine di sradicare questa realtà, particolarmente negativa non soltanto per la Colombia ma anche per tutta la comunità internazionale.
È mia opinione che, una volta condannati tutti gli atti che riguardino la violazione dei diritti umani, ci debba essere anche una grande capacità di collaborare e di contribuire a debellare la produzione e lo smercio di queste sostanze, dal momento che questo Governo ha avuto, se ben ricordo, come programma e come mandato prioritario, quello di sradicare questo fenomeno tanto negativo, anche se credo siamo ancora molto lontani dall'ottenere questo risultato.

PRESIDENTE. Se non ci sono altri interventi, faccio alcune osservazioni e poi lascio ai nostri ospiti la conclusione.
Come prima osservazione, desidero ricordarvi che questa audizione, quindi l'interplay, il rapporto tra noi e voi oggi, ha un valore molto alto ed anche un limite molto alto.
Il valore molto alto è che questo incontro avviene e che noi vi abbiamo ascoltato - anche come persone - e abbiamo imparato alcune cose che, ad esempio, per chi non ha una speciale conoscenza di quell'area del continente latino-americano e della Colombia, potevano non essere chiare o non essere note.
Io avrei sempre detto, di me stesso, di essere un buon conoscitore della Colombia, ma alcune delle cose che avete detto oggi le ho sentite per la prima volta. Pertanto, la vostra presenza qui in questa Commissione è certamente un punto segnato importante.
Il limite che qui incontrate, invece, è che state parlando con una istituzione, e le istituzioni, ogni volta che il discorso riguarda armi e droga, diventano generiche, enfatiche, e si muovono nella nebbia, facendo discorsi generici e di principio.
Lo fa anche il Governo della Colombia, che agisce diversamente rispetto a quanto dice, e questo ci è dimostrato sia da ciò che abbiamo sentito dire oggi da voi, sia da quanto avevamo sentito dire dalla signora Ingrid Betancourt nella sua prima grande testimonianza, precedente al suo odioso e lunghissimo sequestro.
A questo punto, poiché comunque noi siamo intenzionati a farci testimoni della vostra grave situazione, inaccettabile e certamente denunciabile, vi chiederò, formulando alcune osservazioni e domande, di dirci e di darci qualcosa di più.
Ad esempio, quando Andrea Proietti chiede di sollecitare l'ambasciata italiana ad unirsi alla missione diplomatica che appoggia la comunità di pace di San José de Apartadó, vorrei capire meglio cos'è la missione diplomatica di cui parla..
Prego quindi Andrea Proietti di farci da filo conduttore, anche se naturalmente le domande sono rivolte a tutti i nostri ospiti.


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Sono molto interessato, personalmente - la mia professione, prima di essere deputato, è stata quella di giornalista per tantissimo tempo -, a sapere che rapporti avete con i media locali, con i media colombiani. Sono impenetrabili, come quelli italiani, alle istanze periferiche estranee a ciò che avviene davvero sul territorio? Oppure, invece, esistono testimonianze dei media colombiani? Che rapporti avete con i media internazionali? Questo mi interessa molto. Ad esempio, conosco l'estrema sensibilità di una parte della stampa americana nei confronti di problemi di questo genere, e vi chiedo se è mai stata raggiunta da vostri messaggi, se è mai stata «agganciata» in qualche modo. I media europei sono mai stati raggiunti, agganciati o sfiorati?
Certo, non abbiamo mai avuto occasione di leggere alcune delle cose che ci avete raccontato. Diciamo che le conosciamo per genere più che per specie, nel senso che certe vicende brasiliane di occupazione delle terre, di espropriazione delle foreste ricordano moltissimo ciò che ci avete appena detto.
La signora Tuberquia Quintero ha fatto riferimento ad una situazione analoga che si sta avvalendo dello strumento della nonviolenza. Vorrei sapere a quale comunità facesse riferimento, e in quale Paese essa operi. È stato fatto anche un accenno alla Fiat, per cui mi farebbe piacere capire un po' di più.
Qualcuno degli intervenuti ha detto che si seguono delle piccole strategie sul posto. Ebbene, esiste un livello di coordinamento più alto e un po' meno locale? La Rete italiana di solidarietà fa capo alla città di Narni, ed esiste questo progetto di sostegno; tuttavia vi chiedo se vi sia anche un respiro di strategia più vasto.
Infine vorrei conoscere le vostre valutazioni circa il ruolo di questo Comitato e su quale possa essere a vostro giudizio il nostro contributo.
Quando si tengono audizioni di questo genere è naturale che concludendo si dica «mi aspetterei che», «magari ci dicessero che». Questa è, in fondo, la domanda finale: nel migliore dei casi, che tipo di appoggio vi aspettate? Nel più generico dei casi, quale può essere la forma di solidarietà che effettivamente vi aiuta?
Queste sono le riflessioni fatte ascoltandovi, e le domande che vi rivolgo. Sappiate che con le vostre risposte si conclude la parte che riguarda l'audizione. Credo che i miei colleghi si associno a me nell'invito a lasciarci ciò che potete e a mandarci ciò che vorrete in futuro, in modo che si possa restare «collegati» e che questo non resti un episodio destinato esclusivamente al buon esercizio della memoria, ma sia un filo che continui a tirarsi e ad essere tirato.
Grazie per quello che ci direte.

ANDREA PROIETTI, Rappresentante della Rete italiana di solidarietà con le comunità colombiane, «Colombia Vive!». Provo ad esprimere alcune considerazioni, dopodiché lascerò la parola a Wilson David per le domande più dirette a loro.
La prima osservazione che vorrei fare è per noi scontata, ma dato che se ne è accennato ne vorrei parlare perché è un tema molto delicato.
Noi ovviamente ci opponiamo, affiancando ciò che la comunità sta facendo, al conflitto armato colombiano e a tutte le ragioni di tale conflitto. Consideriamo le FARC e gli altri gruppi guerriglieri colombiani uno degli attori armati del conflitto colombiano; pertanto, fare polemica su questo punto ancora una volta non aiuta il dibattito e l'approfondimento della conoscenza della situazione colombiana. Chi critica il Governo colombiano non necessariamente ha a che fare con le FARC. Questa è una cosa assurda.
Ripeto nuovamente che, quando le situazioni sono complesse, è chiaramente più difficile coglierne le sfumature ma, per quanto riguarda la rete italiana - non servirebbe neppure dirlo, ma desidero farlo - noi siamo ovviamente contro tutti gli attori armati colombiani.
Quanto al modo in cui in quella zona interagisce il narcotraffico, come ho già accennato prima, in tutti questi anni circa 3 milioni di sfollati sono stati allontanati dalle loro terre e costretti ad insediarsi nelle periferie delle grandi città colombiane


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- Bogotà, Cali, Medellín -, a vivere in queste zone in condizioni off-limits e ad offrirsi come manodopera alla criminalità comune, altro problema delle grandi aree urbane colombiane. Il fenomeno dello sfollamento forzato ha determinato, quindi, alcune situazioni critiche anche nelle città.
Perché scacciare i contadini dalle loro terre, dal momento che chiedono semplicemente di poterci vivere e lavorare? Perché il territorio è fondamentale per chi vuole coltivare, raffinare e smerciare la droga.
La loro comunità vive in una zona che collega due regioni strategiche, nel Golfo di Urabá, quasi al confine con Panama, vicino alla città di Turbo, che è storicamente uno dei porti più importanti di quella zona, dal quale parte la cocaina. Non a caso, da molti anni queste regioni sono teatro di forti scontri tra paramilitari e guerriglia e tra diversi tipi di guerriglie, perché in quella zona è capitato anche questo. Per rispondere alla domanda dell'onorevole Colombo in merito al rapporto di questa comunità con il Governo, sottolineo che troppo spesso la complicità di parte dell'esercito, con l'uno o con l'altro, sostanzialmente con il paramilitarismo, è stata fortissima.
Noi parliamo, ovviamente, avendo potuto constatare personalmente la situazione, essendo stati in quelle zone. Noi intratteniamo rapporti con tutti i possibili interlocutori, comprese le istituzioni colombiane, con le quali non rifiutiamo di confrontarci o di discutere. Tutto quello che facciamo non è altro che monitorare, osservare, cercare di attirare l'attenzione della politica, dei media, delle istituzioni, proprio perché per queste comunità l'attenzione da parte nostra significa sopravvivenza.
Se loro non avessero l'attenzione di tutti coloro che credono in quello che fanno, potrebbero essere spazzati via da un giorno all'altro senza che nessuno se ne accorga. Questo è il punto fondamentale.
Noi abbiamo incontrato il Vicepresidente della Repubblica Francisco Santos, anche qui a Roma; abbiamo incontrato Mario Iguarán, il fiscal general de la nación; abbiamo incontrato ambasciatori ed altri interlocutori. A tutte queste persone ripetiamo le stesse cose che abbiamo detto in questa sede. Abbiamo incontrato il capo della polizia e il generale comandante dell'esercito di quella regione.
Vi cito un solo esempio emblematico. Forti della nostra cultura ed esperienza europea, siamo andati a parlare con il capo della polizia. Devo premettere che loro rifiutano la presenza di armi in quella zona, e si erano anche opposti all'esistenza di un posto permanente di polizia perché questo li avrebbe trasformati subito in obiettivi degli attori armati.
Il capo della polizia ci ha detto di non preoccuparci, rassicurandoci del fatto che in zona ci sarebbero stati solo pochi uomini con armi leggere solo per la protezione degli abitanti.
Il giorno dopo - ho le foto, se volete ve le mostro - siamo andati in quella zona e abbiamo trovato decine di uomini armati di mitra pesanti.
Allora mi sono chiesto: perché mentirmi su tale circostanza? Avrebbe potuto tranquillamente dirci che uno Stato ha il diritto di inviare la polizia dove meglio crede.
Ho citato questo esempio per far capire come, nonostante sia tutto molto sfumato e complesso, noi abbiamo sempre cercato di portare le nostre ragioni di fronte a tutti gli attori e le istituzioni.
Credo di aver risposto così anche al discorso dei media.
In Colombia abbiamo più volte incontrato i nostri ambasciatori, mentre alcuni rappresentanti di altre ambasciate si sono spesso recati in visita alla comunità. Questo succede perché, attraverso questa rete italiana, che ormai è anche europea, cerchiamo di coinvolgere anche il Parlamento europeo e di lavorare a 360 gradi. Grazie a questo, molte ambasciate hanno inviato in zona di tanto in tanto alcuni rappresentanti e, in qualche caso, direttamente gli ambasciatori.
Per quanto riguarda il nostro Paese, invece, nonostante in Italia ci sia una rete di solidarietà con la comunità di pace di San José, l'ambasciata italiana non si è mai recata in quelle zone.


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Abbiamo più volte chiesto che questo venisse fatto, anche nell'incontro che abbiamo tenuto circa un anno e mezzo fa con il precedente Governo e con il sottosegretario Di Santo, che si occupava di questi temi.

WILSON DAVID HIGUITA, Rappresentante della Rete italiana di solidarietà con le comunità colombiane, «Colombia Vive!». Credo che la domanda riguardante il narcotraffico abbia già richiesto una presentazione della zona. Dal 1997 al 2005 le 32 località o frazioni che costituiscono il municipio di San José de Apartadó, abitate da noi contadini, non avevano coltivazioni di piante per la droga.
Dal 2005 in poi il Governo, proprio adducendo a giustificazione il massacro di San José di Apartadó, è arrivato nella zona con un cosiddetto «investimento sociale». Ed è appunto lo Stato colombiano, attraverso investitori legati ai paramilitari, ad avanzare offerte perché vengano seminate le colture illegali, cioè la cocaina, nella zona di San José. Dicono a chiare lettere che la forza pubblica, per far arrivare i precursori chimici, non deve esercitare controlli.
Dunque, abbiamo una forza pubblica in relazione di complicità con quei paramilitari che si stanno impossessando delle nostre terre, che le stanno rovinando facendovi penetrare le colture della droga. Nella nostra comunità non c'era questo genere di coltivazioni, quindi adesso la nostra preoccupazione a livello politico è che lo Stato stia effettuando tutto questo in modo strategico, con l'aiuto dei paramilitari, per penetrare nella zona e così porre fine a questo processo unico che è l'esperimento della comunità di pace.
Un esempio: il presidente Álvaro Uribe Vélez, nel maggio del 2004, in occasione di un Consiglio di sicurezza convocato nella zona di Urabá, ha scoperto le carte affermando che la Comunità di San José de Apartadó era ausiliare della guerriglia; così facendo, ha indicato pubblicamente ai media e alle autorità locali che questa comunità doveva essere un obiettivo militare. Nessuno dei presidenti passati aveva accusato questa comunità di essere ausiliare della guerriglia, come invece ha fatto Álvaro Uribe Vélez.
Dopo il massacro del 2005, non ci sono state condoglianze da parte delle autorità dello Stato. Anzi, la giustificazione del Presidente della Repubblica è consistita nell'irruzione della forza pubblica a San José de Apartadó, che ha determinato lo sfollamento in massa della comunità in un altro insediamento che abbiamo costruito, e che ora si chiama San Josecito. In questo modo, l'intervento della forza pubblica ha invaso parte della comunità, ma sul piano strategico è servita a realizzare quanto dicevo prima e che ha a che fare con il narcotraffico, dando una giustificazione militare, in prospettiva, all'ulteriore penetrazione dei paramilitari già presenti nell'area.
A proposito dei rapporti con le autorità, vorrei dire che dal 2005, noi abbiamo sempre dialogato con le istituzioni civili dello Stato colombiano. La Commissione interamericana per i diritti umani esigeva da noi, come beneficiari delle misure provvisorie e cautelari, che dialogassimo con lo Stato, e noi lo stavamo facendo; ma dopo il massacro, che è stato un'azione dello Stato colombiano contro la nostra comunità, noi abbiamo dichiarato che non ha senso parlare con uno Stato che ci sta assassinando e sta violando i nostri diritti umani. Dunque rompiamo il dialogo, e non lo riprenderemo fino a che lo Stato non ammetterà ciò che ha fatto contro la comunità di pace, e la Commissione per i diritti umani ha capito la nostra posizione perché per gli oltre 160 morti di quel massacro non si è arrivati a nulla, i tribunali cioè non hanno agito contro gli assassini. Attualmente Rito Alejo del Río, un ex generale della 17a brigata, è di nuovo in carcere, ma questo personaggio è stato incarcerato tre volte in Colombia. L'ultima a seguito di un processo intentatogli perché, durante l'operazione «Genesis» nella zona di Chocó, davanti a tutta la comunità riunita, avevano ucciso e decapitato un ragazzo, e poi avevano giocato una partita di calcio con il suo cranio.
Ecco perché è tornato in carcere il signor Rito Alejo del Río, contro il quale noi oggi, come comunità vittima di questo


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generale, invochiamo il massimo rigore della giustizia; sappiamo però che in tutte e tre le occasioni è stato assolto. Adesso, di nuovo invochiamo il rigore della giustizia contro di lui. I membri delle forze armate che parteciparono alle stragi del 2005, rei confessi davanti alle autorità giudiziarie, avendo ammesso di esserne stati gli autori, non solo l'ufficiale Gordillo e altri cinque che sono sotto processo, ma altri militari ancora, vogliamo che siano tutti condannati. Come Comunità, questo è il risultato al quale vogliamo che si arrivi.
Una volta ottenuto questo risultato, riapriremo il dialogo davanti a una presenza internazionale, potremo avviare incontri con le autorità a livello nazionale e locale; ma se il risultato non c'è, anzi la situazione si chiude sempre di più, non possiamo fare questo passo.
I media sono legati alle autorità anche a livello locale. Qualunque azione della forza pubblica o dei paramilitari non viene mai resa nota dai media locali, perché in Colombia purtroppo i mezzi di comunicazione nazionali - ce ne sono due: El Tiempo, un quotidiano, e Caracol, network privato - sono nelle mani di coloro che hanno il potere, la famiglia Santos, cioè il Vicepresidente della Repubblica. Lì non si riferirà mai un fatto commesso dalle forze armate o dai paramilitari a danno delle comunità. Anzi, la nostra relazione con loro è tale che, quando si verificano episodi di questo genere non vogliamo neanche che vengano, perché la verità per loro sta nel giustificare, dicendo che un'azione compiuta dalla forza pubblica è invece opera della guerriglia.
Mentre ci siamo opposti alla loro presenza, abbiamo invece auspicato che i media internazionali venissero nella nostra zona e facessero delle registrazioni e dei video per provare i fatti.

MARIA BERTILDA TUBERQUIA QUINTERO, Rappresentante della Rete italiana di solidarietà con le comunità colombiane, «Colombia Vive!». Rispondo alla domanda del presidente riguardo le strategie della comunità. Avevamo già detto che in Colombia sono in corso altri processi di resistenza: abbiamo le comunità del Cacarica, parte della Regione del Chocó, le comunità indigene del Cauca ed anche altre.
La nostra strategia, come ho già detto, consiste soprattutto nel denunciare ciò che accade. La nostra comunità di pace realizza questo soprattutto a San José: qualunque fatto accada, noi lo denunciamo.
Un'altra strategia è quella della mobilitazione. Noi non partecipiamo a nessun progetto del Governo colombiano: è un'altra delle nostre scelte strategiche, perché è una menzogna che il Governo, con questi «assi» che ha istituito, garantisca la copertura sanitaria in tutto il Paese; noi quindi stiamo lavorando con le ONG internazionali, che ci aiutano in qualche modo con dei piccoli progetti. Ma le misure strategiche partono da noi.
Quanto alle marce che organizziamo, lì sono chiamate così, ma noi le abbiamo definite come pellegrinaggi.
In che modo ci potreste aiutare? Ebbene, scrivendo delle lettere, ad esempio. Noi abbiamo informazioni dettagliate su tutti i fatti accaduti dal 1997 in poi, quindi, se desiderate avere informazioni al riguardo, siamo in grado di darvele.
Ci avete chiesto come potete aiutarci. Alle organizzazioni internazionali e in particolare ai Governi europei chiediamo di scrivere delle lettere che sollecitino urgenti interventi a seguito delle incursioni o delle aggressioni effettuate dallo stesso Governo colombiano, perché quando noi parliamo di aggressioni intendiamo sempre dire che c'è un autore intellettuale delle atrocità che accadono in Colombia, e che questo autore intellettuale è lo stesso Governo colombiano.
Bisogna dunque scrivere ai Ministeri degli esteri, a tutti i media, alle forze militari, ai Presidenti, in modo che queste lettere richiamino l'attenzione dei Governi e delle autorità affinché non si commettano più stragi o barbarie di questo genere contro le comunità.
Questo ha un peso politico molto importante, e lo abbiamo notato da parte degli Stati Uniti.
Sulle nostre terre è presente un accompagnamento internazionale che si chiama FOR (Fellowship Of Reconciliation), movimento


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di riconciliazione. A partire dal massacro del 2005, di cui ha tanto parlato Wilson, uno dei responsabili di questa organizzazione ha raccolto tutte le prove del massacro - un bimbo di 18 mesi, una bambina di sette anni - e ha documentato il modo in cui le vittime sono state uccise e fatte a pezzi. Queste prove hanno permesso al Congresso democratico degli Stati Uniti di svolgere un lavoro e dimostrare il modo in cui si è svolto questo massacro.
Se non erro, quando si è parlato della liberazione di Ingrid Betancourt è stato detto che era frutto di un negoziato tra i Governi francese e statunitense e il Governo della Colombia, perché tutti loro avevano degli interessi in gioco. A livello di pubblicità, è stato un punto a favore del Governo colombiano, ma dobbiamo dire che non ha giovato per niente a nessuna comunità, a nessuno dei processi di resistenza in atto in Colombia. Nessuno di noi ne trarrà vantaggio.
Vogliamo chiarire che esistono, in effetti, modi per dimostrare solidarietà con altre comunità in Colombia, allo stesso modo in cui viene aiutato il Governo Uribe a livello militare ed economico (aiuti che poi egli poi utilizza in altro modo).
È un lavoro politico molto forte, è una struttura molto forte quella che il Governo colombiano ha messo in atto. Ha presentato grandi progetti per ingannare la gente con queste risorse economiche e in altri modi. Questo è ciò che fa il Governo: lo sterminio di queste comunità, come ho detto nel mio primo intervento.
Il Governo non vuole che ci sia nemmeno un'organizzazione che non appoggi la sua politica, questo è chiaro come l'acqua.

WILSON DAVID HIGUITA, Rappresentante della Rete italiana di solidarietà con le comunità colombiane, «Colombia Vive!». Vorrei soltanto aggiungere che una delle strategie della nostra comunità è rappresentata dalla creazione di un nostro sito internet. Abbiamo una pagina web tradotta in varie lingue (www.cdpsanjose.org), nella quale è possibile trovare ogni informazione riguardante la nostra comunità, a disposizione di chi vuole essere solidale con noi. Questo serve anche a far conoscere, a livello europeo e statunitense, questi argomenti.
Dato che non se ne sa nulla, utilizzando i media la comunità ha potuto realizzare dei documentari per informare attraverso le immagini e i suoni, nelle diverse lingue in cui i documentari sono stati tradotti, chi non conosce la realtà colombiana, o forse conosce altre realtà, ma non quella delle nostre comunità contadine che subiscono violazioni dei diritti umani e omicidi.

CARLA MARIANI, Rappresentante della Rete italiana di solidarietà con le comunità colombiane, «Colombia Vive!». Desidero intervenire brevemente sulla questione degli stabilimenti della Tata Nano.
La Tata è una multinazionale che costruisce in India delle piccolissime utilitarie, le Nano, per permettere agli indiani di avere delle automobili a basso costo. La Tata si è insediata in una zona del West Bengala, a Singur, e per impiantare questi stabilimenti ha espropriato la terra a 20 mila famiglie di contadini, i quali hanno fatto una rivolta pacifica.
In un primo momento sembrava che avessero ottenuto dei risultati, contando anche dei morti. Ora, invece, sembra che le cose siano state rimesse in discussione, quindi non si sa se questa protesta nonviolenta abbia raggiunto il suo scopo, essendo ancora in corso in questi giorni.
La FIAT è una delle azioniste della Tata: è sufficiente digitare Tata Nano su qualsiasi motore di ricerca per trovare una gran quantità di notizie in merito.
Abbiamo notato, quindi, la similitudine che esiste tra queste forme di resistenza finalizzate a non farsi espropriare la terra da parte dei contadini, in India e in Colombia, lottano con lo stesso mezzo, la nonviolenza.
Infine, noi vi invitiamo a partecipare, se vi sarà possibile, almeno con un vostro rappresentante, alla missione che la rete organizzerà il 23 marzo 2009 in occasione del dodicesimo anniversario della Comunità di pace di San José di Apartadó. Si tratterà di una missione internazionale a cui parteciperanno anche alcune città europee.


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Inoltre, desidero informare questo Comitato che l'ex ambasciatore colombiano in Italia, Luis Camilo Osorio, è stato il fiscal general che in Colombia ha mandato assolto il generale Rito Alejo del Rio - ovvero il responsabile della «Operazione Genesis» di cui parlava Wilson -, e che l'attuale ambasciatore, Sabas Pretelt de la Vega, è colui che ha dato impulso all'approvazione della legge di giustizia e pace che sta praticamente consegnando l'impunità ai paramilitari.
Vi chiediamo, pertanto, con tutto il cuore, di cercare di verificare, al momento dell'accredito di questi rappresentanti diplomatici nel nostro Paese, che non ci inviino il peggio dei loro rappresentanti bensì persone oneste, che lavorino per il bene dell'Italia e della Colombia.
Vi ringrazio di tutto cuore.

PRESIDENTE. A nostra volta vi ringraziamo per la vostra testimonianza. Tutto quello che è stato detto qui sarà nel resoconto della seduta e rimarrà agli atti della nostra Commissione. Per quanto riguarda l'evento del 15 marzo, inviateci una lettera con tutte le indicazione e lasciateci gli indirizzi dei siti Internet di cui ci avete parlato.

CARLA MARIANI, Rappresentante della Rete italiana di solidarietà con le comunità colombiane, «Colombia Vive!». Nel fascicolo che vi abbiamo consegnato è indicato tutto ciò che vi può interessare ed essere utile. Vorremmo anche avere un vostro indirizzo di posta elettronica, in modo tale che quando faremo azioni urgenti con cui chiederemo al Governo colombiano di essere vicino alle comunità in momenti di difficoltà, potremo inviarle per conoscenza anche a voi. In questo modo potrete decidere se aderire, magari inviando al Governo colombiano, a nome della Commissione, un vostro documento.

PRESIDENTE. Potete inviare il vostro materiale all'indirizzo e-mail della segreteria di Commissione.

CARLA MARIANI, Rappresentante della Rete italiana di solidarietà con le comunità colombiane, «Colombia Vive!». La ringrazio. Questo potrà essere il filo che ci permetterà di rimanere in contatto.

PRESIDENTE. In ogni caso, fatevi dare i nostri indirizzi individuali di posta elettronica, perché noi esistiamo in due modi: come Commissione e come persone. Grazie ancora.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,30.

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