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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione III
6.
Mercoledì 10 dicembre 2008
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Furio Colombo, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI NEL MONDO

Audizione di rappresentanti di Organizzazioni non governative operanti in Darfur:

Furio Colombo, Presidente ... 3 10 11
Cera Stefano, Rappresentante di International Crisis Group ... 5
Donat Cattin David, Rappresentante di Parliamentarians for Global Action ... 8
(Include l'errata corrige pubblicato nel resoconto del 3 febbraio 2009)
Hamed Suliman, Rappresentante dei rifugiati del Darfur in Italia ... 9
Mascia Luisa, Coordinatrice europea della Coalition for the International Criminal Court ... 6
Mecacci Matteo (PD) ... 9
Napoli Antonella, Presidente di Italians for Darfur ... 3 5 10
Rotelli Marco, Rappresentante di Intersos ... 4
Sergi Nino, Segretario generale di Intersos ... 10
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-Repubblicani: Misto-LD-R.

COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI
Comitato permanente sui diritti umani

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 10 dicembre 2008

TESTO AGGIORNATO AL 3 FEBBRAIO 2009


Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DEL COMITATO FURIO COLOMBO

La seduta comincia alle 15,25.

(Il Comitato approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti di Organizzazioni non governative operanti in Darfur.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle violazioni dei diritti umani nel mondo, l'audizione di rappresentanti di Organizzazioni non governative operanti in Darfur.
Sono presenti Luisa Mascia, Europe coordinator Coalition for the ICC, David Donat Cattin, Parliamentarians for Global Action, director International Law and Human Rights Programme, Suliman Hamed, rappresentante dei rifugiati del Darfur in Italia, Marco Rotelli di Intersos, il professor Stefano Cera dell'International Crisis Group, la dottoressa Antonella Napoli, presidente dell'associazione Italians for Darfur, Nino Sergi, segretario generale di Intersos, Paola Amicucci, responsabile del settore cooperazioni di Intersos.
Vi ringrazio per essere qui. Vi ricordo che il Comitato permanente sui diritti umani della Camera è una «particella» della Commissione esteri. Vogliamo essere la vostra voce e farvi da cassa di risonanza per quello che avrete da dirci.
Vi ascoltiamo nell'ordine in cui voi avete selezionato i vostri interventi.

ANTONELLA NAPOLI, Presidente di Italians for Darfur. L'associazione che rappresento è, in questo caso, capofila di queste ONG. Noi operiamo in Italia per quanto concerne la diffusione delle informazioni e delle attività per il Darfur. Siamo stati già ospiti di questo Comitato nella scorsa legislatura.
Vogliamo ribadire la richiesta fondamentale che rivolgiamo alle istituzioni, quella di non abbassare la guardia sull'attuale situazione in Darfur. Intendiamo, altresì, rilanciare l'allarme che è stato diffuso attraverso il resoconto semestrale all'ONU del procuratore generale Ocampo: ci sarebbe un serio rischio di rappresaglie nel momento in cui venisse spiccato il mandato e sarebbe necessario applicare delle sanzioni nei confronti di coloro che si ritengono responsabili di genocidio, crimini contro l'umanità e altri reati pendenti sul presidente sudanese Bashir, su Kushayb, che è il leader delle milizie Janjaweed, e su Harun, Ministro per gli affari umanitari del Governo di Khartoum.
Ci auguriamo che le istituzioni possano in qualche modo intervenire, perché crediamo nella forza che possono avere una politica e un atteggiamento comuni nei confronti di un regime che probabilmente non ha interesse ad ascoltare l'ONU e, in questo caso, la Corte penale internazionale (ricordo che non ha nemmeno firmato il trattato).
Noi siamo qui per illustrarvi la situazione attuale sotto l'aspetto umanitario.


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MARCO ROTELLI, Rappresentante di Intersos. Buongiorno a tutti. Vi ringrazio per questa occasione, perché è importante per un'organizzazione non governativa poter testimoniare direttamente dal campo la situazione umanitaria del territorio in cui operiamo. Abbiamo accolto l'invito con grandissimo interesse, perché malauguratamente le dimensioni della crisi in Darfur sono tali da legittimare la discussione in una sede come questa.
Siamo consapevoli della gravità delle condizioni cui sono esposte le comunità in Darfur, ma è importante citare qualche numero di riferimento, per dimensionare il contesto. Stiamo parlando di quasi 5 milioni di persone afflitte dalle conseguenze del conflitto, con 3 milioni di sfollati interni, che affollano zone di accoglienza a ridosso dei centri urbani del Darfur. La crisi è in corso ormai da oltre quattro anni, ma nel 2008 si è assistito allo spostamento di 300 mila individui dai villaggi ai campi di sfollamento, trend assolutamente negativo, che non lascia adito a speranze sulla rapida risoluzione della crisi e soprattutto sulle sue conseguenze.
Dal Darfur sono quindi partite quasi 300 mila persone verso il Ciad, Paese limitrofo. In un contesto regionale di crisi allargata, quasi 50 mila persone sono arrivate in Darfur per cercare rifugio e asilo politico dal Ciad e dalla Repubblica Centrafricana. La regione è molto grande e già afflitta da enormi problemi umanitari e di sviluppo. Sono note la desertificazione, la difficoltà di condivisione di risorse sempre più scarse, i conflitti di vario livello, nonché i tre livelli della crisi in Darfur: il livello regionale, che coinvolge il Ciad, la Repubblica Centrafricana, il Sudan (il più grande Paese d'Africa); il livello nazionale del Sudan, con le note complessità; il livello locale, ovvero il conflitto nel suo manifestarsi quotidiano all'interno delle comunità. Si oscilla quindi dal grande conflitto armato, in cui le milizie si scontrano, alla lite violenta per una mucca, la gestione di un pozzo, l'accesso a un piccolo orticello. Non dobbiamo dimenticare, dunque, i livelli in cui si è costretti a operare.
Da un punto di vista umanitario, per avere il controllo delle conseguenze della crisi operano in quell'area quasi 17 mila persone, tra sudanesi e internazionali, di cui poco meno di 2 mila sono cooperanti internazionali legati alle ONG e al sistema delle Nazioni Unite.
Per quasi tutti i settori si rilevano indicatori molto negativi, tranne che per l'agricoltura, che sta dimostrando miglioramenti. Abbiamo una situazione sanitaria assolutamente negativa, laddove le questioni legate alla mancanza d'acqua sono rese ancora più difficili dalla scarsità di personale in grado di uscire dai centri urbani a causa della violenza cui è esposto, e il settore dell'educazione non permette l'accesso all'educazione primaria a più del 60-65 per cento della popolazione in età scolare. Abbiamo gravi problemi di protezione, poiché continuano a verificarsi scontri tipici di una grande guerra, con bombardamenti aerei quasi quotidiani e conflitti tra milizie ormai frammentate, che anche sul campo è difficile ricondurre a un filone, giacché ormai i gruppi sono quasi una trentina e non sono più neppure rappresentativi delle comunità che dicono di rappresentare.
I gruppi che hanno condotto violenze contro una parte della popolazione civile non sono più direttamente affiliabili ai mandatari che tutti conosciamo. Alcuni di loro non individuano un ritorno della loro azione e si uniscono alla ribellione. Ne deriva una confusione totale. In questa fase, le forze ibride che conosciamo - penso all'UNAMID, che associa Nazioni Unite e Unione Africana - non sono in grado, per difficoltà logistiche e legate ai contributi della comunità internazionale, di garantire la sicurezza necessaria agli operatori umanitari per ottenere risultati.
In un contesto del genere, un'organizzazione come Intersos - relativamente piccola nel contesto internazionale, come quasi tutte le organizzazioni italiane - riesce a operare con una quindicina di operatori italiani e quasi 150 operatori


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sudanesi che, affrontando difficoltà legate soprattutto alla sicurezza, quindi al fatto di essere oggetto di violenze e di ostacoli di ogni genere, cercano quotidianamente di spostarsi. La mobilità caratterizza infatti l'attività di un'organizzazione non governativa, diversamente da altri organi relativi al coordinamento, e diventa l'elemento attraverso cui raggiungere la popolazione, in particolare le fasce vulnerabili. Anche in una situazione che coinvolge 5 milioni di persone, infatti, è necessario individuare coloro che meritano la priorità dell'aiuto, i cosiddetti «estremamente vulnerabili» in maggiori difficoltà.
La crisi umanitaria è la conseguenza di una crisi di altra natura. Noi operiamo per contribuire a risolvere gli effetti di un conflitto, le conseguenze sulla popolazione, ma è necessario considerare il conflitto per quello che è, come contesto articolato, disomogeneo, che deve essere affrontato a tutti i livelli, non solo quello umanitario; il livello umanitario, ostacolato da queste difficoltà, è la risposta sul campo. Devono essere compiute altre azioni, che in questo momento sono deboli e poco convincenti.
L'Italia è rappresentata in Darfur da almeno tre organizzazioni non governative, il cui autorevole lavoro è riconosciuto soprattutto dalle Nazioni Unite, che rappresentano la controparte istituzionale. Da anni, però, non ricevono più un contributo diretto del Governo italiano, affrontando con estrema difficoltà i costi - davvero elevati per organizzazioni delle nostre dimensioni - di operazioni necessarie in questa fase, che richiedono un supporto diretto della cooperazione italiana, quindi dell'organo preposto, per garantire la continuità e la prevedibilità dell'aiuto che si è in grado di fornire, unico elemento su cui puntare e in base al quale garantire un risultato.

ANTONELLA NAPOLI, Presidente di Italians for Darfur. Ho consegnato il mio intervento per dare spazio alle ONG che hanno comunicazioni importanti da fare, però tengo a sottolineare che tempo fa abbiamo proposto un documento per chiedere che l'Italia potesse contribuire alla missione UNAMID attraverso elicotteri necessari a garantire sicurezza alla stessa missione. L'onorevole Vernetti ha presentato un ordine del giorno, che, grazie al sostegno dell'onorevole Nirenstein, è stato assunto dal Governo. Ci auguriamo che, al momento di rifinanziare tutte le missioni a gennaio, si tenga conto di questo ordine del giorno e che non sia lettera morta, come purtroppo accade spesso.

STEFANO CERA, Rappresentante di International Crisis Group. Buongiorno, oggi rappresento International Crisis Group in quanto portatore di un loro contributo, anche se faccio parte con Antonella Napoli di Italians for Darfur e mi occupo in particolare di formazione di carattere universitario e soprattutto della parte relativa al conflitto. Oggi, vorrei quindi delineare un breve spaccato della situazione estremamente grave del conflitto.
Mi ricollego a un punto espresso in precedenza, ossia alla «crisi» dell'UNAMID. Si tratta di una crisi purtroppo conclamata, laddove una risoluzione ONU di un anno e mezzo fa, poi riapprovata alla fine di luglio di quest'anno, definiva un organico di 26-27 mila uomini tra militari e poliziotti, mentre purtroppo ancora non ce ne sono nemmeno 10 mila e si spera di arrivare fino alla fine dell'anno a 11 mila.
I problemi sono legati non soltanto alla quantità, ma anche alla qualità. Manca di tutto, anche i famosi caschi blu, tanto che molti soldati sono costretti a mettere buste di plastica blu sugli elmetti del loro esercito. Questo aneddoto delinea in modo eloquente la situazione sul campo.
Questo significa che la forza di peace-keeping, missione ibrida tra Nazioni Unite e Unione Africana, esperimento molto interessante di integrazione di forze, è una potenzialità, ma al momento rappresenta una debolezza, anche perché la missione è spesso esposta agli attacchi dei ribelli e delle forze governative.
Per quanto riguarda il Governo, mi ricollego a uno degli ultimi aspetti più importanti. A metà novembre si data la dichiarazione unilaterale da parte del presidente


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Bashir del cessate il fuoco, di cui si parla dal 2004. I cessate il fuoco erano stati infatti già approvati e dichiarati sotto l'egida del Ciad, poi dell'Unione Africana; tra il 2004 e il 2006 c'è stato un processo di pace, i sette round di colloqui tra Addis Abeba e Abuja, che hanno portato al Darfur Peace Agreement, ma purtroppo nessuno di questi cessate il fuoco è stato poi successivamente mantenuto. Questo è certamente l'aspetto più grave, anche perché al cessate il fuoco era connesso il disarmo delle milizie dei Janjaweed, cosa mai avvenuta. Anche questo cessate il fuoco purtroppo non viene mantenuto e a fine novembre il Segretario generale delle Nazioni Unite condanna l'ennesimo bombardamento aereo di villaggi da parte dell'aviazione regolare del Sudan.
Altri impegni sono stati assunti nello stesso contesto. A partire dal mese di luglio, quando il procuratore Ocampo ha presentato l'accusa al presidente Bashir, è stato formato un forum, la Sudan People Peace Initiative, di cui fanno parte rappresentanti del Governo, rappresentanti di Governi esteri, tra cui recentemente anche il presidente dell'Eritrea, rappresentanti di movimenti di altre zone del Sudan. Il Sudan è infatti uno Stato federale, che non deve fronteggiare soltanto il conflitto del Darfur, attualmente uno dei più gravi, ma anche il conflitto in una regione del Kordofan al centro del Sudan, per cui si parla già di nuovo Darfur. Il conflitto del Darfur diviene quindi un laboratorio, un esempio, un modello, che purtroppo potrebbe essere reiterato in altre zone del Sudan.
Della Sudan People Peace Initiative non fa parte alcun esponente dell'opposizione, giacché tale partecipazione è stata «boicottata», nella convinzione che il Governo non intenda effettivamente favorire un processo di pace.
L'unico firmatario tra le forze di opposizione del Darfur Peace Agreement (maggio 2006) è una fazione del Sudan Liberation Army di Minni Minnawi, che in funzione della partecipazione a questo accordo è diventato la quarta carica dello Stato. Per il resto, tutti i movimenti e le forze di opposizione non l'hanno firmato o l'hanno esplicitamente rifiutato. Purtroppo, la situazione al momento è estremamente frammentaria nell'ambito delle forze di opposizione, che sono almeno trenta. Un osservatore delle Nazioni Unite ha infatti dichiarato che oggi per formare un gruppo di opposizione in Darfur bastano trenta uomini e una jeep, un altro ha aggiunto che bastano soltanto trenta uomini. Gli stessi rifugiati temono un rischio Somalia, quindi l'ulteriore aggravarsi di una situazione già frammentaria, a vantaggio di un dialogo che non solo non c'è, ma che si cerca di costruire non a livello di tutti i movimenti di opposizione, ma con ciascun movimento separatamente, per attrarli verso le posizioni ufficiali.
Questo è il quadro complessivo della situazione, tra le numerose note dolenti l'osservazione internazionale rileva però qualche segnale positivo. Sia in ambito ONU che in ambito di Unione Africana, infatti, si sta portando avanti un dialogo parallelo tra Governo e movimenti di opposizione e all'interno dei movimenti di opposizione, per raggiungere finalmente una piattaforma negoziale comune..

LUISA MASCIA, Coordinatrice europea di Coalition for the International Criminal Court. Vorrei innanzitutto ringraziare il Comitato sui diritti umani della Commissione affari esteri per aver organizzato questa audizione e averci dato la possibilità di contribuire.
La Coalition for the International Criminal Court, Coalizione per la Corte Penale Internazionale, è un network di oltre 2.500 organizzazioni della società civile, unite al fine comune di sostenere una Corte penale internazionale giusta, efficiente e indipendente. La coalizione ha due sedi principali, a New York e all'Aja e ha sedi regionali in ogni continente del mondo. Lavoro a Bruxelles, come coordinatrice europea, e il nostro impegno si attua a stretto contatto con l'Unione Europea, le sue istituzioni e i Governi degli Stati membri.
I miei colleghi hanno ampiamente trattato la questione umanitaria e la questione


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politica, per cui mi concentrerò sull'aspetto giustizia. Desidero sollevare tre punti, il primo dei quali riguarda le motivazioni per cui la Corte penale internazionale è intervenuta in Darfur. Non ribadirò le cifre spaventose che i miei colleghi di Intersos e di International Crisis Group hanno già indicato. Ci chiediamo come si sia arrivati a tanto. Il mio collega di Intersos ha sottolineato come non siamo dinanzi alle conseguenze di una catastrofe naturale o di lotte tribali ancestrali, ma come l'attuale situazione sia il risultato di una persecuzione deliberata e ben calcolata, le cui menti, secondo il procuratore della Corte penale internazionale che svolge le indagini, sarebbero rappresentate da un numero ristrettissimo di individui, tra cui lo stesso presidente della Repubblica sudanese e alcuni esponenti del suo Governo.
Una Commissione di inchiesta istituita dall'ONU nel 2004 guidata da Antonio Cassese dopo un anno di indagini ha raccomandato all'ONU di attivare la Corte penale internazionale per affrontare la crisi dei crimini in Darfur. Il Sudan non ha ratificato lo statuto di Roma, per cui si è reso necessario un intervento del Consiglio di sicurezza dell'ONU, che con risoluzione n. 1593 del 2005 ha riferito la situazione del Darfur al procuratore, che ha aperto le indagini nel 2006 e un anno e mezzo fa ha concluso la prima inchiesta emettendo i primi due mandati d'arresto. Questi sono stati emessi nei confronti di Ahmad Harun, ministro degli interni all'epoca del conflitto e oggi ancora ministro per gli affari umanitari, e di Ali Kushayb, leader della milizia governativa Janjaweed.
Molti di noi in Italia o in Europa non hanno mai sentito parlare di Ahmad Harun o di Ali Kushayb, che però per gli abitanti del Darfur rappresentano un terribile incubo. All'inizio del conflitto Harun, in qualità di ministro dell'interno, era responsabile della sicurezza in Darfur, Kushayb era invece a capo di migliaia di combattenti Janjaweed. A loro carico sono 51 capi d'accusa per crimini di guerra e crimini contro l'umanità, ovvero non crimini comuni, ma persecuzioni, omicidio sistematico su larghissima scala, trasferimento forzato, tortura, saccheggio, distruzione di villaggi, stupro e altre forme di violenza sessuale.
Il secondo caso della Corte riguarda lo stesso Presidente. Il 14 luglio scorso, il procuratore ha annunciato di aver chiesto ai giudici di emettere un mandato d'arresto nei confronti del Presidente della Repubblica sudanese. Il procuratore ritiene il Presidente della Repubblica, come comandante supremo delle Forze armate all'epoca del conflitto, responsabile di aver ideato e coordinato tutte le operazioni militari nei confronti di civili e dei gruppi etnici suddetti. A tal fine, Bashir avrebbe mobilitato l'intero apparato statale: i servizi di sicurezza nazionale, l'intelligence, i Ministeri dell'interno, della difesa e per gli affari umanitari al fine di impedire la distribuzione degli aiuti umanitari dislocati interni, il Ministero dell'informazione per occultare i crimini e le responsabilità relative attraverso una campagna di disinformazione, il Ministero delle finanze che finanziava le milizie filogovernative, i tribunali per dare una parvenza di legalità attraverso processi, che si sono rivelati processi beffa.
Due settimane fa, il procuratore ha richiesto ai giudici l'emissione di tre mandati d'arresto, questa volta nei confronti dei ribelli per gli attacchi avvenuti ad Haskanita il 26 settembre 2007.
Le risposte del Sudan all'intervento della Corte si esauriscono sostanzialmente nell'intenzione di non cooperare con la Corte penale internazionale e di non arrestare o consegnare alla Corte alcun cittadino sudanese. Ne è emersa una vera sfida politica, Harun e Kushayb sono stati protetti e persino promossi nell'apparato statale. Per quanto riguarda Bashir, dal 14 luglio il Sudan ha iniziato formalmente una campagna diplomatica a livello internazionale, per ottenere dal Consiglio di sicurezza la sospensione delle indagini e di un eventuale processo a carico del Presidente.
Il Presidente del Sudan e il Governo hanno più volte tentato di convincere la comunità internazionale che il Sudan fosse in grado di processare i responsabili


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dei crimini commessi in Darfur, ma i fatti dimostrano il contrario. Dal 2005, sono stati creati tre-quattro tribunali speciali per il Darfur, vari comitati giudiziari ad hoc, ma finora né i tribunali speciali, né i comitati hanno concluso alcun processo relativo ai crimini commessi in Darfur.
Il procuratore della Corte penale internazionale, Luis Moreno Ocampo, in occasione del suo secondo rapporto al Consiglio di sicurezza ha riferito che i tribunali sudanesi si stavano occupando di crimini di diritto comune, quali il furto di bestiame, rapine a mano armata, non dei gravi crimini del Darfur.
La comunità internazionale non ha ancora risposto adeguatamente o imposto un costo significativo al Governo sudanese. Nel suo ultimo rapporto, il 3 dicembre a New York il procuratore Luis Moreno Ocampo ha reiterato la sua richiesta di cooperazione agli Stati. Si tratta innanzitutto di assicurare alla Corte il dovuto sostegno politico e diplomatico, di non assicurare alcun sostegno politico o finanziario agli individui oggetto di un mandato di arresto della Corte, di «tagliare ogni contatto essenziale con gli accusati».
La situazione del Darfur ha semplicemente confermato come fare giustizia per crimini di massa ponga sempre gli Stati dinanzi a scelte difficili e come difendere la giustizia significhi talvolta difendere scelte impopolari, laddove si può emettere un mandato di arresto nei confronti di un Presidente in carica. L'Unione Europea aveva cercato di dare alcune risposte e di riaffermare il suo sostegno alla giustizia attraverso varie dichiarazioni di quest'anno da parte della presidenza slovena, nello scorso giugno dei ministri degli affari esteri del 27 Stati membri e a luglio dei capi di Stato o di governo. Da quando il procuratore ha annunciato l'eventualità di un mandato d'arresto nei confronti di Bashir, però, non ci sono state più dichiarazioni.
Ci rivolgiamo dunque a voi, augurandoci che il Parlamento italiano possa esercitare le dovute sollecitazioni sul Governo italiano e chiedere alle autorità competenti di non soccombere alle pressioni diplomatiche sudanesi e degli alleati del Sudan, di sostenere la giustizia per le vittime del Darfur e di restare vigili rispetto alle esigenze delle vittime, che non devono sopportare i costi della diplomazia.

DAVID DONAT CATTIN, Rappresentante di Parliamentarians for Global Action. Mi scuso per la frammentarietà, che sarà dovuta a ragioni di tempo, e ringrazio il Comitato per questo invito nel sessantesimo anniversario non solo della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, ma anche della Convenzione contro il genocidio, di cui finalmente vediamo un tentativo di attuazione attraverso la giustizia internazionale.
Rappresento un network di parlamentari e lavoro per il segretariato, quindi cercherò di delineare le azioni promosse da alcuni parlamentari, in cui il ruolo di questo Comitato può fare la differenza.
Il Sudan non è uno Stato fallito. Mentre la Corte è intervenuta in Congo, nella Repubblica Centrafricana, in Uganda, in situazioni in cui lo Stato non ha il controllo del territorio, secondo il Department of Peacekeeping Operations delle Nazioni Unite in 48 ore il Governo del Sudan potrebbe smilitarizzare i Janjaweed. Si tratta quindi di uno Stato che, come sottolineato dal procuratore Moreno Ocampo al Consiglio di sicurezza la scorsa settimana, ha la capacità, se ne avesse la volontà, di bloccare le stragi. La responsabilità viene quindi ricondotta al superiore, al capo dello Stato. Tra uno o due mesi, la camera preliminare del tribunale dell'Aja confermerà questo mandato di cattura. Si richiederà pertanto l'azione incisiva di tutti gli Stati facenti parte dell'ONU, anche di quelli che non hanno ratificato lo Statuto di Roma, anche degli Stati Uniti d'America che hanno recentemente modificato la propria posizione sulla Corte penale internazionale a favore della stessa, al fine di raggiungere qualche risultato; il risultato - lo dico subito da persona che studia il diritto internazionale - non può essere l'uso della forza armata per arrestare Bashir.
Viviamo infatti in un contesto in cui dobbiamo piegarci alla sovranità degli


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Stati rispetto all'attuazione dell'uso della forza armata, in assenza di una determinata autorizzazione del Consiglio di sicurezza ai sensi del capo settimo. Si possono effettuare però altri interventi, a partire dall'adozione di quelle sanzioni individuali, che il Prosecutor ha invocato la settimana scorsa e che la presidenza slovena dell'Unione Europea aveva faticosamente cercato di negoziare e che purtroppo negli ultimi mesi hanno subìto uno stop dalla presidenza francese, che ha cercato un do ut des con il regime di Bashir, chiedendo la consegna di Kushayb e Harun in cambio di qualcosa che ignoriamo, perché i Governi non possono bloccare l'esercizio dell'azione penale rispetto a crimini contro l'umanità e di genocidio da parte di una Corte penale internazionale indipendente come quella de L'Aja.
Tali sanzioni individuali possono essere inflitte a persone che garantiscono una rete di sostegno, di finanziamento, di collaborazione ai soggetti sottoposti all'indagine. Si possono quindi bloccare i loro conti correnti, ostacolarne le capacità di viaggio e fare in modo che sia il Sanctions Committee del Consiglio di sicurezza, che purtroppo non ha fatto quasi nulla nonostante la presidenza italiana dal 2007, sia l'Unione Europea con gli Stati Uniti e il Giappone - il Giappone ha assunto una direttiva in questo senso - possano identificare i soggetti rispetto ai quali si crea un effetto di marginalizzazione del leader, lasciato solo auspicando l'emergere di un processo che dall'interno del sistema produca negli anni un cambio di regime. Il realismo ci deve guidare nel riconoscere che occorreranno anni per compiere questo processo, laddove però negoziare la sospensione delle indagini, come chiesto dal Sudan, è molto diverso dall'imporre sanzioni individuali.
Il quadro intergovernativo in cui è importante l'azione è quello del Consiglio di sicurezza; abbiamo alcuni punti deboli della risoluzione n. 1593 che devono essere corretti. Con l'amministrazione americana che cambia e le riforme realizzate a livello del Congresso degli Stati Uniti possono essere sanati i due vulnus inferti dalla risoluzione n. 1593, ovvero il fatto che il Consiglio di sicurezza dell'ONU non paghi queste indagini e tutto il peso gravi sugli Stati parte dello Statuto di Roma (l'Unione Europea e il Giappone) e l'esistenza di una clausola di esenzione del personale di peace-keeping eventualmente dato da Stati non firmatari dello Statuto di Roma, vecchia disposizione che emanava dalla campagna dell'amministrazione Bush per ottenere un'esenzione dei militari statunitensi, già abbandonata da questa amministrazione anche grazie a determinati cambiamenti legislativi del 2007 e 2008.
È infine necessario un quadro legislativo nazionale, giacché siamo privi di una legislazione necessaria a cooperare con la Corte, qualora individui accusati di questi crimini si trovassero nel nostro territorio, sia nel campo della complementarità, giacché non possiamo esercitare l'azione penale a livello nazionale in quanto privi di un ordinamento che contempli questi crimini, sia rispetto all'esecuzione di un mandato di cattura. Quattro iniziative legislative sono state depositate e il Ministro Frattini alcuni giorni fa ha annunciato a breve un'iniziativa del Governo. Speriamo che questo vulnus del nostro ordinamento possa essere colmato e che l'azione di questo Comitato e della Commissione esteri possa contribuire a orientare l'azione del Governo in questo senso.

MATTEO MECACCI. Ritengo che questa audizione sia di grande interesse non solo per il Comitato sui diritti umani ma anche per i membri della Commissione esteri. Sarebbe quindi opportuno prevedere un seguito dell'audizione, per consentire un dialogo con i rappresentanti delle organizzazioni, che essendo molto preparati possono dare un rilevante contributo.

SULIMAN HAMED, Rappresentante dei rifugiati del Darfur in Italia. Buongiorno, mi scuso per il ritardo, ma questa mattina sono partito alle 11 da Catania, dove mi sono trattenuto per dieci giorni perché un ragazzo scappato dal Darfur è morto vicino al mare.


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La guerra in Darfur è iniziata il 13 febbraio del 2003. Sono trascorsi circa sei anni e il popolo del Darfur ha avuto tanti tipi di guerra. La prima è stata scatenata dal bombardamento effettuato per mezzo di aerei governativi del Sudan, che ha bruciato interi villaggi. La seconda guerra è quella uscita dal Sudan verso la Libia, dove infuria nel deserto, dove la mancanza d'acqua ha ucciso tanti ragazzi tra Libia e Sudan. La terza riguarda il mare, perché il 30 per cento dei ragazzi del Darfur è morto nel tentativo di raggiungere via mare l'Italia e altri Paesi d'Europa.
Mi sono recato in Ciad nell'aprile del 2008. Fino alla fine di luglio sono stato nei campi profughi del Darfur nel deserto. Le tende sono piccole e anziani e bambini muoiono perché nelle tende è ancora più caldo, ma non c'è un altro posto in cui trasferirli. Mancano le medicine, ci sono problemi di approvvigionamento d'acqua e di legna per il fuoco. Le ragazze escono per procacciarsi la legna, perché le organizzazioni internazionali danno a ogni famiglia nove chilogrammi di legna a settimana, che sono nulla per una famiglia africana composta persino da quindici figli. Si fa la fila per l'acqua dalle 8 alle 12, poi l'acqua finisce e anche per andare a cercare l'acqua fuori dal campo ci sono tanti problemi, come in Darfur, perché le milizie Janjaweed sono anche lì.
Non so cosa succede in Sudan, perché non ci sono andato personalmente, ma i membri della mia famiglia ci vivono e telefonicamente mi comunicano che la loro vita non è facile.
Come popolo del Darfur, chiediamo che le organizzazioni internazionali per i rifugiati del Darfur si mobilitino e che il Governo italiano, che ci ha tanto aiutato, cerchi di realizzare per le nostre famiglie ancora in Africa campi profughi fuori e dentro il Sudan. Vorremmo inoltre che trovasse il modo di far terminare questa guerra, che non vogliamo. La guerra nel sud del Sudan è durata venti anni, poi è terminata e ora la situazione è migliorata, ma ora ho paura che il Darfur diventi come la Somalia.

PRESIDENTE. C'è una breve domanda su un tema, su cui vorrei mi faceste luce. Vorrei sapere come collochiate l'attività di Emergency in Sudan nel quadro descritto. Questo genera infatti una curiosa distonia di immagine e di percezione di tutto il problema.

ANTONELLA NAPOLI, Presidente di Italians for Darfur. Attualmente, Emergency ha un ospedale cardiochirurgico a Khartoum e sta realizzando un ospedale pediatrico nel sud, a Nyala. Credo che la posizione di Gino Strada ed Emergency sia, come per molte ONG, molto particolare. Si tratta di una posizione di equilibrio tra Governo e crisi umanitaria. Loro sono attivi per il Darfur, perché stanno effettivamente realizzando una struttura di cui c'è grande necessità con qualche difficoltà nella gestione dei rapporti governativi. Ritengo comunque che su questo punto possa fare maggior chiarezza lo stesso Gino Strada. L'impegno in Sudan è forte a livello di intervento umanitario sanitario.

NINO SERGI, Segretario generale di Intersos. Un minuto per la sua domanda, cui ovviamente Emergency darà la risposta, mentre vorrei mettere l'accento sull'atteggiamento delle organizzazioni umanitarie. Noi cerchiamo di sostenere tutto ciò che favorisce il dialogo tra le parti. Lo facciamo nell'azione: abbiamo fatto incontrare comunità di riferimento di Janjaweed con comunità sedentarie. Si sono riconosciuti, hanno ricordato i momenti in cui erano assieme. Cerchiamo di sviluppare tutto ciò che favorisce il dialogo. Ritengo quindi che anche Emergency, essendo aperta a tutti, favorisca il dialogo.
Mi preme sottolineare come il conflitto sia stato prodotto inizialmente dalla desertificazione, dalla mancanza di acqua e di terreni agricoli. Gestita male dal Governo centrale, essa ha provocato la ribellione, che è stata sedata, aggravando il conflitto.
L'Italia non potrà fare molto, ma a livello europeo forse sì, insistendo sul punto. Per affrontare questi problemi si deve considerare non solo l'aspetto giudiziario


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e politico, ma anche l'esigenza di dare risposte alla gente. Se infatti c'è un problema di conflitto per le terre, per l'acqua, per l'agricoltura, occorre intervenire per dare risposte a questi problemi. Altrimenti, potremmo anche risolvere politicamente la cosa oggi, ma il problema si riproporrebbe domani. La cooperazione internazionale, quella europea, l'Italia che, nonostante la limitatezza dei fondi, può insistere a livello europeo, devono quindi essere presenti e dare risposte a questi problemi.

PRESIDENTE. Ringrazio i rappresentanti delle ONG intervenuti per l'enorme contributo apportato dalla loro testimonianza, che consideriamo soltanto un anticipo del prossimo incontro che concorderemo per gennaio.
Rinvio il seguito dell'audizione ad altra seduta.

La seduta termina alle 16,10.

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