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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione III
17.
Martedì 16 giugno 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Nirenstein Fiamma, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI NEL MONDO

Audizione del presidente onorario del Centro Justice for Jews from Arab Countries, Irwin Cotler, e di David Meghnagi, docente presso l'Università Roma Tre:

Nirenstein Fiamma, Presidente ... 3 8 10 12 14
Colombo Furio (PD) ... 11
Corsini Paolo (PD) ... 10
Cotler Irwin, Presidente onorario del Centro Justice for Jews from Arab Countries ... 4 13
La Malfa Giorgio (Misto-LD-MAIE) ... 11
Meghnagi David, Docente presso l'Università Roma Tre ... 8 12
Pianetta Enrico (PdL) ... 12
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: (Misto-RRP).

COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI
Comitato permanente sui diritti umani

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 16 giugno 2009


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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE FIAMMA NIRENSTEIN

La seduta comincia alle 12,05.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del presidente onorario del Centro Justice for Jews from Arab Countries, Irwin Cotler, e di David Meghnagi, docente presso l'Università Roma Tre.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle violazioni dei diritti umani nel mondo, l'audizione del presidente onorario del Centro Justice for Jews from Arab Countries, Irwin Cotler, e del professor David Meghnagi dell'Università Roma Tre.
È presente anche la vicepresidente dell'associazione, Regina Bublil Waldman. A tutti i nostri ospiti e ai colleghi presenti do il benvenuto.
Questa iniziativa è particolarmente seguita, proprio perché tocca un tema di importanza fondamentale e anche, per quanto possa apparire paradossale, assolutamente inedito per l'opinione pubblica, salvo che per gli sforzi dell'associazione qui rappresentata. Peraltro, sono presenti anche due ospiti eccezionali, dei quali dirò dando loro la parola.
Prima di tutto, vorrei spiegarvi il motivo per il quale abbiamo promosso questa iniziativa e l'abbiamo fatto con molto piacere. Molto spesso si sente parlare della Naqba palestinese. Il 15 maggio, nella ricorrenza della nascita dello Stato di Israele, i palestinesi celebrano sempre una Naqba - ossia «il disastro» - che ricorda l'espulsione di 800 mila profughi palestinesi, oggi diventati molti di più per alcune circostanze che ne hanno impedito l'assorbimento nei Paesi arabi circostanti. Con questa celebrazione, i palestinesi ricordano le sofferenze patite da una parte della loro popolazione a causa della nuova presenza ebraica, dopo la fondazione dello Stato di Israele.
Ciò che, invece, non si celebra mai è la Naqba ebraica, che è stata, per dimensioni e sofferenze, maggiore di quella palestinese. Mi sento di poterlo affermare dopo aver approfondito l'argomento, con l'aiuto di testi, alcuni dei quali scritti da persone qui presenti.
La differenza tra la Naqba palestinese e quella ebraica è che quest'ultima non fu in alcun modo indotta: infatti, da parte degli ebrei che vivevano da millenni negli Stati arabi, non vi era nessun atteggiamento antagonista nei confronti di quei Paesi. Al contrario, essi si sforzavano di vivere in armonia con i loro vicini, anche se, in quasi tutti gli Stati arabi, la convivenza pacifica era, di fatto, impossibile da molti secoli: il mito della buona convivenza si è realizzato solo in determinati periodi storici e in determinate circostanze.
Questa situazione non è legata alla fondazione dello Stato di Israele, quindi a


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un motivo politico, ma risale a tempi molto più remoti. Nel corso dei secoli, gli ebrei hanno sempre vissuto in una situazione di soggezione nei Paesi arabi; sono stati soggetti a espulsioni e a frequenti pogrom, costati la vita a decine di migliaia di persone.
Tuttavia, questo è niente in confronto agli eventi - di cui parleranno i nostri ospiti - del 1948 e alle circostanze susseguenti, quando il numero degli ebrei espulsi ha raggiunto circa un milione.
Concludo questa brevissima introduzione sottolineando che l'intento di chi ha promosso questa audizione - e il mio, in particolare, come vicepresidente della Commissione esteri - è un intento di pace. Credo che solo quando il mondo si renderà conto che, oltre a quelle dei palestinesi, ci sono state anche le sofferenze degli ebrei e che esiste un modo di affrontare la situazione dei profughi in maniera positiva, cercando di ricostruire, mirando all'integrazione e alla speranza in un nuovo Paese, allora si potrà veramente immaginare un futuro in cui la pace sia costruibile.
Il nostro tentativo è quello di fare verità e giustizia e non cercare un terreno rivendicativo che, invero, gli ebrei cacciati non hanno mai cercato; essi hanno cercato piuttosto un'opportunità di integrazione. Tuttavia, la verità va narrata e per questo oggi abbiamo promosso questo incontro.
Il professor Irwin Cotler è uno studioso e un attivista nel campo dei diritti umani, famoso in tutto il mondo. Ministro della giustizia canadese dal 2003 al 2006, oggi è membro del Parlamento. È un avvocato che si occupa dei diritti umani che si è contraddistinto in particolare nella guerra contro l'apartheid in Sudafrica, ma difende i diritti umani a tutte le latitudini.
Tralasciando di elencare le sue innumerevoli qualità, che disegnano un curriculum assolutamente straordinario - possiamo, però, distribuirlo, in modo che gli onorevoli ne abbiano contezza - do a lui per primo la parola.

IRWIN COTLER, Presidente onorario del Centro Justice for Jews from Arab Countries. Sono stato in Italia l'ultima volta quattro anni fa, da Ministro della giustizia canadese. In quell'occasione siglammo un trattato sull'estradizione tra Canada e Italia e presi anche parte ad alcune conferenze ed ebbi incontri con le autorità dell'epoca. Adesso, da parlamentare, sono all'opposizione nel Partito liberale canadese, e sono essere membro del Comitato sui diritti umani della Commissione esteri in Canada.
Sono lieto di essere qui, dinanzi alla vostra Commissione, e di condividere con voi un'esperienza avvenuta circa un anno fa, che credo possa gettare un po' di luce sulla questione che ci troviamo ad affrontare. Dinanzi all'assemblea annuale di un gruppo di avvocati a Quebec, tenevo una relazione dal titolo «La Convenzione sul genocidio sessant'anni dopo. Cosa abbiamo imparato e cosa dobbiamo fare, quali sono state le lezioni degli ultimi sessant'anni». In quell'occasione, brevemente ho identificato quattro lezioni, che ripeterò qui oggi.
La prima riguarda il pericolo di un'istigazione al genocidio autorizzata da uno Stato e la responsabilità di prevenirla; la seconda concerne il pericolo dell'indifferenza e dell'inerzia di fronte all'istigazione e ad atrocità di massa e la responsabilità di agire; la terza è relativa al pericolo dell'impunità e alla responsabilità di consegnare alla giustizia gli autori dei crimini; la quarta, infine, riguarda il pericolo di attacchi alle persone più vulnerabili delle nostre società e la responsabilità di proteggerle.
Alla fine della mia relazione una donna, si alzò e disse: «Professor Cotler, come lei sa, sono un avvocato e ho lavorato al Dipartimento della giustizia quando lei era Ministro della giustizia; vorrei farle una domanda che prende spunto dalla sua relazione di oggi: nella sua citazione delle quattro grandi lezioni degli ultimi sessant'anni, lei non ha fatto alcun riferimento alla sofferenza del popolo palestinese. Non ha parlato della Naqba, ovvero della catastrofe sofferta dal popolo palestinese. Potrebbe spiegarmi perché non ha affrontato la questione


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della sofferenza del popolo palestinese, perché non ha fatto alcun accenno alla Naqba palestinese?».
Le risposi: «Ha ragione, i palestinesi hanno sofferto e continuano a soffrire, c'è stata una Naqba, una catastrofe sofferta dal popolo palestinese sessant'anni fa e ha ragione a dire che nella mia citazione delle quattro grandi lezioni degli ultimi sessant'anni non ho fatto alcun riferimento esplicito alla Naqba, sebbene ritengo che tale riferimento possa essere implicito in alcune delle mie osservazioni. La domanda che si pone è: Qual è la lezione che possiamo trarre dall'esperienza di sessant'anni fa?».
Aggiunsi, poi, che sessant'anni fa le Nazioni Unite avevano adottato una risoluzione che raccomandava la divisione della Palestina sotto il mandato britannico in due Stati, uno palestinese e uno ebraico. La leadership ebraica accettò la risoluzione, mentre quella arabo-palestinese non lo fece. Naturalmente, i palestinesi avevano il diritto di non accettarla, se non la ritenevano conforme alle proprie necessità; non avevano, però, il diritto di lanciare una guerra di aggressione contro il nascente Stato israeliano - all'epoca, erano loro a parlare di una guerra di sterminio - e non avevano neanche il diritto di cacciar via i cittadini ebrei che vivevano negli Stati arabi. La privazione della cittadinanza e delle proprietà, gli arresti arbitrari e le torture perpetrate sono stati atti di aggressione contro lo Stato di Israele e contro i cittadini ebrei che vivevano nei Paesi arabi.
Questi eventi hanno determinato due gruppi di profughi: quelli arabo-palestinesi e quelli ebrei dai Paesi arabi. Si tratta di una tragedia. Se la leadership arabo-palestinese avesse accettato la risoluzione sulla partizione, sessant'anni dopo non ci sarebbero stati il dolore e la sofferenza che hanno caratterizzato gli ultimi sessanta anni. Non ci sarebbe stato il problema dei profughi, palestinesi o ebrei, e adesso si celebrerebbe il sessantesimo anniversario della creazione dello Stato arabo-palestinese e dello Stato di Israele. Così conclusi la mia risposta, all'epoca.
La signora chiese di poter aggiungere ancora qualcosa e affermò - questo si collega a quello che sto per dire oggi - che era la prima volta che sentiva parlare dei profughi ebrei nei Paesi arabi. Era una donna ben istruita, un avvocato, una persona informata, eppure era la prima volta che sentiva parlare della questione dei profughi ebrei nei Paesi arabi. Sapeva della risoluzione sulla partizione delle Nazioni Unite; ma credeva che esistesse solo la pulizia etnica degli ebrei nei confronti degli arabi palestinesi. Sapeva della Naqba relativa al popolo palestinese, ma non sapeva che ci fosse stata anche una Naqba per il popolo ebraico. Non sapeva, insomma, che sessanta anni prima c'era stata una doppia Naqba, una doppia catastrofe. Concluse affermando che, forse, l'aspetto più importante che non aveva mai valutato riguardava la responsabilità di quella Naqba, cioè come si era verificata.
Successivamente ho scritto un articolo, che è alla base delle mie dichiarazioni di oggi, utilizzando l'espressione coniata dall'avvocatessa, quella di «doppia Naqba». Purtroppo, oggi, quando si parla nel mondo accademico o tra parlamentari o tra intellettuali, i discorsi sul Medio Oriente diventano revisionisti, se non distorti, pregiudizievoli per un'autentica riconciliazione tra popoli, oltre che tra Stati. Con questi discorsi si continua a sostenere da più parti - senza pregiudizi, ma sottolineando l'opinione avanzata dalla stessa avvocatessa canadese - che c'è stata una sola popolazione vittima, quella dei profughi palestinesi, e che Israele è stato responsabile della Naqba palestinese del 1948.
Il risultato è stato che il dolore e la piaga degli 850 mila ebrei sradicati e cacciati dai Paesi arabi - l'esodo dimenticato, riprendendo la definizione di Fiamma Nirenstein - sono stati cancellati dai discorsi sulla pace e sulla giustizia in Medio Oriente degli ultimi sessant'anni. Questa visione revisionista non ha solo eclissato e cancellato l'esodo dimenticato dalla memoria e dal ricordo, ma nega


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anche che si sia trattato di un esodo forzato, determinato da un doppio rifiuto e da una doppia aggressione.
Per doppio rifiuto intendo che la leadership arabo-palestinese, sessantuno anni fa, era già pronta a rifiutare l'istituzione di uno Stato arabo-palestinese, se ciò significava accettare anche l'istituzione di uno Stato ebraico, a prescindere dai confini. Mi riferisco, naturalmente, alla risoluzione sulla partizione delle Nazioni Unite dell'epoca.
Nel contesto del doppio rifiuto, c'è stata anche una doppia aggressione: la leadership araba e, con essa, i palestinesi si sono lanciati in atti di aggressione contro il nascente Stato ebraico e contro i cittadini ebrei nei Paesi arabi, creando così due gruppi di profughi, uno arabo-palestinese e uno ebraico.
In una recente relazione, intitolata Jewish refugees from Arab Countries. The case for Rights and Redress, di cui, per ragioni di tempo, consegnerò una copia alla vostra Commissione, si documenta, per la prima volta, un modello di repressione e persecuzione degli ebrei negli Stati arabi, autorizzato dallo Stato. La relazione fa riferimento anche ad alcune leggi - e sceglierò le mie parole con molta cautela per risultare imparziale - «stile Norimberga», che, all'epoca, avevano come obiettivo le popolazioni ebraiche, determinando la perdita della loro nazionalità o la privazione dei loro diritti civili, l'espulsione forzata, il sequestro illegale delle proprietà, arresti arbitrari e detenzione, torture e omicidi. In altre parole, un pogrom contro gli ebrei. Sebbene il termine pogrom venga utilizzato nella stessa letteratura ebraica per definire gli attacchi europei contro i cittadini ebrei, lo utilizziamo anche per definire attacchi contro cittadini ebrei perpetrati dagli arabo-musulmani.
Il documento prova anche che queste massicce violazioni dei diritti umani non sono state solo il risultato di atti di oppressione autorizzati dallo Stato in ciascuno dei Paesi arabi, ma riflettevano anche un piano collusivo contenuto nel progetto di legge della Commissione politica della Lega degli Stati arabi nel 1948, che obbligava i vari Stati membri ad attuare un modello di aggressione e di oppressione autorizzato dallo Stato. Questo modello, quindi, non si è verificato per caso, ma è stato autorizzato dallo Stato, in ciascuno degli Stati arabi, come parte di un piano orchestrato, coordinato, guidato, ordinato e diretto dalla legge della Commissione politica della Lega degli Stati arabi.
Questa è la storia che, purtroppo, non si è mai sentita; è una storia che non è neanche mai stata raccontata, ma rappresenta una verità di cui, adesso, bisogna prendere coscienza.
Nel suo discorso al Cairo il Presidente Obama ha giustamente detto che, adesso, bisogna dire la verità sul Medio Oriente, anche se questa può presentare aspetti dolorosi. Tuttavia, se vogliamo muoverci verso un'autentica riconciliazione e comprensione tra i popoli, oltre che tra gli Stati, dobbiamo basarci sui fatti e sulla verità.
Personalmente mi considero figlio delle Nazioni Unite. Da canadese, le ho sempre ritenute un cardine della nostra politica estera: il diritto delle Nazioni Unite è, per noi, la pietra miliare del diritto internazionale. Purtroppo, però, le Nazioni Unite hanno anch'esse un'espressa e continua responsabilità per le distorsioni contenute nei discorsi sulla pace e giustizia in Medio Oriente dal 1948. Perché dal 1948 ci sono state più di 140 risoluzioni delle Nazioni Unite dedicate specificamente al problema della piaga dei profughi palestinesi. Naturalmente, non mi disturba che le Nazioni Unite abbiano a cuore il problema dei profughi palestinesi; tuttavia, quando si dedicano a questo problema 140 risoluzioni, è grave che non si dedichi neanche una risoluzione al dolore dei profughi ebrei. Questa è una vera e propria distorsione dei discorsi sulla pace e la giustizia.
Del resto, nessuno dei Paesi arabi coinvolti, né la leadership palestinese hanno mai espresso alcun riconoscimento o responsabilità - non voglio dire pentimento - per questi dolori e queste sofferenze.


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In conclusione, cosa dobbiamo fare? Come possiamo rettificare questa ingiustizia storica protratta? Quali sono gli strumenti che abbiamo a disposizione, ai sensi del diritto umanitario internazionale e dei diritti umani? Quali sono i corrispondenti doveri e responsabilità delle Nazioni Unite, dei Paesi arabi e dei membri della comunità internazionale, inclusi l'Italia e il Canada?
Voglio scusarmi perché da questo momento, per motivi di tempo, sarò piuttosto schematico e mi esprimerò in maniera concisa per promuovere questa agenda internazionale di azione, alla quale mi auguro che l'Italia, il Canada, gli Stati membri della comunità internazionale e le Nazioni Unite partecipino attivamente. Prima di tutto, dobbiamo ricordare che la giustizia è stata a lungo ritardata, ma non può essere più negata. È arrivato, infatti, il momento di rettificare e correggere questa ingiustizia storica e ricostruire la verità sull'esodo forzato degli ebrei dai Paesi arabi, l'esodo dimenticato, riportando questo argomento nei discorsi sul Medio Oriente, da cui, negli ultimi sessanta anni, è stato cancellato.
In secondo luogo, è importante elaborare degli strumenti per i gruppi di profughi, inclusi il diritto alla memoria, al riconoscimento, alla verità, alla giustizia e alla compensazione, attraverso delle risoluzioni conformi al diritto umanitario internazionale e agli sviluppi della legislazione in materia di diritti umani. Tutto ciò deve essere invocato anche per gli ebrei cacciati dai Paesi arabi, che meritano - non più di altri, ma almeno come gli altri - il riconoscimento di questi diritti.
In terzo luogo, per quanto riguarda i doveri e le responsabilità, tutti gli Stati arabi e la Lega degli Stati arabi devono riconoscere il ruolo e la responsabilità di ciascuno nella doppia aggressione, ovvero di aver lanciato - come essi stessi hanno riconosciuto - una guerra di aggressione contro il nascente Stato ebraico nel 1948 e di aver commesso violazioni dei diritti umani contro i cittadini ebrei nei rispettivi Paesi. Deve finire la cultura dell'impunità che, per me, è una delle lezioni che abbiamo appreso negli ultimi sessant'anni.
Il piano di pace - questo è il quarto punto - del 2002 della Lega araba dovrebbe incorporare la questione dei profughi ebrei nei Paesi arabi come parte del proprio percorso verso la pace arabo-israeliana; esattamente come il percorso include la questione dei profughi palestinesi nella visione di una pace arabo-israeliana.
Quinto, il 29 novembre di ogni anno le Nazioni Unite commemorano il problema dei profughi palestinesi, ma bisognerebbe incorporare in questa giornata di solidarietà anche i profughi ebrei. Non ho problemi al fatto che si ricordi il problema dei profughi palestinesi e che sia loro dedicata una giornata di solidarietà. Mi preoccupo, invece, del fatto che ci sia una giornata di solidarietà solo per il popolo palestinese, mentre dovrebbe essercene una per ciascuno dei due Stati e dei due popoli. Se adottiamo seriamente la soluzione dei due Stati, allora bisognerà tenerne conto anche nella giornata di solidarietà delle Nazioni Unite.
Nella risoluzione annuale dell'Assemblea generale - vengo al sesto punto - ogni riferimento delle Nazioni Unite ai profughi dovrebbe citare i popoli palestinese ed ebraico. Ogni negoziato bilaterale israelo-palestinese dovrebbe riferirsi ai due gruppi di profughi e qualunque discussione sul Medio Oriente, anche all'interno del Quartetto, dovrebbe includerli entrambi. Anche l'Italia dovrebbe far sentire la propria voce e far sì che, nelle questioni relative al Medio Oriente e ai profughi, ci sia un riferimento congiunto a entrambi i gruppi di profughi.
Vorrei concludere notando che l'esclusione e la negazione dei diritti e delle compensazioni per i profughi ebrei nei Paesi arabi saranno dannose per la riconciliazione tra i popoli e tra gli Stati.
Sgombriamo il campo da errori: laddove non c'è memoria, non c'è verità; laddove non c'è verità, non c'è giustizia; laddove non c'è giustizia, non c'è riconciliazione; laddove non vi sia un'autentica riconciliazione, non ci sarà pace - pace


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cui noi tutti, invece, aneliamo, in Canada come in Italia - per i popoli e i Paesi del Medio Oriente.

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Cotler.
Prima di dare la parola al professor David Meghnagi, dell'Università di Roma Tre, ricordo che lo abbiamo invitato per una sua doppia caratteristica: il professor Meghnagi è nato in Libia, che ha lasciato dopo il sanguinoso pogrom del 1967 (il terzo nell'arco di un ventennio), ed ha al contempo una solida e riconosciuta carriera accademica nel campo della psicologia e della psicanalisi. Ha scritto moltissimi testi, è professore presso l'ateneo di Roma Tre, dove dirige master internazionali.
La sua riflessione si sviluppa su diversi argomenti. Abbiamo pensato che il professore abbia nutrito di riflessione l'esperienza personale: questo è il motivo per cui abbiamo voluto ascoltare la testimonianza di chi ha vissuto un'esperienza che rende la profondità e la drammaticità del tema - qualcuno che, peraltro, poi è venuto nel nostro Paese, quindi c'è anche il motivo del nostro essere italiani - e, al contempo, ha realizzato l'elaborazione di un argomento così doloroso.
Do pertanto la parola al professor Meghnagi.

DAVID MEGHNAGI, Docente presso l'Università Roma Tre. In una splendida lettera del 1935, Sigmund Freud invita Thomas Mann a non dire nulla di cui vergognarsi. «In questi momenti tragici - scrive Freud a Thomas Mann - il poeta non deve dire nulla che possa suonare offensivo e di cui possa vergognarsi, perché le parole sono azioni». Nel caso del Medio Oriente noi siamo stati invasi per anni da parole e immagini malate che attendono di essere curate, come le persone. Quando le parole sono malate, infatti, provocano danni devastanti.
Ho preso come punto di partenza questa riflessione di Freud diretta a Thomas Mann, anche se per fortuna non ci troviamo in quel periodo (nonostante il mondo sia denso di pericoli), perché credo che proprio chi ha vissuto l'esperienza traumatica del pogrom - nel 1967 nel mio caso e per tre volte nel giro di ventidue anni nel caso della mia famiglia, pogrom che seguivano le persecuzioni del 1938 e la deportazione di alcuni miei familiari nel campo di Giado - debba assumere per primo su di sé la responsabilità di non dire nulla, in questo dibattito, di cui possa vergognarsi con i propri figli. Solo in questo modo, infatti, possiamo aprire una porta sul futuro. Una possibile riconciliazione nelle tragedie che hanno insanguinato il vicino Oriente e l'intera area del mondo arabo può avere luogo soltanto se le vittime non diranno mai nulla di cui vergognarsi, avendo conservato in sé la profonda identificazione con il genere umano, l'idea che l'umanità fa parte di una sola famiglia.
Dico questo volutamente, nella consapevolezza che nel dibattito sul vicino Oriente le parole sono malate e noi ebrei ne paghiamo gravemente il prezzo. Credo, invece, che sia necessario partire da queste considerazioni.
Nella mia relazione con il vicino Oriente e con il mondo arabo, avendo avuto la mia famiglia sparpagliata per il mondo, ho vissuto per tanti anni con l'idea che esistesse una frattura nel tempo e nello spazio. Nel corso del processo di ricostruzione della mia vita in Europa, nonostante fossero trascorsi pochi anni dalla mia esperienza traumatica, ero convinto che ci fossero due tempi e che il tempo si fosse spezzato per sempre. Non ho mai nutrito la nostalgia del mio Paese di origine; riflettendo su questo, mi sono chiesto quante profonde rimozioni hanno operato in me nella cancellazione del sentimento della nostalgia e nel suo trasferimento dal passato al futuro. Questa, tuttavia, è stata la strada della vita, della ricostruzione delle esistenze spezzate: proiettare la nostalgia nel futuro significa aprire una porta sul futuro e sulla speranza.
Per lungo tempo, mi sono chiesto come mai questa frattura fosse stata così irrevocabile. Gradualmente, però, ho scoperto


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che non ero solo. La mia professione di psicoanalista è stata sicuramente influenzata dal vissuto; per anni mi sono occupato, tra l'altro, delle vittime della Shoah della terza generazione, dei desaparecidos argentini e della tragedia della Cambogia. Il mio lavoro clinico si è orientato verso i percorsi di rielaborazione dei traumi collettivi. Ho pensato che ci fosse un legame solido con la mia esperienza personale e sono grato ai miei genitori di avermi aiutato a conservare l'idea che il genere umano è uno solo.
Come dicevo, ho scoperto che questa idea del tempo frantumato non era solo una mia esperienza personale, ma centinaia di migliaia di persone fuggite dai Paesi arabi condividevano la stessa esperienza di un tempo spezzato per sempre. Il tempo spezzato per sempre equivale all'idea che prima c'era un tempo della vita e dopo c'era il tempo anonimo. In realtà, il tempo anonimo era quello della ricostruzione.
L'aspetto meraviglioso della nostra esperienza consiste proprio nel non aver trasformato la nostra vita in un esilio permanente, ma nell'aver convertito l'esilio in esodo. Questo è l'appello del Deuteronomio: ogni fuga deve essere trasformata in esodo. L'appello a Giacobbe contenuto nella Bibbia, infatti, è quello di andarsene, anche quando è impossibile vivere dove si sta, con i piedi in alto e guardando indietro mentre si cammina, sapendo che dietro di noi ci sono le macerie, ma davanti a noi dobbiamo conservare l'idea della vita per i nostri figli. Nel Deuteronomio si legge: «Io ho posto dinanzi a te la morte e la vita, ma tu sceglierai la vita». Soltanto in questo modo possiamo gettare un ponte tra passato e futuro e curare il passato, affinché torni a esistere dentro di noi come immagine viva.
Nelle giornate precedenti al pogrom del 1967, ero profondamente convinto, nonostante fossi un ragazzo, dell'imminenza di un grande massacro. Non avevo dubbi sugli eventi che si stavano preparando, perché nella mia storia familiare c'erano già stati due pogrom. Ricordo che i miei fratelli avevano segnato il giorno del pogrom del 1945, in cui morirono oltre trecento persone, sulla terrazza di casa. In casa, però, non si parlava di questo; l'argomento era circondato dal silenzio. Da bambino ascoltavo furtivamente per connettere passato, futuro e presente, in quanto tutti i miei parenti erano emigrati e la nostra famiglia era stata tagliata in tanti pezzi, simbolicamente. Una grande parte di essa era migrata in Israele, dove ha ricostruito la sua vita insieme ad altre centinaia di migliaia di persone che hanno riscattato la loro condizione di dhimmi in una nuova condizione, di nazione libera, nel proprio Paese. Ed è in questa nuova condizione che oggi aspirano a convivere in pace con i loro vicini. Qualunque discorso che abbia come sfondo l'idea di una riconciliazione non può che passare dal presupposto che i popoli convivano come popoli liberi.
Il pogrom ebbe luogo nel giugno del 1967, poche ore dopo lo scoppio della guerra dei sei giorni, e fu una piccola fortuna il fatto che le radio arabe, che per settimane avevano proclamato la distruzione imminente dello Stato di Israele, comunicassero, attraverso i discorsi de Il Cairo e di altre capitali, che Tel Aviv bruciava, dunque che lo Stato ebraico era ormai stato distrutto. In realtà, nelle poche ore precedenti, l'aviazione israeliana aveva distrutto oltre quattrocento aerei dell'aviazione degli Stati arabi. Di fatto, la tragica guerra si era conclusa e quelle poche ore di felicitazioni hanno permesso alla popolazione ebraica di rifugiarsi. Intorno alle 11 iniziò il pogrom, preordinato poiché tutte le case erano segnate con gessi, come era già accaduto nel 1945 e in tutte le capitali arabe nel corso di quegli anni. Le case degli ebrei, come i negozi, le attività sociali e le attività economiche di loro proprietà, erano identificate con i gessi. Non c'era spazio che non fosse già identificato e preparato meticolosamente dalle organizzazioni panarabe nazionaliste.
Lo stato di ebbrezza collettiva è stato per noi un elemento importantissimo di salvaguardia, perché ha permesso alla


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gente - salvo chi abitava nel quartiere antico, dove le case sono state bruciate - di rientrare nelle case per trovare rifugio. Soltanto l'intervento della polizia ha impedito il massacro totale della popolazione.
Il pogrom fu utilizzato come un momento di sollevazione nazionalista per rovesciare il regime, cosa che avvenne due anni dopo, quando noi non c'eravamo più.
È molto importante che gli ebrei abbiano trasformato in esodo il proprio esilio dai Paesi arabi, perché soltanto convertendo qualunque condizione di esilio in esodo - siamo tutti esiliati in questo mondo, siamo tutti di passaggio - noi esseri umani possiamo aprire la speranza alla vita. Proprio l'aver trasformato la propria vita in esodo, dunque, ha permesso la salvaguardia e la salvezza.
Il pogrom portò a compimento un processo storico iniziato tre generazioni prima, sedimentato da profondi cambiamenti che avevano investito l'intera regione del mondo arabo con la nascita degli Stati nazionali. Chi oggi facesse un viaggio nel tempo ad Alessandria d'Egitto, a Il Cairo, a Rabat, a Damasco e a Baghdad, andando indietro di cento anni incontrerebbe tante comunità, non soltanto ebraiche, ma anche copte e cristiane, come parte integrante del grande mosaico che era quel mondo e precedenti alla presenza araba in quelle regioni. Queste comunità non sono il frutto del colonialismo, viceversa sono state sottoposte all'umiliazione di una condizione semi-servile di protetti, con la trasformazione delle zone di Bisanzio e del nord Africa da aree a maggioranza cristiana a luoghi a maggioranza islamica. Questo quadro è importante per farsi un'idea di lungo periodo.
In passato, dunque, il mondo era plurale, ma questa pluralità, in una condizione di semiasservimento o di tolleranza, era comunque un elemento che conteneva le pulsioni distruttive. La sparizione dell'altro, al di là del conflitto mediorientale, è la vera ragione della progressiva erosione di quelle civiltà e dell'ascesa di forme di totalitarismo, di dittatura e di fondamentalismo. La sparizione dell'alterità all'interno del mondo arabo ha polarizzato l'odio contro l'unica alterità esistente e strutturata in quella regione, che è oggi lo Stato di Israele.
Con questa testimonianza personale ho pensato semplicemente di offrire un piccolo contributo, affinché le speranze del passato, che sono state ferite e umiliate, possano tornare a essere speranze del futuro.

PRESIDENTE. La ringrazio, professor Meghnagi. Sinceramente ambedue le relazioni erano tali che avremmo potuto ascoltare per ore, ma noi vorremmo che i colleghi avessero la possibilità di porre qualche domanda.
Do ora la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

PAOLO CORSINI. Ho ascoltato con grande interesse le relazioni, che colpiscono per l'efficacia dell'esposizione e per la profondità della riflessione. Del resto, ho incontrato molte delle riflessioni che anch'io ho elaborato approfondendo il tema del rapporto tra la verità, la memoria e la storia.
Vorrei svolgere semplicemente brevi considerazioni, non tanto a commento, quanto forse perché sento il bisogno di renderle pubbliche, in quanto sostanzialmente condivido la struttura degli argomenti che ho ascoltato.
In primo luogo, recentemente lo storico italiano David Bidussa ha pubblicato un lavoro estremamente interessante nel quale si domanda quale sarà la memoria del «genocidio unico» (e non unico genocidio) allorquando sarà assolutamente consumata, sotto un profilo biografico e biologico, la generazione di chi ne è stato vittima. Questo, a mio avviso, introduce uno straordinario paradosso: la ragione per la quale, credo, viene rimossa nella consapevolezza storica (con quel che ne consegue sul piano politico) la Naqba ebraica dipende dal fatto che l'opinione pubblica e la memoria comunitaria focalizzano la loro attenzione sul genocidio unico, quello consumato negli anni del


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l'Olocausto. Questo fa sì che venga in sostanza posto in secondo piano tutto l'insieme di fenomeni che vanno sotto il nome di Naqba ebraica. Credo che questa considerazione meriti qualche approfondimento.
Mi ha molto appassionato, inoltre, la riflessione del professor Meghnagi sul tema della rottura del tempo e della nostalgia, perché in realtà l'etimologia della parola «nostalgia», coerentemente con la sua riflessione, deriva dall'unione di nostos e algos, ossia il tema omerico del ritorno (nostos) con il dolore (algos) che questo comporta.
Nella Divina Commedia c'è persino un'evocazione di questa dimensione: «Era già l'ora che volge il disio ai navicanti e 'ntenerisce il core», laddove il «disio» è proprio il tema della nostalgia, quando cadono le stelle (de-sidere) e si fa sera. Tuttavia, al di là della considerazione di carattere letterario, mi appassiona, perché può avere una sua attualizzazione, la riflessione del professor Meghnagi sul tema della dissimulazione dell'altro, del suo misconoscimento e sul fenomeno della metamorfosi dell'identità, che appartiene ai meccanismi della creazione dei circuiti delle ostilità propria del tempo che attraversiamo.
Come funziona la metamorfosi dell'identità? L'«altro» suscita il sentimento della paura, la quale determina il meccanismo dell'avversità, della «nemicità», fino al misconoscimento dell'identità, con la negazione del volto e del nome. Non a caso, infatti, tutti parlano della «gente», termine che andrebbe abrogato dal vocabolario, e misconoscono la dimensione del soggetto, che è portatore di un volto, di un'identità e di un nome, attraverso il quale si ricostruisce la storia.
Tale meccanismo agisce in modo estremamente preoccupante nel costume del nostro Paese, laddove per fortuna non c'è alcun misconoscimento dell'identità ebraica, o perlomeno, là dove tale negazione agisce, trova subito necessari ripari e controffensive, secondo quanto auspichiamo tutti. Purtroppo, capita invece che quando questo meccanismo viene attivato nei confronti di «altri», di cui spesso parliamo anche in Aula, non viene più denunciato né trova la stigmatizzazione necessaria. Il tema della negazione dell'identità ebraica, pertanto, può essere assunto a paradigma di molteplici negazioni.
Questo non significa, tuttavia, misconoscere il carattere del genocidio unico. Uno studioso francese, Bernard Bruneteau, ha pubblicato per Il Mulino un bellissimo libro sui genocidi del ventesimo secolo, che mette chiaramente in luce come l'Olocausto non sia l'unico genocidio della storia dell'umanità, ma resta comunque il «genocidio unico». Al riguardo, credo che non si possa aprire alcuna discussione, perché si tratta di una verità acquisita.

GIORGIO LA MALFA. Ho trovato molto interessanti ambedue le relazioni. Vorrei rivolgere una domanda al professor Cotler, sotto il profilo strettamente giuridico, dal suo punto di osservazione. Se ho capito bene, egli ha individuato quattro elementi per la soluzione di problemi di questo genere: remembrance, recognition, justice, redress. In cosa consiste il redress nel caso di displaced populations? È il diritto al ritorno che può essere esercitato verso la terra d'origine? Nel caso di popolazioni come quelle ebraiche, che hanno trasformato l'esilio in esodo - come ha detto, con un'espressione molto bella, il professor Meghnagi - probabilmente nessuno vorrebbe tornare, per esempio, in Libia o in Tunisia. Come si pone, però, professor Cotler, il problema rispetto alle popolazioni palestinesi che hanno lasciato, in conseguenza degli eventi del 1948 che lei ha ricordato, i territori che le Nazioni Unite hanno attribuito a Israele?

FURIO COLOMBO. Intanto vorrei ringraziare la vicepresidente della Commissione affari esteri e i nostri ospiti per il prodigioso allargamento di inquadratura. All'improvviso, infatti, in quest'aula e in questo Parlamento, in cui a malapena si discutono gli aspetti formali e marginali di ciò di cui ci occupiamo, si è aperta una finestra di grandi dimensioni sulla vita, che ci fa sentire utili nel momento in cui siamo presenti e ascoltiamo.


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L'altro elemento da richiamare è la nostalgia, che riguarda il passato ma anche il nostro presente - non la uso nel senso bellissimo che ha indicato il professor Meghnagi - per il non lavoro che svolgiamo quando discutiamo di questi aspetti. Vi rendete conto che abbiamo discusso, in quest'aula, del trattato di integrazione militare con la Libia come se fosse un'operazione normale, come se ci fossimo integrati ad esempio con il Canada? Abbiamo finto di non sapere quanto stavamo facendo, in nome di un passato che abbiamo voluto assolutamente cancellare e per presentare la decisione, anche da questi banchi da cui vi parlo, come una formalità rituale e protocollare.
I giorni che abbiamo vissuto a Roma di recente - il carnevale che si è protratto per le strade della capitale in questi giorni - ci hanno fatto pensare all'umiliante perdita del senso del tempo e della storia. E noi, deputati e membri della Commissione affari esteri, siamo purtroppo parte di questo squallido gioco. Dunque, non posso che essere grato agli auditi: mi sono sentito giovane, allievo, persino nuovo rispetto a situazioni che ho tante volte discusso, presentato in pubblico, difeso appassionatamente. C'era nelle esposizioni un di più che ha dato dignità, per una volta, al nostro lavoro parlamentare.

ENRICO PIANETTA. Signor presidente, anch'io ho apprezzato moltissimo gli interventi dei nostri due ospiti, che ringrazio vivamente.
In ragione della mancanza di tempo pongo soltanto una domanda, partendo dall'affermazione, quanto mai importante, della doppia Naqba. Nelle sue ultime parole il professor Meghnagi ha espresso l'auspicio che le speranze del passato ferite e umiliate possano diventare le speranze del futuro. Credo che proprio questo elemento debba essere oggetto della nostra principale attenzione, partendo da quanto ci è stato illustrato dai nostri ospiti. Chiedo come si possano riuscire a creare le condizioni atte a costruire una reale speranza per l'immediato futuro.

PRESIDENTE. Prima di dare la parola ai nostri ospiti per la replica, purtroppo devo avvisarli che abbiamo utilizzato tutto il tempo a nostra disposizione. Posso concedere cinque o sei minuti a testa, non di più.
Do prima la parola al professor Meghnagi per la replica e, per l'intervento conclusivo, al professor Cotler.

DAVID MEGHNAGI, Docente presso l'Università Roma Tre. Signor presidente, comincio dall'ultima osservazione, per poi passare ai temi sollevati negli altri interventi.
In primo luogo, bisogna curare le parole, quindi restituire il significato reale alle cose. Per esempio, nella mia famiglia ho conservato per scelta la lingua araba, ritenendo che andasse salvata nella mia storia, come hanno fatto gli ebrei che hanno lasciato la Germania (anche se non pongo nessuna equazione di questo tipo). Conservare la lingua significa conservare dentro di noi la rappresentazione dell'altro come essere vivo e non come persona uccisa. Questo è uno dei motivi per cui mi sono trovato, a Roma, a essere un referente, anche dal punto di vista scientifico, nella terapia di persone ad esempio originarie dell'Africa; spesso si rivolgono a me figli di immigrati arabi o di famiglie arabe che hanno subito persecuzioni o oppressioni, fidandosi e chiedendo aiuto spontaneamente.
Curare le parole significa anche restituire il vero significato ai termini. Il termine Naqba è stato inventato per inseguire l'identificazione con la Shoah: la Shoah non riuscita contro Israele è diventata la Shoah subita dal popolo palestinese. Siamo di fronte al cannibalismo delle identità. Anche il termine harsa, utilizzato in arabo per rappresentare la guerra del 1967, significa «olocausto» in arabo. È come dire che l'Olocausto che non fu possibile realizzare contro lo Stato ebraico è diventato l'Olocausto degli Stati che avrebbero voluto realizzarlo.
Queste sono parole malate, che vanno riportate al loro vero significato. Anche la rappresentazione di Israele come Stato


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nazista, in realtà, è il risultato di un tentativo di derubare il popolo ebraico dell'identità, della storia, delle tragedie che gli appartengono, per usarle contro il popolo ebraico. Certe forme di perversione del nuovo antisemitismo possono mascherarsi di antirazzismo.
È necessario da parte nostra, non solo in Occidente ma anche nei confronti del mondo arabo e islamico, curare le parole non per ferire, ma per aiutare anche le civiltà e i Paesi che abbiamo lasciato a ritrovare la strada verso una composizione politica dei conflitti. Questo, che vale per noi come per gli altri, è il punto da cui dobbiamo partire.
Allo stesso modo, evocare l'immagine dell'esilio trasformato in esodo degli ebrei fuggiti dal mondo arabo non significa voler stabilire un'equazione tra le nostre e le altrui sofferenze. Ogni sofferenza è specifica e, nel nostro caso, non eravamo in una zona di conflitto, né lo cercavamo. L'esilio degli ebrei del mondo arabo non è l'esilio di una popolazione in guerra con il proprio Stato, bensì di una popolazione che non aveva nulla a che fare con le zone di guerra ed è stata utilizzata come capro espiatorio. È toccato prima a noi, poi ai cristiani e oggi ai musulmani liberali: sono tutti nostri fratelli che hanno diritto a essere difesi. È questo uno dei motivi per cui, all'interno del mio ateneo, abbiamo lanciato l'idea della salvaguardia della musica liturgica ebraica, islamica, ma anche cristiana, che rischia di sparire in quelle zone, mentre è un nostro dovere conservarla, essendo uno dei beni immateriali dell'umanità.

IRWIN COTLER, Presidente onorario del Centro Justice for Jews from Arab Countries. Risponderò brevemente alle domande.
In primo luogo, gli 850 mila profughi ebrei provenienti dai Paesi arabi non rappresentano soltanto un dato statistico astratto, ma un dato che ogni anno, nella Giornata della memoria, ricordiamo. Ogni persona ha un nome, un'identità, costituisce un universo a sé. Nel rispetto della memoria della Shoah ne ricordiamo i numeri, ma a volte ignoriamo il dolore e la sofferenza dei profughi. Questo è accaduto per diversi motivi, ma credo anche perché i Paesi europei hanno avuto una parte di responsabilità per quanto riguarda la Shoah.
Purtroppo, però, in relazione a quel che è accaduto nella doppia Naqba, le responsabilità non sono ancora state stabilite e abbiamo nei discorsi una morale invertita, per cui ad Israele è stata attribuita la colpa per i profughi arabo-palestinesi. Ma è importante ricordare che c'è stata, all'epoca, una doppia aggressione che ha determinato la creazione di due gruppi di profughi.
Quando parlo a gruppi di palestinesi della problematica dei profughi ebrei, la risposta è sempre la stessa: il più delle volte non sanno che anche gli ebrei hanno avuto la loro «Naqba» di sofferenza. Questo facilita un dialogo più autentico.
Per quanto riguarda la domanda di carattere giuridico, sono stati ricordati i quattro aspetti fondamentali per la soluzione del problema. Il primo è l'importanza della memoria. Credo che noi tutti abbiamo il dovere, nei confronti di coloro che hanno davvero sofferto, di ricordare. Come ho detto, il problema è che ci siamo concentrati, anche se è giusto farlo, solo sulla sofferenza dei profughi palestinesi. Abbiamo il diritto, del resto, di farlo, ma non senza tener conto anche del dolore e della sofferenza dei profughi ebrei.
Dal punto di vista della verità, i discorsi distorti sul Medio Oriente devono essere corretti e deve essere chiarito che c'è stato un esodo non solo dimenticato, ma anche forzato. Dobbiamo correggere questa visione per ragioni di dignità umana.
Il terzo elemento è quello della giustizia, che chiama in causa l'importanza dell'impunità e della responsabilità.
Infine, quanto al termine redress cioè compensazione, non credo che, in entrambi i casi, ci possa essere un ritorno dei profughi, ma si può avere una compensazione in termini di memoria, verità e giustizia. Anche questi aspetti fanno parte del concetto di compensazione nel diritto umanitario internazionale.


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Infine, per quanto riguarda le nostre speranze per il futuro, cosa possiamo aspettarci? Com'è scritto sia nel Corano sia nella Torah, se si salva una sola persona è come se si fosse salvato l'intero universo, ma se si uccide una sola persona è come se si uccidesse l'intero universo. Il fatto che entrambi i testi sacri condividano questo fondamentale principio dell'importanza della vita è un elemento su cui dobbiamo soffermarci.
Quando si parla di riconoscimento e rispetto, questi valori riguardano la legittimità di uno Stato palestinese e quella di uno Stato ebraico.
Vorrei riprendere, infine, il concetto, richiamato dal mio collega, della cannibalizzazione delle identità. Abbiamo imparato dalla storia, sia in riferimento all'Olocausto sia per il Medio Oriente, che le parole possono uccidere. Pertanto, dobbiamo stare attenti, proprio in relazione all'integrità del linguaggio, perché la cannibalizzazione della lingua potrebbe finire in una cannibalizzazione della storia e dell'identità.

PRESIDENTE. Ringrazio gli auditi, i colleghi, i membri dell'associazione e il presidente della Comunità ebraica di Roma qui presente, Riccardo Pacifici.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,10.

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