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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione III
9.
Martedì 3 febbraio 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Colombo Furio, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI NEL MONDO

Seguito dell'audizione di rappresentanti di Organizzazioni non governative operanti in Darfur:

Colombo Furio, Presidente ... 3 11 16 18
Cera Stefano, Rappresentante di International Crisis Group ... 6 14
D'Amico Claudio (LNP) ... 15
Donat Cattin David, Rappresentante di Parlamentarians for Global Action ... 10 12 15
Hamed Suliman, Rappresentante dei rifugiati del Darfur in Italia ... 7
Mascia Luisa, Coordinatrice europea della Coalition for the International Criminal Court ... 8 13
Napoli Antonella, Presidente di Italians for Darfur ... 3 17
Nirenstein Fiamma (PdL) ... 11 12
Pianetta Enrico (PdL) ... 14
Sergi Nino, Segretario generale di Intersos ... 5
Vernetti Gianni (PD) ... 12

ERRATA CORRIGE ... 18
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-Repubblicani: Misto-LD-R.

COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI
Comitato permanente sui diritti umani

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 3 febbraio 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DEL COMITATO FURIO COLOMBO

La seduta comincia alle 12,10.

(Il Comitato approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Seguito dell'audizione di rappresentanti di Organizzazioni non governative operanti in Darfur.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle violazioni dei diritti umani nel mondo, il seguito dell'audizione di rappresentanti delle Organizzazioni non governative operanti in Darfur.
Vi ricordo che la precedente seduta, del 10 dicembre scorso, ha consentito al nostro Comitato di ricevere testimonianze dirette circa la gravità del conflitto in atto nel Darfur e circa la difficoltà della comunità internazionale di operare in modo efficace per la cessazione delle violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione civile.
Trai i diversi aspetti critici è stata sottolineata la debolezza dell'azione esercitata dalla missione di peacekeeping dell'UNAMID (United Nations/African Union Mission in Darfur), in cui i caschi blu delle Nazioni Unite operano insieme all'Unione africana. Sono state altresì segnalate preoccupanti difficoltà per quanto riguarda gli incentivi di cooperazione internazionale.
Sono presenti oggi: Luisa Mascia, coordinatrice europea della Coalition for the International Criminal Court; David Donat Cattin, direttore del programma internazionale Law and Human Rights, nell'ambito di Parlamentarians for Global Action; Suliman Hamed, rappresentante dei rifugiati del Darfur in Italia; Nino Sergi, segretario generale di Intersos; Paola Amicucci, responsabile del settore cooperazione di Intersos; il professor Stefano Cera, rappresentante dell'International Crisis Group; la dottoressa Antonella Napoli, presidente di Italians for Darfur, a cui chiederei di aprire i nostri lavori, in modo da aiutarci a decidere la sequenza degli interventi.

ANTONELLA NAPOLI, Presidente di Italians for Darfur. Buongiorno a tutti, mi preme innanzitutto ringraziare gli onorevoli qui presenti per l'azione svolta in questi anni per il Darfur.
Proprio grazie all'intervento esercitato attraverso un ordine del giorno, di cui era primo firmatario l'onorevole Vernetti, il Governo italiano ha deciso di inviare due velivoli per sostenere l'azione della missione in Darfur (UNAMID), come era stato richiesto più volte dal Segretario generale Ban Ki-moon. Si è trattato di un segnale importante, da parte del nostro Paese, che per la prima volta è così concretamente intervenuto nella missione.
In qualità di rappresentante dell'ONG capofila di quelle qui presenti, vi aggiornerò oggi sulla situazione in Darfur. Italians for Darfur fa parte della rete Globe


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for Darfur, guidata dalla Save Darfur Coalition, che ha una serie di ONG presenti sul territorio. Vi presentiamo oggi una scheda - che credo sia stata distribuita - con i dati aggiornati in tempo reale.
Dal 13 gennaio è in corso una rappresaglia, da parte del governo, nei confronti dei ribelli del JEM (Justice and Equality Movement); questa, almeno, è la motivazione che è stata data ai bombardamenti sulla città di Muhajiriya, nel sud del Darfur.
Da quella data i bombardamenti si sono ripetuti ciclicamente e sono state coinvolte almeno 30 mila persone che, ad oggi, sono a rischio di una rappresaglia ancora più violenta, come è stato denunciato dagli osservatori di OCHA, rappresentanti delle Nazioni Unite in Darfur.
Una portavoce dell'UNAMID, Josephine Guerriero, ha addirittura dichiarato che il Governo sudanese ha invitato i militari dell'UNAMID a lasciare quell'area perché lì, a breve, sarebbe iniziata una nuova e massiccia azione.
Tutta la rete di Globe for Darfur sta cercando di sensibilizzare sia l'amministrazione americana, che ha assunto un grandissimo impegno nei confronti della crisi nel Darfur, sia l'Unione europea.
Nella giornata di ieri Ban Ki-moon e Javier Solana sono intervenuti facendo presente la loro grande preoccupazione per questa nuova emergenza.
Il rischio è che si incorra in una nuova strage di civili. Alcuni dati, riferiti a ciò che è avvenuto nell'ultimo anno - sia al sud, sia al nord del Darfur - parlano di almeno 160 mila persone coinvolte in aggressioni, violenze e rappresaglie e di 57 mila rimaste senza il sostentamento delle ONG che lavoravano nell'area di El Geneina, essendo state distrutte le installazioni dove esse operavano.
Proprio perché sono spesso impossibilitate ad operare, da parte di molte ONG è in corso una fuga dal Darfur: dei 17 mila operatori che erano presenti, al momento ne sono rimasti circa 13 mila, a fronte di un aumento di presenze nei campi, che sono ormai stracolmi. Si stanno creando tante installazioni intorno all'area dove opera l'UNAMID e questi disperati premono per poter essere assistiti, cosa che è sempre più difficile.
Abbiamo messo a vostra disposizione il materiale aggiornato. Se volete, potete fare delle domande e io posso approfondire le tematiche relative.
Sono in corso nuove azioni, sia nel sud del Darfur, sia al nord. Anche El Fasher è stata bombardata e, per di più, è stata colpita una base UNAMID. Benché non ci siano state vittime, né grossi danni, questa rappresaglia rischia di colpire tutti gli abitanti di Muhajiriya, una delle più grandi città del sud del Darfur.
L'allarme è stato ovviamente raccolto, in Italia, dalle ONG che noi rappresentiamo, le quali hanno denunciato queste nuove rappresaglie.
L'allarme è stato confermato dallo stesso Governo sudanese, il quale ha invitato le truppe presenti nell'area per difendere i civili - un contingente dell'UNAMID - ad andare via, perché sta per scattare una rappresaglia ad amplissimo raggio. Ovviamente la motivazione che offrono per giustificare l'attacco è la volontà di colpire i ribelli della JEM (il movimento Giustizia e Uguaglianza, che fa capo a Kahlil Ibrahim) che ha praticamente preso possesso della città, ormai sotto il suo controllo.
Di queste 30 mila persone, 9 mila sono già allo sbando: hanno lasciato le proprie abitazioni e sono in cerca di rifugio.
Ieri, ripeto, c'è stata una dichiarazione comune del Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, e di Javier Solana, nella quale esprimono grande preoccupazione e invitano il Governo sudanese a garantire il corridoio umanitario e tutto ciò che è fondamentale per assicurare la sicurezza dei civili.
Ovviamente, da parte delle ONG c'è una pressione nei confronti delle amministrazioni della comunità internazionale per far sì che si prevenga un eventuale disastro umanitario. Noi siamo qui anche per chiedere che l'Italia possa intervenire in qualche modo.


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NINO SERGI, Segretario generale di Intersos. Già l'altra volta avevamo accennato alla situazione umanitaria nel Darfur e all'azione delle organizzazioni non governative, che non sono di per sé poche, sebbene, essendo dislocate in un territorio amplissimo, diventano poche rispetto alla necessità; parliamo di 85 organizzazioni umanitarie, che impegnano circa 17 mila cittadini sudanesi e circa 2 mila persone che provengono dall'estero. Tra esse vi sono quattro o cinque organizzazioni italiane.
Vorrei sottolineare un aspetto un po' diverso da quello sottolineato finora. Noi vediamo che la situazione sta peggiorando: in alcune aree dove, ancora fino a quattro o cinque mesi fa, potevamo lavorare, ora non possiamo più farlo (noi siamo nel Darfur occidentale, quindi ai confini con il Ciad).
Man mano, benché non abbiamo dovuto chiudere le attività, che continuano, la nostra presenza non è più stata possibile nelle zone più meridionali rispetto a El Geneina, la capitale del Darfur occidentale. Ciò non toglie che le attività siano continuate.
L'altra volta ho accennato - e vorrei riprendere oggi questo tema - che, se ci fermiamo solo all'aspetto del Tribunale internazionale e al fatto che il Presidente è stato accusato, potrebbe essere arrestato e potrebbero esservi delle reazioni a questo - tutte cose importanti - rischiamo di girare intorno a questa problematica, senza uscirne mai.
Abbiamo centinaia di migliaia di persone sfollate. Pochi si sono domandati cosa c'è oltre ai bombardamenti che ci sono stati, ossia quali sono le cause di tutto questo, perché tutto questo sta accadendo e come si potrebbe intervenire per riuscire ad evitarlo, magari con attività di lunga durata, dato che certo non esistono ricette semplici.
Accennavo la volta scorsa che le primissime cause del conflitto sono quelle collegate alla scarsezza di terra coltivabile e alla scarsezza di acqua, in ragione delle quali le popolazioni che risiedevano in zone in cui non potevano più vivere si sono spostate e hanno occupato zone in cui vivevano altri, creando conflitto.
L'incapacità di gestione di questo conflitto da parte del governo centrale ha creato una reazione e, poi, la contro-reazione brutale da parte del governo stesso. A questa incapacità si è aggiunta l'assenza della comunità internazionale, nel momento in cui c'era bisogno di mediare e intervenire, anche con azioni che potessero favorire la presenza di acqua dove non c'era e uno sviluppo agricolo laddove la problematicità del terreno aveva già creato effetti negativi sulle popolazioni e i conseguenti spostamenti. Il problema rimane anche oggi.
Voglio sottolineare questo aspetto: tutta l'azione di appoggio al Tribunale internazionale e tutta l'azione politica, a livello internazionale - non parlo solo dell'Italia - sono importanti, ma sta diminuendo tantissimo l'azione di intervento sulle cause.
Noi lo vediamo perché abbiamo rapporti con organizzazioni internazionali che, se all'inizio dell'anno prevedono di avere finanziamenti dai vari Paesi - penso all'Alto commissariato per i rifugiati - e preventivano una certa spesa nel Darfur, a metà anno si vedono poi tagliare i budget e, quindi, sono costretti a ridurre le loro attività, proprio perché ci sono ormai questo disinteresse crescente e questa fatica.
Sul Darfur, per esempio, l'Italia è assente, tranne per qualche piccolo fondo versato a organizzazioni internazionali come l'OMS o altro.
Vorrei risottolineare - l'abbiamo detto anche in una nota redatta recentemente, come Intersos - che il «decreto missioni» prevede qualcosa anche per il Darfur: dal punto di vista dell'appoggio militare, ci sono gli elicotteri di cui l'onorevole Vernetti si era fatto promotore, che sono utilissimi; c'è il C130, ma per tre mesi e poi basta, come se i bisogni di queste missioni delle Nazioni Unite ci fossero solo per tre mesi e, poi, non ci fossero più, il che sembra quasi una presa in giro.


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All'appoggio alle missioni internazionali noi dobbiamo sempre cercare di abbinare anche - vale per il Darfur, ma vale anche per le altre situazioni dove sono presenti le missioni internazionali - il sostegno all'attività di cooperazione civile; altrimenti, davvero, la nostra resta una presenza monca, che ha un significato, ma solo molto parziale e limitato. Questo vale per il Darfur, ma vale anche per le altre missioni internazionali.
È fondamentale, dunque, aver ristabilito l'articolo 1 nel «decreto missioni», ma questo non basta. Occorre davvero - forse il Comitato sui diritti umani può spingere su questo aspetto - che la politica italiana mantenga sempre un approccio per cui la missione militare deve essere accompagnata anche da un'equivalente missione civile. Quest'ultima - oltre a cercare di tutelare e mantenere la sicurezza, il che non è sufficiente - dovrebbe affrontare le cause dei problemi esistenti, perché se non vengono affrontati e risolti i problemi di fondo, la situazione rimarrà sempre la stessa.

STEFANO CERA, Rappresentante di International Crisis Group. Oggi affronterò anche alcuni temi che abbiamo già visto la scorsa volta e che, tra l'altro, sono stati già toccati in maniera assolutamente efficace da Nino Sergi.
Mi sono occupato anche di analizzare alcuni aspetti legati al conflitto. A proposito di questo, il Darfur viene visto come un esempio di conflitto sui problemi ambientali. In pratica, negli Stati Uniti alcuni ricercatori, ormai da qualche anno, stanno dicendo che, di fatto, il conflitto nel Darfur è stato provocato soprattutto dai cambiamenti climatici in atto nel pianeta.
Diciamo che prevedere questo tipo di situazione e questo tipo di causa toglierebbe tutte le responsabilità ad un regime, quello del National Congress Party del Presidente al-Bashir, che ha soffiato sul fuoco.
Ora non c'è il tempo per affrontare tutte le varie tematiche. Dirò soltanto che c'è stato sia un aspetto di mancata gestione del conflitto, sia un aspetto di appoggio - ormai è dimostrato - nei confronti delle milizie dei Janjaweed, in occasione degli attacchi, che, peraltro, si ripetono ancora, a dispetto del cessate il fuoco decretato ufficialmente anche a novembre dell'anno scorso. Io ebbi modo di dichiarare e di scrivere che dei tanti cessate il fuoco che sono stati dichiarati sul campo nel Darfur, a partire dal 2004, nessuno è poi stato realmente efficace.
Dico questo anche per darvi un'integrazione rispetto a quanto diceva Antonella Napoli prima sugli scontri attuali, che sono di particolare gravità.
Un altro dei problemi che, oltre alle questioni umanitarie, si riscontrano nel Darfur al momento, sul campo, dal punto di vista politico-militare è il fatto che continuano gli scontri, non solo tra governo e forze ribelli.
Ricordo che ci sono due principali movimenti di opposizione; il Justice and Equality Movement, capeggiato da Khalil Ibrahim ha una posizione molto forte in Darfur perché, pur essendo forse meno forte rispetto all'altro movimento, il Sudan Liberation Army, ha una maggiore coesione interna.
Il punto, però, è che da questi due principali movimenti ne sono nati tutta una serie di altri, sia all'interno sia all'esterno. Purtroppo, al momento, alcuni di questi gruppi sono tra loro in confronto, se non in scontro aperto.
Mi riferisco agli scontri che nel mese di gennaio hanno visto protagonista il gruppo del Sudan Liberation Army di Minni Minnawi, il solo movimento di opposizione entrato a far parte del governo di coalizione, in seguito al famoso - e famigerato, secondo alcuni - Darfur Peace Agreement, l'unico accordo di pace presente sul campo.
A livello internazionale - riprendo così uno spunto di Nino Sergi - ci si concentra molto, nell'ultimo periodo, intorno alla questione della sospensione o meno delle iniziative della Corte penale internazionale contro il presidente al-Bashir.
Purtroppo, al momento, tale questione sta monopolizzando l'interesse internazionale, mentre sono in un momento di stallo


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le altre iniziative di pacificazione, sia nell'ambito dell'UNAMID (la missione di peacekeeping, che - lo ricordo - dovrebbe essere la più importante della storia dell'ONU), sia nell'ambito della ricerca dell'accordo di pace.
Sicuramente, sulla questione della sospensione dell'iniziativa della Corte penale internazionale nei confronti di al-Bashir altri colleghi riferiranno con maggiore dovizia di particolari: concludo, in merito, dicendo che comunque la missione UNAMID - al di là dell'ottima notizia che proviene dall'Italia - vive ancora grandi difficoltà.
Parliamo di gravi carenze dal punto di vista del personale - si discute in questi giorni di mandare, nei prossimi due mesi, un contingente di forze africane provenienti da vari Paesi (Egitto, Nigeria, Tanzania eccetera) - ma non soltanto. Ricordo, infatti, che ancora oggi solo meno della metà delle forze previste sono effettivamente dislocate sul campo. Ci sono carenze, inoltre, dal punto di vista logistico.
Venendo a un aggiornamento dal punto di vista politico, alla metà di gennaio è stato arrestato al-Turabi, ossia la persona di riferimento ed ex ideologo del regime del National Congress Party e di al-Bashir. Al momento al-Turabi è legato a Khalil Ibrahim ed è stato arrestato perché ha rivolto ad al-Bashir le stesse accuse rivoltegli dalla Corte penale internazionale, ossia di aver commesso crimini contro l'umanità. Soprattutto, al-Turabi aveva chiesto ad al-Bashir di consegnarsi e ripetuto cose che, comunque, sono ormai dette a più livelli, in ambito internazionale.

SULIMAN HAMED, Rappresentante dei rifugiati del Darfur in Italia. In occasione del nostro incontro del 10 dicembre, ho detto che avevo paura che il Darfur potesse diventare come la Somalia. Il 13 gennaio si è realizzato ciò che avevo detto.
Khalil Ibrahim e Minni Minnawi sono due esponenti del Darfur. Il primo attacco a Muhajiriya l'hanno fatto loro due, due darfuriani, senza l'intervento del governo centrale, che è intervenuto solo in seguito, bombardando i villaggi, otto villaggi sia nel nord sia nel sud del Darfur. I bombardamenti li hanno iniziati due darfuriani, dunque. Quando dissi della mia paura che il Darfur sarebbe diventato come la Somalia, sentivo dentro di me che qualcosa non va bene in Darfur, anche tra noi darfuriani.
Tanti darfuriani non sono d'accordo con Khalil Ibrahim, amico di al-Turabi. Chi è al-Turabi? Chi è al-Bashir? Per me sono uguali, non c'è differenza tra i due: entrambi sono fratelli musulmani, però è al-Turabi ad aver creato gruppi arabi protagonisti della guerra che, da almeno vent'anni, è in corso tra il sud e il nord del Sudan; al-Turabi, inoltre, ha fatto parte di tutti i governi del Sudan che si sono costituiti dopo gli anni Settanta, da al-Numayri in poi.
L'ultimo persona che al-Turabi ha portato al potere è al-Bashir, che era un suo studente; ora al-Turabi è contro di lui ed è stato arrestato.
Parlerò ora dei campi profughi, come ho fatto anche l'altra volta. Io non sono entrato in Darfur, però sono entrato in tutti i campi in Ciad, al confine con il deserto, vicino alla Libia. L'anno scorso ho girato tutti i campi per quattro mesi.
Il primo problema, all'interno dei campi, riguarda le scuole, perché i bambini sono rimasti senza scuola per circa sei anni. Sono 9.710, tra ragazzi e ragazze - ne ho l'elenco: se vi servisse, ve lo posso fornire - quelli che non studiano, perché non sanno dove farlo, dato che non ci sono le scuole. Ho già scritto questo; ho realizzato anche un video e fatto qualche piccola intervista in proposito, che ho portato insieme a foto e a un dvd.
Il secondo problema è l'acqua. Le donne fanno la fila dalle otto di mattina fino a mezzogiorno, dopodiché l'erogazione dell'acqua viene interrotta - ho fatto un video su questo, in cui documento per quanto tempo quelle donne rimangono in fila - e, se qualcuno non l'ha trovata, torna a casa senza. Anche chi trova l'acqua, però, non ne ha abbastanza, perché


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le famiglie africane sono più numerose di quelle europee, sono composte anche da più di dieci persone.
Il terzo problema è la legna. Ogni settimana vengono dati 9 chili di legna a ciascuna famiglia, che però non bastano. Le donne vanno, così, alla ricerca di acqua e legna e incontrano tanti problemi, come sappiamo tutti.
Non sapevo che l'altra volta fosse tra noi anche Intersos, che conosco molto bene, per quanto ha fatto a El Geneina, dove non ci sono tante altre organizzazioni. Il loro lavoro è molto importante.. Quando scoprono che vengo dall'Italia, mi chiedono sempre di Intersos, perché conoscono i campi profughi in cui è impegnata.
L'Italia ha fatto tanto per il Darfur. Già in precedenza, alla fine del 2005, la popolazione italiana, attraverso l'impegno di Barbara Contini, ha realizzato molto bene un piccolo ospedale, a Nyala. Ora un gruppo italiano di Emergency sta realizzando un altro ospedale a Khartoum.
Noi vorremmo che l'Italia facesse di più perché l'Italia è vicina al Darfur più di altri Paesi; chiedo aiuto all'Italia perché mi trovo in Italia. L'Italia può fare di più all'interno dell'Unione europea, ma può muoversi anche da sola, attraverso Intersos e come popolazione. È molto importante l'azione che l'Italia ha fatto all'interno del Darfur.
Questa mattina ho ascoltato una radio del Darfur, Radio Dabanga, che noi ascoltiamo ogni giorno via Internet. Hanno parlato - ciascuno nella propria lingua, che non è l'arabo - persone che si trovano in campi profughi o villaggi come Muhajiriya. Questa mattina hanno trasmesso una intervista con Nouredin Mezni, portavoce dell'Unione africana, il quale ha detto al governo, che ha chiesto loro di andare via da Muhajiriya, che non l'avrebbero fatto e che sarebbero rimasti insieme alla popolazione locale, finché l'ONU non li avesse cacciati e, anche in quel caso, solo insieme alla gente che vive lì.
Adesso Muhajiriya è molto pericolosa, perché sono in corso scontri fra tre soggetti in guerra tra loro: il gruppo di Minni Minnawi, quello di Khalil Ibrahim e il governo centrale.

LUISA MASCIA, Coordinatrice europea della Coalition for the International Criminal Court. Mi scuso con i presenti dell'altra volta, ma vedo qualche volto nuovo e vorrei spendere un paio di minuti per ripercorrere i punti salienti dell'intervento della Corte penale internazionale.
La mia organizzazione, la Coalizione per la Corte penale internazionale, è una rete di circa 2.500 organizzazioni della società civile, unite al fine di sostenere una Corte penale internazionale giusta ed indipendente e di combattere l'impunità per i crimini di genocidio, i crimini contro l'umanità e i crimini di guerra. Abbiamo già detto che la Corte era intervenuta su mandato del Consiglio di sicurezza dell'ONU nel 2005.
Ricordo che attualmente sono due i mandati di arresto formalmente emessi (richiesti dal procuratore e confermati dai giudici): uno nei confronti dell'attuale Ministro per gli affari umanitari del Sudan, Ahmad Harun, e uno nei confronti di Ali Kushayb, il leader dei ribelli cosiddetti Janjaweed, accusati di 51 capi d'accusa per crimini di guerra e crimini contro l'umanità. Non ripeto i dettagli.
Il procuratore ha richiesto, inoltre, altri quattro mandati di arresto ai giudici: tre nei confronti dei leader ribelli e uno nei confronti dell'attuale Presidente del Sudan, al-Bashir. I giudici non hanno ancora preso decisioni, né sugli uni, né sull'altro, anche se la decisione sul mandato d'arresto per al-Bashir è imminente e dovrebbe essere presa la settimana prossima, per metà febbraio.
Abbiamo già detto qual è stata, in proposito, la risposta del Governo sudanese ai mandati di arresto per Ahmad Harun e Ali Kushayb. Ha promosso il primo, da un punto di vista politico, e ha liberato il secondo, che era in prigione al momento in cui la Corte ha emesso il mandato di arresto.
Stefano Cera ha ricordato qualche attimo fa come il governo ha reagito alla


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richiesta del procuratore di un mandato di arresto nei confronti del Presidente: ha iniziato una campagna diplomatica per ottenere, in seno al Consiglio di sicurezza dell'ONU, una risoluzione, a norma dell'articolo 16 dello Statuto di Roma, che sospenda le indagini e il procedimento in corso nei confronti del Presidente e anche, eventualmente, degli altri accusati.
Da un punto di vista giudiziario, all'indomani dell'apertura delle indagine del procuratore, sono spuntati diversi tribunali speciali, in Sudan, per far fronte ai crimini commessi in Darfur.
Le cifre del conflitto sono note, le abbiamo ricordate la volta scorsa e sono state ricordate anche qualche attimo fa. Secondo l'ONU i morti sono stati 300 mila e gli sfollati circa 2,5 milioni.
Ebbene, dinanzi a queste cifre, i tribunali e i comitati speciali per il Darfur o non hanno processato affatto, come nel caso del tribunale speciale per il Darfur istituito nel 2005, oppure hanno processato crimini come il furto di bestiame, il furto di pecore, la rapina a mano armata o il possesso di armi da fuoco senza licenza.
Oltre alla popolazione civile, recentemente sono stati presi sempre più d'attacco anche i difensori dei diritti umani e i leader dell'opposizione.
Monim Elgak e Mohamed al-Sari sono stati accusati di collaborazionismo con la Corte, torturati e incarcerati. Il secondo è stato condannato a 17 anni di prigione per collaborazionismo con la Corte penale internazionale, cioè per aver trasmesso alla Corte informazioni che, secondo il Governo sudanese, erano confidenziali. Anche al-Turabi, leader dell'opposizione, è stato arrestato il 14 gennaio scorso.
Cosa chiediamo, noi ONG, alla comunità internazionale, al Parlamento e al Governo italiano, quale Stato parte della Corte, ma anche quale Stato membro dell'Unione europea, che ha una politica molto specifica a sostegno della Corte penale internazionale?
Prima di tutto, occorre assicurare alla Corte il dovuto sostegno politico e diplomatico. Siamo preoccupati, infatti, per le discussioni dietro le quinte sulla possibilità di invocare l'articolo 16 dello Statuto di Roma e di sospendere così il procedimento nei confronti del Presidente o degli altri imputati.
Secondo noi, non ci sono le condizioni, al momento, per invocare tale articolo e l'impegno dei governi dovrebbe essere quello di preservare la Corte - che è un organo giudiziario indipendente - da un potere politico quale quello del Consiglio di sicurezza dell'ONU.
Occorre, inoltre, rispondere concretamente alle richieste del procuratore che, nel suo ultimo rapporto al Consiglio di sicurezza, a dicembre, ha espressamente richiesto agli Stati di tagliare ogni contatto non essenziale con gli accusati e di non concedere alcun sostegno politico, economico e finanziario né agli individui oggetto di un mandato di arresto, né a coloro che li proteggono.
A questo proposito, volevo menzionare che il 14 gennaio scorso, a Roma, c'è stato un incontro, passato un po' sotto silenzio, tra il Ministro Frattini e il consigliere speciale e personale del presidente Omar al-Bashir. Avrebbero discusso del Darfur e di un rafforzamento delle relazioni bilaterali tra l'Italia e il Sudan. A questo proposito, ci chiediamo se il Ministro Frattini abbia sollevato anche la questione della Corte o del ruolo che il Sudan debba avere in ottemperanza alle obbligazioni del Consiglio di sicurezza.
La seconda richiesta, in questo momento caratterizzato anche da tensione politica, è che si mandino messaggi chiari al Governo sudanese di Khartoum, per ribadirgli: che ogni eventuale mandato di arresto nei confronti del Presidente non può e non deve avere alcuna ripercussione sugli impegni assunti dal Sudan secondo i termini dell'accordo di pace globale ricordato da Stefano Cera; quali sono i suoi obblighi di cooperazione ai sensi della risoluzione ONU n. 1593; che ogni forma di rappresaglia contro i civili o contro i peacekeeper che il governo minaccia di scatenare se dovesse essere emesso un mandato d'arresto, sarà trattata come un atto di estrema gravità ed avrà conseguenze


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molto gravi nelle relazioni bilaterali tra l'Italia e il Sudan, tra l'Unione europea e il Sudan.

DAVID DONAT CATTIN, Rappresentante di Parlamentarians for Global Action. Lo scopo di questo nostro ritorno era proprio di interagire con il Comitato, perché non vi era stato sufficiente tempo per farlo nel primo incontro.
Non ripeterò assolutamente quanto già detto, quindi, ma mi limiterò a dire che, sebbene evidentemente la giustizia internazionale non è la panacea rispetto al problema della tutela dei diritti dell'uomo, a fortiori l'impunità è risultata essere una delle cause del ripetersi dei conflitti. Oggi, infatti, ci ritroviamo di fronte a leadership che si riproducono e che si auto-sostengono.
È di ieri la notizia che l'Unione africana è presieduta dal colonnello Gheddafi: non è una buona notizia naturalmente, per le forze di pace che dovrebbero, in teoria, applicare le risoluzioni del Consiglio di sicurezza e, magari, dare esecuzione ai mandati d'arresto, il che non avverrà, in questo clima politico.
C'è una lobbying forsennata del Governo sudanese, sostenuta anche dal governo del Sud Sudan che, per motivi egoistici, non ha alcun interesse a proteggere le popolazioni del Darfur.
Il portavoce per la politica estera del gruppo parlamentare del Sud Sudan ha detto alla nostra organizzazione non governativa che non gli interessa affatto il destino dei darfuriani, giacché loro hanno l'appuntamento del 2011 - il referendum per l'indipendenza - e che, poiché hanno fatto un patto con al-Bashir, a loro lui va bene, come garante di quel patto. Alla nostra obiezione, che lo invitava a pensare alle vittime civili - in vent'anni di conflitto, anche loro ne hanno avute moltissime - ci ha risposto: «peggio per loro».
Abbiamo un quadro interno, e anche regionale, drammatico: non vi è alcuna sensibilità, né nell'Unione africana, né in seno al Darfur, nemmeno in quell'ambito del sud del Sudan che potrebbe essere critico rispetto al governo di Karthoum.
Ecco perché questa spirale di violenza aumenta. Non ci sono dinamiche di causa ed effetto: non è l'intervento della Corte penale internazionale a drammatizzare la situazione, ma vi è un conflitto che è sempre stato a livelli inaccettabili, con una politica di stop and go, per cui si va, si attacca, si brucia, poi si entra in un negoziato, si fa finta di fare un accordo, si mandano avanti le truppe e si bombarda di nuovo. Lo abbiamo visto nell'ex Jugoslavia: non è niente di nuovo.
Chi adotta questo tipo di politiche, si assume poi la responsabilità personale di quello che fa. Molto modestamente, vorrei dire che l'intervento della giustizia internazionale, sebbene non possa sicuramente rimuovere le cause del conflitto, cerca però di limitarne certe derive. Sicuramente sono d'accordo con i colleghi sull'assoluta necessità di un intervento della cooperazione civile, oltre a quello della cooperazione militare.
L'Unione africana ha chiesto formalmente questo rinvio di un anno: è un palliativo. Cosa succederà, infatti, tra dodici mesi? Si rinnoverà la richiesta di rinvio?
Non penso che la giustizia, posposta nel tempo, abbia degli effetti positivi: come si dice in inglese, justice delayed is justice denied.
L'Unione africana ha anche un meccanismo interno, quello della missione, che non è efficace, mentre aumenta ai massimi termini il confronto, in Consiglio di sicurezza, con gli Stati Uniti che - ecco le due novità delle ultime due settimane - hanno incaricato Samantha Power (è l'attivista che ha scritto il best seller sul genocidio in Ruanda) quale direttrice generale degli affari multilaterali, che invoca addirittura un intervento umanitario in Darfur - dove, quindi, ci potrebbe essere anche un'escalation di tipo militare, nei prossimi mesi -, e hanno nominato come ambasciatrice Susan Rice, che si è già espressa pubblicamente a sostegno della Corte.
Errano, quindi, quei giornali che, come il Corriere della sera di oggi, scrivono che gli Stati Uniti non riconoscono la Corte. Se non la riconoscessero, perché dovrebbero


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sostenerla in Consiglio di sicurezza? Sebbene gli Stati Uniti non abbiano ratificato il trattato istitutivo, infatti, hanno offerto un sostegno politico per l'intervento della Corte in Darfur, ma anche in Uganda e in Congo.
Rispetto a cosa possano fare il Parlamento o l'Unione europea, io reitero la questione delle sanzioni individuali che, in quanto tali, non andrebbero a colpire lo Stato sudanese - e, quindi, né gli interessi delle popolazioni civili, né quelli della cooperazione sociale in materia di assistenza sanitaria - ma anzi gli asset, i patrimoni che questi soggetti, non solo quelli indagati, ma anche quelli del network che li circonda, hanno all'estero.
Questa è un'operazione rispetto alla quale noi, insieme a Human Rights Watch e a molti altri, abbiamo richiesto alla presidenza ceca dell'Unione europea di intervenire in maniera diretta perché, mentre gli Stati Uniti si sono già attivati, gli europei non lo hanno ancora fatto. La presidenza slovena l'aveva messa in agenda, ma quella francese l'ha poi accantonata.
C'è poi la questione dell'azione che si potrebbe intraprendere a livello inter-parlamentare, sul Congresso degli Stati Uniti e su altri congressi e parlamenti degli Stati alleati, relativamente alle limitazioni oggi imposte dalla risoluzione n. 1593, quella che ha affidato alla Corte penale internazionale la giurisdizione sul Darfur.
Qui abbiamo un vulnus molto serio, per cui l'obbligo di cooperazione non si applica agli Stati che non hanno ratificato il trattato, per via di una decisione presa dall'amministrazione Bush, che diede il semaforo verde alla risoluzione in cambio dell'esenzione dal dovere di cooperare con la Corte per i Paesi non firmatari. Naturalmente, ciò riguarda gli Stati Uniti ma si applica anche ai Paesi arabi che non fanno parte della Corte penale internazionale, per cui al-Bashir non potrebbe oggi essere arrestato dall'Arabia Saudita o da altri Paesi dove egli si recasse.
Serve davvero un'azione molto forte. Qui voglio sottolineare che martedì scorso l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa - quasi all'unanimità, con un solo voto contrario e con il voto favorevole di parlamentari russi e turchi, che sono stati parte del consesso europeo - ha adottato una risoluzione che, al paragrafo 8, prevede proprio un'azione bilaterale tra i Parlamenti del Consiglio d'Europa e il Congresso statunitense, al fine di modificare le condizioni della risoluzione n. 1593.
Come vedete, questo è un tema particolare su cui possono spendersi sia questo Comitato, sia il Governo italiano.
La nostra organizzazione è forse meno rigida rispetto ad altre, quando si parla di negoziati. I negoziati vanno fatti, ma quello che conta è attaccare gli interessi economici di coloro i quali sono sospettati di aver commesso queste atrocità oppure che fanno parte della cerchia delle persone che sostengono questo tipo di regime.
In parallelo a questo, chiaramente, c'è l'appello affinché il Governo del Sudan non operi rappresaglie contro i civili, come invece, purtroppo, ha minacciato di voler fare. Ripeto, la causa di queste rappresaglie non è la futura conferma del mandato di arresto contro al-Bashir, ma una politica che è sul campo sin dal 2005.
Bisogna stare molto attenti, nell'analisi, a non fare confusione tra l'effetto e la causa: l'effetto delle atrocità è un mandato d'arresto che quasi sicuramente la Corte emetterà nelle prossime settimane, mentre la causa è la volontà politica di non risolvere un conflitto e di utilizzare i crimini contro l'umanità come strategia bellica. Questo, purtroppo, è accaduto finora e a questo bisognerà trovare rimedio.

PRESIDENTE. Credo che abbiamo così raccolto degli elementi in più.
Do la parola ai colleghi che intendano porre quesiti o formulare considerazioni.

FIAMMA NIRENSTEIN. Qualche giorno fa, leggendo un testo sulla Turchia, mi sono resa conto dell'imbarazzante notizia secondo cui, proprio nel giorno in cui ad al-Bashir veniva comunicato l'indictment che lo porterà davanti alla Corte, lui si trovava ospite, molto ben voluto e ben


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accolto, di Erdogan, il quale ha pubblicamente dichiarato, pressoché letteralmente, di dare tutto il proprio appoggio ad al-Bashir, perché ha imposto la sharia, il che è stato la salvezza del Sudan e porterà alla risoluzione del conflitto. Questa è stata la presa di posizione dei turchi.
Essendo stata recentemente al Consiglio d'Europa, di cui faccio parte, mi sono accorta che su questo tema c'è un'amicizia tra i russi e i turchi; questo mi ha molto preoccupato e molto stupefatto.
Vorrei sapere un po' di più al riguardo. Lei prima collegava al-Bashir con i Fratelli musulmani e parlava della copertura islamista che si presenta in questo periodo. Ebbene, vorrei sapere quanto essa sia forte e quanto sostegno sta dando ad al-Bashir e a questa situazione così intoccabile, in cui non si riesce a fare nulla. Quanto è importante? Questa cosa della Turchia era un episodio oppure in questa vicenda c'è un elemento veramente potente, legato alla sharia?

DAVID DONAT CATTIN, Rappresentante di Parlamentarians for Global Action. Premesso che non sono un esperto di questioni mediorientali, posso dire che, quando Erdogan ricevette al-Bashir, il mandato di arresto non era ancora esecutivo, come non lo è a tutt'oggi: non essendo stato confermato dai giudici, non vi è nessun obbligo per nessuno, in questo momento.
Altra cosa è sapere che questo avverrà, che l'obbligo ci sarà e che intrattenere un rapporto come quello che lei ha descritto, da un punto di vista politico, è sicuramente esecrabile.

FIAMMA NIRENSTEIN. Infatti la mia domanda è sul sostegno politico.

DAVID DONAT CATTIN, Rappresentante di Parlamentarians for Global Action. Quello che mi risulta è che, comunque, non si può estendere la responsabilità in termini collettivi o di movimento. L'esempio che è stato dato è molto interessante: al-Turabi, pur essendo un fondamentalista - forse per ragioni di convenienza politica, anche abbietta, che comunque non conosco - si è esposto, dicendo che al-Bashir ha fatto quel che ha fatto e che deve andare a L'Aja a difendersi.
Questo, del resto, è un suo diritto, come è un diritto fondamentale di ogni persona potersi difendere dalle accuse. Al-Bashir è ancora un presunto innocente: nella Corte penale internazionale le garanzie ci sono. Pur essendo un esponente di quel movimento, egli si è esposto e adesso ne paga le conseguenze, perché è detenuto.
Lo stesso Erdogan, durante il Consiglio d'Europa nel 2004 e, poi, con il nuovo governo, proprio nei mesi di luglio e agosto, ha reinserito lo Statuto di Roma fra i trattati che il Paese deve ratificare. La Turchia ha già modificato la Costituzione, prevedendo non solo la possibilità di estradare suoi cittadini alla Corte penale internazionale, ma anche rispondendo al mandato di arresto europeo, nel quadro delle negoziazioni con l'Unione europea. La Turchia ha fatto, quindi, molto più di tanti altri Stati, che sono al di fuori del sistema.
La Russia non ha fatto nulla e ha dichiarato che non è pronta a ratificare il trattato per via della questiona cecena. L'ha detto in maniera molto franca e, chiaramente, molto problematica.
A mio modo di vedere, per quel che noto a livello di legislazione, l'attuale Governo turco ha compiuto una serie di riforme anche nel segno di un'imminente adesione a questo trattato.
Poi se vi è, da un punto di vista ideologico e culturale, una connivenza con le idee di un presidente che può essere portato a L'Aja, si tratta di un errore gravissimo, certamente sì.

GIANNI VERNETTI. Formulerò due rapidissime considerazioni e due brevissime domande.
Anch'io sono preoccupato, come la collega Nirenstein, per la pericolosissima involuzione della Turchia avvenuta in queste ultime settimane. Essendo la Turchia un Paese membro della NATO, si tratta di un fatto dirompente: per i rapporti con Israele, per la stabilità del Medio Oriente


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e per la sua credibilità come possibile mediatore.
Credo che l'incontro di qualche giorno fa tra Erdogan e al-Bashir abbia fornito all'esterno un segnale estremamente preoccupante, forse il primo segnale di rottura del limitato consenso che al-Bashir ha ottenuto in ambito internazionale in questi anni.
Ad ogni modo, sono abbastanza fiducioso nei confronti della nuova amministrazione americana perché, come forse ricordava il dottor Donat Cattin, l'aver affidato l'incarico di ambasciatore presso le Nazioni Unite a Susan Rice ed il ruolo attribuito a Samantha Power sembrano un segnale molto forte.
Io insisto ancora sul tema militare, non certo perché ritenga poco importante la cooperazione civile; concordo, anzi, pienamente con Sergi ritenendo che si tratta di insistere nei confronti del Governo, della Farnesina, anche per incrementare, laddove è possibile, le risorse anche della cooperazione italiana nell'area del Darfur. Penso che questo sia un lavoro di lobby positivo, di pressione che noi, come parlamentari, possiamo certamente fare nei confronti della Farnesina.
Credo, però, che nei prossimi mesi dovranno essere portate avanti due azioni che io ritengo estremamente importanti e su cui mi interesserebbe conoscere la vostra opinione.
Da un lato, una procedura incalzante della Corte penale internazionale. Se confermate, le notizie del mandato di cattura - che apprendo oggi, ma che mi paiono molto importanti - rappresentano certamente l'inizio di una fase nuova.
Sarebbe difficile, per Erdogan o per qualunque Paese della comunità internazionale, incontrare un leader politico, presidente di un Paese, sotto mandato di cattura. Questo è un fatto che ritengo dirimente, quindi credo che qualunque azione di pressione politica che i Parlamenti possono svolgere - con ordini del giorno o formule di questo tipo - sia molto utile.
Credo però che sia molto importante anche un dibattito all'interno dell'amministrazione americana sul tema di una possibile no-fly zone, che ha funzionato per molti anni nella ex Jugoslavia e in Iraq, dopo il primo conflitto. È una forma di pressione militare leggera della comunità internazionale, che non costringe a conflitti dilaganti, ma che riterrei un provvedimento interessantissimo, da perseguire da parte della comunità nazionale.
Vorrei conoscere la vostra opinione al riguardo.

LUISA MASCIA, Coordinatrice europea della Coalition for the International Criminal Court. Solo brevissimamente, vorrei aggiungere un elemento a quanto David Donat Cattin ha poc'anzi riferito, in risposta alla domanda dell'onorevole Nirenstein.
C'è senz'altro una tendenza, da parte dei Paesi arabi islamisti, a fare fronte intorno ad al-Bashir: lo abbiamo visto anche dalla posizione dell'Organizzazione della conferenza islamica, che si è immediatamente unita e ha risposto positivamente alla pressione diplomatica del Sudan relativa alla richiesta al Consiglio di sicurezza di applicazione dell'articolo 16.
Un elemento importante, secondo la nostra esperienza, è però che questo risponde molto a una logica di gruppo: gli Stati islamici, così come gli Stati arabi, fanno gruppo intorno all'Unione africana. Se invece riusciamo a parlare individualmente con i singoli Stati, le posizioni non sono poi così nette come potrebbero sembrare. Da questo punto di vista, questa è, infatti, la nostra strategia: cercare di rompere la logica di gruppo e di far emergere posizioni più moderate dei singoli Stati, arabi o africani che siano.
Per quanto riguarda la Turchia, quando ci fu l'incontro di al-Bashir ed Erdogan ad Ankara, in Turchia c'è stato un movimento di protesta molto importante della società civile turca, la quale ha denunciato fortissimamente questo incontro e ha cercato di fare pressione sul Governo turco, affinché una tale circostanza non si ripetesse e affinché fossero comunque passati ad al-Bashir alcuni messaggi chiari da parte del Governo turco, il che ovviamente non è avvenuto.


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È però importante ricordare che esiste anche un'azione parallela della società civile, la quale è presente, osserva e denuncia, quando è necessario.
Per aggiungere un altro punto a quanto detto dal David Donat Cattin, nonostante questo incontro con al-Bashir ad Ankara, la Turchia non è un Paese che si è opposto o che si oppone drasticamente alla Corte penale internazionale. David Donat Cattin ha ricordato le dichiarazioni di Erdogan del 2004.
Recentemente, nell'agosto del 2008, il governo ha approvato un pacchetto di riforme per cercare di armonizzare la legislazione turca rispetto a quella dell'Unione europea e in questo pacchetto di riforme ha previsto anche l'introduzione di misure necessarie per poter accedere allo statuto della Corte penale internazionale.
Oggi la Turchia ha un ruolo notevole, perché dall'inizio dell'anno e fino al 2010 incluso, è membro del Consiglio di sicurezza dell'ONU, quindi è importante, nonostante le nostre preoccupazioni, continuare ad avere un dialogo diretto con questo Paese.

STEFANO CERA, Rappresentante di International Crisis Group. La mia risposta, in realtà, vuole essere solo parziale, nel senso che andrò ad integrare quanto è stato detto sia da David Donat Cattin, sia da Luisa Mascia.
Anche la Lega araba, in realtà, ha inizialmente espresso una netta condanna nei confronti dell'iniziativa della Corte penale internazionale, salvo poi prendere posizioni più moderate e più favorevoli alla sospensione. Vorrei richiamare anche la posizione del Consiglio dei Paesi del Golfo persico, tanto per fornire un ulteriore elemento al quadro inerente l'appoggio politico islamico nei confronti di al-Bashir.
Il problema di fondo è il seguente: l'Unione africana, fin da subito, ha detto che è comunque auspicabile e consigliabile una sospensione di almeno un anno, basandosi sull'articolo 16 dello statuto. La Lega araba, invece, ha inizialmente opposto un netto rifiuto, non riconoscendo la decisione, ma è poi ritornata sui suoi passi, condividendo la posizione dell'Unione africana.
Per quanto riguarda la domanda dell'onorevole Vernetti, in effetti da anni si discute apertamente di no-fly zone: proprio come International Crisis Group ne discutiamo sin dal 2004, quindi fin dall'inizio del conflitto (che è iniziato nel 2003 anche se, in realtà, come dicevamo prima, è frutto delle conseguenze negative derivanti da situazioni che vanno avanti dagli anni Ottanta).
Le no-fly zone hanno funzionato in passato e potrebbero tranquillamente continuare a funzionare. Chiaramente, la no-fly zone dovrebbe essere comunque sempre associata a misure come le sanzioni mirate, di cui parlava prima David Donat Cattin. Questo per dire che, in realtà, queste misure combinate potrebbero risultare particolarmente efficaci.
Mi permetto però di esprimere una mia personale perplessità a proposito della no-fly zone, perché il punto centrale della questione riguarda il soggetto che le decide. Torniamo insomma al discorso di un confronto - starei per dire: sereno, e dietro a questo aggettivo mettiamo tutto ciò che vogliamo considerare - in sede di Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, perché non possiamo trascurare il fatto che al suo interno c'è la Cina, la quale ha posizioni chiaramente contrarie. Mi riferisco a tutti gli interessi economici che legano la Cina al Sudan.
Tenete conto anche del fatto - e aggiungo così un elemento che ho dimenticato di dire prima, a proposito del panorama politico - che la Cina ha chiesto ai Paesi africani del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di farsi portatori di una risoluzione per chiedere la famosa sospensione.

ENRICO PIANETTA. La mia domanda riguarda proprio quest'ultimo aspetto, perché di fatto, pur avendo nominato oggi tanti Paesi, non avevamo ancora pronunciato il nome della Repubblica popolare


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cinese. È chiaro, quindi, che mi sembrava interessante un approfondimento circa il comportamento della Repubblica popolare cinese. Ora è stato fatto ma, se ci fosse qualche ulteriore approfondimento al riguardo, lo troverei molto importante.

DAVID DONAT CATTIN, Rappresentante di Parlamentarians for Global Action. La posizione cinese è schizofrenica.
Nelle prese di posizioni formali, infatti, la Cina sostiene il sistema della Corte, nel senso che osserva il suo svilupparsi con l'intenzione di cooperare e partecipa alle riunioni dell'Assemblea degli Stati parte a L'Aja, li abbiamo incontrati a novembre.
Allo stesso tempo, però, come ha riferito il collega, la Cina ha formulato agli africani la proposta - a livello di una dichiarazione di un portavoce del Ministero degli esteri, quindi con una presa di posizione non del tutto ufficiale, che è però stata poi pubblicata sull'agenzia ufficiale cinese - di assumere la leadership della richiesta di sospensione, promettendo il suo sostegno, il che è anche un modo piuttosto codardo di fare fronte comune.
Quando - ricordo la vicenda del 2005 - si è votata la risoluzione per rinviare la situazione alla giurisdizione della Corte da parte del Consiglio, i cinesi erano inizialmente contrari ma, alla fine, non hanno posto il veto. Una volta che gli Stati Uniti trovarono un compromesso e diedero il via libera, i cinesi non si opposero più.
Si può persuadere la Cina, a livello di Consiglio di sicurezza, negoziando su altri piani, su cose che possono persuaderli, perché ci sono altre questioni economiche, ancora più grandi, che le interessano, ad esempio nei rapporti bilaterali con gli Stati Uniti.
C'è questa posizione cinese, quindi, ma oggi, con la nuova amministrazione americana, è assolutamente necessario e imperativo utilizzare il Consiglio di sicurezza, che non è più quello dei sette anni dell'amministrazione Bush, dopo l'11 settembre. Oggi il Consiglio di sicurezza non è più by-passabile e by-passato, ma è quello che tutti invocano come l'entità avente i poteri per intervenire.
Sulla questione di al-Bashir, c'è un blocco: ci sono otto o nove membri latinoamericani, europei, nordamericani e del Pacifico, a favore di questo mandato di arresto e, quindi, contro questa sospensione di un anno. E ci sono gli africani e gli asiatici, uniti da questa loro campagna pro al-Bashir, che poi, in realtà, porterebbe solo a una sospensione di un anno, per cui il problema si riproporrebbe l'anno dopo.
Ci sono quindi questi due fronti, ma sul tema della no-fly zone si possono forse aprire nuove prospettive.

CLAUDIO D'AMICO. Non ero presente alla scorsa seduta di questo Comitato che ha visto la vostra presenza, ma ho voluto esserci oggi, perché mi sembra importante cercare di capire meglio ciò che sta succedendo in quel Paese.
Viste le informazioni che ci avete portato oggi, che ci dicono che dal 13 gennaio sono ripresi questi bombardamenti in Darfur e che le vittime sono per lo più civili, rimango sempre più sconcertato nel vedere che, quando Israele ha operato in quest'ultimo periodo - con un'azione che io ritengo legittima - ed ha colpito dei civili, l'opinione pubblica internazionale, e soprattutto la nostra, era super-attivata con le prime pagine dei giornali; mentre quando in Darfur vengono massacrati civili, quasi nessuno dice qualcosa. Ciò mi lascia molto stupito, perché in queste situazioni non si possono usare due pesi e due misure.
Mi piacerebbe avere, se esistono, anche dei numeri, per sapere quanti sono i civili uccisi in questi ultimi quindici giorni di battaglia. Vorrei avere modo, cioè, di capire l'entità di questi ultimi attacchi, se hanno riguardato dieci, cento, mille o diecimila persone.
Mi sembra che sia stato toccato il punto relativo al fatto che l'Unione europea non sta facendo molto per cercare di


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fermare queste violenze. Vorrei capire, allora, cosa è stato fatto finora dall'Unione europea.
Eventualmente si potrebbe andare ad intervenire, come avete detto, mediante sanzioni individuali sul patrimonio. Anche in merito a questo rimango colpito, perché ricordo che, fino a pochi mesi fa - forse ancora adesso, ma qualcosa sta cambiando - c'erano delle sanzioni contro il Presidente della Bielorussia.
Oltre a lui, un lungo elenco dei componenti del governo di quel Paese avevano i beni congelati, non potevano ottenere i visti, seppure non abbiano ammazzato migliaia di persone. Il congelamento dei loro beni si è deciso solo per questioni politiche relative alla gestione delle elezioni, del sistema politico interno, ma non si parla di genocidio, non si parla di simili argomenti.
Mi sembra auspicabile, quindi, che anche il nostro Governo faccia qualcosa per spingere verso misure molto, molto più forti contro il Governo del Sudan e, in primo luogo, contro il suo Presidente, che probabilmente la prossima settimana sarà condannato. Vorrei sapere da voi che cosa è stato fatto fino ad ora e, più precisamente, quali azioni si potrebbero intraprendere.
Ho letto parte del resoconto della scorsa seduta: come anche oggi è stato ribadito, il conflitto è nato, inizialmente, per problemi legati alla desertificazione, alla mancanza di acqua e al conseguente spostamento di persone. Vorrei capire meglio da voi anche quanto pesano le differenze religiose e questa deriva fondamentalista islamica del Sudan.
Vorrei chiedervi dei chiarimenti anche su altri punti: il primo riguarda questa guerra e gli attacchi in corso; e il secondo riguarda tutta questa massa di persone che scappa.
Rimango colpito nel leggere che si tratta di 2,5-2,8 milioni di profughi. È un numero immenso di persone. Ebbene, vorrei sapere meglio da voi dove sono posizionati adesso questi profughi; se in base a questi ultimi attacchi si pensa che aumenteranno e quali Paesi si stanno preoccupando di offrire soccorso e alimenti a queste persone. Vorrei sapere, inoltre, se avete notizia di basi delle organizzazioni di trafficanti di esseri umani che speculano su questa povera gente e la instradano su vie che, magari percorrendo il deserto libico per arrivare poi alle coste libiche, la conducono in Europa dietro pagamento dei loro pochi averi; ossia se in questi campi profughi c'è un'infiltrazione da parte di trafficanti di essere umani.
In ultimo, vorrei capire proprio da voi che siete coinvolti - soprattutto dal rappresentante dei rifugiati del Darfur in Italia - quali misure il nostro Governo, insieme all'Unione europea, potrebbe adottare per cercare di evitare che questi profughi muoiano di fame, come nelle vostre relazioni ho letto che potrebbe accadere, e finiscano nel giro dei trafficanti di esseri umani.
Vorrei anche sapere se c'è la possibilità di trovare in Africa, in zone abbastanza vicine al Darfur, delle localizzazioni migliori per far transitare questi profughi per un periodo, fino alla pacificazione.

PRESIDENTE. L'intervento dell'onorevole D'Amico è di grande importanza. Purtroppo, però, arriva alla fine della nostra audizione e non ci resta che tenerlo agli atti, per poi permettere la preparazione di tutte le risposte alle domande che sono state poste. Un intervento del genere, infatti, sarebbe adatto per l'apertura di un altro nostro incontro.
Emergono tre componenti politiche, nel suo discorso: anzitutto, che cosa accade a questi milioni di persone spossessate; in secondo luogo, se esse possono essere preda naturale di commercio; e in terzo luogo, che cosa potrebbe fare il Governo italiano.
Su quest'ultimo punto, purtroppo, i nostri auditi ci hanno dato una pre-risposta, dicendo che, purtroppo, nessuno sta facendo nulla, incluso il Governo italiano.
Detto ciò, da un punto di vista metodologico abbiamo due possibilità, onorevole D'Amico. La prima è quella di avere


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delle risposte scritte, sulle quali fondare poi successivamente il prossimo Comitato; la seconda è di rinviare il lavoro a una prossima riunione, con le stesse persone, da cominciare con le risposte a tutte le domande da lei poste.
Io opererei in questo modo: nel chiudere, chiederei alla dottoressa Napoli un commento finale, che certamente comprenderà delle risposte - fatalmente estremamente sintetiche - alle questioni che invece vorremo affrontare più approfonditamente insieme a lei. Questo Comitato vi sarebbe molto grato se ci faceste avere della documentazione orientata sulle domande - tutte rilevanti - che ha posto l'onorevole D'Amico. Infine, non appena si creerà l'occasione per una terza audizione di questo tipo, questo sarà il punto di riferimento iniziale del nostro discorso, che procederà poi con il seguito di ciò che i vari esperti avranno da dirci e da testimoniare.
Darei ora la parola alla dottoressa Napoli per chiudere su questo, coscienti di aver lasciato in sospeso una bella quantità di argomenti importanti che sono stati qui proposti.

ANTONELLA NAPOLI, Presidente di Italians for Darfur. A questo punto accenno brevemente alla parte iniziale dell'intervento dell'onorevole D'Amico, al primo quesito sul numero di vittime che il conflitto ha creato negli ultimi mesi.
Dico subito che, al momento, non abbiamo possibilità di fornire stime ufficiali, perché c'è una grande difficoltà a far uscire dal Darfur delle notizie su quanto avviene, soprattutto nelle aree nuovamente colpite dai bombardamenti.
Attualmente, le fonti che possiamo citare sono le ONG sudanesi, che operano in quelle aree, le quali hanno avuto modo di verificare che, su venti villaggi intorno all'area di Muhajiriya, almeno otto sono stati completamente svuotati. Si parla di almeno duecento vittime negli ultimi due mesi.
Inoltre, la vera e propria emergenza, sulla quale, essendo la cosa più pressante, ho aperto il mio intervento, riguarda gli almeno 30 mila civili attualmente a rischio, perché a breve - parliamo di settimane e qualcuno dice che l'evento potrebbe essere legato anche al mandato di arresto che dovrebbe essere spiccato nei confronti di al-Bashir - possono essere letteralmente bombardati dall'aviazione sudanese, che avvierebbe così la suddetta azione contro il JEM, il gruppo di ribelli che al momento controlla quella realtà.
Di queste 30 mila persone, 9 mila sono già sfollate, sono già allo sbando e stanno cercando di trovare una collocazione, il che è molto difficile, dal momento che i campi profughi sono stracolmi.
In particolare, nella zona settentrionale, dunque ad El Fasher e nelle vicinanze, l'ultimo campo che è stato aperto (Zam Zam) ha accolto quasi 50 mila persone nel giro di poche settimane; ora non accettano più nessuno, tanto che si stanno creando delle installazioni nei dintorni delle basi UNAMID, dove queste persone si accalcano. Questa è la situazione al momento.
L'emergenza adesso è nell'area meridionale, ma tutto il Darfur rischia questa nuova rappresaglia da parte del Governo sudanese che, ripeto, risponde agli attacchi dei ribelli, ma senza tenere minimamente conto della popolazione civile. Questo è il dramma.
Per quanto riguarda l'aspetto più politico, e cioè come intervenire, ci sarebbe da fare un discorso molto ampio, perché questo tema è stato più volte affrontato e l'Unione europea ha anche realizzato una missione, posizionata però ai confini col Ciad.
È stato addirittura allestito un campo-ospedale che ha operato molto bene, ma la missione, una volta terminata, non è stata rinnovata. Non so se al momento sia all'ordine del giorno l'eventuale nuova missione dell'Unione europea. Dovrebbe essere in calendario, ma al momento non ne abbiamo ricevuto conferma. Come quest'ultimo, molti dei campi profughi - che ospitano circa 2 milioni di persone - sono in Ciad.


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Bisogna tener presente che la popolazione del Darfur si aggira intorno ai 6 milioni di persone, di cui 2,8 milioni (ormai sono passati da 2,5 a 2,8 milioni di persone) sono ospitate nei campi profughi in Darfur, mentre un'altra grossa fetta (circa 1,5-2 milioni di persone) sono in Ciad. Tutti gli altri vengono assistiti dalle ONG sudanesi nei vari villaggi, che comunque sono costantemente a rischio.
Per concludere, ripeto che ci auguriamo che l'Italia, in qualità di membro del Consiglio d'Europa, possa in qualche modo esercitare delle pressioni per evitare che Muhajiriya diventi una seconda Srebrenica, perché il rischio è quello ed è un rischio pressante.
Nel momento in cui il Governo sudanese allerta ufficialmente l'UNAMID dicendo di togliere i suoi uomini da quell'area perché sta per avviare una grossa rappresaglia, ciò significa che bombarderanno 30 mila civili.

PRESIDENTE. Nel ringraziare la presidente Napoli e tutti i nostri ospiti, dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,35.

ERRATA CORRIGE

Nel Resoconto stenografico del 10 dicembre 2008, n. 6, relativo all'indagine conoscitiva sulle violazioni dei diritti umani nel mondo, a pagina 9, prima colonna, ultima riga, le parole: «sono stati» sono sostituite dalle seguenti: «possono essere».

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