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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione III
33.
Martedì 21 dicembre 2010
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Colombo Furio, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI NEL MONDO

Audizione del sacerdote eritreo Moissié Zerai, presidente dell'agenzia Habeshia:

Colombo Furio, Presidente ... 3 6 7 8 11
Farina Renato (PdL) ... 6 7 9
Narducci Franco (PD) ... 9
Tempestini Francesco (PD) ... 8 10 11
Zerai Moissié, Presidente dell'agenzia Habeshia ... 4 6 7 8 9 11
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Futuro e Libertà per l’Italia: FLI; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l’Italia: Misto-ApI; Misto-Noi Sud Libertà e Autonomia, I Popolari di Italia Domani: Misto-Noi Sud-PID; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Repubblicani, Azionisti. Alleanza di Centro: Misto-RAAdC.

COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI
Comitato permanente sui diritti umani

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 21 dicembre 2010


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE FURIO COLOMBO

La seduta comincia alle 12,30.

(Il Comitato approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del sacerdote eritreo Moissié Zerai, presidente dell'agenzia Habeshia.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla violazione dei diritti umani nel mondo, l'audizione di padre Moissié Zerai, presidente dell'agenzia Habeshia.
Do il benvenuto a don Moissié Zerai, ringraziandolo per la sua disponibilità.
Il nostro ospite è un sacerdote eritreo impegnato nel salvataggio di circa 250 cittadini eritrei che, provenendo dalla Libia e nel tentativo di immigrare in Israele, sono caduti nelle mani di predoni e trafficanti di esseri umani che al momento li trattengono in campi di prigionia situati in territorio egiziano, nella regione del Sinai, al di fuori di ogni controllo da parte delle autorità locali. Secondo testimonianze, dirette e indirette, sarebbero già otto le persone uccise da questi criminali, che pretendono somme ingenti, fino a 8.000 dollari - teniamo presente l'ambientazione sia economica, sia umana - per la liberazione degli ostaggi, minacciando in alternativa di uccidere ulteriori prigionieri.
Sulla vicenda il Governo italiano si è già attivato su iniziativa dello stesso don Moissié, che ha portato la vicenda all'attenzione dell'Alto Commissariato dell'ONU per i rifugiati, di Amnesty International, di Human Rights Watch e di altre agenzie internazionali. Anche il Parlamento europeo sta in questi giorni trattando la questione grazie alla presentazione di una risoluzione urgente che sarà sottoposta al voto dell'Aula dopodomani.
È stato auspicato un sollecito intervento anche da parte della signora Ashton, Vicepresidente della Commissione europea e Alto Rappresentante dell'Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza (potremmo dire il Ministro degli esteri europeo) al fine di esercitare le opportune pressioni sul Governo egiziano affinché contribuisca in modo efficace alla soluzione della vicenda.
Come vedete, gli aspetti sono molteplici: l'origine dell'evento, la sequenza dei fatti, la possibilità o la probabilità che queste fossero persone dirette in Italia e, quindi, probabili seri candidati al diritto d'asilo, che il nostro Governo, firmatario delle varie convenzioni di trattati internazionali sulla materia, ha il dovere di considerare ogni volta che situazioni del genere si presentano. Ricordiamo anche il background dell'Eritrea, travolta da conflitti interni molto drammatici e violenti, che generano e spiegano la fuga di persone, specialmente giovani, che cercano di sottrarsi all'infinita guerra che continua a tormentare quel Paese. Teniamo presente che don Moissié indentifica queste persone come provenienti dalla Libia, collegandole al famoso episodio degli eritrei arrestati, rilasciati, abbandonati nel deserto, e poi diventati materiale di scambio dei predoni; così come anche il fatto che fino a questo


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momento né il Governo egiziano né i Governi europei sembrano avere dimostrato attenzione, presenza o partecipazione alla gravità di questo problema.
Su tutte queste questioni e nella speranza di avere un po' di luce e di potere essere utili come Parlamento italiano e come Governo italiano, do la parola a padre Moissié Zerai.

MOISSIÉ ZERAI, Presidente dell'agenzia Habeshia. Ringrazio il presidente, e soprattutto questo Comitato, che si è interessato della situazione di emergenza umanitaria che riguarda questo gruppo di profughi eritrei. Oltre ai 250 eritrei, ci risultano anche profughi di altre nazionalità. Qualche giorno fa l'ANSA riportava addirittura la notizia di 1.500 persone nelle mani dei trafficanti provenienti da diversi Paesi, come l'Etiopia, la Somalia, il Sudan, la Nigeria e la Repubblica di Guinea.
Si tratta di un evento non nuovo nel deserto del Sinai. La novità, semmai, sta nel fatto che non era mai accaduto che un così vasto numero di persone venisse sequestrato da trafficanti e tenuto in catene. Personalmente, ho ricevuto la prima richiesta di aiuto il 24 novembre scorso da parte dei familiari, che mi hanno contattato dalla Libia parlandomi di ottanta persone. L'estate scorsa, tra giugno e luglio, ci eravamo occupati anche di 250 eritrei che si trovavano nelle carceri libiche dopo che erano stati respinti nel Mediterraneo a causa dell'accordo - non solo tra Italia e Libia, ma anche a livello europeo - per il quale i migranti trovati in acque internazionali andavano respinti verso i Paesi da cui provenivano.
Questi ottanta, una volta respinti e passate le varie peripezie delle carceri libiche, hanno tentato di cambiare rotta cercando di attraversare il confine con Israele. Ci hanno detto che per arrivare nel territorio israeliano ciascuno di loro ha già pagato 2.000 dollari ai passeur. Vi ho anche portato alcuni documenti nei quali il gruppo di attivisti umanitari, EveryOne Group, fornisce una ricostruzione, con articoli e dati, che riguardano il loro capobanda e tutta l'organizzazione che appartiene all'etnia Rashaida.
Questa etnia si trova sia nel nord dell'Eritrea, al confine con il Sudan, sia lungo il confine tra l'Egitto e la Libia. Si tratta di gruppo - in Eritrea lo sappiamo da sempre - dedito a questo lavoro di passeur, ovvero ad accompagnare le persone che - già negli anni Settanta, quando eravamo sotto la dittatura di Mengistu, fuggivano da questo Paese. Infatti, molti profughi si rivolgevano a loro che, in quanto mercanti, conoscevano e conoscono bene il territorio tra il nord dell'Eritrea, il Sudan, la Libia e l'Egitto. Questi passeur, dunque, li hanno accompagnati attraversando il confine tra Libia ed Egitto, portandoli fino al confine con Israele.
La località vicino alla Striscia di Gaza dove si trovano attualmente queste persone si chiama Rafah. È di ieri la notizia che quattro persone sono state rilasciate dietro un pagamento di 8.000 dollari per ciascuno da parte dei familiari. Adesso questi ragazzi si trovano già in un campo di profughi in Israele. Ho chiesto all'ufficio dell'UNHCR del Cairo e anche a quello di Roma di verificare se ciò corrisponde al vero, chiedendo notizie anche a un'organizzazione che collabora per la parte di assistenza medica in questi campi profughi in Israele, chiamata PHCR. Questa di recente ha anche pubblicato un documento in cui descrive le condizioni in cui arrivano i profughi che attraversano il confine tra Egitto e Israele.
Noi abbiamo raccolto una serie di informazioni anche attraverso il contatto telefonico istituito con questi profughi grazie ai familiari. Io chiamo ogni giorno, fingendo di essere un parente, perché questi trafficanti mirano a garantire un contatto telefonico affinché i profughi chiamino un loro parente all'estero per farsi mandare soldi. Il ricatto sta in questo, ottenere i soldi dai parenti che vivono in Occidente, come documentato in questi giorni anche dal quotidiano l'Avvenire, che ha riportato le testimonianze di chi ha pagato 7.000 dollari per la liberazione del proprio congiunto.


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Le informazioni che ci giungono giorno per giorno sull'attuale situazione - persone tenute in catene, continuamente maltrattate, donne che hanno subìto violenze di ogni tipo - ci hanno spinto a renderla nota al mondo, esponendo il tipo di emergenza che si sta vivendo nel deserto del Sinai. Abbiamo informato immediatamente le autorità. Personalmente ho informato la Farnesina e anche l'ufficio dell'UNHCR de Il Cairo. Il Ministro degli esteri egiziano ha sostenuto di non avere avuto nessun tipo di informazione sulla vicenda, ma noi, invece, abbiamo fatto pervenire - sia tramite il canale diplomatico, sia tramite le organizzazioni umanitarie - le notizie in nostro possesso. Tra l'altro, vi ho portato anche il messaggio che ho mandato per iniziativa dell'ambasciata egiziana alla Santa Sede, che mi ha convocato per conoscere le informazioni.
Abbiamo il numero di telefono del capobanda, che si chiama Abu Khaled e che ha anche rilasciato un'intervista al Telegraph. Si tratta di una ricostruzione del gruppo EveryOne, che fornisce dettagli perfino sugli aspetti fisici di questo capobanda e di alcuni suoi collaboratori, tra cui c'è un eritreo o etiope - ancora non lo abbiamo ben identificato - che collabora per riscuotere i soldi dai familiari.
Per ricevere i soldi del riscatto vengono usati come canali aziende come MoneyGram e Western Union, comunicando alle famiglie a nome di chi vanno spediti i soldi. Noi ci stiamo occupando anche di questo aspetto: verifichiamo se ci sono ricevute, quali sono i nomi dei complici che ricevono i soldi - sia in Egitto, sia in Israele - in modo da aiutare le autorità egiziane, qualora decidessero di intervenire. In questo momento non abbiamo nessuna conferma di interventi da parte dell'autorità egiziana per cercare di liberare queste persone.
Noi continuiamo a fare il nostro appello; abbiamo anche sollecitato la Segreteria di Stato del Vaticano e, lo scorso 5 dicembre, il Santo Padre ha fatto un appello per la liberazione e il rispetto dei diritti di queste persone. Abbiamo fatto il nostro appello tramite le Nazioni Unite e anche tramite altre organizzazioni, quali Amnesty International, Human rights Watch e così via. Fino adesso sono otto le persone uccise da questi trafficanti in diversi giorni, alcune perché tentavano di fuggire, altre perché non pagavano, mentre le ultime due sono stati uccise perché accusate di aver lanciato l'allarme tramite i familiari.
Allo stato attuale l'emergenza resta. Proprio domenica scorsa, nella trasmissione televisiva della RAI «A Sua immagine», abbiamo potuto fare un collegamento telefonico in diretta e abbiamo parlato con una donna incinta che, tra l'altro, rischia di partorire tra pochi giorni. Questa donna non ha nessun tipo di assistenza medica e per di più si trova con le catene ai piedi. Si tratta, quindi, di un'emergenza, per cui rinnoviamo la richiesta che il Governo italiano, tramite il Ministro degli esteri, possa fare ulteriori pressioni al Governo egiziano affinché si adoperi per la liberazione di queste persone.
Nel colloquio di venerdì, l'ambasciatrice egiziana presso la Santa Sede insisteva su chi avrebbe preso in carico queste persone una volta liberate. L'Egitto ci ha fatto capire che non intende gestire anche «il dopo». L'ambasciatrice ci ha spiegato che, una volta avvenuta la liberazione, queste persone andrebbero rimpatriate in Eritrea. Questo significherebbe passare dalla padella alla brace. Infatti, la maggioranza sono ragazzi e ragazze sotto i trent'anni, che per legge in Eritrea sono sotto leva militare. Come lei ricordava signor presidente, l'Eritrea è in questo momento un Paese completamente militarizzato a causa della guerra combattuta tra il 1998 e il 2000 con l'Etiopia e del problema - tuttora irrisolto - del confine. C'è una situazione di guerra non guerreggiata e l'Eritrea vive questa situazione chiusa a riccio, diffidente verso il mondo occidentale in generale, militarizzando tutti gli uomini al di sotto dei 50 anni e tutte le donne al di sotto dei 40 anni. Nessuno di loro, quindi, ha potuto lasciare il Paese legalmente e, siccome sono tutti fuggiti clandestinamente, sono considerati come persone che hanno commesso un


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reato, sia perché disertori dalla leva, sia anche per essere usciti clandestinamente dal Paese. Con una loro eventuale deportazione rischierebbero di subire altre punizioni, la cui forma e gravità dipende anche dalla posizione che avevano quand'erano in patria e, quindi, dal ruolo politico e militare che ricoprivano prima di fuoriuscire.
Abbiamo chiesto, anche tramite i parlamentari europei, di non fermarsi alla risoluzione che è stata approvata giovedì scorso, che rappresenta un richiamo generico all'Egitto affinché si attivi presto per liberare queste persone. Giustamente, l'ambasciatrice egiziana ci ha detto che a loro non basta un richiamo generico, ma è necessaria una assunzione di responsabilità da parte dell'Unione europea europea. È necessaria chiarezza su chi gestirà anche il momento successivo alla liberazione. A queste persone deve essere garantita un'accoglienza e la protezione necessaria in quanto richiedenti asilo e rifugiati.
Noi chiediamo a questo Comitato che faccia da tramite - sia verso il Governo italiano, sia anche verso il Parlamento europeo - affinché l'Europa sia disponibile a collaborare e a trovare una soluzione per accogliere queste persone e garantire loro la protezione necessaria.

PRESIDENTE. Vorrei sapere se lei ha notato una evoluzione in questa situazione. Il problema del Governo egiziano dal punto di vista di polizia, ad esempio, è esclusivamente quello del dopo, oppure è anche quello di un intervento in questo momento? Che cosa giustifica questa reticenza, a parte la questione del non volersi fare carico di un eventuale dopo?

MOISSIÉ ZERAI, Presidente dell'agenzia Habeshia. Da ciò che abbiamo capito, l'Egitto non ha il pieno controllo di quella zona. Questa si trova al confine tra l'Egitto e la Striscia di Gaza, dove sappiamo che da sempre ci sono vari traffici, sia di armi sia di organi. Alcuni di questi ragazzi hanno anche subito l'espianto degli organi che poi venivano venduti per il pagamento del riscatto. Da quello che ci dicono sembra che l'Egitto abbia tollerato per molto tempo che questi Rashaida si dedicassero al loro traffico purché non entrassero in conflitto con tutti gli altri interessi egiziani in quella zona.
Anche le prime notizie che sono filtrate sulla trattativa dei servizi di sicurezza egiziani con i capi tribù di quella zona ci fanno capire che non esiste la possibilità di un intervento diretto egiziano a livello militare o di polizia in quel territorio. Queste tribù, da quello che mi dicevano i ragazzi stessi, sono armate fino ai denti, per cui si potrebbero rischiare anche eventuali conflitti e l'Egitto è più propenso a trovare soluzioni dialogate con queste persone piuttosto che a intervenire militarmente o con la polizia.

PRESIDENTE. Dal punto di vista dello Stato di Israele ci sono segnali di conoscenza del fenomeno?

MOISSIÉ ZERAI, Presidente dell'agenzia Habeshia. Sì, c'è conoscenza del fenomeno. Tra l'altro, sia il capobanda sia il suo collaboratore sono conosciuti dallo Stato di Israele essendo stati indagati. In particolare, questo collaboratore (etiope o eritreo, ancora non lo abbiamo capito bene) è stato arrestato dalle autorità israeliane per una transazione di denaro frutto dei traffici di esseri umani. Le autorità israeliane, quindi, sono a conoscenza di quello che succede al confine tra Israele e l'Egitto.
Tuttavia, finché il dramma che si sta consumando resta nel territorio egiziano - dall'Egitto entrano nella Striscia di Gaza, in Palestina, e da qui passano in Israele - Israele non interviene perché dichiara di non essere territorialmente competente. Tuttavia è a conoscenza dei fatti che noi abbiamo segnalato, anche tramite le varie organizzazioni, alle autorità egiziane affinché sorveglino i propri confini da dove questi traffici procedono.

RENATO FARINA. Vorrei chiederle al reverendo cosa auspica che facciano immediatamente il Governo italiano o l'Unione europea europea. Che richiesta pressante pone?


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MOISSIÉ ZERAI, Presidente dell'agenzia Habeshia. Io pongo due richieste. Una riguarda il problema contingente e, quindi, questa emergenza. Abbiamo chiesto, anche in collaborazione con il CIR e le altre organizzazioni, un'evacuazione di emergenza umanitaria per questo gruppo. Questo, però, non basta perché non è la soluzione di tutto il problema. Da tempo chiediamo che nella politica di immigrazione - soprattutto con riguardo ai profughi, ai richiedenti asilo e ai rifugiati - ci sia un canale protetto legale di ingresso per poter chiedere asilo in Europa tramite gli uffici dell'UNHCR in Libia, anche se chiuso per metà, e in Egitto, affinché facciano da filtro.
Vorremmo che fosse garantito un percorso di reinsediamento verso l'Europa di questi gruppi di richiedenti asilo e rifugiati. Oggi, invece, assistiamo a una politica di chiusura totale - senza distinzione tra chi è richiedente asilo politico e chi, invece, è un immigrato qualsiasi che viene a cercare lavoro - che è a monte dell'attuale situazione. Noi chiediamo che venga realizzato un progetto europeo per accogliere soprattutto chi fugge da situazioni di guerra e di persecuzione, garantendo quello che è previsto da tutte le convenzioni internazionale sui diritti dei richiedenti asilo e dei rifugiati.

RENATO FARINA. Senza voler sviare il problema - credo, piuttosto, che permetterebbe una maggiore attenzione da parte dell'opinione pubblica in generale - vorrei chiederle se le risultano commistioni tra questi predoni e Al Qaeda.

MOISSIÉ ZERAI, Presidente dell'agenzia Habeshia. Ci risulta che almeno Abu Khaled sia in collegamento, soprattutto, con Hamas in quanto dedito anche al traffico di armi nella Striscia di Gaza. Abbiamo anche il sospetto che esista comunque la presenza o una qualche forma di collaborazione anche con Al Qaeda in quella zona così fuori da ogni controllo, ma non abbiamo tutti gli strumenti per verificarlo. La collaborazione con Hamas è, invece, documentata anche da altre organizzazioni israeliane e il Governo israeliano, nell'indagare queste persone, aveva già segnalato alcuni collegamenti di questo genere.

PRESIDENTE. Che esista un rapporto di modus operandi è evidente; ne esiste anche uno organizzativo con la pirateria marittima del Corno d'Africa, che sembra riguardare l'Eritrea e avvenire proprio di fronte alle coste eritree?

MOISSIÉ ZERAI, Presidente dell'agenzia Habeshia. Fino ad adesso gli atti di pirateria in mare si sono verificati soprattutto in Somalia. Sono tutti gruppi armati dediti a cercare finanziamenti, così come il gruppo di trafficanti che oggi tiene in ostaggio tutte queste persone. Cercano finanziamenti per le loro cosiddette lotte militari. Vale per chi si trova nella Striscia di Gaza e anche per tutti i problemi tribali che ci sono in Somalia: i vari signori della guerra cercano finanziamenti con vari tipi di traffici, con i sequestri o anche con la pirateria in mare.
In Eritrea questi gruppi, soprattutto, come dicevo, il gruppo dei Rashaida, sono strettamente collegati ai vari movimenti estremisti islamici. Anche in Eritrea, infatti - ne siamo al corrente da tanti anni - c'è la tendenza, spesso anche con finanziamenti che arrivano dal Medio Oriente, alla rivendicazione dell'islamizzazione della regione. Questo rischio, dunque, esiste.

PRESIDENTE. Vorrei, anche a costo di ripetermi, chiedere la sua valutazione su quante persone risultano ancora trattenute in queste condizioni di prigionia e, infine, se lei si dovesse trasformare in una sorta di consulente di un organo governativo o politico su tale questione, quali sono le conclusioni possibili che prevede.

MOISSIÉ ZERAI, Presidente dell'agenzia Habeshia. Le persone che ci risultano trattenute, almeno per quanto riguarda gli eritrei, sono 250, meno gli otto che sono stati uccisi e i quattro che sono stati rilasciati perché è stato pagato il riscatto.


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Ci risultano, però, trattenute anche altre persone di varie nazionalità, tra etiopi, somali e sudanesi. Non ne conosciamo il numero esatto. La stima che è stata fatta qualche settimana fa dall'ANSA era di 1.500 persone.
Che tipo di conclusione prevedo? A mio parere, non si può continuare a pagare il riscatto così come stanno facendo i familiari perché si rischia di alimentare questo mercato. Se fosse possibile, sarebbe utile un intervento Egitto-Israele, coordinato, ovviamente, con le autorità palestinesi, per fare piazza pulita di questo tipo di traffico, cosa che io vedo difficilissima perché ci sono troppi interessi in gioco.
Diversamente, bisognerebbe individuare le problematiche che spingono questi disperati ad arrivare al punto di affidarsi nelle mani dei trafficanti. Potremmo garantire loro la possibilità, prima ancora di arrivare in Egitto o in Libia, di essere accolti in Sudan, dove c'è la presenza dell'ufficio dell'UNHCR, che andrebbe messo in condizione di lavorare e fare da filtro verso l'Europa e gli Stati Uniti o gli altri Paesi che sono in grado di accogliere queste persone e garantire la protezione necessaria. Se venisse fatto ciò, come lo stanno facendo gli Stati Uniti, per esempio, che dall'Etiopia stanno accogliendo circa 40.000 profughi eritrei, se venissero creati canali legali protetti, tante persone non sarebbero costrette ad affidarsi nelle mani di questi signori e questo mercato verrebbe meno. Questa è la soluzione.
In alternativa, per l'emergenza bisogna intervenire militarmente, cosa che né l'Egitto né le autorità palestinesi e, tanto meno, Israele sono intenzionati a fare.

FRANCESCO TEMPESTINI. Queste bande sono stanziali nella prossimità del confine della Striscia di Gaza?

MOISSIÉ ZERAI, Presidente dell'agenzia Habeshia. L'etnia Rashaida è dislocata lungo tutto il confine, dal nord dell'Eritrea a tutto il confine che c'è tra il Sudan e la Libia e così anche dalla parte del confine tra Egitto, Striscia di Gaza e Israele. Il passaggio, quindi, è continuo. Abbiamo addirittura notizia che passano anche in Arabia Saudita. Questa etnia vive, infatti, anche in Arabia Saudita e rapiscono soprattutto donne e bambini, sia maschi sia femmine, che portati in Arabia Saudita, vengono venduti come schiavi e destinati alla prostituzione e ad altri tipi di lavoro. Si tratta di gente ormai stanziale in queste zone di confine e dedita da sempre al commercio di ogni genere, tra cui anche quello di esseri umani.

PRESIDENTE. Come dire un'evoluzione della cultura beduina.

MOISSIÉ ZERAI, Presidente dell'Agenzia Habeshia. Esatto. Una volta facevano traffico di schiavi, ma quello che ci spaventa è che c'è un mercato fiorente di organi di essere umani. Tale mercato è destinato a Israele e per questo abbiamo sollecitato le autorità israeliane affinché verifichino da dove provengono tutti gli organi che vengono poi venduti nel loro territorio.

PRESIDENTE. La questione del traffico degli organi richiederebbe una certa sofisticazione e buona organizzazione medica. Gli organi, infatti, devono essere intatti quando vengono espiantati, conservati in condizioni perfette mentre vengono trasportati e, per avere il pregio che hanno, essere pienamente validi dal punto di vista medico nel momento in cui vengono consegnati.
La situazione di cui stiamo parlando non sembra giustificare in alcun modo la possibilità che vengano rispettate queste condizioni. Mi permetta di dire, quindi, che ascolto con un po' di ansia la parte che riguarda gli organi perché sembrerebbe avvolgere in una nebbia molto profonda ciò che accade. Ciò richiederebbe delle cliniche, dei luoghi in cui queste operazioni avvengono con perfetta sicurezza medica. Mi sembra impossibile rispetto a tutte le altre cose che abbiamo detto: dico «mi sembra» perché parlo di cose che stiamo apprendendo a mano a mano soltanto adesso, benché avvengano ai bordi del Mediterraneo, vicinissime ai confini nel nostro Paese.


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Su questo le sarò grato se mi fornirà qualche indicazione in più.

FRANCO NARDUCCI. Premetto che anch'io ho la massima preoccupazione e rispetto per le condizioni di questi poveri ostaggi. Ho ascoltato con molta attenzione quello che lei ha detto. L'impressione che mi sono fatto leggendo la stampa, soprattutto quella italiana, ma anche tedesca, in questo mese di dicembre è che, in effetti, siamo proprio di fronte a dei predoni, che delinquono non arretrando di fronte a nulla, compreso appunto uccidere dei poveri innocenti.
Sono fermamente convinto che la soluzione passi attraverso l'Egitto, sul quale auspico che la Comunità europea possa esercitare maggiori pressioni. C'è stata questa presa di distanza dal fatto che si tratti di campi profughi, cioè che sono stati utilizzati per mantenere ostaggi. Partendo da queste considerazioni, a mio avviso, sarebbe meglio non chiamare in causa le implicazioni politiche, cercando di coinvolgere una questione molto più grave, come quella dei rapporti tra Hamas, la Striscia di Gaza e Israele. Piuttosto sarebbe opportuno tentare la liberazione attraverso gli strumenti della polizia, dell'esercito o simili. Se, infatti, si iniziasse a mettere la questione sul piano di Al Qaeda e dei rapporti politici, probabilmente non faremmo assolutamente gli interessi di questi ostaggi e sarebbe molto difficile poterli liberare.
Mi auguro che le pressioni che indubbiamente ci sono state, come l'appello del Santo Padre, quello della comunità di Sant'Egidio e tante altre, ma soprattutto la soluzione politica che deve venire, per quanto posso capire, soprattutto dall'Unione europea europea, abbiano come destinatario l'Egitto, poiché questo Paese deve essere il canale sul quale concentrare tutte le attenzioni. Mi auguro che anche il nostro Governo, così come sta facendo, vada in questa direzione.

RENATO FARINA. Mi permetto di intervenire sull'osservazione del presidente Colombo. Questa obiezione è stata rivolta di recente in Consiglio d'Europa anche al senatore Dick Marty che, nel suo rapporto, sosteneva la certezza di commercio di organi in Kosovo e in Albania. All'osservazione che non c'erano strutture adeguate, lui ha risposto citando quanto sostenuto da alcuni esperti, ossia che ormai questo tipo di pratica è molto semplice e non richiede strutture sofisticate.
La mia domanda, però, è un'altra. L'Egitto dovrebbe essere un filtro per i profughi, così come la Libia e il Sudan; l'Eritrea, invece, è assolutamente irredimibile? Non è sottoponibile a delle pressioni internazionali perché la gente non sia più messa in condizione di dover diventare a malincuore profughi? Sudan e Libia non sono campioni di diritti umani e forse neanche l'Egitto, eppure ci rivolgiamo a loro perché facciano da filtro.
È impossibile fare pressioni sull'Eritrea?

MOISSIÉ ZERAI, Presidente dell'agenzia Habeshia. A noi hanno detto che ci sono delle cliniche clandestine dove vengono eseguiti questi tipi di intervento e anche il gruppo di organizzazione umanitaria di assistenza ai profughi in Israele ha documentato che diverse persone sono arrivate in condizioni stremate, con addosso ben visibili i segni di un intervento.
Riguardo alla questione posta dall'onorevole Narducci, invece, rispondo che noi non abbiamo alcun interesse a politicizzare questa situazione, tuttavia alcune ricostruzioni hanno evidenziato collegamenti tra il capo di questa banda e movimenti come Hamas o altri. Noi speriamo che si arrivi comunque a una soluzione, purché in modo legale e che si possa garantire la protezione necessaria a queste persone. Come ho sempre ripetuto, infatti, non basta liberarle, bisogna garantire loro che non corrano il rischio di essere deportati verso il loro Paese di origine, cosa che rappresenterebbe un serio problema.
Ho parlato di filtro in riferimento a Libia, Sudan ed Egitto poiché essendo


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presenti su quei territori gli uffici dell'UNHCR, questi potrebbero aiutare quelli che sono nel loro territorio.
Magari fosse possibile fare pressione sull'Eritrea! La soluzione che noi auspichiamo è che possa essere tolto lo scudo che l'attuale regime sta usando per tenere questo Paese in tali condizioni: il problema sarebbe risolto se la comunità internazionale esercitasse tutte le pressioni necessarie affinché Etiopia ed Eritrea accettino la risoluzione decisa dalla Commissione che ha ridisegnato i confini tra questi due Paesi. Tanti problemi, tante obiezioni e scusanti che l'attuale regime in Eritrea invoca per tenere in queste condizioni il Paese verrebbero a mancare, per cui la popolazione e gli stessi attuali sostenitori del regime eritreo comincerebbero a chiedersene il motivo.
Lo spauracchio che viene, invece, usato dall'attuale regime è la guerra e finché questa guerra non guerreggiata non verrà meno esso non potrà procedere con il processo di democratizzazione del Paese in quanto sotto attacco. Se la comunità internazionale togliesse questo strumento e si arrivasse alla soluzione del problema del confine, tante cose verrebbero meno e anche il sostegno all'attuale regime verrebbe meno da solo.

FRANCESCO TEMPESTINI. Credo che questo sia davvero un po' ottimistico. La guerra in realtà è nata per sostenere quel regime e, quindi, si autoalimenta. Credo, oltretutto, che se finisse la guerra, non ci troveremmo di fronte a una situazione tranquilla in Eritrea, ma in una ancora peggiore perché, a mio avviso, dopo la guerra ci sarà la frantumazione del Paese, come c'è stata della Somalia. In ogni caso, è inutile fare previsioni di questo tipo.
Io pensavo - le dico la verità, padre - che queste fossero bande che utilizzavano il deserto del Sinai come un comodo luogo dove poter esercitare questi traffici, invece da quello che ho capito, e me ne scuso perché evidentemente è dovuto a mia scarsa informazione, nella striscia prospiciente a Gaza, quindi in una zona altamente popolata, controllata dal Governo, dall'esercito e non fosse altro dal signor Suleiman, capo dei servizi segreti egiziani, e quindi con enormi scambi di informazioni e di influenze anche con Hamas, come lei ha detto, si esercitano questi traffici.
Qui siamo di fronte a una notizia che per me è abbastanza originale, forse per i miei colleghi non lo è: padre Zerai ci sta dicendo, sostanzialmente, che avvengono fatti dal significato molto rilevante in una zona densamente popolata e dove la comunità internazionale ha moltissime antenne. Queste antenne ce le hanno anche le Nazioni Unite perché quelli che stanno dall'altra parte sui confini sono anche le Nazioni Unite, ci sono tutti gli addetti delle Nazioni Unite alla missione internazionale di pace lì presente, di cui naturalmente adesso, essendo vecchio, non ricordo il nome, guidata peraltro da un italiano. Siamo in una zona sotto una grande attenzione internazionale. La questione che l'Egitto non intervenga si presta, a questo punto, a tutte le motivazioni possibili. Perché non interviene? È intervenuto. In che modo è intervenuto per bloccare certi traffici? Quanto detto sul traffico degli organi rientra perfettamente in un contesto di questo genere, nel quale ci sono anche tutte le possibili connivenze con il mondo dell'estremismo islamico che, a mio avviso, rende la questione ancor più difficile, più complicata e alla quale credo sia difficile dare una risposta.
In ultimo, lei ha fatto un accenno a un'iniziativa americana nei confronti dei rifugiati eritrei: può spiegarmi meglio in che cosa consiste? Come lei sa, in termini generali l'approccio dovrebbe essere quello da lei descritto, ossia in un Paese di confine un'organizzazione delle Nazioni Unite fa da filtro. Uno dei tanti problemi che, però, si oppongono a questa conclusione è che, se si stabilisce questa procedura, in realtà non si ha più un filtro perché, naturalmente, è difficile respingere nuovamente indietro tutti quelli che varcano quel confine per ragioni umanitarie, che siano rifugiati o meno, è difficile distinguere tra la fuga in ragione della mancata possibilità della sussistenza elementare e ragioni di natura politica.


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In che senso gli americani hanno assunto iniziative e in che termini le hanno sviluppate?

MOISSIÉ ZERAI, Presidente dell'agenzia Habeshia. Intanto non stiamo parlando di pieno deserto ma, come lei dice, di una zona abitata. I ragazzi ci hanno detto che sono vicino a una moschea, a un ex Chiesa trasformata in una scuola e anche a un edificio governativo perché vedono la bandiera egiziana. Sono in una città, quindi, perché sentono i bambini che vanno a scuola, sentono il muezzin. Per la precisione, sono nella periferia di questa città: ci hanno detto che c'è un frutteto nel posto in cui si trovano e che il container dove sono tenuti è proprio in mezzo a questo frutteto. Hanno dato anche varie descrizioni del posto per segnalare meglio e, inoltre, c'è il cellulare che usano per contattare, che potrebbe essere captato per localizzarli meglio.
Per quanto riguarda l'iniziativa degli Stati Uniti, si tratta di Refugee Resettlement Program, e l'ufficio dell'UNHCR in Etiopia fa da filtro: i richiedenti asilo presentano le loro domande, i funzionari delle Nazioni Unite valutano se il contenuto di questa richiesta rientra nella convenzione in Etiopia - dove c'è un campo di rifugiati - e se le Nazioni Unite, in base alla convenzione di Ginevra e alle altre convenzioni, hanno ritenuto il richiedente bisognoso di protezione internazionale, vengono presentati i documenti agli Stati Uniti, che concederanno il visto perché sia accolto nel loro territorio.

FRANCESCO TEMPESTINI. Quindi gli Stati Uniti hanno fatto un accordo numerico? Gli Stati Uniti hanno detto all'UNHCR che questa può fare uno screening e non superare i 40.000 rifugiati?

MOISSIÉ ZERAI, Presidente dell'agenzia Habeshia. Sì, è una quota annuale che gli Stati Uniti stabiliscono.

FRANCESCO TEMPESTINI. Esatto, volevo capire questo. Gli Stati Uniti si prendono 40.000 eritrei fuggiti.

PRESIDENTE. Siamo giunti alla conclusione, che ci lascia ansiosi e desolati poiché la situazione che abbiamo ascoltato continua e ci lascia anche il dovere di fare in modo che quanta più informazione su questa questione passerà in questo Parlamento e da questo Parlamento al Governo, tanto più avremo fatto una minima azione utile, ma anche indispensabile per non essere estranei a un dramma di una simile gravità.
Rivolgo un ringraziamento particolare a don Zerai, con la preghiera di restare in contatto e di fare avere a questo Comitato la documentazione, le notizie o gli eventi che lui riterrà importanti nell'immediato futuro.

MOISSIÉ ZERAI, Presidente dell'agenzia Habeshia. Grazie a voi per questa iniziativa. Insisto nel sottolineare l'importanza che il Ministro degli esteri continui a fare pressione, ma anche che se ne faccia a livello europeo perché, da quello che ho capito, la preoccupazione dell'Egitto non è soltanto trovare la soluzione, ma anche la gestione del dopo.
Se da parte europea ci fosse un segnale di condivisione della responsabilità, questo potrebbe invogliare ancor di più l'Egitto a trovare la soluzione. L'ambasciatrice egiziana insisteva, infatti, con me e con l'onorevole Savino Pezzotta, intervenuto in qualità di presidente del CIR, sulla questione della presa in carico dei profughi una volta liberati. L'Egitto non è intenzionato a occuparsene e l'ambasciatrice sottolineava che qualcun altro avrebbe dovuto farlo altrimenti sarebbero stati rimandati a casa.

PRESIDENTE. Grazie. Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,20.

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